STORIA NATURALE E MORALE DELL' ALIMENTAZIONE
(di: Giuseppe M.S. Jerace - Kemi Hathor n° 58 - 1992)
Anche se del tutto inconsciamente, l'umanità ha sempre mostrato un
atteggiamento di ambivalenza nei riguardi del consumo della carne.
Un religioso rispetto per le creature di Dio ha fatto sì che di questa
indebita appropriazione ci si dovesse riscattare con dei sacrifici rituali. Fu
così che in tutti i miti della perduta Età dell'Oro, come nei cerimoniali
relativi a virtù da riconquistare, la connotazione della purezza e della
bontà proveniva dall'astenersi dal consumo dei cibi carnei.
L'alimento principe dei vegetariani, il latte, manifesta la sua purezza
anche nel candido colore, ma soprattutto nel fatto di costituire la prima
fonte energetica d'ogni mammifero.
Tale convincimento si ritrova tra i buddisti, come tra gli hindù; è comune ai
pensatori d'oriente, come Gandhi, ed ai rappresentanti della filosofia
occidentale, come Rousseau e Saint-Just, per riproporsi persino nelle
medicine tradizionali e popolari quale dieta depurativa.
Il digiuno mussulmano del Ramadan ha un riscontro nella Quaresima
cristiana, quel periodo che inizia il 40° giorno prima della Pasqua. Questi
giorni vengono considerati di "magro", in contrapposizione dei giorni
"grassi", che implicano anche l'idea del caldo; ed in essi vige la
proibizione di nutrirsi di carne, come pure di avere rapporti sessuali, quasi
per una sorta di estensione del termine dal prodotto della macellazione
alla carne viva dell'alcova.
Il pesce, poiché d'acqua' è considerato un cibo freddo e quindi di magro.
Giorni di magro erano quelli di vigilia delle grandi feste solenni e dei
bagordi, il venerdì e spesso anche il sabato, per un totale di circa metà
anno.
L'ambiguità del termine "carne" dovette precedere la stessa idea di
peccato se sulle mense romane non mancavano mai di essere cucinate
parti anatomiche evocatrici di lussuria, come la vulva e le mammelle della
scrofa o i testicoli del vitello.
Sembra invece che molti dei grandi iniziati si siano nutriti di miele, per
lungo tempo il solo dolcificante disponibile.
Democrito, il filosofo che aveva sempre vissuto in maniera frugale, quando ormai
vecchio, aveva deciso di eliminare ogni giorno qualcosa dal suo pasto e non
aveva più nulla da abolire, per non morire proprio nel corso dei festeggiamenti in
onore di Cerere, sopravvisse fiutando l'odore del miele. Alla fine delle celebrazioni
religiose eliminò anche quello e spirò.
Un tempo il rapporto con le api produttrici di miele rivestiva un carattere quasi
liturgico, tanto che ad Efeso ed ad Eleusi le sacerdotesse portavano nomi di api.
Un residuo di tale usanza sembra essere il nome proprio Deborah, derivante dalla
radice ebraica "dbr", origene sia del termine che indica l'ape, che di quello che
significa "parola", verbo divino, verità.
Il definire come "luna di miele" la comunione d'amore deriverebbe da una
consuetudine dei Paesi dell'est di versare nelle mani dei novelli sposi un cucchiaio
di miele da suggere reciprocamente.
Come al momento dell'iniziazione ai misteri eleusini o al culto di Mithra, ovvero
durante le feste in onore del dio egizio Thot, era necessario, per purificarsi,
spalmarsi le mani e la lingua con il miele, oppure ci si riempiva con esso la bocca,
dicendo: "dolce è la verità".
Rovesciandola in terra, di miele si offriva una coppa alle anime degli antenati
durante le libagioni dei latini; e "liba" era un dolce tradizionale del compleanno
composto di farina di frumento, formaggio grattugiato, miele ed olio di oliva.
Gli Orfici raccontano che, nell'età dell'oro, il miele sgorgasse dalle querce
direttamente per far addormentare il Tempo con il suo profumo ed il suo sapore
soporifero.
Il termine "mummia" (dal persiano "mom" che significa cera) deriva dall'uso egizio
di ricorrere al prodotto delle api per imbalsamare i corpi caduti nell'ultimo sonno.
