Capitolo terzo
Aborto e morale:
lo scandalo della soggettività femminile
di Caterina Botti
Cos’è che, a fronte di quella che sembra una questione su cui
una composizione sociale è stata raggiunta ormai da tempo, muove ancora agenzie diverse a mettere violentemente sotto attacco
le donne che decidono di interrompere la loro gravidanza, le leggi che permettono loro di farlo, come anche i medici che vi si
dedicano?
E perché questa è ancora – e mi verrebbe da dire che lo è paradossalmente sempre di più – una questione cruciale per la libertà e la soggettività femminile e non solo? Tanto che appunto
attorno ad essa si può dire che continui a giocarsi una posta morale e politica alta, che non riguarda solo la rivendicazione di soggettività e libertà per parte femminile, ma che implica anche un
ripensamento profondo di queste stesse nozioni, per le donne e
per tutti.
A mio modo di vedere, ciò che è in gioco in modo specifico
quando si tratta di aborto, e rende la partita così aspra ma al contempo anche inevitabile, non è infatti la sola questione della libertà femminile (tantomeno se questa è declinata nel modo classicamente liberale della sovranità sulla propria mente e sul proprio corpo), quanto piuttosto il riconoscimento della specifica
competenza morale che le donne agiscono nell’ambito riproduttivo (potremmo dire l’uso responsabile e non arbitrario della loro
libertà), e quindi il riconoscimento di piena soggettività o umanità che ciò comporta. È questo il punto che fa ancora scandalo,
e chiama d’altra parte – ancora una volta – sia a una rivendica65
zione forte per parte femminile, sia a una riflessione sulle caratteristiche specifiche dell’esercizio di questa responsabilità, come anche sulle stesse nozioni di libertà e responsabilità.
Proprio la riflessione sull’aborto o sulla riproduzione chiama
infatti a un ampio ripensamento della nozione di libertà, poiché
mostra come essa possa risultare una risorsa povera (per le donne e per tutti) quando venga caratterizzata nei termini della libertà di un astratto e generico individuo che dispone del suo corpo
come di una cosa, e invece risulti fertile quando venga ripensata
nella forma di una «libertà con il corpo»: una concezione che, come vedremo, lega in modo particolare la libertà alla responsabilità. D’altra parte, è proprio una riflessione di questo tipo, cioè
che tenga presente i corpi, che permette di indicare il nodo che
sta alla base della violenza che si scatena intorno all’aborto, ovverosia l’asimmetria che caratterizza questa scelta, che compete di
fatto solo a una parte dell’umanità.
Proverò a declinare la questione dell’aborto da questo punto di
vista, proponendo una riflessione che possa dare conto, in modo
chiaro, della piena e specifica competenza morale della donna
che decide di interrompere una gravidanza (e quindi della soggettività che ella esprime, che a questa competenza si lega), che
appunto a mio avviso rimane questione ineludibile per tutti, ancora riottosamente negata da alcuni, e questione fondamentale per
una politica femminista che su di essa deve continuare ad esercitarsi, e di fatto continua a farlo.
Porre in questo modo la riflessione sull’aborto credo possa
aiutare non solo a prendere posizione nella discussione pubblica
odierna intorno a questa pratica, ma anche a sviluppare una riflessione più complessiva sulla riproduzione umana e i suoi modi, o sulle nuove possibilità che le tecniche biomediche aprono in
questo campo. Il tema dell’aborto, infatti, non va visto solo nel
senso della sua difficile praticabilità in Italia, o altrove, ma piuttosto in relazione alle riflessioni che schiude su soggettività e relazionalità, su responsabilità e libertà e sul conflitto tra i sessi: è un
tema che rimane centrale e mai eliminabile in una riflessione su
sessualità, riproduzione e libertà, femminile e non solo.
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Più nello specifico, in quel che segue proverò a mostrare come
la costruzione «avversariale» che vede contrapposta la libertà della donna di abortire (o la sua salute) alla vita dell’embrione (o alla
coscienza del medico), che pure caratterizza tanto dibattito pubblico intorno a questa pratica (sia nelle posizioni anti-abortiste
che in quelle abortiste), e anche molta riflessione teorica per parte di filosofi e bioeticisti, offra una rappresentazione inadeguata
della portata etica della questione. La riflessione etica intorno all’aborto, a mio avviso, non si può infatti chiudere attorno a un astratto scontro tra pro-choice (quanti sono per la scelta) e pro-life
(quanti sono per la vita), ma richiede piuttosto di pensare cosa significhi agire la propria responsabilità nel mettere al mondo un
nuovo individuo umano, a quali esperienze rimandi e quale ruolo
vi giochino le donne, quali siano cioè le possibilità e le responsabilità che questo specifico ruolo comporta.
Prima di procedere in quest’analisi vorrei però offrire una breve riflessione preliminare per chiarire l’uso che ho già fatto, e che
continuerò a fare, delle nozioni di donna, uomo e corpo.
Sono pienamente consapevole che chiudere l’umano in una
definizione che fissi linee di demarcazione e contenuti precisi,
considerati come dati una volta per tutte e validi per tutte e tutti,
sia un’operazione violenta. Non solo perché si rischia di fissare
linee e contenuti guardando solo a certe parti dell’umanità e non
all’umanità nella sua variabilità, ma perché quest’ultima è comunque inesauribile: le linee si muovono e i contenuti mutano. L’umano si fa, diviene e muta. Ciononostante in questo testo parlerò
di femminile e maschile, di donne e uomini, consapevole dei limiti di questa scelta, ma anche del valore strategico che questa
può avere in questo contesto. Non credo che queste divisioni rimandino a una dimensione naturale o essenziale, a un dato biologico o corporeo che esaurisca l’umano, e sono consapevole di
quante altre esperienze dell’umano vengono condannate all’invisibilità proponendola come significativa (ma non certo come l’unica significativa!), tuttavia considero questo gesto come un posizionamento politico possibile, il frutto di uno sguardo – certo
parziale – che prova a rendere conto dell’esperienza delle molte
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umane che tali si definiscono. È certo vero che non esiste un legame necessario tra la capacità generativa e la femminilità o l’essere una donna, ovviamente, e che in questo senso potrebbe avere più senso parlare di «corpi generanti», ma io credo che il legame che esiste tra la riproduzione umana, la costruzione culturale
della femminilità patriarcale e l’importanza della critica femminista si perderebbe in questo uso. Considerare, come io credo che
ogni femminista non possa non fare oramai, le proprie categorie
di analisi instabili e rivedibili non impedisce infatti, a mio avviso,
di farne uso finché ad esse corrisponda una qualche esperienza
vissuta, finché esse interroghino l’esistente in modo sensato. Nella consapevolezza della limitatezza e particolarità, ma anche della
ricchezza, di uno sguardo politicamente situato, è possibile infatti
provare a dare un significato alle nostre esperienze e interloquire
con quelle di altri, e perorare cause e fare battaglie. Si badi infatti
che, nella mia comprensione, muovere dalla propria esperienza o
posizione non vuol dire necessariamente rinchiudersi su di essa o
al suo interno, non vuol dire chiudersi nella rivendicazione degli
interessi o delle esigenze della propria parte, ma avere presente la
peculiarità (che è la ricchezza e anche il limite) della posizione da
cui si guarda al mondo e aprirla al confronto, e finanche al conflitto, con altri e altre.
Il contesto odierno
Come è stato già ricordato nei capitoli precedenti, ciclicamente
la nostra società (come molte altre, come si vedrà anche nei capitoli della seconda parte del volume) è attraversata dalla riscoperta del presunto dramma dell’aborto e dal tentativo di rimettere in discussione la legge che, sia pure entro certi termini, lo consente.
Nel nostro paese, in anni recenti, agenzie diverse hanno fatto
propria soprattutto la tesi che l’aborto sia un atto immorale perché implica la distruzione di una vita umana o l’interruzione del
suo sviluppo, ovvero ancora perché lede il diritto alla vita del
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feto o la sua sacralità, e che esso si configuri quindi come un atto
comparabile in tutto e per tutto (o con qualche grado di approssimazione) all’omicidio: le donne che ne sono le protagoniste sarebbero dunque o delle assassine o le vittime di un sistema che
tali le rende; in ogni caso dei soggetti moralmente riprovevoli,
ancorché non per tutti necessariamente perseguibili penalmente.
Argomentazioni di questo tipo hanno caratterizzato la serie di
attacchi diretti alla legge 194/1978, o diretti in altro modo contro
la possibilità di abortire per le donne italiane (penso ad esempio
alla difesa della dilagante obiezione di coscienza dei medici, alle
difficoltà poste alla diffusione dell’aborto farmacologico e via di
seguito), che politici, vescovi e altre figure pubbliche hanno portato avanti negli ultimi anni e anche in tempi recentissimi (basti
pensare del resto al World Congress of Families tenutosi a Verona
nell’aprile di quest’anno).
