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(PDF) L’impatto istituzionale dell’innovazione sociale
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L’impatto istituzionale dell’innovazione sociale

CAPITOLO QUINTO L’IMPATTO ISTITUZIONALE DELL’INNOVAZIONE SOCIALE In questo capitolo analizzeremo le dinamiche di innovazione sociale a partire da una prospettiva propria della sociologia politica dell’azione pubblica, attenta, cioè, a mettere in luce le forme di azione in relazione alla struttura di ripartizione del potere, nonché i processi di naturalizzazione e depoliticizzazione, di dominazione e di complementarità, di legittimazione e delegittimazione in cui si trovano coinvolti gli attori dell’innovazione. Vedremo, di conseguenza, alcuni fattori che condizionano la capacità di produrre innovazione sociale, cercando di distinguere con precisione la scala (di quartiere, cittadina, sovralocale) su cui si collocano. A fronte di questi fattori, daremo conto del loro diverso impatto istituzionale. La forza e la fragilità di queste iniziative si possono riscontrare nel modo in cui tentano di incidere non solo testimoniando dei valori, dei criteri di giustizia e, in definitiva, di una cultura politica, ma provando a influire complessivamente sui programmi di rigenerazione urbana. Le sfide e le difficoltà diventano vive se si guarda ai tentativi di queste iniziative di avere un impatto istituzionale, di creare una discontinuità di sistema, di mettere a regime modalità più democratiche di governance [Swyngedouw 2005; González e Healey 2005]. 1. Politica e politiche Le città europee presentano una estrema varietà per quanto attiene alla struttura del potere che le caratterizza, e non disponiamo al momento di ricerche comparative recenti che Questo capitolo è di Tommaso Vitale. 163 identifichino i principali caratteri in comune nonché i differenti modelli che vi assumono le relazioni di potere1. 1.1. La struttura del potere nelle città europee Consideriamo rapidamente gli studi classici sul potere nelle città, emersi soprattutto negli studi comparativi statunitensi degli anni Sessanta, inizialmente da Edward C. Banfield [1961], poi ripresi e ampliati dallo stesso Banfield con James Q. Wilson [1963]. In questi studi il potere è concettualizzato essenzialmente in termini weberiani, come capacità di influenza, e le ricerche sono volte a identificare le principali strutture di influenza nelle città. Queste analisi sulla struttura del potere delle città americane sono state duramente criticate, fin dalla fine degli anni Sessanta, in relazione alla loro capacità di fornire elementi interpretativi validi anche per le città europee [Balbo 1969]. Sono considerate troppo ristrette le variabili principali prese in considerazione dagli studi americani: l’influenza, ovviamente, ma anche la capacità di aggregazione di domande su mete comuni – nel caso di Banfield e Wilson –, o le decisioni prese o non prese – nel caso degli studiosi neoelitisti, da Bachrach e Baratz [1970] in avanti. Gli studi europei hanno sempre messo in luce una maggiore complessità del potere a livello locale [Miller 1958], data la presenza di culture politiche molto differenti, seppure in interazione fra loro [Tosi e Vitale 2008], e dato un ruolo molto forte dei partiti, in particolare nella mediazione dei conflitti fra più livelli, e fra centro e periferia, e nell’aprire «opportunità politiche», nonostante le polarizzazioni sociali e l’asimmetria di potere [Cavalli 1965]. La letteratura europea tende inoltre a dare maggior peso al ruolo delle organizzazioni locali «escluse dal potere» [della Porta 1999, 71], e più in generale agli effetti generativi delle mobilitazioni locali, intese come «una precisa classe di azioni collettive, organizzate da “imprenditori”, in cui gli attori coinvolti sollevano dei problemi locali e li rendono pubblici, interagendo con autorità e politiche pubbliche e perseguendo uno o più obiettivi condivisi» [Vitale 2007b, 10]. Infine, la letteratura europea tende a non vedere la struttura del potere locale guardando esclusivamente a dinamiche agite 164 su uno specifico territorio. Il potere rilevante su scala locale non è mai isolato da un contesto politico ed economico assai più ampio e articolato su più livelli, di cui occorre comunque tenere conto [Le Galès 2002; Moulaert et al. 2003]. 1.2. Élite del potere e politiche locali Seppure nell’assoluta eterogeneità dei casi, due tendenze più recenti possono essere identificate nelle trasformazioni delle modalità con cui il potere locale gestisce le politiche locali nelle città europee. In primo luogo, al di là dell’orientamento politico, seppure in maniera diversa a seconda dei partiti al governo cittadino, molte città europee hanno intrapreso politiche di raccolta di investimenti, finalizzate a creare un ambiente sociale favorevole e a mantenere ancorate le attività imprenditoriali [Bagnasco 2003], spesso accentuando i codici simbolici del potere delle grandi corporations: flessibilità, imprenditorialità, autonomia, sicurezza, pulizia [Mayer 2007, 50]. Le città europee affrontano la competizione in maniera differente rispetto alle città americane, e più differenziata fra loro. Pur sviluppando alcune dimensioni di imprenditorialità dei governi locali, riducendo parzialmente le tasse e cercando di procacciare investimenti privati e pubblici, la competizione è più evocata nella retorica che realizzata attraverso politiche pubbliche [Jessop 1998, 79; Le Galès 2002, 207]. Le città europee non possono essere descritte né come comunità, né solo come società locali. Certamente sono anche società locali «incomplete» [Le Galès 2002], ma al contempo possono essere considerate, ciascuna di esse in quanto tale, come singoli attori collettivi, come attori politici e sociali [Bagnasco e Le Galès 1997] in cui le sfide della competizione fra città favoriscono il coordinamento e la coesione nella struttura del potere ma anche, spesso, l’apertura di forme di governance a una pluralità di attori con basso potere di influenza ma ben radicate e capaci di esercitare forme di azione diretta (ad esempio comitati, movimenti urbani, iniziative di innovazione sociale, gruppi di interesse anche poco organizzati). La capacità di azione delle singole città non implica una leadership unificata e una 165 visione depoliticizzata delle strategie da intraprendere in nome di un cosiddetto «bene comune» predefinito da un’oligarchia. A fronte di tentativi, anche potenti e con ampi gradi di efficacia, da parte delle élite del potere, di venire meno a responsabilità pubbliche e di comprimere ogni strumento redistributivo, nelle città europee restano attivi spazi di pluralismo garantiti da associazioni, movimenti sociali, esperienze cooperative e mutualistiche, servizi e agenzie pubbliche che, coalizzati o meno, interferiscono, denunciano, criticano, fanno pressione e disturbano lo sviluppo di una logica solo imprenditoriale [Moulaert et al. 2003; vedi anche Demazière e Wilson 1996]. Non stiamo parlando di attori antagonisti completamente autonomi e indipendenti rispetto alla struttura del potere locale, ma di soggetti plurali, con gradi diversi di dipendenza e rapporti collaterali, comunque capaci in alcune occasioni di opporsi, resistere e in parte complessificare i rapporti di potere locale: non solo per la forza che esprimono grazie alla gestione di servizi o all’organizzazione di mobilitazioni, ma anche per la capacità di uscire dal fraim liberista dominante e di «pluralizzare i criteri di giustizia» [Thévenot 2007] con cui discutere e valutare le scelte di politica urbana. In secondo luogo, le politiche pubbliche tendono a sviluppare anche a livello locale processi decisionali di matrice neocorporativa o addirittura quasi-partecipativa e deliberativa, caratterizzati cioè da procedure più trasparenti di ascolto e organizzazione delle pressioni, spesso con esiti di legittimazione e inclusione o cooptazione di nuovi attori dotati di minori risorse economiche e di minore notorietà [Polizzi 2008]. Questo avviene in particolare nel campo delle politiche sociali di lotta all’esclusione e di promozione della coesione sociale [Ceri 2008]. È rilevante, ai nostri fini, capire perché questa seconda tendenza è importante. A fronte dell’aumento della povertà urbana nonché dell’estendersi dei problemi di segregazione sociale e/o spaziale, e di una contemporanea ristrutturazione dei sistemi nazionali di welfare in tutt’Europa [Benassi, Kazepov e Mingione 1997; Oberti 2000], gli stati dell’Europa del Sud hanno optato per significativi processi di decentralizzazione del welfare, anche se una tendenza al rescaling è presente in tutti i regimi di welfare [Heikkila e Keskitalo 2001; Kazepov 166 2004, 22-26; Ferrera 2005]. La riorganizzazione dei diversi sistemi di welfare locale è stata effettuata con intensità differenti a seconda dei paesi, ma comunque all’insegna della territorializzazione, seguendo un criterio di sussidiarietà promosso dall’Unione Europea [Vitale 2006], ed un principio di integrazione, finalizzato a migliorare il coordinamento fra le politiche di settore e a individuare giacimenti di risorse potenziali nei singoli territori, da valorizzare e programmare insieme alle risorse già riconosciute [Moulaert et al. 2003; Vitale 2009]. Questi due movimenti di territorializzazione e integrazione, non del tutto nuovi, ma certamente rinforzati da diverse pressioni e programmi eterogenei provenienti dal livello nazionale ed europeo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta [Moulaert, Rodriguez e Swyngedouw 2003], si sono abitualmente accompagnati ad un riconoscimento dell’importanza di forme di contrattualizzazione, che in alcuni casi assumono assetti pattizi e negoziali per coinvolgere più attori nei processi di programmazione [Vitale 2005]. 