Massimo Bonafin
Sull’utilizzazione del meraviglioso nel Voyage de Charlemagne
Sull’utilizzazione
del meraviglioso nel Voyage
de Charlemagne
Massimo Bonafin
Università di Genova
Sobre el uso de lo maravilloso en el Voyage de Charlemagne
Resumen: En esta aportación se propone el análisis del uso del elemento maravilloso en el Voyage de
Charlemagne desde el punto de vista de la narrativa dinámica y del conflicto entre los dos soberanos,
Carlomagno y Hugo el Fuerte. Los historiadores de la cultura han resaltado las diferentes connotaciones de lo maravilloso en la literatura medieval: milagroso, mágico, artificial, sobrenatural, cristiano, pagano, etc. La trama del poema heroico-cómico muestra una clara contraposición entre lo
sobrenatural de origen divino, de lo que se beneficia el emperador de Occidente, que fue peregrino en
Jerusalén, y lo artificial de origen terrenal, que pertenece al rey de Oriente, quien no sale de su corte.
Si la victoria de Carlomagno, conseguida gracias a la alianza con la sagrada cristiandad, sobre Hugo
el Fuerte, señor solo de lo profano maravilloso/artificial, se describe claramente en el Voyage de Charlemagne, es justo preguntarse cómo se relaciona este punto de vista con otros planos interpretativos
que la crítica ha resaltado en el texto (p. ej. parodia, fábula, tradición serio-cómica).
Palabras clave: Voyage de Charlemagne, Jerusalén, Constantinopla, maravilloso, sagrado/profano, artificial, reliquias, milagros, peregrinación, Oriente/Occidente, soberanía, gabs, ambivalencia.
On the use of the marvellous in the Voyage de Charlemagne
Abstract: This contribution offers an analysis of the use of the marvellous element in the Voyage de Charlemagne in terms of the narrative dynamics and the conflict between the two sovereigns, Charlemagne and Hugo
the Strong. Cultural historians have stressed the different connotations of the marvellous in medieval literature:
miraculous, magical, artificial, supernatural, Christian, pagan, etc. The plot of the heroic poem shows a clear con-
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trast between the supernatural of divine origen enjoyed by the western emperor, who was a pilgrim in Jerusalem,
and the artificial of earthly origen enjoyed by the eastern king, who does not leave his court. If Charlemagne’s
victory, achieved thanks to his alliance with the sacred Christian, over Hugo the Strong, lord only of the marvellous/artificial profane, is clearly described in the Voyage de Charlemagne, it is fair to ask how this point of
view relates to the other levels of interpretation that critics have highlighted in the text (e.g. parody, fairy tale,
serio-comedic tradition).
Keywords: Voyage de Charlemagne, Jerusalem, Constantinople, marvellous, sacred/profane, artificial,
relics, miracles, pilgrimage, East/West, sovereignty, gabs, ambivalence.
Sobre o uso do marabilloso no Voyage de Charlemagne
Resumo: Nesta achega proponse a análise do uso do elemento marabilloso no Voyage de Charlemagne
desde o punto de vista da narrativa dinámica e do conflito entre os dous soberanos, Carlomagno e
Hugo o Forte. Os historiadores da cultura resaltaron as diferentes connotacións do marabilloso na
literatura medieval: milagroso, máxico, artificial, sobrenatural, cristián, pagán etc. A trama do poema heroico-cómico amosa unha clara contraposición entre o sobrenatural de orixe divina, do que se
beneficia o emperador de Occidente, que foi peregrino en Xerusalén, e o artificial de orixe terreal, que
pertence ao rei de Oriente, quen non sae da súa corte. Se a vitoria de Carlomagno, conseguida grazas
á alianza coa sagrada cristiandade, sobre Hugo o Forte, señor só do profano marabilloso/artificial,
descríbese claramente no Voyage de Charlemagne, é xusto preguntarse como se relaciona este punto de
vista con outros planos interpretativos que a crítica resaltou no texto (p. ex. parodia, fábula, tradición
serio-cómica).
Palabras clave: Voyage de Charlemagne, Jerusalén, Constantinopla, maravilloso, sagrado/profano, artificial, reliquias, milagros, peregrinación, Oriente/Occidente, soberanía, gabs, ambivalencia.
A
l poemetto eroicomico del Voyage de Charlemagne è arrisa una notevole fortuna
critica, nei quasi due secoli dalla pubblicazione dell’editio princeps. Le caratteristiche metriche, tematiche e di genere, nonché la sua articolazione narrativa così
nettamente bipartita sulle due destinazioni del viaggio immaginario dell’imperatore, a Gerusalemme e a Costantinopoli, insieme con la peculiarità delle millanterie dei paladini che occupano all’incirca metà del testo, sono una buona giustificazione di questa effervescenza ininterrotta di studi e anche di edizioni.1 Non si
può certo dire che l’elemento meraviglioso che appare a più riprese nel Voyage de
1
Chi scrive ha dato il suo modesto contributo a questa bibliografia: rinvio pertanto a Bonafin, M., Viaggio di
Carlomagno in Oriente, Alessandria, 2007 e Guerrieri al simposio. Il Voyage de Charlemagne e la tradizione dei
vanti, Alessandria, 2010, per tutte le informazioni ulteriori qui date per presupposte.