Va detto, altresì, che a fronte degli strali che sono stati lanciati
contro la pratica dell’aborto, nel dibattito pubblico del nostro
paese, anche in quello più raffinato e teorico, non si è mai affrontata fino in fondo la questione della moralità di questa pratica. A fronte delle invettive – di per sé generiche – dei conservatori, da parte «progressista» si è prodotta solo una serie di deboli
posizioni difensive, che ripropongono – nella buona sostanza –
la considerazione (che caratterizzò anche una parte del dibattito
precedente l’approvazione della legge 194) che la pratica abortiva
è sì un male morale o un dramma umano, ma che legalizzarla sia
un male minore rispetto al vietarla (vietandola si condannerebbero infatti le donne all’aborto clandestino, con tutti i rischi per la
loro salute o per la loro vita), e che essa vada dunque tollerata
almeno fintantoché non si riesca a superarla attraverso la diffusione di atteggiamenti responsabili nella sessualità. Viene però
così eluso il tema, a mio avviso centrale, di una possibile valutazione morale positiva dell’interruzione volontaria di gravidanza,
come anche la questione della libertà e responsabilità femminile e
della loro declinazione. Anche per questo, affrontare – come qui
intendo fare – il nodo centrale della questione aborto e non aggirarlo con qualche escamotage retorico, si rende necessario: un nodo
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che – come ha sostenuto più volte e anche di recente Maria Luisa
Boccia (ad es. Boccia, 2018; pp. 263-264) – è morale e riguarda
appunto la relazione tra la donna e l’embrione, il rapporto tra i
sessi e il potere e la responsabilità del dare vita.
Considerazioni preliminari
Come dicevo la condanna morale dell’aborto e della sua legittimazione legale riaffiora ciclicamente nella nostra società (come
in altre), trovando – almeno da parte del ceto politico – pochi argini a contenerla. Spesso infatti, come dicevo, la risposta a queste
istanze di condanna è debole: si converge sul giudizio morale negativo della pratica abortiva (o sulla sua caratterizzazione in termini di «dramma umano»), ma si nega la sua traduzione in divieto
legale; si condanna la pratica, ma si assolvono le donne, descrivendole come vittime, e via di seguito. Sembra quasi che il giudizio di erroneità morale (che cioè l’aborto sia un male) sia condiviso da tutti, salvo poi trarre da questo giudizio conseguenze diverse sul piano legale.
Una prima considerazione preliminare è dunque quella di passare al vaglio critico l’assunto, apparentemente così diffuso, che
sulla condanna morale dell’aborto o sulla necessaria negatività di
questa pratica pochi possano dissentire. In questo senso è bene
ricordare, in primo luogo, che la condanna morale dell’aborto
non è un universale della storia umana, a cui si è derogato per ragioni specifiche, e a cui si deve o si può tornare: sono esistite, ed
esistono, società e culture per le quali l’aborto era, ed è, una pratica considerata del tutto legittima e relativamente poco problematica (si pensi all’antica Grecia e all’antica Roma o a paesi che
oggigiorno hanno un senso comune diverso dal nostro su questo
tema, per esempio, in Europa, i paesi scandinavi). In secondo
luogo, si deve considerare che la condanna dell’aborto, sul piano
morale come su quello legale, che ha certo caratterizzato molte
società, è stata basata – nel tempo – su motivazioni molto diverse
tra loro. Anche solo all’interno del cristianesimo, ad esempio, la
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pratica dell’aborto è stata considerata immorale – e quindi condannata – in modi diversi: come un’interferenza indebita con i
piani divini sulla riproduzione o come delitto contro il matrimonio, in connessione con i peccati di impurità e lascivia, e dunque
non sempre, e con qualche problema, come un atto che viene
meno al comandamento «non uccidere», che oggi sembra invece
la questione dirimente1. Che l’interruzione di una gravidanza sia
un attentato alla vita umana comparabile con l’omicidio di un
umano adulto, o comunque che sia dirimente, nella valutazione
di questa pratica, la distruzione dell’embrione o feto, che oggi è la
tesi più diffusa (con tutte le implicazioni luttuose o di senso di
colpa che ne dovrebbero conseguire per le donne), è dunque una
posizione recente e non quella di sempre a cui si deve semplicemente tornare.
Infine, ed è la considerazione che più mi preme fare, va tenuto
presente che la condanna che ha caratterizzato – seppur variamente – molti secoli e molti paesi, non ha mai impedito – o meglio non è mai stata volta a impedire davvero – questa pratica,
che pur delegittimata è stata ovunque ampiamente praticata e tollerata, ancorché nella clandestinità.
Ora, di questo perdurare della pratica abortiva, a fronte della
condanna morale e legale, si possono dare interpretazioni diverse: la si può considerare, come ha fatto molta riflessione femminista, lo specchio dell’inafferrabile libertà femminile, che eccede
le leggi e i divieti morali; ma si può anche darne un’altra interpretazione. Si può sostenere, come altre femministe hanno fatto,
che il senso del divieto che ha accompagnato la pratica dell’aborto per secoli, o quello della rinnovata richiesta di condanna morale o divieto legale cui assistiamo, non fosse (e non sia) tanto
quello di impedire che questa pratica venisse messa in atto (ovverosia, nei termini attuali, che degli embrioni o dei feti vengano di1 La questione è connessa, del resto, con la disputa teologica sul momento dell’animazione. Si ricordi che ad es. nella Dichiarazione sull’aborto procurato, la Sacra
Congregazione per la dottrina della fede considera che l’embrione vada trattato come una persona ma si astiene dal dire che è una persona (Congregazione per la dottrina della fede 1998).
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strutti), ma piuttosto quello di impedire che la decisione potesse
(e possa) essere presa dalle singole donne.
Che cosa hanno garantito, infatti, la condanna morale e il divieto legale nei secoli? Non certo che l’aborto non fosse praticato, ma che le donne non lo potessero praticare liberamente.
Le donne che abortivano clandestinamente potevano forse
compiere un gesto individuale di libertà, che rimaneva però invisibile agli altri e alle altre, ma potevano anche essere le vittime di
una costrizione. Il fatto che il gesto individuale di libertà e responsabilità delle singole donne non venisse socialmente riconosciuto, ovverosia la clandestinità, era (e può tornare ad essere) un
modo per la collettività di mantenere il controllo su di loro. Si
noti, infatti, che garantire alle donne il libero accesso all’aborto
(attraverso legislazioni positive o depenalizzazioni) significa impedire che qualcun altro decida per loro non solo nel caso in cui
esse desiderino abortire, ma anche nel caso inverso in cui desiderino portare avanti una gravidanza a dispetto della volontà altrui.
Significa cioè impedire che qualcun altro (mariti, amanti, famiglie,
ecc.) imponga a una donna una gravidanza, ma anche un aborto,
cosa che in regime di clandestinità era, e può ritornare a essere,
più che possibile. Del resto il valore simbolico della depenalizzazione o del divieto va ancora oltre e riguarda le donne anche indipendentemente dal loro bisogno effettivo di ricorrere a un
aborto: implica infatti, per le donne in generale, l’affermazione (o
meno) della loro libertà da un destino dato e con essa il riconoscimento della loro piena soggettività morale.
Alla luce di queste considerazioni, ci si può domandare (e la risposta a questa domanda non è irrilevante per guidare la riflessione morale in questo ambito) se i rigurgiti revisionisti cui assistiamo ancora oggi siano motivati da una genuina preoccupazione nei confronti della «vita umana nascente» o piuttosto dallo
scandalo che ancora suscita la libertà delle donne, soprattutto
quando questa agisca nella sfera riproduttiva. In quel che segue,
non solo sosterrò la tesi che non si possano facilmente separare e
contrapporre la vita del feto e quella della donna incinta (cioè che
non si possa dar conto del valore morale del feto prescindendo
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dalla donna che lo porta in grembo) – e proverò a trarre da questa impostazione relazionale delle indicazioni per una riflessione
più adeguata sulla moralità dell’aborto; ma sosterrò, anche, che
sia proprio l’impossibilità del considerare divisi questi due destini, e la differenza della posizione femminile che questa nonseparazione comporta, a generare un vero conflitto di potere tra
uomini e donne, rispetto alla riproduzione, e che sia appunto
quest’ultimo conflitto quello che si nasconde dietro la condanna
di questa pratica.
Il conflitto tra i sessi
Il dibattito pubblico e teorico odierno sull’aborto, salvo rare
eccezioni, sembra dunque contrapporre la libertà femminile alla
vita embrio-fetale e ruotare intorno alla soluzione di questo conflitto, ma questo non è certo il conflitto cruciale che giace al fondo della questione posta dall’aborto. Il conflitto cruciale è semmai quello che riguarda il controllo sulla riproduzione da parte
degli uomini o delle donne, e poco ha a che vedere – questa è la
mia tesi – con la questione dello «statuto morale dell’embrione
umano» di cui pure oggi tanto si parla.
Questo conflitto ha una ragione precisa: il punto è che la riproduzione degli umani, uomini e donne, si fa principalmente,
cioè in misura diversa e maggiore, nel corpo delle donne, consentendo a queste ultime un controllo sulla riproduzione, anche
degli uomini, che questi da sempre cercano di contrastare. Il fatto
che la riproduzione di entrambi debba passare per il corpo della
sola donna genera cioè un genuino conflitto di potere, quello tra
la possibilità dell’uomo di riprodursi (o meno) e quella della donna. È proprio da questo maggiore potere femminile che dipendono, come ha affermato tanto pensiero femminista, le istanze di
controllo sulla sessualità e sulla vita femminile che hanno caratterizzato il patriarcato.