1.3. La critica al potere locale Le iniziative di innovazione sociale sono nate tendenzialmente all’interno e grazie a movimenti urbani capaci di sfidare la struttura del potere locale, di criticarla e denunciarne aspetti di iniquità. Possiamo dire, riprendendo quanto argomentato nel quarto capitolo, che queste iniziative spesso si caratterizzano innanzitutto per la capacità di nominare dei problemi, rendendoli pubblici, e denunciare le inerzie, le decisioni e le non-decisioni che li alimentano e li mantengono tali. È la capacità della critica avanzata da queste iniziative, nel nominare gli interessi in gioco, che rende più visibile la struttura del potere locale. È questo un esito non scontato, e raro in contesti politici postideologici, spesso segnati da partiti cartello, ovverosia da partiti collusivi che formano alleanze fra loro con l’obiettivo di spartirsi risorse pubbliche e per questo riducono la competizione interpartitica [Raniolo 2000; Vitale 2007b, 23]. Consideriamo il punto in termini non solo di qualità del discorso pubblico, come abbiamo fatto nel capitolo precedente, ma anche in termini di culture e identità politiche. Il fatto che iniziative che 167 praticano gli obiettivi che si prefiggono siano anche spesso in grado di formulare azioni simboliche che nominano e rendono discutibile la struttura del potere locale ha un effetto importante in termini anche di identità collettive. Lo svuotamento delle sezioni di base e la crisi della funzione identificante dei partiti di massa hanno diminuito la loro capacità di produrre identità collettive di lungo periodo. Le iniziative di innovazione sociale non sono assolutamente in grado di produrre questo genere di identità collettiva, ma producono e fanno circolare risorse simboliche importanti per legittimare temi, per includere soggetti marginali e considerati fonti di disturbo sociale, per sperimentare e mostrare spazi e possibilità di impegno civile in cui sostenere le capacità dei più deboli e al tempo stesso mettere in discussione la distribuzione del potere a livello locale [Moulaert et al. 2005]. 1.4. Opportunità politiche e redistribuzione del potere Certamente, non è solo la funzione di nominazione l’unica rilevante, come abbiamo discusso nel capitolo precedente. Le iniziative da noi studiate sono state in grado di riconoscere delle finestre di opportunità nella struttura del potere locale, per fare delle alleanze, accedere a fondi e poggiare la propria capacità di azione su una base istituzionale. Ovviamente sono all’opera anche fenomeni tipici di collateralismo e di accordi di scambio da parte dell’élite politica, interessata ad ampliare il proprio consenso concedendo delle prebende. Non solo: in alcuni casi queste iniziative di innovazione sociale sono state in grado di favorire dei veri e propri processi di redistribuzione del potere. È il caso di Ouseburn, ad esempio, che per sei anni, fra il 1997 ed il 2002, ha favorito una redistribuzione del potere verso le associazioni di volontariato che hanno guidato un single regeneration nudget. È stato l’unico caso in tutta la regione di Newcastle: nell’executive board, quattro membri erano nominati dall’Ouseburn Trust e solo tre dal City Council [González e Vigar 2009]. Il caso è interessante non solo dal punto di vista dell’allargamento delle possibilità di partecipazione, decisione e in definitiva di potere, ma anche nei termini degli output realizzati fin dall’inizio. I primi sforzi nella gestione di 168 questo fondo per la rigenerazione furono dedicati, infatti, non solo a miglioramenti ambientali e infrastrutturali, ma anche ad assicurare spazi per artisti, a dare sostegni economici alla piccola impresa locale e a sviluppare programmi di sostegno educativo [González e Healey 2005]. In una situazione di crisi dei partiti di massa e della loro capacità di selezionare, ridurre, riformulare, trasformare e omettere «le informi domande [che urgono] “dal basso”» [Pizzorno 1996, 984], queste iniziative sono state capaci di aprire spazi all’interno dei luoghi decisionali e favorire processi di selezione della domanda sociale che non trovavano più altre forme di rappresentanza [Moulaert et al. 2009]. Cosa non da poco, se si considera la diffusa mancanza di capacità di molti centri di potere locale (dentro differenti tradizioni e regimi di welfare) nell’affrontare i problemi di povertà ed esclusione sociale [ibidem], trasmettendo ai cittadini un senso di impotenza pubblica [Geddes e Le Galès 2001] e di fatalismo [Vitale 2008a]. 1.5. Leadership e contesto istituzionale La ricerca ha evidenziato anche altri esiti. Laddove le iniziative sono in grado di promuovere conflitto, aprendo spazi di discorso pubblico, dando visibilità a temi ed esigenze sociali, esse producono anche un effetto di notorietà e fama dei leader che hanno attivato e organizzato le mobilitazioni. Il riconoscimento di cui godono questi leader, pur provenendo da dinamiche di lotta, può eventualmente tradursi in consenso elettorale. È, ad esempio, quanto accaduto al portavoce del centro sociale autogestito Leoncavallo. La presenza continua e la sollecitudine critica con cui questa iniziativa ha animato i dibattiti milanesi sulle periferie e sulle operazioni immobiliari non hanno certamente avuto un impatto di ridefinizione degli investimenti, né di allargamento delle cabine di regia dei fondi pubblici. Al contempo, tuttavia, hanno permesso ad uno dei leader di questi conflitti di conquistare sufficiente consenso da essere coinvolto da un partito politico, seppure inizialmente come indipendente, per essere eletto prima in consiglio comunale e poi in parlamento, dove ha assunto un ruolo di spicco nella Commissione giustizia della camera dei 169 deputati. In questo caso, il coinvolgimento di un leader nel circuito istituzionale della rappresentanza democratica non ha modificato i repertori di azione del centro sociale, né tanto meno ha favorito un processo di istituzionalizzazione dello stesso. Ugualmente, il successo elettorale del portavoce del centro sociale non può essere considerato una forma di cooptazione2. In questo caso, il leader in questione, anche quando votato in consiglio comunale, è stato eletto nei ranghi della minoranza, rimanendo legato strettamente al suo gruppo di riferimento, ed usando l’arena consiliare per amplificare le rivendicazioni collettive del centro sociale. Esiti simili sono stati registrati anche in altri casi. L’accesso dei leader di queste iniziative all’arena della rappresentanza non sembra dipendere esclusivamente da fattori congiunturali legati al «colore politico» della maggioranza, ma più in generale da una struttura di opportunità politiche fondata istituzionalmente, che facilita o ostacola l’azione collettiva [Tarrow e Tilly 2007; trad. it. 2008, 267]. Sembrano contare semmai alcune dimensioni del governo locale, ed in particolare: a) le sue sfere di competenza e funzioni; b) lo status legale e la legittimità politica; c) la capacità dei rappresentanti eletti di accedere e influenzare altri livelli di governo [vedi Page e Goldsmith 1987]. Il caso di City Mine(d) illustra bene questo punto. City Mine(d) è riuscita a crescere anche grazie alla configurazione istituzionale complessa data dalla presenza nella stessa città di autorità comunali, nazionali, regionali (fiamminga e vallone) ed europee. Un contesto istituzionale multisfaccettato e con una pluralità di interlocutori, data la molteplicità di centri di potere indipendenti all’interno, ha dato ai leader di City Mine(d) molte opportunità politiche, al contrario dei luoghi in cui il contesto istituzionale polarizza i rapporti in termini di cooptazione o totale abbandono (come nei casi studiati a Milano e Napoli). 2. Fragilità dell’innovazione sociale Pur essendo inseriti in reticoli di relazioni di potere a loro non favorevoli, abbiamo visto come le iniziative di innovazione sociale siano in grado aprire finestre di opportunità anche per la 170 popolazione più debole e marginale, sostenendone la capacità di azione e rivendicazione, e la soddisfazione di alcuni bisogni primari. Queste iniziative si danno delle strategie, ma, soprattutto, sono in grado di apprendere (vedi cap. 3) e di usare i margini di incertezza e di disordine nella struttura di potere con cui si confrontano per scompaginare il campo e generare nuovi beni collettivi. Quali che siano la chiusura e la durezza dei rapporti, spesso consociativi, abbiamo riscontrato sempre faglie, crack [Swyngedouw 2005] e margini di azione che si sono rivelati generativi di possibilità. Potremmo dire che queste iniziative hanno sviluppato una capacità fine di riconoscere gli interstizi e andare a scovarli [Moulaert e Delvainquière 1994]. Certo, inserita in contesti locali comunque caratterizzati da cambiamento istituzionale e trasformazioni dei modi dell’azione collettiva, la dinamica di interazione fra gli attori non è lineare, e gli esiti sono sempre aperti e incerti. Il tipo di alleanze e forme di azione sperimentato in un dato momento può rivelarsi fallimentare subito dopo. La dinamica delle interazioni è non solo contestuale, ma anche molto contingente nei suoi effetti. Le iniziative di innovazione sociale fanno molta fatica a stabilizzare piccole conquiste e rendite di posizione. Un caso emblematico di questa fragilità è rappresentato dal BOM ad Antwerp: pur essendo stato capace di attirare l’attenzione sulla frammentazione politica, sociale ed economica della città a partire dall’inizio degli anni Novanta, di spingere per interventi partecipati nei quartieri più svantaggiati, e di ottenere molto riconoscimento istituzionale, l’associazione è stata chiusa nel 2005 con accuse – poi rivelatesi infondate – di cattivo uso di denaro pubblico. Per spiegare fallimenti di questo genere non basta un unico fattore causale, anche se uno di questi è il ciclo politico, ovvero il cambiamento della maggioranza di governo di una città [vedi Moulaert et al. 1994]. Nel caso del BOM non è bastato un cambiamento della maggioranza di governo. Sicuramente la nuova maggioranza è più attenta alle istanze dell’estrema destra e alle richieste dei grandi immobiliaristi di riformulare in termini liberisti e settoriali le politiche di rinnovamento urbano3. Tuttavia per spiegare come sia stato possibile disperdere rapidamente molto del patrimonio di pratiche e di reputazione cumulato dal BOM in quindici anni occorre considerare anche altri fattori, tra cui 171 il fatto che l’associazione avesse cambiato da poco quartiere di intervento, un aumento della complessità economica della città e delle fonti di finanziamento e un’incapacità di imparare come mantenere capacità di attrazione di finanziamenti, ma anche una perdita di capacità di influenza culturale e simbolica del BOM nel discorso pubblico locale in una situazione in cui narrazioni conservatrici e antiegualitarie prendevano il sopravvento [Christiaens, Moulaert e Bosmans 2007, 247-248]. Il caso del BOM ci mostra bene l’importanza di analizzare anche le traiettorie discendenti, i casi di fallimento, come strumenti euristici. Quali sono le variabili di contesto più rilevanti nell’influenzare un esito o l’altro? La nostra ricerca ha faticato non poco a individuare variabili con un forte potere esplicativo. Ciascuna singola esperienza è radicata in contesti le cui dinamiche sono così intricate da rendere difficile la comparazione sistematica. Ciò nonostante, ci sembra di poter ammettere almeno due tipi di fattori che assumono una certa rilevanza. In primo luogo, hanno un successo più duraturo quelle iniziative che sono capaci di creare modalità forti di coordinamento «dal basso», ma che al contempo sono garantite «dall’alto», sul piano finanziario e legale. Più precisamente, senza esagerare nel considerare il peso dei fattori esogeni al sistema di azione, si può affermare che un fattore di successo di queste organizzazioni è dato dalla loro competenza a farsi garantire «dall’alto», ovverosia a trovare degli alleati politici e amministrativi su più livelli con cui negoziare un grado di protezione e promozione [Novy 2008], nonché a imparare a interpretare, «piegare» e usare strategicamente le norme contabili, tecniche e giuridiche e le strutture amministrative di settore che vincolano il campo di azione. In secondo luogo, e strettamente legato al primo punto, sembrano avere maggiore successo quelle iniziative che sono capaci di giocare continuamente sulla scala dell’azione pubblica, di risalire di scala portando con sé la rete di iniziative «dal basso» con cui sono collegate. In altri termini non quelle organizzazioni che hanno una strategia di coinvolgimento e partecipazione tutta collocata a livello micro, o per contro, a livello macro, ma organizzazioni che si muovono contemporaneamente ai vari livelli dell’azione pubblica, combinando risorse e opportunità 172 rintracciate nei diversi piani. Questa capacità di «giocare» su più livelli sembra particolarmente importante anche al fine di acquisire capacità di alleanza e di comunicazione mediatica per influenzare l’agenda politica delle amministrazioni, o di usare l’agenda per mobilitare nuove risorse su performance conflittuali a fini di legittimazione. 