Melissa, colei che fa il miele, fu una delle nutrici di Zeus, e Mellita era un
soprannome di Proserpina, la dea italica della primavera in fiore, consorte del dio
degli inferi e delle profondità tettoniche, al quale i latini offrivano miele perché non
si svegliasse nei vulcani, sotto forma di serpente di fuoco e di lava incandescente.
Cosicché miele ed api si trovano associati, quasi in tutte le tradizioni, con il
sotterraneo, l'antro, la grotta, l'albero cavo ed ogni simbolo femminile fonte di vita,
connesso con il sistema dei miti agricoli.
Ovidio associa il miele al vino, allo stesso modo di come i suoi contemporanei li
mescolavano negli orci.
Melicertes, colui che taglia il miele, viene gettato nell'acqua bollente dalla madre
impazzita, zia di Dioniso, per dare metaforicamente inizio alla fermentazione
dell'idromele.
Il produttore di idromele, presso le popolazioni celtiche, veniva considerato un
indovino ed un guaritore, in quanto la fermentazione presenta connotazioni di
carattere magico alchemico, almeno quanto la guarigione e l'ebbrezza, liberatrice
da tutto ciò che costituisce il condizionamento del mondo esterno, ed in grado di
porre le persone in una dimensione fuori dal tempo, in uno stato mentale alterato
favorente il contatto con le forze sottili e l'aldilà.
Ed uno degli elementi costitutivi delle feste celtiche del "Samhain", l'anno nuovo
che iniziava la notte di Halloween, era proprio l'ubriachezza conviviale..
Nel mito di Aristeo, che per aver provocato la morte di Euridice viene condannato
a privarsi delle api, si ritrova l'osservanza dell'interdizione sessuale, sia per
recuperare uno sciame di laboriosi insetti, ritenuti vergini, sia per raccogliere il
prodotto, considerato materia pura per eccellenza.
Nell'antica Grecia tutte le azioni collegate all'agricoltura assumevano valenze
cerimoniali, cosicché anche la prima raccolta del miele si inseriva in un ciclo di
rituali propiziatori tra la fine di giugno e gli inizi di luglio, al termine della fioritura
campestre ed in coincidenza con la maturazione dei fichi, il cui albero era
venerato come sacro per gli arcaici culti agresti d'ogni tradizione, sia mediterranea
sia indoeuropea, in quanto associato all'abbondanza, alla fecondità, all'iniziazione
ed ai riti di passaggio.
Sicofanti (da "sykon", fico e "phaino", mostro) erano i sacerdoti incaricati di
indicare il frutto del fico, annunziandone la maturazione ed autorizzandone la
raccolta con la celebrazione di accoppiamenti rituali.
La candida linfa che cola dal picciolo del frutto appena colto, venne assimilata al
latte ed allo sperma. Maschile e femminile ad un tempo, dispensatrice di energia
universale.
In Africa se ne servivano come unguento contro la sterilità e per favorire la
montata lattea.
La forma dei fichi, fortemente evocatrice di analoghi attributi, ha finito per
prestarne il nome in accezioni della terminologia sessuale.
In verità, non si tratta di un vero e proprio frutto, ma di una infiorescenza,
concava, contenete in cima i fiori maschi ed in fondo le femmine; costituita da un
ricettacolo a forma di globo, l'infiorescenza si apre in un piccolo orifizio; a
fecondazione avvenuta, l'involucro viene gonfiato dalle miriadi di drupe
monosperme prodotte dalle ovaie.
Nel libro della "Genesi" (3, 6-7) si parla di un frutto senza precisare quale. Fu
infatti soltanto nel V ^ secolo che tale frutto ("karpos", in greco e "pomum", in
latino) venne identificato con quello onnipresente in tutti i frutteti, la mela
("melon", in greco), il nome latino della quale, "malun", coincide con il termine
che identifica il male.
L'esoterismo considera la mela un simbolo femminile per eccellenza, tanto che la
mitologia greca l'aveva attribuita a Venere, ed infatti, tagliandola verticalmente, vi
si scoprono somiglianze con i genitali femminili.
I Pitagorici, invece, tagliandola in senso orizzontale, vi intravedevano una stella a
cinque punte, un pentagramma da usare proprio quale chiave di accesso alla
conoscenza del bene e del "male", malum appunto.
Gli antichi egizi offrivano questi frutti della conoscenza ai più alti sacerdoti.