Sarà bene chiarire, avendo appena convocato la nozione di
patriarcato, che io ritengo che questo conflitto vada interpretato
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come un conflitto autentico, e non come il risultato di una qualche protervia maschile. Questo non vuol dire che io ritenga che
non vi sia o non esista una protervia maschile, tutt’altro, ma che
essa si situi a un altro livello. Penso infatti che la protervia maschile o patriarcale non stia nell’avanzare la richiesta – per parte
maschile – di poter prendere parte alle decisioni che riguardano
la propria riproduzione o il mettere al mondo dei figli/e – vedremo in che limiti pensata – ma nel nascondere questa pretesa
dietro altre considerazioni; principalmente dietro a quelle relative
alla presunta incapacità delle donne di decidere responsabilmente
su di sé e sulla riproduzione. Nei secoli, cioè, gli uomini hanno
mascherato la loro esigenza, anche legittima, di decidere sulla loro riproduzione, dietro alla difesa della vita umana dal capriccio
femminile, mascherando una loro esigenza di genere, o personale, con un’esigenza d’ordine per l’umanità, e in questa linea hanno costruito le rappresentazioni del maschile e del femminile che
caratterizzano la nostra tradizione culturale. Ancora oggi l’esigenza maschile si propone infatti come quella di difendere la vita
umana nascente dall’arbitrio, dal capriccio o dall’irrazionalità femminile e non come quella di difendere (a torto o a ragione) la
possibilità di partecipare a decisioni che riguardano anche la propria riproduzione.
È bene notare, a questo proposito, che anche i pensatori «progressisti», che difendono cioè la legittimità dell’aborto, spesso lo
fanno senza mettere in discussione questa costruzione del maschile e del femminile. Nel difendere la liceità dell’aborto, ad esempio, la tradizione liberale non contesta l’idea di un arbitrio
femminile, né nega la presunta capricciosità e irrazionalità della
scelta femminile, piuttosto tende a sostenere la tesi della legittimità di questa scelta, anche nella sua arbitrarietà o capricciosità,
sulla base della sua irrilevanza morale, negando cioè – almeno
entro certi limiti – la rilevanza morale all’embrione, e facendo
rientrare la scelta di abortire nella sfera di privatezza delle donne.
Così facendo però non si affronta, né si scioglie davvero, la questione etica dell’aborto, e il conflitto tra i sessi ad essa connesso.
Viceversa mettere a tema il conflitto tra i sessi, come un conflitto
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«anche legittimo», delegittima questa incrostazione patriarcale,
cioè la tesi del capriccio, e rende possibile il confronto su un altro terreno.
Porre la questione dell’aborto sul terreno di un conflitto tra i
sessi (e non di quello tra la libertà della donna e la vita del feto)
dà per altro conto della debolezza del dibattito politico odierno,
o di quello filosofico, anche per parte progressista: come già ricordato per quanto democratici o liberali possano essere i nostri
politici o pensatori, la soluzione che la loro stessa ideologia impone loro, cioè il rispetto della libertà femminile sulla riproduzione o sull’aborto, rimane un’istanza difficile da accettare proprio per la trasversalità del conflitto tra i sessi. In realtà, oltre al
riconoscimento di questo conflitto, quello che manca a questi
politici e filosofi è una riflessione sulla morale che consenta loro
di coniugare la libertà e l’autonomia femminile con la responsabilità e la competenza morale (e non con l’arbitrio o il capriccio),
per cui si trovano – come vedremo – sempre stretti tra l’esigenza
di porre un’autorità esterna che limiti il capriccio femminile e
l’impossibilità di farlo dall’interno di un modello che predica
l’uguale libertà degli esseri umani. Di fatto è proprio questo nesso fra la libertà, la responsabilità e la competenza morale femminile (e non solo) che voglio qui indagare, per riconfigurare la discussione sull’aborto e la sua moralità.
L’ineliminabilità dell’aborto
Prima di passare a mostrare come le diverse argomentazioni
offerte intorno alla moralità dell’aborto siano poco praticabili e
delineare un’alternativa, vorrei offrire un’ultima considerazione
preliminare, che riguarda un altro tema diffuso nel dibattito pubblico odierno. Si tratta della tesi, sentita spesso anche di recente,
che si possa comporre il dibattito sull’aborto convergendo sull’auspicio dell’eliminazione della necessità di ricorrervi. Una tesi
che io ritengo del tutto criticabile.
Quanti sostengono questa tesi, che presuppone un giudizio
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negativo sulla pratica dell’aborto, ritengono che sia possibile che
l’intera popolazione umana giunga a una «pratica responsabile
della sessualità» che renda inutile la pratica abortiva e quindi anche il dibattito che la riguarda. «Pratica responsabile della sessualità» che viene definita, a seconda delle diverse scuole di pensiero,
come la pratica della sessualità solo nel momento in cui si voglia
fare un figlio (tesi sostenuta ad es. dalla Chiesa Cattolica Romana) oppure – che è la tesi più diffusa – dal ricorso ubiquitario a
tecniche contraccettive. Di questa tesi, nelle sue diverse declinazioni, vorrei mostrare dunque l’insostenibilità.
Ritengo infatti che per quanti sviluppi scientifici o tecnologici
si possano immaginare, la possibilità che un incontro sessuale tra
un uomo e una donna (sto qui assumendo che esso possa contemplare una penetrazione vaginale, il che ovviamente non è necessario) porti a un concepimento non desiderato rimanga difficile da eliminare. Il contraccettivo può sempre non funzionare, di
sicuri al cento per cento non ne disponiamo, né è facile immaginarne, e l’inconscio dell’uno o dell’altra può giocare uno scherzo
a entrambi. Anche se potessimo immaginare, cioè, scenari molto
lontani dalla realtà odierna in cui fosse stata sviluppata una contraccezione sicura e senza effetti collaterali, maschile quanto femminile, dovremmo comunque considerare la possibilità dell’errore o della svista che lasciano aperto il problema delle gravidanze
indesiderate.
La tesi dei più conservatori, in questo caso, sulla scorta dell’idea che la scelta di compiere un rapporto eterosessuale implichi
sempre la responsabilità dell’apertura alla procreazione, è che si
dovrebbero accettare i figli/e non desiderati/e. Una tesi che trova il suo senso in una visione finalistica del mondo, difficile da
sostenere solo con argomenti razionali, che ha fatto l’infelicità di
molti uomini e molte donne (sia tra i genitori che tra i nati), e che
di nuovo pone un’asimmetria forte tra uomini e donne: una pratica di questo tipo pone chiaramente le donne in una posizione
diversa da quella degli uomini, relegandole di fatto a passare gran
parte della vita a fare figli (e a prendersene cura). Né va dimenticato che in questo caso ci si opporrebbe anche agli aborti tera76
peutici, quando cioè sia in gioco la vita della donna o la salute di
chi nascerà2.
La difficoltà di quest’ultima posizione si mostra poi, in modo
ancora più convincente, ove si abbandoni lo scenario che sembra
più diffusamente presupposto nel dibattito pubblico sull’aborto,
quello in cui si considera la possibilità (o meno) di interrompere
una gravidanza come se essa facesse sempre seguito a un rapporto sessuale tra un uomo e una donna che hanno ugualmente desiderato quell’incontro e che condividono uno spazio dialogico e
di responsabilità. È evidente infatti che questa non è la descrizione appropriata di tutti gli atti sessuali che avvengono tra uomini e
donne: vi è infatti la possibilità di incontri sia pure desiderati che
non sono accompagnati da uno spazio dialogico e di responsabilità condivisa perché ad esempio l’uomo si sottrae, e soprattutto
vi è la possibilità di incontri che non sono affatto ugualmente desiderati da entrambe le parti. Le statistiche sulla violenza sessuale
da parte maschile sulle donne, in famiglia e fuori, stanno a dimostrarlo. In questo caso, il nesso che spesso si istituisce – e che io
vorrei comunque contestare – tra la scelta dell’atto eterosessuale
e l’accettazione delle «sue conseguenze» risulta ancora più assurdo, giacché non c’è stata in questi casi – per parte femminile –
nessuna scelta: in questi casi parlare di gravidanza indesiderata è
un eufemismo quasi indecente. Considerazioni, queste, che indeboliscono anche la posizione progressista quando si richiama alla
procreazione responsabile per risolvere la questione dell’aborto.
Al di là dell’ultima questione, che per altro non va mai dimenticata nella sua gravità, l’insistenza sul nesso tra procrea2 Il tema dell’aborto terapeutico è spesso messo in ombra nella discussione sull’aborto, più spesso legata alla possibilità della donna di interrompere qualsiasi gravidanza. Eppure è questione di non poco conto. È del 2016 la morte di una giovane donna, incinta di 19 settimane, in un ospedale di Catania per un mancato
aborto terapeutico. Per quanto riguarda invece l’aborto terapeutico legato a malattie e disabilità di chi nascerà si tratta di un tema importante, che certo porta con sé
un certo numero di considerazioni diverse sull’accezione di disabilità e sulla pratica selettiva come unica via possibile che qui non posso discutere, ma che non può
non essere considerato per la sua rilevanza. Per questo mi permetto di rimandare a
Botti, 2000; capitolo quarto.