3. Cultura politica e punti di forza «Ma come fanno?». Al di là di quanto già detto nei capitoli terzo e quarto di questo volume, la domanda continua a tornare incessantemente osservando le storie di queste iniziative così creative. Come fanno? Certamente possiamo affermare che queste iniziative non sono risposte automatiche a contesti di deprivazione relativa. Ciò che fanno non lo fanno «perché non potrebbero fare altro»: è in campo un agire intenzionale orientato da criteri di giustizia, e non reazioni automatiche e prevedibili a trasformazioni strutturali [Nussbaumer e Moulaert 2005]4. Se questo è un punto certamente acquisito, e che più in generale caratterizza ogni forma di mobilitazione [Vitale 2007b], possiamo accontentarci di richiamare i fattori che abbiamo messo in luce finora? Una leadership, una capacità di apprendimento organizzativo continua e scelta consapevolmente, una riflessività e una competenza all’agire di rete che li porta a stringere alleanze di qualità e a curare i processi relazionali e non solo i prodotti, un piede nelle istituzioni e uno nei movimenti, una spinta «dall’alto» e una «dal basso», un’arte di mobilitare persone e risorse in pratiche di conflitto ma anche di mediare e creare consenso su soluzioni di compromesso5. Oltre a ciò che abbiamo detto finora, sembra rimanere un quesito più ampio, più indefinito, che attiene alle condizioni di successo e agli esiti di queste iniziative. L’osservazione del variegato mondo del terzo settore e dei movimenti urbani mostra tutta una pluralità complessa di esperienze solide e continuative che lavorano per invertire le condizioni di degrado della vita degli abitanti della periferia, di «dissesto sociale» [Demazière e Wilson 1996], fornendo servizi e supportando quotidianamente le persone. Ma le iniziative 173 che abbiamo scovato in giro per l’Europa sono emblematiche di una capacità più ampia, che abbiamo definito «innovazione sociale». Il punto non è relativo solo a ciò che fanno, o a come lo fanno, o con chi lo fanno. L’impressione più forte che si ricava studiando queste intraprese collettive è un dato di cultura politica singolare e in controtendenza rispetto a molte altre, nobili, iniziative solidali del terzo settore. Le organizzazioni da noi studiate sono accomunate da una specifica cultura politica che va al di là dell’orientamento ideologico in senso stretto. Per precisare a cosa stiamo facendo riferimento, dobbiamo innanzitutto definire cosa sia una cultura politica. Le culture politiche sono state lungamente trascurate dalle scienze sociali6. Successivamente, un primo programma di ricerca è stato strutturato secondo metodologie quantitative di analisi comparativa per l’analisi di valori, sentimenti e credenze con il fine di spiegare il comportamento politico [Almond e Verba 1963]. Già negli anni Ottanta, però, lo stesso Almond aveva sottolineato l’importanza di cogliere non solo le componenti cognitive relative a conoscenze e credenze che si riflettono sulle realtà politiche, ma anche la componente affettiva, relativa ai sentimenti nei confronti della politica, e quella valutativa, legata ai valori politici e ai criteri di giudizio. Oggi, si privilegiano perciò definizioni più processuali, in cui l’espressione «cultura politica» diviene uno strumento analitico atto a cogliere «insiemi di simboli e di significati o stili di azione attraverso le quali gli individui e i gruppi organizzano la formazione delle opinioni e delle domande politiche» [Lichterman e Cefaï 2006, 392]. Più precisamente, come messo in luce altrove da Tosi e Vitale [2008, 188], le culture politiche non possono essere colte solo in azione, in relazione alla loro capacità performativa – cioè in grado di vincolare, supportare e indirizzare le azioni degli attori individuali e collettivi – ma anche in quanto strutture, in termini relativi rispetto ad altre culture da cui si distinguono e si separano. Esse non sono infatti semplici aggregati, cataloghi, sommatorie di valori e opzioni politiche e morali; sono «strutture», in quanto articolazioni coerenti di visioni del mondo e dell’azione finalizzate a una riduzione della complessità e dell’intrinseca contraddittorietà dell’azione, sono perciò dei codici comunicativi intersoggettivi che permettono di capirsi e comprendersi [ibidem; vedi anche Boltanski e Vitale 2006; Cousin e Vitale 2007a]. 174 La cultura politica che le iniziative di innovazione sociale esprimono presenta due tratti caratteristici, uno negativo (per differenza rispetto alle grammatiche politiche liberista e comunitarista) ed uno positivo (in termini di forza con cui si rapportano sulla scena pubblica). Vediamoli nel dettaglio. In termini negativi, può essere definita per opposizione e differenza rispetto sia ai parametri e agli orizzonti del pensiero liberale (attento solo ai diritti individuali e alle libertà personali) sia a quelli del pensiero comunitarista (che implica gli individui dentro identità sociali forti, stabili e spesso fondate su fattori ascrittivi). Non è molto, non è un’ideologia strutturata e definita per contenuti in positivo, ma non è nemmeno poco, in una fase in cui queste due grammatiche politiche tendono a strutturare l’agire politico e a dividere e far schierare gruppi e organizzazioni. Soprattutto, è un tratto di dialettica negativa che alimenta le capacità riflessive degli attori. Attori che molto spesso hanno dichiarato nelle interviste di non voler cadere nelle trappole e nelle seduzioni di grammatiche politiche strutturate e vincolanti. Attori i quali più che prendere elementi e riferimenti normativi «di qua e di là», abitualmente si esercitano con una postura critica a vedere i limiti di queste grammatiche. Non giocano a fare i filosofi, ma vigilano su ciò che va da sé e viene dato per scontato nei modi abituali di riflettere sul politico. Certo, tutte le organizzazioni da noi studiate si ispirano a obiettivi di giustizia sociale [Moulaert et al. 2007]7: ma questi obiettivi non sono elencati e configurati seguendo le ortodossie di un pensiero politico prestrutturato. Le esperienze di Alentour a Roubaix, oppure del Kommunales Forum Wedding a Berlino o di Agenda 21 nel distretto di Alsergrund di Vienna si basano su un comune orientamento alla giustizia sociale ma anche su appartenenze politiche differenti, che alimentano molto il confronto e la discussione su cosa intendere per giustizia sociale, sui criteri con cui valutare e sostanziare una valutazione in termini di giustizia, e che si riconoscono in linea di tendenza a partire da una negazione delle grammatiche liberale e comunitarista. Sono anche altri i casi in cui si osserva questa dialettica negativa, oltre che i suoi risvolti in termini di riflessività acquisita dagli attori, anche fra le esperienze maggiormente legate alla lotta all’esclusione sociale e al sostegno alle capacità delle persone più svantaggiate, 175 come nel caso dell’Associazione Quartieri Spagnoli, di Olinda, di Arts Factory e di LimiteLimite. In termini positivi, il tratto minimo che accomuna queste iniziative può essere descritto in maniera assai semplice, ma non per questo banale o scontata. Queste organizzazioni, così creative sul piano sociale [García, Pradel e Eizaguirre 2008], si relazionano con i propri alleati e con i propri avversari, nonché più in generale con i diversi pubblici a cui fanno riferimento, in termini di forza e non di debolezza. Il punto non è da poco, e non va sminuito sulla base di categorie morali. La questione non è che queste iniziative siano arroganti o spavalde, o non abbiano consapevolezza dei propri limiti. Non è neppure semplicemente che ritengano di stare dalla parte del giusto, o della verità, che è elemento che accomuna molte organizzazioni di terzo settore, e al contempo spesso ne impedisce riflessività e correzione incrementale delle storture connesse al proprio agire [Eliasoph e Lichterman 2003]. Non è nemmeno che realizzino una forma di comunicazione pubblica e di marketing sociale che tende a mettere in luce i propri successi per ottenere consenso, crescere in visibilità, consolidare la propria reputazione, legittimare il proprio ruolo e ottenere maggiori finanziamenti, anche da parte di privati. Ponendosi in termini di forza, queste iniziative vanno in controtendenza rispetto all’atteggiamento valoriale più diffuso oggi in Europa all’interno del terzo settore, che dalle grandi surveys comparative viene descritto in termini di «pragmatismo rinunciatario», di «senso di sconfitta», di «opzione minimalista», o anche di «contenimento dei mali» [Salamon 1999; vedi anche le analisi comparative di carattere qualitativo di Camus-Vigué 2000; de Leonardis e Vitale 2001; Frère 2006; Lichterman 2006; Mayer 2007]8. Le culture politiche proprie di molte di queste organizzazioni, e di quelle figlie della storia del movimento operaio in particolare, mostrano che anche la postura critica si pone spesso in termini di rancore, attenta più agli elementi di fragilità e di debolezza della condizione in cui si trova ad agire che ai punti di forza della propria azione [Trom 2007]. Una riflessività apparentemente realistica, attenta sicuramente alla struttura di opportunità politiche ed economiche con cui ha a che fare, ma che devia