Perché "malata d'amore", la sposa divina del Cantico dei Cantici del Re
Salomone chiede di essere "rinfrancata con pomi" (2,5).
Ed Ippomeneo ricorrerà a mele d'oro per sedurre la ninfa Atalanta. frutto del
giardino delle Esperidi diviene però la " mela della discordia" donata da Paride, e
quella offerta a Biancaneve.
Il pentagramma invece, in magia, viene impiegato per proteggere dal malocchio o
fare incantesimi.
Mago Merlino insegnava le sue misteriose arti sotto un melo e gli alchimisti
parlano dello zolfo dell'Opera come di mele d'oro.
Le stesse, nella tradizione celtica, vengono consegnate all'eroe Candle dalla
Donna dell'Altro Mondo, affinché costituissero il suo nutrimento garantendogli
l'immortalità, senza diminuire per questo di numero.
E sempre la Donna dell'Altro Mondo, prima di accompagnare Bran nel regno
eterno al di là dei mari, raccolse il ramo di un albero dell'isola di Avalon che in
celtico vuol proprio dire "meleto".
"All'inizio - scrive Maguelonne Toussaint-Samat in "Storia naturale e morale
dell'Alimentazione" (Sansoni ed. Firenze 1991) - si praticò un raccolto
occasionale, quello delle piante. Rimane un gesto istintivo negli affamati tendere
la mano verso la vegetazione, come l'infante con gli occhi chiusi coglie con la
bocca avida il seno materno.
Ci si può chiedere se furono le donne a raccogliere, per prime, le piante nutrienti
e, eventualmente, medicinali; forse esse sapevano, o presentivano delle loro
proprietà, così come sanno, misteriosamente, far crescere nel loro ventre quei
piccoli che perpetueranno la stirpe.
La natura sarebbe forse anch'essa .una grande madre dalle viscere feconde con
cicli regolari ed umore mutevole?"
Che il cavolo sia calmante, ossigenante ed efficace contro l'alcoolismo è una
credenza antica risalente ai tempi classici. Ed in effetti consumarlo proteggerebbe
dall'ubriachezza, grazie alle vitamine C,K e del gruppo B, di cui sono ricchissime
le foglie, come anche, del resto, calcio, magnesio, potassio e zolfo, il maggior
responsabile del suo detestabile odore.
Nato dalle lacrime di Licurgo, il peggior nemico di Dioniso, il dio del vino, non
viene mai piantato in prossimità di vigneti nè di alveari. Per il fatto che il suo stelo
tagliato lascia colare, come il fico, del lattice dalle proprietà cicatrizzanti, è assurto
anch'esso a simbolo di fecondità, ma ciononostante la favola dei neonati trovati
sotto le sue foglie non sembra anteriore al secolo scorso.
Pure la fava . presso molte popolazioni , e culture, ha sempre simboleggiato
qualcosa di inerente alla riproduttività ed al divenire, per la somiglianza dei suoi
semi con l'embrione.
Per gli antichi egizi i campi di fave erano i luoghi in cui le anime dei defunti
sostavano in attesa di reincarnarsi di reincarnarsi.
Ed a questa credenza va attribuito il rispetto dei Pitagorici per questo legume, da
escludere dalle mense.
Per i fedeli dei culti orfici mangiare fave equivaleva ad interrompere il ciclo delle
reincarnazioni.
Le fave divennero allora simbolo dei morti e e degli antenati, offerta sacrificale in
occasione degli sponsali per garantire discendenza ai progenitori e consentire la
loro reincarnazione, e per comunicare con i mondi invisibili nel corso delle
festività primaverili della semina.
Il mese di maggio infatti prese il suo nome proprio dagli avi, appunto i maggiori,
che si riteneva tornassero giusto in quel periodo dell'anno dentro i baccelli.
Il giorno dei morti e del rito notturno delle offerte agli spiriti, nei "Fasti" di Ovidio,
coincide con i primi di maggio, la nordica notte di Walpurga, e precisamente il 9 di
maggio è il giorno dei Lemuri; eppure le fave, modellate in pasta di mandorla, si
ripropongono anche il due novembre.
Da buoni vegetariani i seguaci del filosofo di Samo, così come non si sarebbero
mai nutriti dei corpi dei viventi, avrebbero evitato di cibarsi persino delle anime.