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zione responsabile ed eliminazione dell’aborto, anche per parte
progressista, rimane comunque inadeguata, a mio avviso. Ritengo infatti che solo una, per ora imprevedibile, evoluzione biologica della specie umana (nel senso di un’atrofia del desiderio
eterosessuale e della stessa possibilità di portare avanti gravidanze corporee) insieme allo sviluppo di una diversa modalità
di riproduzione per gli umani possa eliminare alla radice il problema delle gravidanze indesiderate e dell’aborto (va ricordato
ad esempio che il tema dell’aborto si propone anche nel caso
della pratica della gravidanza per altri, come scelta sia della donna che porta avanti la gravidanza, sia dei singoli che hanno
messo in moto il processo). Fino a che non si eliminerà e si atrofizzerà il necessario passaggio per il corpo femminile, considerare l’aborto «eliminabile» è dunque solo un escamotage per
non porsi il problema della sua valutazione morale. E, d’altra
parte, ci si dovrebbe anche domandare se poi uno scenario di questo tipo sarebbe davvero auspicabile, tanto più una volta che si sia
sostenuto – come io proverò a fare – che l’interruzione di una gravidanza indesiderata non sia un atto immorale, né necessariamente
umanamente drammatico.
È evidente, quindi, che è di fatto in corso un tentativo di eliminare il passaggio attraverso il corpo umano (femminile) come
condizione necessaria della nascita umana (attraverso il ricorso
alle tecniche di fecondazione artificiale, alla possibilità di mantenere in vita feti molto prematuri o le sperimentazioni sul cosiddetto utero artificiale), e che possa dunque anche essere immaginabile un futuro in cui questo passaggio non sarà più necessario,
rendendo il ricorso all’aborto e quindi anche il dibattito sulla sua
moralità davvero superabili o obsoleti. A questo proposito vorrei
però ribadire che perché la possibilità del ricorso all’aborto non
si ponga più deve darsi, insieme a questi sviluppi tecnologici, anche l’atrofia del desiderio eterosessuale e della nostra capacità riproduttiva attraverso i corpi, altrimenti la possibilità di una gravidanza sarà sempre aperta, così come quella di interromperla.
Del resto che questo stesso sviluppo tecnologico possa leggersi
piuttosto come l’esito del conflitto tra i sessi, che come una sua
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soluzione, mi pare evidente: si può infatti leggere come il tentativo di contrastare ed erodere quello che è stato considerato come
il diverso potere femminile sulla generazione.
Per concludere e tornare, infine, alla linea argomentativa
principale di questo capitolo, la mia tesi è che a meno di voler
sostenere posizioni sessuofobiche, che considerano legittima la
pratica del sesso (inteso come eterosessuale e penetrativo) solo
con finalità riproduttive e non di piacere, e a meno di voler sostenere che ogni donna, nel mondo, debba accogliere tanti
bambini quanti ne possono capitare nel corso di una vita (etero)sessualmente attiva, la possibilità di rimanere incinta facendo
sesso con un uomo è limitabile, ma non evitabile. Pratica della
sessualità eterosessuale, sia detto qui sin troppo velocemente,
che sia pure considerata solo una tra le molte pratiche di desiderio, e anche criticabile nelle sue versioni più «penetrative» e
«maschio-centriche», non va perciò stesso esclusa dal novero
della pratiche umane di piacere3. Come gestire dunque le gravidanze che ne possono derivare, ovverosia che valore abbiano, e
chi le debba gestire, ovverosia chi ne definisca il valore, è quindi una questione che non possiamo eludere e, con essa, quella
della valutazione morale della possibilità di interromperle.
3 Per motivi di spazio non posso qui riprendere temi importanti di riflessione
sulla sessualità, ma vorrei chiarire che come femminista oggi non posso non segnalare che questa mia trattazione non può non condividere le critiche all’assunzione della sessualità eterosessuale come unica forma di sessualità umana, come
anche non tenere presente le critiche rispetto a questa specifica forma di sessualità,
quando questa venga ridotta alla sola modalità penetrativa, sviluppate nel femminismo degli anni Settanta, proprio in relazione alla questione dell’aborto. A mio
avviso, però, rispetto al primo punto non si può comunque negare l’esistenza della
pratica eterosessuale della sessualità umana, e – rispetto al secondo – si può considerare invece che proprio l’ampia riflessione femminista fatta su di esse renda oggi
le pratiche d’amore eterosessuale, e anche la penetrazione, pratiche che le donne, e
auspicabilmente gli uomini, possono vivere con una diversa consapevolezza e
maggiore libertà.
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Le argomentazioni morali in campo
Veniamo dunque alla questione della valutazione morale dell’aborto. Voglio qui sostenere che i più diffusi tentativi di risolvere
la questione se la pratica dell’aborto sia una pratica morale o meno siano aporetici, poiché basati – nella buona sostanza – sulla
pretesa di dare una valutazione oggettiva dello «statuto morale»
dell’embrione, o feto, secondo la costruzione che vede legittimo
l’aborto solo se è un atto che non danneggia nessuno, cioè se si
riesce a mostrare che l’embrione/feto non ha statuto morale di
persona e può essere considerato indanneggiabile. Vorrei invece
sostenere che uno dei pochi modi che abbiamo di affrontare la
questione della moralità dell’aborto, e anche quella dello statuto
morale dell’embrione umano, sia proprio quello di volgerci alla
donna che lo porta in grembo, e che questo gesto, oltre a offrire
la possibilità di riconsiderare e difendere la legittimità morale dell’aborto, e con essa la libertà femminile, ci possa dire qualcosa a
proposito di un modo, non certo di risolvere, ma almeno di riconoscere e convivere con l’ineludibile conflitto tra i sessi. Per sostenere questa tesi darò conto in modo molto schematico dei
modi in cui in filosofia morale e in bioetica si è argomentato intorno alla questione dell’aborto, per poi procedere a una proposta differente.
Come ho già ricordato, il modo in cui si è affrontata nel dibattito filosofico e bioetico la valutazione morale dell’aborto è legato alla contrapposizione tra il diritto alla vita (o il valore della
vita) dell’embrione o feto e il diritto alla (o il valore della) libertà
della donna, intesi appunto come separati e separabili.
La tesi che vede nell’aborto un atto immorale, un gesto di irresponsabilità (che debba poi essere sanzionato o meno per legge è
questione ulteriore), si basa in genere su due premesse fondamentali: la prima è che sia sempre sbagliato uccidere un essere
umano innocente; la seconda è che l’embrione, fin dal concepimento, sia appunto un essere umano innocente. La conclusione
che deriva da queste due premesse è che l’aborto è moralmente
sbagliato perché implica l’uccisione di un essere umano inno80
cente, che è l’embrione o feto (per una ricostruzione, simpatetica
con questa conclusione, si veda ad es. Reichlin, 2007).
Ci sono una serie di varianti a questo sillogismo, legate al tipo
di argomenti che si vogliono produrre, per esempio c’è chi sostituisce al termine «essere umano», che sembra alludere a una
problematica di fatto, risolvibile ricorrendo a considerazioni scientifiche, quello più esplicitamente morale di «persona», il che semplifica l’argomentazione della prima premessa e complica quella
della seconda; o chi sostiene una tesi più debole, ovvero che l’aborto è moralmente sbagliato in quanto impedisce all’embrione o
al feto di diventare la persona che è in potenza; ma in ogni caso
la struttura dell’argomento non cambia di molto.
Il dibattito morale, tra gli autori che vogliono difendere l’aborto e negarne l’immoralità e quanti invece vogliono condannarlo
sostenendo la sua immoralità, si articola dunque intorno alla discussione sulla validità delle due premesse di questo sillogismo
(per una trattazione esemplare delle tesi critiche si vedano ad es.
Singer, 1989 e Mori, 2008).
Il fulcro del confronto verte dunque sullo statuto del feto/embrione. La tesi degli antiabortisti, ridotta all’essenziale, è che l’embrione/feto debba essere considerato «persona» fin dal concepimento, ed è sostenuta o su basi scientifiche (il formarsi di un nuovo
corredo genetico) o su basi metafisiche. In alternativa si sostiene
che il concepimento è l’inizio di un processo che porterà alla persona, in un rapporto di continuità e potenzialità, tra feto e persona.
Gli argomenti degli abortisti sono tesi, invece, a mostrare, da una
parte, che si possa contestare la tesi che un nuovo individuo umano
si formi al concepimento o che vi sia una continuità senza soluzione
tra un ovocita fecondato e l’umano adulto; dall’altra, che ciò che è
rilevante per il valore morale di un individuo non è la semplice appartenenza biologica (genetica) alla specie umana ma una serie di
tratti distintivi, come la capacità di provare piacere o dolore, di ragionare o di avere una vita di relazione; capacità il cui sostrato biologico si definisce in momenti di molto successivi al concepimento.
Infine contro l’argomento della potenzialità si sostiene che l’essere
in potenza qualcosa non ci dà i diritti propri di quel qualcosa, anzi
81
segna precisamente la distanza tra ciò che si è e ciò che si può diventare (così come una ghianda non è una quercia).
Di fatto la maggior parte degli autori progressisti tende a difendere la liceità morale dell’aborto assumendo la tesi che l’embrione e il feto, fino ad un certo stadio di sviluppo, non hanno
valore morale e che quindi la donna che decide di interrompere
una gravidanza non compia un gesto di rilevanza morale, poiché
il suo gesto non lede gli interessi di nessuno. Solo alcuni sostengono invece o (come ad es. Singer) che vi possono essere dei buoni motivi morali per uccidere in determinati casi anche alcuni individui umani privi di autocoscienza (per es. il feto tardivo o anche i
neonati) sulla base del basso valore (presente o atteso) della loro
vita, o (come Thomson) che pur riconoscendo un valore alla vita
embrionale e perfino un «diritto alla vita» all’embrione non si possa
subordinare a questo la vita o la libertà della donna incinta4.