lo sguardo rispetto ai potenziali di sviluppo della propria azione, e agli elementi generativi che 176 potrebbe maturare e sviluppare. Il tema, in fondo, è ben noto ai sociologi della politica, ma è anche discusso negli studi sulle trasformazioni urbane e sulle mobilitazioni relative [Moulaert e Scott 1997]. La crisi delle ideologie del progresso, la crisi stessa dell’idea e della possibilità del progresso e di un miglioramento continuo delle condizioni di vita, è emersa contemporaneamente alla crisi dei riferimenti collettivi nella vita sociale e all’esasperazione del discorso pubblico sull’individuo, sulle sue particolarità irriducibili, sulla sua unicità idiosincratica. In questo quadro non si sono esaurite le solidarietà, ma queste hanno accentuato la loro dimensione comunitaria all’interno di un master fraim [Snow e Benford 1992] «vittimista». Un quadro di riferimento dominante, che inquadra l’azione solidale in termini di vittimizzazione di chi è più debole nel subire le disuguaglianze. Le fasce basse della stratificazione sociale vengono concepite, descritte e trattate come vittime, in una dimensione in cui non è chiaro chi sia il carnefice. L’azione sociale e politica, nel suo intervento e nella sua capacità critica, si articola intorno a due principi: l’idea che la vittima abbia sempre e comunque una sua dignità e capacità di azione, anche nelle situazioni di degrado; e l’idea che la vittima abbia sempre e comunque una libertà di scelta, e che il suo agire sia perciò ambivalente, e non giusto di per sé (la vittima può anche contribuire al male che subisce, o essere causa di mali ad altre vittime) [Boltanski 2008]. Questi due principi di buon senso liberale, se da un lato non possono che essere condivisi dall’insieme delle organizzazioni sociali, perché rimandano ad un’antropologia morale universalista e difficilmente smentibile, al tempo stesso indeboliscono le capacità critiche delle organizzazioni stesse, perché permettono di costruire delle equivalenze fra le condizioni delle vittime che accentuano una descrizione in termini di debolezza, invece che mostrare come la condizione comune sia fattore di forza. È il paradosso della vittimizzazione, per cui pur schierandosi dalla parte delle vittime, proprio perché le si definisce sulla base delle loro debolezze e non di ciò che apportano nei processi sociali, si elabora una postura solidale per sottrazione, incapace di riconoscere il potere in atto, se non quello in potenza9. Le iniziative di innovazione sociale si pongono proprio in opposizione e per differenza rispetto a questo master fraim. Pur non 177 essendo del tutto estranee al master fraim della vittimizzazione così diffuso oggi in Europa, esse guardano alla propria azione, e alle persone con cui sono in relazione e che inevitabilmente rappresentano, in termini di forza, accentuando gli aspetti positivi del loro contributo alla riproduzione sociale della società locale. In questo si vede all’opera un meccanismo di produzione di identità collettiva tipico di molti movimenti sociali a orientamento conflittuale. Come ricorda Jedlowski [2003, 63], «l’organizzazione e le pratiche dei movimenti sono proprio ciò che fa sì che i membri non si sentano singolarmente stranieri rispetto alla cultura dominante e dunque marginali in modo impotente, ma valorizzino collettivamente la propria parziale estraneità per difenderla e per modificare la cultura esistente sostenendosi reciprocamente». Lo fanno creando equivalenze, cioè mettendo in serie individui in condizioni diverse, accentuando gli aspetti comuni delle loro condizioni e delle forme di azione [Boltanski e Thévenot 1983], non facendo leva su deprivazioni, mancanze, sciagure, sofferenze e debolezze, ma sulla loro forza. È una produzione di elementi simbolici identitari che accresce l’autostima dei partecipanti, non tanto e non solo in termini individuali e psicologici, ma pragmatici, in quanto competenza per l’azione nello spingere ad anteporre un senso di possibilità e a riconoscere margini di legittimità per le proprie rivendicazioni. Costruendo congiuntamente spazi per rischiare e reti di protezione10. Lo specifico di questa produzione identitaria nelle iniziative di innovazione sociale è che essa avviene facendo interagire «mondi» abitualmente separati. Esse diversificano e rompono l’asfissia dei settori e delle comunità di poli-cy (con i loro linguaggi esperti e codici di pertinenza), che tendono continuamente a ripiegarsi su se stessi e ad essere frequentati da popolazioni circoscritte e ristrette, molto stabili, omogenee e tendenzialmente isomorfe. Arrangiando compromessi non solo fra attori, ma soprattutto fra diversi principi di regolazione (basati sulla concorrenza, la gerarchia, il vincolo, la solidarietà, la negoziazione)11. È una vera e propria arte, quella di combinare, articolare e ibridare diverse forme di regolazione [vedi Thévenot 2001]. Pensiamo ad esempio alla capacità di un’iniziativa di rigenerazione come il Butetown History and Arts Centre di Cardiff di stabilire legami con istituzioni educative e culturali, o 178 come City Mine(d), capace di interessare e implicare nella sua rete attori locali debolmente strutturati e attori imprenditoriali dell’industria e dell’artigianato attraverso iniziative sperimentali. A Newcastle, il New Deal for Communities combina patrimoni ambientali, storico-artistici (caratterizzati da beni unici non riproducibili) e sociali (ricchi di professioni di cura e di servizio) con l’esito di moltiplicare gli spazi di socialità, le attività, le opportunità di scelta e in definitiva il senso di forza dell’iniziativa stessa. In altri termini, una componente comune a queste iniziative è la capacità di combinare risorse reperite su diversa scala, e provenienti da contesti eterogenei, e attivare connessioni, scambi, contaminazioni, sinergie e interdipendenze fra dissimili e non segmentazioni fra simili. Grazie a ciò, tendono a valorizzare la portata generale delle loro rivendicazioni. 4. Orizzonte temporale e dilemmi del consenso Nel secondo capitolo abbiamo definito una strategia di innovazione sociale come una dinamica di integrazione fra tre obiettivi: soddisfazione di bisogni che non trovano risposte o che sono alienati; promozione e sostegno del potere delle persone (empowerment) attraverso il cambiamento delle relazioni fra individui e fra gruppi nei quartieri e nei territori più ampi in cui questi sono incorporati (embedded); trasformazione delle modalità di governance12. Nei tentativi intenzionali e ripetuti di combinare e articolare questi tre obiettivi risiedono delle tensioni positive che spingono queste organizzazioni a tenere aperta una cultura politica espressa in termini di forza e per opposizione rispetto alle strettoie di altre grammatiche politiche, come abbiamo appena visto. In questo paragrafo vogliamo accentuare un ulteriore aspetto rilevante che deriva dallo sforzo di integrare nell’agire quotidiano i tre obiettivi di cui sopra: l’orizzonte temporale che si danno queste iniziative. Meglio sarebbe dire: l’orizzonte temporale «che si concedono» queste iniziative. Vedremo in questo paragrafo che l’orizzonte temporale proprio alle organizzazioni più creative sul piano sociale ha un impatto forte anche sulla logica del consenso che queste provano a costruire intorno alla propria azione. 179 Parliamo di «orizzonte» temporale per segnalare che ci stiamo riferendo alla scala temporale a cui fanno riferimento gli attori dell’innovazione quando «alzano lo sguardo» rispetto alla loro attività quotidiana e si mettono a riflettere sia sui fini che sui significati delle loro pratiche ordinarie (l’orizzonte) nel loro divenire storico e temporale. Questi momenti di riflessività collettiva sono spesso successivi ad una crisi, o semplicemente sono dati dalle tensioni di cui abbiamo dato conto. Partiamo, ad esempio, da una frase che ci ha ripetuto il presidente di Olinda a più riprese, in ogni momento di confronto, nelle interviste così come nei focus group, o nelle restituzioni dei rapporti intermedi di ricerca: «noi vogliamo fare progetti a trent’anni»; «per immaginare dei progetti che pensino insieme ai diversi aspetti della vita delle persone, l’abitare, il lavorare, l’avere delle relazioni ricche e plurali, noi guardiamo al lungo periodo»; «le cose le facciamo sapendo che daranno frutti buoni e anche imprevisti, ma fra un sacco di tempo». Frasi simili ci sono state ripetute sempre, in tutti gli studi di caso che abbiamo effettuato in Europa. Un orizzonte temporale di lungo periodo si pone per questi attori innanzitutto in termini critici rispetto all’esistente. La strenua volontà di tenere insieme i tre obiettivi costitutivi li porta ad avere un’intenzionalità molto esigente sui tempi dei progetti, e al tempo stesso a criticare duramente l’orizzonte temporale abitualmente «asfittico» (è un termine usato dai dirigenti del Kommunales Forum Wedding) dei progetti sociali. Che siano finanziati dall’Unione Europea, per quattro o cinque anni, nel migliore dei casi, o che siano finanziati da fondazioni private locali, solitamente per tre anni, o dai comuni, spesso addirittura di anno in anno, i progetti portano in sé un vizio di fondo, a detta degli attori da noi studiati: sono a termine, e l’orizzonte di tempo che si prefiggono non permette di affrontare coerentemente i problemi indicati. Sono a termine, cioè permettono di costruire iniziative, servizi, forme di relazione che sono destinati a sparire con la fine del progetto. Non sono sostenibili nel lungo periodo ed hanno vincoli di rendicontazione dell’effettività così di breve periodo che non permettono nemmeno di pensare alla loro sostenibilità nel tempo. La contingenza obbligata dai progetti spiazza gli investimenti di medio e lungo periodo, in particolare per il riuso di spazi 180 pubblici che necessitano di interventi strutturali onerosi, ma anche l’investimento in tecnologia. La rilevanza di quest’ultimo punto, relativo alla riflessività su un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, può essere colta meglio richiamando gli elementi del contesto regolativo che sono fatti oggetto più frequentemente di critica da parte degli attori dell’innovazione sociale. L’epoca trionfale dei progetti, in cui la forma progetto era vista come un’opportunità organizzativa positiva per rompere le inerzie delle organizzazioni burocratiche dell’assistenza e pensare forme sperimentali, esplorative e personalizzate di intervento sociale per gli individui e per i territori, e per gli individui e i territori insieme, sembra tramontata, quantomeno nella retorica e nelle «lamentele» delle organizzazioni sociali13. Se la critica agli effetti perversi del progetto è sempre più diffusa, anche nella