Ho esposto in modo schematico queste tesi, che pure formano
il fulcro del dibattito teorico e bioetico sull’aborto, perché mi interessa offrire su queste solo alcune considerazioni generali.
In primo luogo vorrei sottolineare che è impossibile risolvere la
controversia sulla moralità dell’aborto a partire da considerazioni
relative alla biologia umana, non solo e non tanto perché non c’è
accordo sulla descrizione della natura dell’embrione o la definizione delle tappe del suo sviluppo, ma perché la controversia sullo
statuto dell’embrione è appunto di natura morale e rimanda dunque a un universo discorsivo diverso rispetto a quello delle scienze,
in cui ciò che è rilevante è il valore che ascriviamo a certi tratti
biologici, a certi fatti, e non i fatti in sé. Da ciò deriva, in secondo
luogo, che assumere una posizione sulla moralità o immoralità
dell’aborto ci impegna a sostenere posizioni filosofiche complessive che riguardano il concetto di persona che assumiamo e la definizione che possiamo dare del giusto e dell’ingiusto (come affermato anche da Lecaldano, 2005; pp. 229-235 e Gibson, 2005).
Di fatto, le tesi contrapposte cui ho accennato possono essere
4
Si vedano Singer, 1989 e Thomson, 1992.
82
esposte anche in un altro modo: di fronte all’indecidibilità e al dubbio sullo statuto dell’embrione, i conservatori premiano comunque
la «vita nascente» (nel dubbio astieniti, dicono ad esempio i documenti della Chiesa Cattolica), i progressisti la donna (nel dubbio, la
donna viene considerata come l’unico individuo dotato in modo
inequivocabile di valore), accompagnando queste due scelte con
retoriche opposte anche relativamente alle donne: l’accoglienza, da
una parte, una libertà incorporea paragonabile a quella maschile,
dall’altra. Entrambe queste tesi, sia pure in un modo opposto, cercano dunque di risolvere il problema della moralità dell’aborto a
partire dalla definizione dello statuto morale dell’embrione, indipendentemente dal punto di vista delle donne su di esso e dallo specifico contesto della gravidanza5. Le donne che abortiscono saranno poi moralmente riprovevoli, o meno, a seconda che abbia ragione la tesi conservatrice o quella progressista sull’embrione.
Ora, io credo invece che entrambe queste posizioni siano sbagliate e povere e che una strada più convincente possa essere quella
di rovesciare l’ordine dell’argomentazione e sostenere che la questione debba essere decisa proprio a partire da ciò che sentono le
donne incinte. E questo non solo e non tanto perché ne va del loro corpo, e quindi qualsiasi altra posizione morale – e ancor più legale – sarebbe lesiva della loro libertà (intesa in senso classico), ma
perché questo è in sé un modo più interessante e adeguato di affrontare e risolvere sia la questione dello statuto morale dell’embrione, sia quella della valutazione morale dell’aborto.
L’aborto fra corpo e relazioni
Di contro a queste ipotesi di ricostruzione della moralità dell’aborto, centrate sul valore o i diritti dei diversi individui coinvolti,
astrattamente considerati come separati e contrapposti, se ne può
infatti offrire una diversa che si proponga invece proprio di guardare alla dimensione corporea e relazionale che caratterizza la gra5
Si vedano in proposito Botti, 2014 e Wolgast, 1991.
83
vidanza, la nascita e la vita umana, e la ponga al centro della riflessione morale. Si tratta, cioè, di ricorrere a una riflessione
sulla moralità – di questa come di altre situazioni – che si basi,
in primo luogo, su una considerazione relazionale della condizione umana, che consideri cioè che gli umani nascono, si sviluppano e vivono in reti di relazioni e che quindi tutti siamo
costituiti anche dalle relazioni con gli altri (e che perfino le nostre capacità ne dipendono); e che, in secondo luogo, guardi
alla moralità o alla virtuosità degli agenti nei termini del loro essere solleciti nei confronti degli altri con cui sono in relazione e
abbia quindi a che fare con il saper gestire le relazioni (ho difeso questo punto di vista più in generale in Botti, 2018). Su questa base si può offrire, infatti, una ricostruzione della questione
dell’aborto che porta a mettere al centro della valutazione morale la posizione femminile e la parola delle donne.
Su questa base relazionale possiamo infatti dare un senso pieno
all’affermazione che l’ultima parola deve essere data alle donne;
un’affermazione che, sia pure apparentemente simile, si distanzia
da quelle che ho definito progressiste o liberali. Infatti non si tratta
di affermare che si debbano privilegiare gli interessi della donna rispetto a quelli confliggenti dell’embrione, feto o futuro individuo,
né si tratta di accanirsi a mostrare che la donna è l’unico individuo
che conta e che l’embrione appunto non è un individuo o non
conta (perché non sente, non ragiona, si può dividere o quant’altro
– perché cioè non ha in sé quei tratti biologici che corrispondono
alla definizione di persona che si assume). Si tratta invece di riconoscere che siamo di fronte a una relazione e che la piena partecipazione della donna è fondamentale perché questa relazione si dia
e si sviluppi, e che è questo il motivo per cui la sua parola conta in
modo particolare. La tesi che qui si vuole proporre, che riprende
tanta riflessione femminista, è dunque che dobbiamo mettere al
centro della riflessione la speciale condizione della gravidanza e
l’esperienza specifica della donna incinta.
Per parte mia interpreto questa tesi come una tesi morale: propongo di considerare infatti, su questa base, una specifica competenza morale che le donne incinte sviluppano proprio a motivo
84
del loro stesso stato6. Detto in altri termini, io credo che ciò che
rende rilevante la parola femminile è proprio la posizione speciale della donna, che fa sì che gli interessi che si vogliono contrapposti, i suoi e quelli dell’embrione, siano in realtà da lei vissuti come in una tensione interna, che non può che renderglieli
entrambi presenti, e che proprio questa tensione faccia sì che la
sua scelta, lungi dall’essere moralmente irrilevante, possa e debba
considerarsi una scelta moralmente responsabile. Credo, cioè,
che il valore della scelta femminile di fronte a una gravidanza –
anche la scelta di abortire – non vada rivendicata sulla base della
definizione di uno spazio vuoto di libertà (perché così facendo
una donna non fa danno a nessuno), ma piuttosto di uno spazio
pieno di responsabilità, che emerge dalla peculiarità dell’esperienza stessa della gravidanza, in qualsiasi modo ogni singola donna
voglia poi declinarla (riconoscendogli alcuni o altri significati). È
proprio la singolarità del vissuto che viene qui al centro.
Partendo infatti da una visione della soggettività morale che ci
vede come il risultato unico di una dinamica di relazioni interpersonali nel tempo, in cui le nostre risposte emotive, narrative e riflessive, sono condizionate da, e condizionano a loro volta, le risposte degli altri, si può provare a mostrare che esista un modo
diverso di pensare all’autonomia in generale, e a quella femminile
in riferimento alla riproduzione in particolare, e quindi alla moralità di una serie di scelte e di quella dell’aborto nello specifico (si
veda anche Botti, 2014; capitoli quarto e quinto).
Su questa base si può ad esempio considerare che è diverso
sostenere che la donna deve avere l’ultima parola rispetto all’aborto perché nessuno ha diritto di interferire col suo corpo (co6 Una proposta certo valida solo finché i mutamenti tecnologici, antropologici e
biologici che alcuni ipotizzano non eliminino il passaggio per il corpo materno,
ma come dicevo non mi pare che questi mutamenti siano nel loro complesso all’orizzonte, e comunque si tratta di vedere, ove fosse possibile, se essi siano poi
apprezzabili. Infine, anche ove avessero luogo, una moralità basata sulla cura delle
relazioni rimarrebbe comunque un modello valido, perché chi nasce sarà comunque sempre estremamente dipendente, ancorché in questo caso la specificità femminile potrebbe venir meno.
85
me se esso fosse una proprietà privata), o perché si tratta di una
scelta che si riferisce solo a lei (poiché l’embrione o il feto fino a
un certo punto non contano come centri di interessi), dal sostenere che deve averla per la speciale posizione che ella detiene nella relazione con il feto, relazione che – almeno nelle sue fasi iniziali – è tanto squilibrata da poter pensare che il feto non conti se
la donna non lo riconosce. D’altra parte il riconoscimento del feto non è qualcosa che la donna decide arbitrariamente, ma dipende anche da quella stessa relazione (diciamo più che con l’embrione o il feto, con l’idea di avere un figlio/a), dalle sensazioni
che la donna stessa riceve, dalle emozioni che prova, oltre che
dai pensieri che fa. La donna è certo libera di decidere, ma non si
tratta di una disposizione di sé in astratto, quanto piuttosto di
decisioni che emergono in un preciso contesto, corporeo come
relazionale, da cui – e questa è la mia tesi più forte – la donna non
può non sentirsi coinvolta e chiamata in causa, anche in termini di
responsabilità, qualsiasi sia poi la direzione in cui questo peculiare
vissuto la porta. Molte femministe hanno messo a tema il nesso
tra libertà e responsabilità che sorge proprio dalla specificità di
questa esperienza, dall’inestricabilità dei destini, che dà forma a
una sorta di limite interno. Di questo le femministe hanno parlato a lungo, già a partire dagli anni Settanta del Novecento, quando hanno elaborato il concetto di «autodeterminazione».