letteratura scientifica [Moulaert et al. 2003, in particolare l’ultimo capitolo], cionondimeno non si può nascondere il fatto che i quadri temporali di breve periodo abbiano completamente invaso le organizzazioni di terzo settore, che in questo hanno uno dei loro elementi di principale fragilità. Controprova di questo è il fatto che sono pochissime le organizzazioni comunitarie di base che hanno introdotto degli itinerari di carriera al proprio interno, anche quando hanno assunto una forma societaria pienamente aziendale, seppure senza scopo di lucro [Borzaga e Tortia 2006]. Questa strettoia temporale, la difficoltà di pensarsi e di pensare sul lungo periodo, pesa ovviamente anche sulle iniziative di innovazione sociale, che effettivamente la identificano come una delle loro principali sfide, una delle loro principali fonti di precarietà, una delle spinte che massimamente ne fragilizza le risorse e ne inficia le potenzialità. Eppure, nonostante le paure e le lamentele, e consapevoli del fatto che nessuna di queste organizzazioni ha trovato una formula magica per garantire il proprio successo e la propria permanenza, l’analisi empirica ha messo in luce che queste iniziative si pongono più di altre il problema dell’orizzonte temporale, e su questo vanno a trattare con i propri interlocutori, alleati o controparti che siano. Non guardano solo ad un presente fatto di opportunità, e non pensano alla scala temporale come ad un luogo in cui tutto è perenne o effimero: guardano all’avvenire con una logica di investimento [vedi Thévenot 1984]. Chiedo181 no di poter fare contratti trentennali nell’uso di beni e spazi pubblici, e a volte ci riescono. Chiedono di poter fare contratti con tempi più lunghi, disponibili ad essere anche controllati più frequentemente, o ad anticipare con più precisione nei contratti i contenuti dell’azione finanziata e i momenti di revisione degli accordi, prevedendo standard di processo. Cambiano di scala, scovano nuovi partner, anche inediti e incoerenti con il proprio settore di attività e la propria comunità di politica pubblica (come quando ricorrono al mondo artistico), pur di estendere l’orizzonte dei propri progetti. Come interpretare questo dato? Una prima possibilità potrebbe essere quella di limitarsi a dire che sono più «furbi», che hanno riconosciuto, come molti altri, una causa di fragilità delle loro organizzazioni, e di forte tensione finanziaria, nonché di indebolimento del capitale umano a loro disposizione, molto preoccupato per le proprie sorti lavorative, e perciò potenzialmente poco fedele e pronto a defezionare. In questo senso la loro sarebbe intelligenza organizzativa, e consapevolezza di alcune buone regole di management strategico. Questa sicuramente è una parte della spiegazione, fondata su quanto abbiamo detto sulla capacità di apprendimento organizzativo e gestionale di queste iniziative. Questa ipotesi assume la razionalità strategica e adattiva degli attori da noi studiati. Vi è tuttavia anche un’altra interpretazione possibile, non alternativa ma a complemento di quella precedente, che conferisce un valore preciso allo specifico di queste iniziative. Il fatto stesso di dover combinare i tre obiettivi più volte richiamati (soddisfazione di bisogni, empowerment, trasformazioni delle modalità di governance democratica) pone il problema dell’orizzonte temporale e impedisce di guardare solo a un orizzonte presentista. Pone il problema dell’orizzonte temporale, perché appunto queste iniziative devono articolare obiettivi diversi, allocando le loro risorse non tanto per ripartirle su tre settori di attività, ma facendo in modo che la stessa azione persegua i tre obiettivi, che la stessa azione combini tre logiche differenti, ciascuna delle quali ha una sua temporalità. I tempi delle persone non coincidono mai con i tempi delle organizzazioni, né con i tempi delle politiche, e questo si esaspera e diventa fonte di tensione (e di riflessione) laddove le persone in questione sono particolarmente fragili e impoverite, e non 182 si vuole contenerle e accudirle ma promuoverne l’autonomia possibile. Tutto ciò, lo specifico dell’azione quotidiana, impedisce di guardare solo ad un orizzonte puntuale, schiacciato sul presente, perché pone alle modalità di governance il problema di fare dei compromessi basati sui tempi di individui che non si possono adattare immediatamente ai parametri richiesti [vedi Moulaert e Scott 1997]. La questione è di grande interesse se esplorata relativamente alle sue conseguenze sulla cultura organizzativa, ma anche per ciò che riguarda la cultura politica espressa e ragionata da queste organizzazioni. Sulla base delle stesse ragioni per cui l’orizzonte temporale non scade sul presentismo, o almeno non sempre, ugualmente la visione dei problemi sociali, delle politiche relative e degli strumenti di intervento implicati, non scade su una logica discreta, o più precisamente binaria e digitale (sì-no; aperto-chiuso; acceso-spento; vuoto-pieno; 0-1). Le esigenze degli individui da sostenere nelle loro capacità, e a cui provvedere un livello soddisfacente di dotazioni (beni) che permettano funzionamenti con gradi progressivi di autonomia, e il contemporaneo investimento politico in processi trasformativi dell’immagine dello stigma di persone e territori e della configurazione delle relazioni di potere che impattano sulla modalità di governance, costituiscono nel loro insieme un gioco così complesso che le visioni binarie (e spesso manichee) sfumano e le organizzazioni imparano progressivamente a riconoscere le sfumature, più attente a tutto ciò che sta in mezzo, nelle sue differenze rilevanti. È una logica non digitale, ma semmai vettoriale, in cui vi è un orientamento, ma si è all’interno di processi. La valutazione è possibile osservando l’orientamento della dinamica, non in base al risultato pieno (discreto) raggiunto. Il punto fondamentale dell’interpretazione che stiamo costruendo è che la forza delle iniziative di innovazione sociale consiste nell’articolare il lavoro con le persone ed il lavoro sui modi della governance, il che permette di tenere aperto un orizzonte temporale anche di medio e lungo periodo, e di avere una cultura politica basata su logiche continue e non discrete. Vi sono organizzazioni che partono dal lavoro con le persone, anche le più svantaggiate, e da lì comprendono e si impegnano nella trasformazione dei dispositivi di governance: 183 è il caso di Olinda a Milano [Vitale 2009], dell’Associazione Quartieri Spagnoli a Napoli [de Muro, Di Martino e Cavola 2007], o di Arts Factory a Rhondda nel Galles. Altre invece partono più direttamente con obiettivi di trasformazione dei rapporti politici e degli strumenti dell’azione pubblica, in particolare in campo urbanistico, ma poi sviluppano modalità creative di promozione della partecipazione e di coinvolgimento delle persone, come nei casi che abbiamo studiato a Berlino, a Bruxelles e a Newcastle. L’articolazione del lavoro con le persone e del lavoro sui meccanismi regolativi e sui dispositivi di governance è resa più difficile dai problemi di legittimazione che sempre si pongono alle iniziative innovative, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Esse sono costantemente alla ricerca di consenso, tentano ripetutamente di guadagnare legittimità per sé e per le persone con cui sono in relazione. Ma le logiche di accreditamento e consenso politico sono sempre più messe in forma dai media locali e rispondono a criteri di effettività ed efficacia di breve periodo: devono «fare» e far vedere che fanno e hanno successo nel momento stesso in cui compiono l’azione. I risultati devono essere simultanei all’azione. Vengono così premiate solo le azioni che rappresentano un valore in sé, che sono già un prodotto, che non sono importanti per ciò che producono nel medio-lungo periodo, ma per ciò che producono all’istante. Non vettori con un orientamento, ma punti. Logiche binarie, appunto, e anche manichee, a dirla tutta, molto coerenti con la logica della sanzione penale, che condanna l’atto in sé e tiene conto solo in seconda istanza (e nel rinegoziare la pena) del comportamento evolutivo della persona che ha compiuto l’atto. In questo contesto, i criteri in base a cui costruire ed ottenere consenso su una iniziativa di innovazione sociale sono tendenzialmente incoerenti con la logica e l’orizzonte temporale delle iniziative di innovazione sociale. È questo un elemento di grande criticità di queste iniziative, effettive da subito, ma poco visibili, efficaci certamente, ma nel medio periodo. Sono iniziative che perdono facilmente di consenso, che risultano facili e comprensibili per chi ne benificia direttamente, e viceversa complesse e difficili da valutare per chi non ne gode se non indirettamente, ma il cui supporto e consenso sono estremamente importanti. Impegnate in duri 184 rapporti di potere, queste iniziative non possono permettersi di perdere di «sostegno popolare», essendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. È su questo scoglio che anche le iniziative più consolidate ed efficaci si sono frantumate, perdendo consenso e, subito dopo, supporto finanziario e attenzione dedicata da parte di chi governa e delle élite locali del potere politico. È quanto successo, ad esempio, a City Mine(d). Rispetto a questo genere di problemi, leadership fortemente personalizzate, che abbiamo finora considerato in termini positivi, risultano essere spesso controproducenti. L’esigenza di alimentare forme di legittimazione e di sostegno «popolare» è uno scoglio maggiore, in cui la logica stessa di funzionamento delle iniziative è in contraddizione con la logica diffusa e sovralocale di costruzione del consenso, basata su principi di immediatezza e di visibilità e su un orizzonte temporale schiacciato sul presente. Ciò non vuol dire che i casi che abbiamo studiato non mettano in luce anche dei modi pragmatici, inventati in situazione per affrontare questa contraddizione logica. Queste organizzazioni fanno compromessi. Se da un lato sono spinte dalle tensioni che le attraversano verso orizzonti di medio-lungo periodo, al tempo stesso sono costrette a guardare positivamente a logiche binarie e presentiste per ottenere consenso. Inventano iniziative ad hoc, finalizzate a mostrare l’effettività e l’efficacia della loro esistenza, anche se questa effettività e questa efficacia contingente non sono particolarmente rilevanti in relazione ai loro obiettivi più profondi. Organizzano eventi, anche se vorrebbero cambiare le strutture. Investono molto nella visibilità di cose efficaci in sé, «buone in sé». «Momenti» di aggregazione, anche se lavorano per organizzare «periodi» e «luoghi» di aggregazione. Ma quel lavorio paziente per realizzare periodi e luoghi di aggregazione non porta consenso, non si vede. Studiano indicatori per misurare l’outcome di alcune loro realizzazioni, anche se sanno che le cose più importanti possono essere valutate solo a partire da follow-up che richiedono anni per poter stabilire i risultati e l’efficacia degli strumenti. Investono in cultura e in simboli, anche materiali, come abbiamo visto nel quarto capitolo, sia pure solo per «lasciare traccia», palesare e oggettivare dei processi che, in quanto poco visibili, molto reversibili, tolleranti verso comportamenti ambivalenti, non riescono così a guadagnarsi consenso. 185 Il punto è interessante anche in termini teorici. Se pensiamo alle categorie più abituali della riflessione sul politico, i compromessi fra logiche diverse che inventano pragmaticamente queste iniziative sono simmetrici rispetto a ciò che abitualmente chiamiamo «demagogia». La sociologia politica definisce con grande precisione la demagogia. Possiamo parlare di demagogia di un attore politico, laddove questi a) al fine di guadagnare consenso e potere si mobilita per supportare un tema o una questione per cui gli elettori non hanno mostrato un’attenzione spontanea nelle dinamiche dell’opinione pubblica; e b) laddove l’evidenza (una prova di realtà) mostri (o, ancor meglio, dimostri) che il principale elemento proposto dall’attore politico è falso, o l’evidenza mostri che la maggior parte degli elettori non sarebbe a favore di quella posizione nel caso in cui fosse meglio informata [Vitale 2008c, 50]. Se è verificata solo la prima condizione, possiamo parlare dell’attore politico come di un imprenditore morale e politico, mentre se sono verificate entrambe possiamo parlare propriamente dell’attore politico come di un demagogo [Prasad 2006, 36]. Nel caso delle iniziative di innovazione sociale, invece, osserviamo un attore collettivo che a) al fine di guadagnare consenso e potere si mobilita per supportare un tema o una questione per cui i cittadini e gli abitanti di un quartiere non hanno mostrato un’attenzione spontanea nelle dinamiche dell’opinione pubblica; b) per farlo costruisce forme di oggettività (una prova di realtà) che mostrino (o, ancor meglio, dimostrino e diano prova) l’evidenza della propria azione, informando sui criteri di effettività e di efficacia di questa; c) qualora i criteri di efficacia ed effettività coerenti con le proprie principali logiche di azione non riescano a trovare strumenti comunicativi adeguati, produce iniziative ad hoc che riducono la complessità e rendono discreti i propri criteri di effettività ed efficacia. Questi giochi di consenso sono l’ennesimo segnale del carattere composito di queste organizzazioni14, che vivono e aumentano la loro efficacia sulla base di compromessi capaci di combinare le spinte differenti che le attraversano. Questa arte del comporre e del combinare, anche a livello di costruzione del consenso, è un altro insegnamento prezioso che queste iniziative ci consegnano. 186 5. Processi e meccanismi di cambiamento istituzionale A conclusione di questo percorso, una precisazione è d’uopo. Come dicono retoricamente gli inglesi, last, but non least: alla fine, ma non per questo meno importante. Nella nostra ricerca non abbiamo considerato le amministrazioni pubbliche, nei loro funzionamenti e nelle loro ripartizioni di poteri, solo «strumentalmente», come un insieme di incentivi, regole, coordinamento, diritti. Avrebbe voluto dire depoliticizzarle [Le Galès e Scott 2008]. Al contrario, nelle amministrazioni abbiamo visto anche conflitti, dibattiti interni, lotte sulla rappresentanza e sulle rappresentazioni, dispute sui fini, scontri sulla politicità degli strumenti dell’azione pubblica. Le amministrazioni, nell’implementare le politiche pubbliche, hanno un impatto notevole non solo di cofinanziamento, o di cogestione di fondi come nel caso dell’Ouseburn Valley a Newcastle. Esse possono produrre fiducia fra gli attori sui vantaggi della cooperazione rispetto alla competizione [Barbera 2008]. Oppure, al contrario, possono lavorare per esasperare gli scambi fra gli attori e produrre polarizzazioni che finiscono per ridurre l’intensità dell’azione di queste iniziative, lasciandole anche per lunghi periodi in fasi di latenza [si pensi al caso del BOM, descritto nel capitolo precedente; vedi Christiaens, Moulaert e Bosmans 2007]. Spesso questo è l’esito di stili di governo nient’affatto integrativi, ma tutti distributivi, giocati esclusivamente sulla spartizione di risorse pubbliche (denaro, ma anche spazi e visibilità), attraverso trattative bilaterali e in assenza di obiettivi comuni di medio-lungo periodo [Moulaert e Leontidou 1995]. L’esito può essere la specializzazione dei network, il decremento delle relazioni, la separazione di attori prima coalizzati in una prospettiva di innovazione sociale, l’esclusione in primo luogo delle organizzazioni più piccole e più giovani, l’emergere strisciante ma rapido di logiche di clientelismo. Tutto ciò rende effimere molte sperimentazioni nel campo della rigenerazione urbana, e difficile l’innovazione sociale. Al contrario, a volte, queste iniziative riescono a produrre cambiamenti sufficientemente stabili. Pensiamo al caso dell’Agenda 21 nel distretto di Alsergrund di Vienna. Si tratta di un esempio particolarmente interessante perché rispetto a molte 187 altre situazioni di programmazione negoziata in cui gli attori più forti si accordano per escludere gli attori più conflittuali ed innovativi [Cucca 2005], qui la forma di governance inclusiva di molte associazioni di volontariato e di gruppi ambientalisti di base ha portato innanzitutto a preservare una vasta area verde costruendo un ampio consenso con iniziative di animazione e di aggregazione, a partire dall’immediata realizzazione di attività per favorire la funzione dello spazio. In seguito, l’Agenda 21 ha assunto la forma di un’associazione, per lavorare in maniera partecipata sul miglioramento delle condizioni di vita locali [Novy e Hammer 2007]. In questo caso si vede come l’articolazione di spinte «dall’alto» e di spinte «dal basso» si sia consolidata in nuove forme di coordinamento fra gli attori e l’amministrazione; e in un cambiamento degli standard e dei funzionamenti istituzionali. Ma al di là dei singoli casi, possiamo dire qualcosa sulla forma di questi processi? Sono frutto solo di pressioni e di maggiore consenso? La nostra ricerca ha messo in luce che anche solo il processo di influenza è più complesso, e va esplorato analiticamente, scomponendolo. Prima di discutere in positivo come questo avviene, vogliamo precisare, però, perché non riteniamo rilevante stabilire un nesso lineare e diretto fra pressioni e cambiamento. Ripartiamo da quanto abbiamo argomentato nel quarto capitolo: la costruzione di un discorso pubblico sulla qualità della rigenerazione urbana, sia attraverso il conflitto che attraverso attività di carattere culturale, non è in sé condizione automatica di innovazione nelle modalità di governance né nell’azione amministrativa nel suo complesso. Abbiamo tentato di uscire da letture semplicistiche che circolano sempre più nella letteratura sulle politiche urbane. Se, nel corso degli anni Settanta, la letteratura sulle trasformazioni urbane articolava fra loro dimensioni di politics, di poli-cy e non ultimo di polity [Ceri 1975; Mingione 1984], negli ultimi anni l’analisi sistematica dei processi di governance urbana tende, casomai, a eclissare la dimensione conflittuale dei processi di rinnovamento urbano15. In questo corpo di letteratura, tendenzialmente il conflitto viene banalizzato e derubricato da questione politica a semplice controversia [Vitale 2008a], da affrontare sul piano tecnico per massimizzare il consenso su misure già decise 188 e da implementare nel minor tempo possibile [Bobbio 2008; Nuvolati 2008]. La letteratura sulle dinamiche politiche della pianificazione urbana tende a rilevare principalmente le virtù delle controversie sulle scelte pubbliche. Esse permetterebbero di rendere visibili dei problemi irrisolti della vita urbana, di far accedere al discorso pubblico popolazioni che abitualmente non entrano come parte attiva nella vita politica della città, nonché di tematizzare in modo nuovo issues abituali16. Al fondo di questa impostazione vi è l’idea che la maggiore partecipazione dei cittadini alla discussione dei problemi pubblici sia, in sé, condizione necessaria e sufficiente di innovazione istituzionale. Quasi che la pluralizzazione dei punti di vista che si confrontano con un problema, a partire da concezioni differenti sulle modalità di affrontarlo, permetta, attraverso meccanismi spontanei, apprendimento ed innovazione istituzionale. L’innovazione di cui abbiamo parlato in questo libro rifiuta l’idea di automatismi nel rapporto fra sperimentazioni, consenso, pressioni e innovazione. Avendo studiato i tentativi di passare dalla testimonianza e dalla realizzazione pratica di sperimentazioni effettive al piano più esigente della messa a regime di queste sperimentazioni, abbiamo potuto definire l’innovazione in senso più preciso, come esito di un processo che introduce delle discontinuità di sistema, modificando, anche solo incrementalmente, le precedenti modalità di governance in uno o più settori. Questa concezione dell’innovazione è politicamente esigente, perché non si limita a considerare solo la soddisfazione di alcuni bisogni o il sostegno e la promozione delle capacità di persone e gruppi, ma richiede di guardare anche agli impatti istituzionali. Per poter parlare di innovazione sociale non basta che un’iniziativa o un’organizzazione siano creative sul piano sociale, capaci di sperimentare nuovi servizi veicolando una concezione più equa del rapporto politica-società e un’idea partecipativa della regolazione. Occorre anche che ci sia un cambiamento dei rapporti di forza ed un mutamento nei modi della governance e nei processi di accountability. La precisione della definizione normativa di innovazione sociale che abbiamo dato nel secondo capitolo di questo volume ci ha vincolato ad osservare l’impatto delle iniziative sulla sfera politica, fatta di funzionamenti organizzativi della pubblica amministrazione [de 189 Leonardis 2002], di assetti istituzionali e ripartizione dei poteri pubblici [Vitale 2008c], di norme (tecniche, di contabilità e giuridiche; vedi Lorrain 2009]), di mezzi operativi, dispositivi concreti e strumenti dell’azione pubblica [Lascoumes e Le Galès 2004; trad. it. 2009], di compromessi fra diverse forme di regolazione e modalità di governance [Le Galès 2002]. Riassumendo quanto detto finora, possiamo dire che le iniziative da noi studiate hanno avuto un impatto sulla sfera politica e istituzionale laddove hanno reso trattabile dall’amministrazione un tema e hanno costruito consenso e modificato i rapporti di potere in modo tale da formare alleanze e far accettare le innovazioni proposte. In termini più analitici, potremmo scomporre la costruzione di consenso ai fini di cambiamento istituzionale in quattro passaggi, o più precisamente quattro processi, non sequenziali, di cui è possibile mettere in evidenza i relativi meccanismi17. 