Il concetto di «autodeterminazione», cui le femministe sono ricorse per rivendicare il valore morale e la legittimità delle scelte femminili nella procreazione, contro chi le voleva limitare o condannare, non si caratterizza infatti come una forma negativa di autonomia, intesa come il diritto a decidere sul proprio corpo senza interferenze, proprio perché rimanda a un diverso modo di invocare il
controllo sul proprio corpo: un controllo che parte dalla consapevolezza di quest’ultimo come luogo di relazioni e vincoli7. Rivendicare la libertà femminile o l’autonomia, in questo caso, vuol dire
dunque rivendicare la libertà di disporre del proprio corpo anche
7 Sull’autodeterminazione e il suo ruolo nella discussione intorno all’aborto si vedano: D’Elia, 2008; Pitch, 1998; Zuffa, 1989; Mancina, 1989 e 1992 e infine Boccia, 2002.
86
alla luce dei, o a partire dai, vincoli emotivi e sentimentali in cui ci si
trova, e non solo sulla base di una volontà razionale o disincarnata.
E, si badi, i vincoli e le responsabilità non sono solo quelli con il feto
(o con l’idea che se ne ha), ma anche quelli con il partner o con altri8.
Pensare alla libertà o all’autonomia femminile in questo modo,
dunque, è pensarla in modo molto diverso da come è pensata
l’autonomia liberale in genere (altrove ho parlato in questo stesso
senso di «autonomia in relazione», si veda Botti, 2007). L’autonomia non è vista qui semplicemente come la non interferenza nella
soddisfazione delle preferenze che ci riguardano e che non ledono altri o che riguardano il nostro – inviolabile – corpo: una visione che, pur garantendo la libertà dei singoli in una serie di
ambiti (e quella delle donne nel caso specifico dell’aborto), annulla la dimensione morale di quelle scelte, rendendole moralmente neutre o irrilevanti. D’altra parte, nel caso specifico dell’aborto, oltre a negare il valore positivamente responsabile e non
neutro di certe scelte (cioè per esempio il loro dipendere da una
valutazione sollecita per le possibilità di sviluppo di quella specifica relazione, dati i desideri e le condizioni della donna, quelle
del feto e/o il contesto in cui essa ha luogo), la concezione classica dell’autonomia è limitata in quanto non garantisce un’analoga possibilità di scelta libera in un’altra serie di casi: se si considera la moralità dell’aborto su questa base, non si può però considerare su questa stessa base la legittimità della decisione materna non appena si possa ad esempio mantenere in vita il feto fuori
dal suo corpo (o anche nei casi di nati estremamente prematuri)9.
8 Cfr. Pitch, 1998, p. 80 dove afferma: «Il potere di generare, di dare vita, che è
di ciascuna donna e del genere femminile in quanto tale, è un potere che implica
‘responsabilità’. Nei confronti dell’embrione/feto, in primo luogo, nei confronti
del partner, nei confronti della società e più ancora della specie umana».
9 Ho discusso questi casi in Botti, 2014, capitolo sesto, cioè la contiguità tra i feti abortiti tardivamente, spesso per motivi terapeutici, e i nati estremamente prematuri, che oramai si può tentare di mantenere in vita già dalle 24 settimane, e le implicazioni contraddittorie che derivano dalla legge 194 in questo caso. La legge, nel caso di aborti successivi
ai primi 90 giorni, ingiunge infatti al medico di fare il possibile per mantenere in vita il feto
abortito, con il risultato che una donna può decidere di chiedere un aborto a motivo del
87
Quanto propongo è invece di riconoscere agli individui la capacità
di giudicare (cioè di sentire riflessivamente ciò che è giusto) in libertà
e autonomia, a partire dalla posizione che hanno in determinate relazioni, cioè di quanto danno e di quanto ricevono, sia a livello riflessivo che emotivo, e quindi di decidere a partire dalla situazione in cui
sono, dai legami affettivi di cui si sentono responsabili oltre che dai
propri desideri; desideri che evidentemente risentiranno proprio di
quegli stessi legami affettivi. La stessa responsabilità che connota
queste scelte non procede da un riconoscimento di interessi contrapposti, o dall’adesione razionale all’obbligo morale di non danneggiare gli altri, ma da un coinvolgimento sentimentale verso chi è
coinvolto, che ovviamente non si fermerà all’immediatezza.
In questa prospettiva, si può dire che è la stessa tensione che la
donna incinta sente come interna che le può consentire di allargare il proprio punto di vista e tornare sui propri sentimenti più
immediati in modo riflessivo, ciò che – a mio avviso – caratterizza la pratica morale (per una riflessione più complessiva su questa impostazione rimando a Botti, 2014 e 2018).
Concettualizzare la decisione sull’aborto in questo modo
vuol dire infatti tenere conto, per esempio, del fatto che mettere al mondo bambini e prendersene cura implica capacità ed energie che si possono non avere a disposizione, e che quindi
una donna che così si senta possa decidere di abortire non perché fa vincere il suo diritto di libertà su quello, distinto e contrapposto, alla vita del feto, ma perché pensa responsabilmente
che sia la soluzione migliore anche per il bene del futuro bambino/a, ovvero del suo, nel loro legame inscindibile; e questo
tipo di dinamica si può anche spingere fino a non riconoscere
in un embrione un figlio. Su questa base si può dunque sostenere che la decisione che riguarda l’aborto non verrà presa dalla
donna sulla base dei suoi interessi (o capricci), nell’indifferenza
di quelli del feto (quindi in modo irresponsabile), né viceversa a
partire dalla sola considerazione di quelli (considerando questo
grave stato di salute previsto per il nascituro e poi vedersi riconsegnare il nato nella medesima condizione che l’aveva spinta a chiedere di interrompere la gravidanza.
88
l’unico criterio di responsabilità), ma a partire dall’intreccio inevitabile dei due, considerando appunto che il bene del figlio
non è indipendente da quello della madre e viceversa. In quato
tale questa decisione è da considerarsi responsabile, e quindi
moralmente apprezzabile, nei suoi diversi esiti, e in questo senso si può dunque riconoscere alle donne una specifica competenza morale, ma anche una necessaria libertà.
Secondo questa stessa interpretazione, infine, più che considerare
l’aborto come l’atto che interrompe la vita di un embrione, lo si può
considerare come la decisione di non far sviluppare una relazione,
per ragioni o sentimenti che sono legati alle dinamiche interne alla
stessa relazione che determinano la possibilità o l’impossibilità di
una sua fioritura. Una decisione in cui dunque anche la donna può
perdere qualcosa: la parte di sé che avrebbe potuto mettere in gioco
nel divenire madre. Si noti che considerare quest’aspetto, permette
di considerare anche la sofferenza che a volte accompagna la decisione di abortire, senza doverla pensare nei termini del senso colpa
per un’uccisione, che tormenterà le donne per gli anni a venire, come spesso sostengono i conservatori, ma per un’opportunità persa
per sé che alcune possono ritenere importante. Considerare questa
sofferenza, ove questa vi sia (e non sto qui sostenendo che debba
darsi sempre), sarà parte di quel bilanciamento riflessivo che fa della
donna la protagonista principale di questo tipo di scelte (come par
altro anche di altre: per esempio quella di non riconoscere il figlio/a
una volta che nasce o di darlo ad altri dopo averlo partorito).
Ovviamente, quando si pensa soprattutto alle fasi iniziali della
gravidanza, è decisamente difficile pensare a questa dimensione
relazionale nei termini dell’esistenza di due membri della relazione
stessa, la donna e l’embrione. Di fatto io credo che questa ipotesi
relazionale possa essere spinta fino a sostenere – come accennavo
più sopra – che in realtà è proprio il riconoscimento della donna a
investire l’embrione di un particolare valore morale e che la decisione sull’aborto sia uno di quei momenti in cui si sente se si è disponibili o meno a quel riconoscimento, ma anche l’esito stesso di
quest’ultimo. Altrove ho definito questa come una concezione «responsiva» della personalità umana (Botti, 2014; p. 111).
89
Tenderei dunque a concludere che la questione del valore della
vita nascente è mal posta, se prescinde da questa dimensione relazionale e dallo specifico corporeo che caratterizza la gravidanza, e
che uno dei pochi modi che abbiamo di risolvere la questione dello
statuto morale dell’embrione umano sia quello di volgerci alla donna che lo porta in grembo e che, in questa ottica, l’aborto non debba essere pensato come un atto immorale, ma al contrario come
un gesto o una scelta che nasce da un contesto di inevitabile e peculiare responsabilità, che in quanto tale va riconosciuto e tutelato,
nel valore che ha non solo per la donna, ma per tutti.
Infine, questo modo di affrontare e mettere a tema la questione
dell’aborto risulta a mio avviso più adeguato proprio in quanto riesce a tenere insieme la tematizzazione della libertà femminile con
quella della responsabilità femminile. È evidente che la scelta
sull’aborto deve rimanere una scelta libera e che tale sarà perché,
rimandando a un contesto relazionale specifico, sarà diversa per
ogni donna che ci si confronti; ma è altrettanto evidente che essa
può essere tale – cioè libera – proprio perché nasce in uno spazio
che non può essere altro che uno spazio di responsabilità e scrupolosità morale, data la lettura relazionale che abbiamo offerto
della gravidanza; responsabilità e scrupolosità che si possono dare
però solo ove ci si fidi della capacità degli umani in genere, e delle
donne in particolare, di confrontarsi in prima persona e liberamente con una serie di esperienze.