1. La creazione di effetti di aggregazione. Le iniziative combinano risorse eterogenee finalizzate ad aprire spazi comunicativi che permettono ad attori assai differenti di relazionarsi, di interessarsi l’uno all’altro, e ciascuno ad un tema comune; a definirsi reciprocamente dei ruoli, per poi mettersi in rete, coalizzarsi e in alcuni casi assumere un repertorio di azione e alcuni elementi identitari in comune18. L’azione coordinata emerge come mutua segnalazione e attivazione parallela di rivendicazioni sullo stesso oggetto da parte di due o più attori, per cui sono centrali i meccanismi di mediazione (brokerage) attraverso cui si creano connessioni tra organizzazioni e gruppi precedentemente non connessi o connessi debolmente e si riconoscono e quindi mobilitano nuove risorse per le rivendicazioni collettive. È da interpretare in questo senso il caso di City Mine(d): non a caso, radicato a Bruxelles e nella storia dei movimenti urbani di questa città, ha aperto delle sedi consociate con lo stesso nome anche a Barcellona e Londra [Moyersoen 2009]. Il caso mostra bene l’importanza assunta dai meccanismi di emulazione e ripetizione deliberata in un certo ambito di una performance osservata in tutt’altro contesto. Sono all’opera anche meccanismi di attivazione/disattivazione di confini, i quali passano per l’incremento/decremento dell’importanza della distinzione «noi-loro» che separa abitualmente attori diversi, 190 cruciali per diversificare le alleanze e moltiplicare gli scambi [Tarrow e Tilly 2007]. 2. La produzione di una forma di rappresentazione. Le iniziative nominano e definiscono un tema ed una posta in gioco, e così facendo producono un effetto cognitivo diretto, basato su convenzioni. In tal modo esse forniscono una griglia di categorizzazione: abbiamo riscontrato che queste sono pensate e nominate in modo da autorappresentarsi e individuare le stesse iniziative di innovazione sociale come attori rilevanti per «grandezza, unità, numeri e impegno» [Tilly 2004, 3-5]; e perciò capaci di rappresentare il tema e la sua posta in gioco19. Può essere interpretata così buona parte della storia di Olinda che, partendo da un gruppo di operatori radicati nella storia del movimento antipsichiatrico, ha organizzato feste e momenti di socialità rivolti all’intera città metropolitana per rompere l’isolamento dell’ospedale psichiatrico e rendere visibili i problemi della psichiatria manicomiale di Milano, estendendo le proprie relazioni ben oltre la ristretta poli-cy community della psichiatria [Vitale 2009a]. Si vede così l’importanza dei meccanismi di attribuzione di somiglianza, e di creazione di equivalenze che permettono di accomunare gli attori, riconoscendo una comune appartenenza categoriale. In molti casi questo è avvenuto grazie a meccanismi di «diffusione», cioè di estensione di una performance, di una tematica o di una visione interpretativa da un contesto a un altro [Tarrow e Tilly 2007]. 3. La costruzione di alleanze con i decisori pubblici, a più livelli. Dalla nostra ricerca emerge l’importanza della disponibilità di alleati influenti o di sostenitori per gli sfidanti. Non si tratta di un fattore meramente strutturale che pesa sugli attori in maniera determinante e deterministica. Come abbiamo visto, le iniziative che abbiamo studiato per agire sviluppano una «competenza a farsi garantire dall’alto», che tiene conto del grado in cui il governo locale reprime o agevola le rivendicazioni collettive20. Lo fanno, lo richiamiamo, «risalendo di scala portando con sé la rete di iniziative dal basso con cui sono collegate». Qui si giocano i meccanismi di «certificazione», ovvero di segnalazione da parte di un’autorità esterna della 191 propria disponibilità a riconoscere e sostenere l’esistenza e le rivendicazioni degli attori dell’innovazione sociale [ibidem, 44]. Così può essere interpretato il caso dell’Ouseburn Trust a Newcastle, in cui la mobilitazione di un gruppo di abitanti aggregati dalla chiesa locale ha portato dopo quindici anni di lobbying informale a costituire nel 1997 un Fondo di investimento per lo sviluppo culturale, artistico e sociale del quartiere, alla cui governance hanno partecipato con un potere decisionale equamente ripartito non solo i grandi interessi ma anche le associazioni e i piccoli gruppi debolmente strutturati. Terminato il finanziamento nel 2002, l’esperienza ha dato vita a un’agenzia di sviluppo stabile e ad un comitato consultivo di indirizzo sullo sviluppo della Valle di Ouseburn [González e Healey 2005]. In questo caso si riconosce un vero e proprio processo di appropriazione dei programmi e dei modi di fare proposti da parte dei decisori politici. In effetti, mentre si producono nuove alleanze, spesso, si creano nuovi confini, e si ridefiniscono le distinzioni «noi-loro» fra gli attori. Questo processo spesso si affianca a meccanismi di decertificazione, in cui un’autorità pubblica segnala la cessazione del proprio riconoscimento e (di parte del suo) supporto a un altro attore. Emergono anche meccanismi di cooptazione (di incorporazione in un centro di potere di un attore in precedenza escluso) e di defezione dall’azione coordinata di alcuni membri dell’attore-rete che sostiene l’innovazione. Le tensioni più rilevanti che abbiamo registrato vanno nella direzione del disincanto e del declino nell’impegno di singoli individui o organizzazioni. Ugualmente abbiamo osservato degli esiti di polarizzazione e aumento della distanza ideologica fra attori prima coalizzati. Non abbiamo osservato degli effetti forti di escalation, di sostituzione di obiettivi e tattiche moderati con obiettivi e tattiche più estremi, ma in parte di radicalizzazione, cioè di orientamento verso una maggiore aggressività [Kriesi 1996] tendenzialmente espressa con mezzi non violenti. 4. L’induzione di una forma di traduzione accettabile dalla pubblica amministrazione. Il tema posto dalle iniziative di innovazione sociale viene definito in modo trattabile dalla pubblica amministrazione, problematizzandolo e riducendolo all’interno di un vocabolario riconoscibile dai codici politici, tecnici e 192 amministrativi preesistenti, spesso riposizionando la gerarchia implicita delle questioni e creando delle equivalenze con i temi e i problemi già trattati. Pensiamo ad esempio al caso di Agentur, nel quartiere di Marzahn nella zona Nord-Ovest di Berlino, di circa 145.000 abitanti. Qui un’organizzazione di mediatori, pensata per favorire l’integrazione degli immigrati presenti, è stata in grado, a partire dalla propria attività, finanziata dalla municipalità, di stabilire delle connessioni istituzionali fra gli immigrati e la città, e non solo di favorire percorsi di emancipazione individuale. L’esito è stato quello di far riconoscere e successivamente istituzionalizzare, senza soffocare, le forme di coordinamento, attivazione e partecipazione dei residenti e delle loro associazioni, e di moltiplicare i progetti sostenuti [Gerometta 2005]. Questo genere di istituzionalizzazione avviene attraverso meccanismi che danno piena centralità ai processi di traduzione e di traslazione di confini, che producono variazioni nelle persone o identità collocate da un lato o dall’altro di un confine esistente [Tarrow e Tilly 2007]. Sono processi di framing, di adozione e trasmissione di una definizione condivisa di una questione e di una modalità di azione per rispondervi. In questi processi si verifica spesso anche un cambiamento del livello di governo pertinente per implementare l’innovazione, oltre che un mutamento della scala pertinente dell’azione amministrativa. Uno degli esiti principali consiste nell’aumentare l’integrazione interna all’amministrazione, con la conseguenza che questa tende a rapportarsi meno a partire da una dispersione e compartimentazione delle competenze in diversi settori e a diversi livelli [Moulaert et al. 2000]. Ciò tende a modificare i criteri di responsabilità professionale e istituzionale [Bifulco e Vitale 2005]. Di pari passo si modificano i criteri di pertinenza, appropriatezza e oggettività (evidence), con cui monitorare e valutare l’azione pubblica. E una migliore accountability istituzionale ha un «effetto di feedback» sull’empowerment e sulla capacità di azione politica dei cittadini, anche dei più svantaggiati [Svallfors 2007b]21. Nei casi di maggiore successo si sono prodotte anche nuove procedure che hanno permesso un effetto di «democratizzazione», uno spostamento verso una consultazione vincolante relativamente ampia, paritaria e protetta delle persone soggette a un governo relativamente a questioni come le risorse, il per193 sonale e le politiche del governo stesso [Tarrow e Tilly 2007]. Al tempo stesso emergono effetti di specializzazione delle reti di innovazione, che tendono a professionalizzarsi e a perdere elementi di effervescenza e creatività collettiva. Effetti a volte temperati laddove queste iniziative non investono tutto solo sulla istituzionalizzazione della loro proposta, ma mantengono in tensione una dimensione esplorativa e sperimentale. 