Ovviamente la strada è lunga per uscire dagli schemi patriarcali, e i
rigurgiti repressivi da cui abbiamo preso le mosse lo dimostrano. Per
questo vorrei chiudere questo mio scritto spezzando una lancia non
solo in difesa della 194, che è una posizione politica minimale10, ma
per indicare nella depenalizzazione la via del suo superamento.
10 Il movimento femminista ha sempre considerato la legge 194 non una
buona legge applicata male ma, al contrario, una cattiva legge che funziona bene
solo perché è disattesa, poiché solo il suo sistematico fraintendimento permette
di rispettare la scelta responsabile di cui abbiamo detto, nascondendola dietro la
possibilità di autodiagnosi di malattia da parte della donna (Conti, 1981). Questo fraintendimento ha diversi prezzi che le donne continuano a pagare, e diverse parti della legge sono divenute ormai anacronistiche, per questo parlo di un
obiettivo minimale.
90
In conclusione: il conflitto tra i sessi, la riproduzione e l’obiezione di coscienza
Questo modo di impostare la questione, oltre a offrire un modo interessante di dar conto della moralità dell’aborto, offre la
possibilità di sviluppare una riflessione più complessiva intorno
alla riproduzione umana in generale, e ai suoi modi, e sulle nuove
possibilità che le tecniche biomediche rendono possibile.
In primo luogo questo tipo di riflessione ci può dire qualcosa a
proposito della possibilità, non certo di risolvere, ma almeno di
riconoscere e convivere con il conflitto tra i sessi che caratterizza
la sfera riproduttiva umana.
In prima battuta, si può considerare che questo modo di impostare la riflessione sull’aborto rende visibile tale conflitto, smascherando la falsa pretesa patriarcale di difendere non le esigenze
maschili, ma quelle dell’embrione (se non le donne stesse o la
specie), dal capriccio femminile. Riconoscere la competenza morale femminile fa cadere questa pretesa, lasciando campo libero
all’elaborazione del conflitto tra le diverse esigenze di parte, nella
loro legittimità e nei loro limiti, cioè nel rispetto delle due parti. Il
che è già un punto di partenza migliore11. In seconda battuta,
questa interpretazione prova a dare un ordine a questo conflitto,
suggerendo che le donne abbiano e debbano avere una posizione
preminente rispetto agli uomini.
Va chiarito però che questo riconoscimento non chiude necessariamente la possibilità di un’interlocuzione con gli uomini, se
questi sono in grado di riconoscere i propri limiti. Da una parte,
infatti, l’impostazione appena proposta può rendere conto del
valore di questa interlocuzione, riconoscendo che le donne incinte possono essere vincolate da legami affettivi anche ai loro
partner, e così viceversa. Portare alla luce questo scambio e il suo
valore può essere un modo per affrontare diversamente il con11 Calzanti a questo proposito sono le parole di Jourdan: «La depenalizzazione
dell’aborto invita l’uomo a misurarsi con il suo desiderio di paternità, e con la sua
invidia, ecc., non usando il diritto, ma nella sua relazione personale con una donna» (Jourdan, 1993; p. 236).
91
flitto: è evidente infatti che nel processo di scegliere, assumendo
le conseguenze delle proprie azioni, le donne possono farsi carico e divenire testimoni anche dei desideri e delle emozioni di
coloro ai quali sono legate affettivamente. Questo però non può
voler dire un ritorno a un regime di asservimento o di schiacciamento delle donne sui desideri maschili; per questo io credo che
si debba comunque partire dall’esplicitazione e dall’assunzione
dell’asimmetria dei sessi rispetto alla riproduzione e rivendicare,
come dice ad esempio Pitch, «la competenza femminile a decidere, per sé e dunque per tutti, dell’ambito della riproduzione» (Pitch,
1998; p. 83).
D’altra parte, riconoscere il conflitto e le ragioni per cui la parola sulla riproduzione, la prima e l’ultima, vada data alle donne,
non significa affatto negare la parola agli uomini, o negare il valore dell’interlocuzione – anche conflittuale – con essi, dove però
questa avvenga nella consapevolezza delle diverse competenze.
Riconoscere il conflitto e l’asimmetria delle parti non vuol dire
negare la parola agli uomini ma al contrario definire lo spazio in
cui quella parola può darsi (per considerazioni simili, per parte
maschile, si veda Ciccone, 2009).
Venendo invece a un secondo tipo di considerazioni, non si
può non accennare al fatto che le considerazioni proposte più sopra possano avere valore anche in relazione ad altre scelte che caratterizzano l’ambito della riproduzione e su cui ancora aspro è il
conflitto e il controllo sociale, e forte il tentativo di esautoramento della soggettività femminile. Mi riferisco alle problematiche
connesse con lo sviluppo della riproduzione medicalmente assistita e con le possibilità che essa apre non solo di dare figli a
coppie eterosessuali sterili (o di limitare il rischio della trasmissione di malattie genetiche), ma anche di sconnettere la riproduzione dal modello eteronormativo, aprendo alla possibilità per donne o uomini soli, per coppie dello stesso sesso o anche a raggruppamenti più numerosi di persone (perché non pensare a terzetti o
quartetti?) di pensarsi come soggetti riproduttivi. Non voglio dilungarmi molto su questo tema, ma vorrei fare presente che
spesso le visioni che si contrappongono nel dibattito pubblico su
92
questi temi o risentono di una concezione finalista che vede nel
solo modello eteronormativo (cioè la coppia uomo/donna e figli
geneticamente connessi) il modello della famiglia e della riproduzione da tutelare, o difendono invece l’insieme di queste possibilità come un guadagno aproblematico di libertà per tutti e tutte,
soprassedendo sui conflitti che invece possono determinarsi. Non
per chiudere queste possibilità, ma per ragionarci a fondo, io credo invece che sia necessario mettere in gioco anche in questi casi
(pur riconoscendo il valore del desiderio che chiunque può avere
di riprodursi) la differenza di vissuto che una gravidanza comporta, rispetto a quella di produrre un seme o un ovocita; e dunque sostenere che, sia pure nella rilevanza dei tanti vissuti, quello
di chi porta avanti la gravidanza debba essere considerato in
modo particolare. Altrimenti di nuovo ci troveremmo di fronte a
un esautoramento della soggettività femminile.
Se la posizione tradizionalmente conservatrice nega soggettività
alle donne, considerandole di fatto il tramite corporeo della riproduzione e a questo destinate, quella progressista-liberale rischia altresì di negare la loro soggettività non distinguendo tra i diversi pesi delle esperienze e dei vissuti e considerando qualsiasi apporto
alla riproduzione (dal desiderio, ai gameti, alla gravidanza) come
analogo e simmetrico. Questo senza nulla togliere, sia detto qui
con chiarezza, all’esperienza del prendersi cura di chi nasce, delle
cure parentali, che sole possono definire la genitorialità, che però è
questione distinta appunto da quella di decidere chi nasce da un
certo corpo. Come ho già detto, io credo infatti che si debba assumere che la riproduzione degli umani, uomini e donne, si fa
principalmente, cioè in misura diversa e maggiore, nel corpo delle
donne e che questa asimmetria di vissuti debba non solo essere
considerata ma possa dare un ordine ai diversi conflitti e suggerire
una forma per la normazione di queste pratiche.
Sfruttando questa asimmetria di coinvolgimenti (senza nessun essenzialismo, può darsi che le cose possano cambiare sotto questo
aspetto e allora dovremo ripensarci), io – come altre – ho sostenuto
più volte la tesi che, riguardo alle possibilità schiuse dalle nuove
tecniche riproduttive, possano ritenersi più adeguati impianti nor93
mativi, leggeri sotto altri aspetti, che riconoscano come unico soggetto della richiesta di accedere alle diverse pratiche di procreazione
assistita la singola donna che vi si sottopone, e riconoscano la legittimità di quella richiesta qualsiasi sia lo status di quella donna: sia essa in coppia con un uomo, con una donna, o sola, sia essa sposata,
convivente o meno, e – venendo alla questione della surrogazione –
lo faccia per sé o per altri, ovvero decida di tenere il bambino o la
bambina che ne nasceranno o di darli a terzi (cfr. Botti, 2014; capitolo quinto e Boccia, 2018; capitolo diciassettesimo).
Su quest’ultimo scottante tema, facendo astrazione dalle fondamentali questioni che rimandano al vasto tema dello sfruttamento commerciale, io credo che un modo importante per dare
conto dell’asimmetria delle esperienze e della rilevanza dei diversi
vissuti, e infine della piena soggettività femminile, sia quella di lasciare alla donna che porta avanti la gravidanza (per altri come
per sé) la prerogativa di nominare da sé quella sua esperienza
(non costringendola né a considerarsi per forza madre, né a non
sentircisi). Proprio in quest’ottica penso che un modo di sollecitare questa consapevolezza e di guardare alle dimensioni anche
simboliche (che si legano in modo inscindibile a mio avviso a
quelle materiali) della libertà delle donne sia quello di considerare, e provare a far riconoscere, anche nella istituzionalizzazione
di questo tipo di pratiche, l’idea che la donna incinta debba poter
sempre cambiare idea e decidere alla fine della gravidanza se dare
o non dare ad altre/i il o la bambino/a che fa nascere o anche
abortire prima. A fronte degli opposti schieramenti che hanno
chiesto, con veemenza, o il divieto assoluto della gravidanza per
altri/e, o la sua totale liberalizzazione, considero dunque che se
una battaglia va fatta è quella di considerare che, in questo tipo di
accordi, la donna che si presta a portare avanti una gravidanza
per altri/e possa sempre recedere da questa decisione, e interrompere la gravidanza con un aborto (ovvero rifiutarsi di farlo se
le viene richiesto), oppure tenersi il/la bambino/a alla nascita.