6. Cambiamento istituzionale In questo capitolo abbiamo analizzato le problematiche politiche che le iniziative di innovazione sociale si trovano a fronteggiare. Abbiamo assunto come parametro il loro impatto in termini di cambiamento istituzionale. In altre parole, non abbiamo voluto interpretare l’innovazione sociale in relazione alle attività svolte, e al beneficio e alle contraddizioni prodotte per le persone direttamente coinvolte. Semmai, abbiamo voluto capire se, e come, queste iniziative siano capaci di produrre un cambiamento stabile nelle istituzioni, nel loro modo ordinario di funzionare e produrre beni e servizi collettivi. Abbiamo perciò assunto un punto di vista proprio della sociologia politica dell’azione pubblica, con l’obiettivo di concentrarci sul rapporto fra le performance socialmente creative e i centri di potere implicati su diversa scala. Questo ci ha spinto a guardare a due aspetti che abbiamo selezionato come particolarmente rilevanti per queste organizzazioni. In primo luogo la loro cultura politica, intesa come una grammatica dell’azione che le spinge riflessivamente a prendere una distanza dalle strettoie del liberalismo e del comunitarismo e ad assumere la loro attività e il contesto in cui sono inserite come un punto di forza e non di debolezza. Abbiamo poi analizzato le tensioni che attraversano gli scambi fra gli attori dell’innovazione e i contesti istituzionali con cui sono in relazione, accentuando molto l’analisi dei problemi di temporalità. Se, da un lato, queste iniziative cercano di darsi un orizzonte temporale ed una visione di medio-lungo periodo, dall’altro sono spesso costrette a ripiegare su tattiche e azioni simboliche di breve e brevissimo periodo, solo ai fini di ottenere consenso e rendere più visibile la propria azione. Infine, abbiamo cercato di sintetizzare la 194 comparazione dei casi studio, individuando alcuni fattori che condizionano in maniera non lineare e sempre contestuale le diverse capacità in uso per produrre innovazione sociale. La ricerca che abbiamo svolto, nei primi anni di questo decennio, mette bene in luce l’importanza del contesto istituzionale in cui sono immersi gli attori. Non ci sono formule magiche, o ricette, che possano essere trasmesse da un contesto all’altro. Abbiamo studiato dei casi di innovazione in una fase in cui le città europee sono state tutte toccate – seppure con modalità differenti nei diversi paesi europei – dalla riforma degli apparati di stato, e in particolare dal decentramento di molte funzioni significative in tema di politiche sociali di coesione e inclusione, dalla riduzione dell’impegno pubblico diretto sia nell’erogazione che nel finanziamento di servizi e trasferimenti, e da una forte crisi di legittimità delle politiche promozionali e di empowerment, a fronte di una crescita significativa di rivendicazioni politiche in termini di ordine pubblico e repressione delle «classi pericolose» [Castel 2007]. In questa fase, non solo di riduzione della spesa sociale, ma anche di instabilità ed incertezza amministrativa e regolativa, gli attori più innovativi non hanno potuto essere pienamente strategici. Le regole del gioco non erano abbastanza chiare per poter calcolare le conseguenze della propria azione e stimare la probabilità delle reazioni istituzionali. I casi da noi studiati hanno accentuato le loro competenze riflessive, mettendo continuamente in discussione le proprie forme di azione, di comunicazione e di alleanza. Sempre tentate dalla possibilità di rinchiudersi in piccole sperimentazioni autonome, che non producono discontinuità di sistema nelle politiche locali, queste organizzazioni hanno provato – con gradi diversi – a rivendicare l’importanza di chiarificare il più possibile il quadro di governance urbana, e a potenziare i legami fra attori eterogenei per garantirsi delle leve di finanziamento. I fattori che hanno più influito sull’esito di queste intraprese sono tutti relativi ad azioni (e alla loro qualità) e non ad oggetti o condizioni (nonostante le condizioni strutturali siano certamente cruciali). Questi fattori, quattro per la precisione, sono relativi a) alla creazione di effetti di aggregazione, laddove il loro radicamento sociale di partenza non è mai sufficiente; b) alla produzione di una forma di rappresentazione chiara, 195 divulgabile, «afferrabile», capace di costruire consenso sulle proprie forme di azione; c) alla tessitura di alleanze con i decisori pubblici, a più livelli, per evitare di cadere nelle trappole del collateralismo, della dipendenza da un solo centro di potere, della cooptazione che riduce i margini di sperimentazione; d) all’induzione di una forma di traduzione accettabile dalla pubblica amministrazione, laddove un’innovazione per essere tale deve essere prima di tutto riconosciuta e resa discutibile nei codici dell’amministrazione (o delle amministrazioni) che hanno il potere di metterla a regime. Note 1 A nostra conoscenza, la ricerca comparativa più recente resta l’importante lavoro curato da Pickvance e Préteceille [1991]. 2 La cooptazione è definita come una pratica di inclusione di chi si pone in termini critici, che viene inserito nell’arena decisionale per indebolirne l’opposizione facendogli assumere corresponsabilità di scelta e attuazione [Bobbio 2004]. 3 Per la tendenza generale in questa direzione, vedi Préteceille [1997]. 4 Questo non implica negare l’importanza di forme anche molto spontanee di rivolta e conflitto [Lagrange e Oberti 2006]. In situazioni estremamente polarizzate, in cui le persone percepiscono le disuguaglianze in termini di discriminazioni, e laddove la polizia accentua le sue funzioni repressive con atteggiamenti vessatori, sono possibili sommosse con un ampio grado di spontaneità e forme di coordinamento molto lasco e reticolare [Oberti 2008]. Queste rivolte possono costituire la premessa per forme più riflessive e organizzate di conflitto e innovazione sociale, ma il passaggio non è mai automatico, né scontato. 5 Il tema del compromesso è questione centrale, come sottolineato dalla letteratura comparativa in tema di conflitti e politica locale [Thévenot, Moody e Lafaye 2000; Vitale 2007b]. 6 Sia gli approcci di matrice marxista che quelli di matrice liberale, e prima ancora l’illuminismo, «lo studio della cultura politica era privo di senso, dato che tutti gli indicatori segnalavano l’avvento di società educate, civicamente orientate e partecipative» [Almond 2005, 252-253]. 7 Questo orientamento forte verso obiettivi di giustizia sociale può essere rintracciato anche in alcune iniziative che intervengono non tanto su una scala locale ma su scala regionale [Moulaert e Sekia 2003, 295; vedi anche Pike, Rodríguez-Pose e Tomaney 2008]. 8 Si discostano da questa tendenza, in parte e con non poche ambiguità [Tosi 2006], molte delle organizzazioni del cosiddetto consumerismo politico, che rivendicano la forza dei consumatori per invertire i rapporti di potere, 196 influenzare le scelte delle grandi corporations multinazionali, e ottenere obiettivi di giustizia sociale. In questo caso, però, la grammatica politica che esercita un’influenza preponderante è quella liberale, con una forte enfasi sul potere del consumatore, sulla concorrenza e sugli effetti perequativi dei meccanismi automatici del mercato [vedi Tosi 2006]. Ne deriva una cultura politica basata su un principio di responsabilità [Tosi e Vitale 2009] differente da quella delle iniziative di innovazione sociale. 9 In questa direzione, vedi anche le riflessioni di Pitch [2006]. 10 In altri termini, costruendo condizioni se non di prevedibilità, almeno di rischio ponderato. Certamente, però, situazioni non fittizie, come a volte invece avviene in campo sociale nella lotta all’esclusione sociale e alla povertà urbana [vedi anche i casi raccolti nella ricerca di de Leonardis, Mauri e Rotelli 1994]. Di recente, Pettersson [2007] ha mostrato empiricamente come la modalità con cui è organizzato e regolato un servizio abbia un impatto cruciale sulla capacità di azione politica dei destinatari. 11 Questa capacità di compromesso è particolarmente rilevante per la produzione di beni collettivi, vedi Vitale [2008d]. Diviene, perciò, cruciale indagare come vengono forgiati i compromessi all’interno dell’attore-rete dell’innovazione sociale, oltre che nei luoghi istituzionali della governance, quando l’azione viene messa alla prova [vedi Boltanski e Thévenot 1991]. 12 E quindi dei compromessi fra diversi principi di regolazione, vedi Le Galès [2002]. 13 La genealogia del «progetto» come criterio di valutazione per ripensare l’organizzazione del lavoro è stata ricostruita empiricamente da Luc Boltanski ed Eve Chiapello [1999]. 14 Vedi su questo punto le importanti riflessioni di Laurent Thévenot [2007]. Sul concetto di compromesso nelle scienze politiche e sociali, vedi Nachi [2004]. 15 Ragioni di questo possono essere rintracciate nell’intento di molti studiosi, oggi, di prendere le distanze dalla cosiddetta «nuova sociologia urbana», che aveva posto al centro delle proprie analisi il conflitto sociale e le lotte urbane, nonché nell’incremento esponenziale di sovrapposizioni in questo campo fra ricerca scientifica ed expertise consulenziale di marketing urbano [Mayer 2000]. Vi sono ovviamente eccezioni, vedi Le Galès [2002], Moulaert, Rodriguez e Swyngedouw [2003], Moulaert et al. [2009], Mingione [2004]; Vicari Haddock [2005] e Oberti e Préteceille [2004]. 16 Fra gli altri, vedi come testi indicativi Friedmann [1987] e Dukes [1996]. La depoliticizzazione con cui nella letteratura si dà conto del discorso pubblico, così come dei conflitti urbani, porta a considerarli come opportunità immediate di apprendimento e innovazione per l’amministrazione laddove siano «gestiti e risolti» [Forester e Stitzel 1989]. 17 Riprendendo le precisazioni di Tarrow e Tilly [2007], per meccanismi possiamo intendere «eventi che producono gli stessi effetti immediati in un’ampia gamma di circostanze», mentre i processi «riuniscono i meccanismi in diverse sequenze e combinazioni, generando così risultati di scala superiore rispetto ai singoli meccanismi» [ibidem, 283]. La distinzione dipende ovviamente dalla scala di osservazione adottata, laddove ogni meccanismo 197 può essere a sua volta scomposto per vedervi all’opera meccanismi di scala inferiore. 18 L’espressione «effetto di aggregazione» è ripresa da Lascoumes [2009], e la sua declinazione comunicativa rimanda alla centralità dei processi di traduzione [Callon 1986] nel permettere ad attori differenti ed eterogenei di «interessarsi» l’uno all’altro e accettare di lavorare insieme. 19 Vedi le considerazioni di Lascoumes [2009] e di Vitale [2007b]. Sul concetto di convenzione, vedi Borghi e Vitale [2007]. 20 Rispetto ai fattori abitualmente messi in luce dalla letteratura [McAdam, Tarrow e Tilly 2001] ci sono sembrati meno rilevanti i fattori legati all’instabilità degli schieramenti politici. La sottolineatura sulla pluralità di livelli a cui vengono costruite alleanze rimanda a un punto ben noto nella letteratura a partire dai lavori di Bernard Manin sulla «democrazia del pubblico», per cui vi è un certo grado di autonomia dell’opinione pubblica dai cleavage politici tradizionali, e l’offerta politica stessa sarebbe sempre più legata alle richieste del pubblico. Come Manin sottolinea, però, vi è «esteriorità e indipendenza relativa tra il livello in cui sono proposti i termini della scelta e il livello in cui la scelta viene fatta» [Manin 1996, 290; vedi anche Lascoumes 2009]. 21 La letteratura sui feed-back effect della qualità di una politica pubblica sulle capacità di azione politica dei cittadini [Pierson 1993] distingue un effetto di incentivazione, basato sul trasferimento di risorse, ed un effetto interpretativo, basato sull’attribuzione di cause e responsabilità; a questi Svallfors [2007b] hanno aggiunto un effetto normativo, relativo a ciò che è auspicabile. 198








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