Un’impostazione di questo genere permetterebbe, a mio avviso,
di riconoscere – concretamente e simbolicamente – la soggettività femminile e, contemporaneamente, l’ampio numero di rela94
zioni che possono prendere forma intorno alla nascita di un
bambino o bambina, e la loro diversità, evitando imposizioni patriarcali o eteronormative, ma anche rischiosi riduzionismi genetici (Cfr. Botti, 2016).
In conclusione vorrei tornare sull’aborto e a un tema su cui
non si può tacere nel contesto italiano, ovvero la pretesa legittimità dell’obiezione di coscienza da parte del medico di fronte alla
richiesta di una donna di interrompere la sua gravidanza.
Il tema dell’obiezione di coscienza alle pratiche di interruzione
di gravidanza è un tema caldissimo nel nostro paese: la quantità di
medici che si definisce obiettore, grazie alla formulazione permessa
dalla legge n. 194, sta praticamente svuotando dall’interno la possibilità di abortire che quella stessa legge consente, e questo con esiti
devastanti, non solo nei termini dell’odierna difficoltà di abortire in
molte regioni del nostro paese, ma anche in quella che si prospetta
per il futuro (le nuove generazioni di medici che si specializzano in
ginecologia non hanno modo di imparare la tecnica necessaria,
tecnica che – ricordiamolo – in alcuni sia pur rari casi serve letteralmente a salvare la vita alla donna incinta). Ancora una volta io
credo che i termini in cui si sviluppa il dibattito intorno a questa
questione sia limitato e che, ancora una volta, sia necessario uscire
dalla contrapposizione tra diritti astratti e venire alla riflessione
sulla responsabilità del mettere al mondo e sulla diversità delle figure su cui questa pesa.
Soprassedendo sul fatto che in realtà la legge n. 194 non consente affatto una mole di obiezione come quella che oggi si dà in
Italia, in quanto è chiaramente affermato, nel discusso articolo
relativo all’obiezione di coscienza del personale sanitario, che
questa è strettamente personale, ma che «gli enti ospedalieri e le
case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare
l’espletamento delle procedure previste», vorrei provare di nuovo
a porre la questione sul piano morale e guardare alla rappresentazione del (presunto) dilemma morale che sarebbe in gioco. Un
dilemma, se tale è, che io non credo affatto debba essere rappresentato nella forma di una contrapposizione tra due diritti individuali, quello della donna a scegliere liberamente della sua gravi95
danza, o sul suo corpo, e quello dei medici ad obiettare, seguendo la loro coscienza, ma andando ancora una volta al nodo etico
che gli soggiace, e cioè alla responsabilità del mettere al mondo
una nuova vita umana.
Rivendicare o negare in astratto il valore del diritto di obiezione di coscienza non porta infatti molto lontano: se di coscienza si
tratta non si può, infatti, non confrontarsi anche con ciò su cui si
prende posizione, ovvero in questo caso sulla legittimità morale
della scelta femminile di interrompere una gravidanza. L’obiezione di coscienza rimanda a una dimensione morale personale,
certo intima e insindacabile per certi versi, ma non per questo
inagibile al confronto e alla discussione. Non si possono considerare dunque tutte le forme di obiezione di coscienza come tali
indiscutibili o incriticabili. Non possiamo rimanere preda di un
individualismo che chiude ogni questione morale nel privato del
singolo, facendo nostro l’escamotage tipico della politica italiana
quando coniò l’infelice idea che dei «temi eticamente sensibili»
non si dovesse parlare: l’etica per sua natura ambisce a essere intersoggettiva, e quindi o si apre al confronto o non è.
Tutti noi abbiamo certo cara la figura di Antigone, tutti abbiamo cara la storia dei renitenti alla leva in Italia o nel mondo, o
quella dei refusenick in Israele, e consideriamo dunque più che legittima l’obiezione di coscienza come modo per trasformare la
realtà, contrastare politiche, pratiche, poteri che consideriamo ingiusti. Ma appunto il tema è se un mondo dove vi sia la possibilità per una donna di abortire sia un mondo ingiusto che va trasformato attraverso l’obiezione di coscienza.
È dunque necessario domandarsi: è questo il punto nel caso
dell’obiezione di coscienza prevista nella legge n. 194? Si tratta di
un tentativo di trasformare la realtà o solo del riconoscimento di
una prerogativa individuale? In altri termini l’obiezione di coscienza dei medici alla pratica dell’aborto è comparabile con i casi
che ho appena citato o è diversa? Vorrebbero i medici obiettori
davvero trasformare la realtà nel senso dell’eliminazione dell’aborto o vorrebbero solo non prendere parte a certe pratiche?
A fronte di Antigone viene qui in mente la figura di Socrate,
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Socrate che non fugge di fronte a una condanna ingiusta come i
suoi amici e allievi vorrebbero, perché Atene e le sue leggi sono
più importanti di lui e della sua vita. In questione non c’è solo la
privatezza della coscienza, ma anche ciò che è importante. Anche
perché ricordiamolo, stiamo considerando un’obiezione che è consentita per legge, e non quella di chi si contrappone a una legge
che considera ingiusta, pagando un prezzo.
Ma rimaniamo al nodo etico e ritorniamo sulle considerazioni
offerte in precedenza.
Cos’è in gioco in una richiesta di interruzione di gravidanza?
Abbiamo risposto che in quella richiesta è in gioco la scelta di
mettere al mondo un nuovo essere umano nelle migliori condizioni possibili, materiali e non solo, scelta che viene esercitata in
un momento in cui, se di essere umano si vuole parlare, se ne può
parlare solo in termini di potenzialità, scelta che nessuno meglio
della donna che è coinvolta fisicamente ed emotivamente può
prendere responsabilmente e scrupolosamente. Gli esseri umani
si sviluppano gradualmente e relazionalmente e la cura che noi
dobbiamo loro, ho sostenuto, segue le tappe del loro sviluppo e
delle loro capacità, che nel caso degli embrioni sono tutte in potenza e nei feti ancora relativamente poco sviluppate. Se di cura e
responsabilità o rispetto nei loro confronti vogliamo parlare, possiamo farlo solo mettendo a tema il destino che apriamo a quegli
esseri in sviluppo perché fioriscano al meglio, destino che dipende, oltre che dalle condizioni fisiche del feto e dalle condizioni di
contesto, dalla nostra stessa disponibilità, quella della donna in
primis, a riconoscere quelle vite e a prendercene cura, disponibilità che non può essere tuttavia imposta ma solo liberamente trovata ed esercitata. La scelta di interrompere una gravidanza in
questo quadro non si configura dunque solo come un atto di libertà ma come una pratica di soggettività e responsabilità per
parte femminile. Come tale è scelta moralmente più che apprezzabile, cui a mio avviso molto poco si può obiettare.
Davvero chi obietta pensa che mai si dovrebbe interrompere
una gravidanza? Davvero tutti i medici obiettori in Italia lo pensano? Davvero pensiamo che questo giudizio sia sottratto a ogni
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confronto e a ogni critica? Non solo in nome della libertà femminile, ma appunto della stessa responsabilità verso chi potrebbe
nascere. Davvero si pensa di condannare l’aborto come i renitenti alla leva volevano condannare la guerra? Davvero si vuole
pensare a un mondo in cui non esistano più medici capaci di fare questo tipo di interventi? O si vuole solo che a farlo sia qualcun’altro?
Allora forse la questione di coscienza va rivista e ripensata.
Non voglio qui sostenere, e si potrebbe, che come Socrate
tutti i ginecologi o le ginecologhe dovrebbero fare interruzioni di
gravidanza, ma che dovrebbero quantomeno confrontarsi con
questo tipo di riflessione, esprimere le proprie ragioni e offrirle al
dibattito pubblico, non semplicemente optare per una prerogativa concessa per legge, e soprattutto che dovrebbero essere più
che felici che vi siano altri medici che sono invece disponibili a
portare avanti questo compito e infine che le direzioni sanitarie
di ogni ospedale pubblico si dovrebbero assicurare che vi siano
nella struttura medici non obiettori in numero sufficiente.
Dal mio punto di vista, per concludere, le vere portatrici di coscienza rimangono le donne e, tra i medici, i veri portatori di coscienza, di una coscienza che va oltre se stessi e guarda a come
dovrebbe essere il mondo sono quelle ginecologhe e quei ginecologi che (nel nostro paese spesso a caro prezzo in termini di
carriera e di possibilità di praticare a pieno il loro mestiere) prendono sul serio la responsabilità insita nella decisione di mettere al
mondo nuovi esseri umani e che riconoscono in questo senso la
posizione peculiare della donna. Una responsabilità che si dà solo
riconoscendo alle donne soggettività e libertà.
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