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Charlemagne sia passato inosservato nella critica, ma quello che voglio proporre in
quest’occasione è un’analisi della sua utilizzazione all’interno della dinamica narrativa e ideologica del poemetto, anche tenendo conto delle ricerche che da qualche
decennio gli storici della cultura e della letteratura medievale hanno dedicato alla
fenomenologia e alla stratificazione del meraviglioso, o almeno di ciò che noi oggi
classifichiamo sotto questa etichetta o categoria.2
I tre scenari principali in cui si volge l’azione sono dapprima Parigi, poi Gerusalemme e la Terrasanta, infine Costantinopoli; anche se dal punto di vista della cornice ideologica indeuropea, nel senso indicato da Dumézil e Grisward, 3 i tre luoghi
sembrano riflettere la terna delle funzioni (nella chiave di attributi della sovranità:
militare, religiosa, economica), dal punto di vista dell’utilizzazione del meraviglioso è evidente che soltanto le scene a Gerusalemme e Costantinopoli offrono materia sufficiente a caratterizzare la narrazione. Infatti, nel prologo ambientato alla
corte di Francia, in cui spicca l’alterco fra Carlomagno e la regina sulla superiorità
dell’imperatore, che sarebbe insidiata dal rivale costantinopolitano Ugo il Forte,
l’unico richiamo a elementi soprannaturali è costituito dall’evocazione pretestuosa del triplice sogno (“Jo l’ai treis feiz sunged, moi i covent aler”, v. 71) che sarebbe
all’origene della missione in Oriente e dalla convenzionale benedizione (“L’arcevesche Turpin li seignat gentement”, v. 87) che l’arcivescovo Turpino impartisce
prima della partenza all’equipaggiamento da pellegrini.
La distribuzione dell’azione narrativa nelle due tappe di Gerusalemme e Costantinopoli, incorniciate in un percorso circolare che parte da Parigi e a Parigi fa
ritorno, non soltanto determina la semantica del poemetto, come è stato sempre
riconosciuto dalla critica,4 ma riflette anche una fenomenologia e una utilizzazione dell’elemento meraviglioso del tutto coerente con il conflitto che il Voyage de
Charlemagne tematizza fra i due imperatori, d’Occidente e d’Oriente.
2
3
4
Ai lavori ormai classici di Poirion, D., Le Merveilleux dans la littérature française du Moyen Age, Paris, 1982;
Lecouteux, C., Au-delà du merveilleux : essai sur les mentalités du Moyen âge, (2e éd.), Paris, 1998; e Le Goff,
J. “Meraviglioso”, in Dizionario dell’Occidente medievale, II, a c. di J. Le Goff e J.-C. Schmitt, Torino, 2003,
pp. 705-720; aggiungo il rinvio ad alcuni approfondimenti e aggiustamenti di prospettiva recenti di Donà,
C., “Meraviglie e meraviglioso nella tradizione arturiana”, in Mirabilia. Gli effetti speciali nelle letterature del
Medioevo, a c.di F. Mosetti Casaretto e R. Ciocca, Alessandria, 2014, pp. 255-275; Di Febo, M., Mirabilia e
merveille: le trasformazioni del meraviglioso nei secoli XII-XV, Macerata, 2015; e Varvaro, A., Il fantastico nella
letteratura medievale. Il caso della Francia, Bologna, 2016. Per una rassegna aggiornata ed esauriente cfr.
Muzzolon, E., “Meraviglioso e fantastico medievali: stato dell’arte e studi recenti”, Critica del testo, XXI (2018),
pp. 165-185.
Cfr. Dumézil, G. L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, con un saggio introduttivo di J. Ries, Rimini, 1988;
e Grisward, J. H., “Paris, Jérusalem, Constantinople dans le Pèlerinage de Charlemagne. Trois villes, trois
fonctions”, in Jérusalem, Rome, Constantinople, textes réunis par D. Poirion, Paris, 1986, pp. 75-83.
Beninteso con accenti diversi: credo di aver dimostrato (cfr. Bonafin, M., Guerrieri al simposio..., op. cit.,) che la
fondamentale unità narrativa del testo è assicurata dall’adempimento rigoroso di una morfologia fiabesca, di
cui recupera anche taluni qualificanti correlativi semantici; questa interazione con un archetipo dell’intreccio
folklorico è presupposta nell’analisi condotta in quest’occasione, ma non è esplicitamente richiamata se non
necessario all’interpretazione del conflitto fra ‘miracoloso’ cristiano e ‘meraviglioso’ pagano, incarnato nella
competizione fra i due sovrani.
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Ma, anzitutto, qualche preliminare su ciò che va sotto la categoria moderna di
meraviglioso, perché il Medioevo all’astratto preferiva il concreto e con il termine
mirabilia intendeva un insieme di enti che hanno la proprietà di ‘stupire’ e che possono venire da Dio, dalla natura o dal diavolo; come l’etimologia manifesta (miror /
mirari > mirus, mirabilis > miraculum > miralh), il lemma medievale individua una pluralità di oggetti o eventi che colpiscono e attirano lo sguardo, la visione, suscitando
una sorpresa. Non si tratta dunque di una proprietà delle cose, ma di un effetto
della loro ricezione, quindi di qualcosa che si verifica all’incontro fra soggetto e
oggetto, mediante il senso della vista, almeno in primissima istanza.
Il Voyage de Charlemagne conferma tutto ciò con l’insistenza sui verba videndi ogni
volta che qualcosa di meraviglioso, sorprendente, insolito fa capolino nel racconto.
Così Carlomagno a Gerusalemme ammira (“Vit de cleres colurs le muster peinturet”, v. 124) le pitture della chiesa in cui con i dodici pari si asside all’altare dell’ultima cena, ma è proprio questa visione evocatrice (“Cum il vit Karlemaine, cumençat
a trembler”,v. 130, “Duze cuntes vi ore en cel muster entrer”, 137) che sconvolge il
giudeo entrato per caso, inducendolo a farsi battezzare. A Costantinopoli, poi, l’imperatore rimane impressionato dalle ricchezze della reggia di Ugo il Forte (“Charles
vit le paleis et la richesce grant”, v. 342 = v. 362), di cui il testo ci dà una dettagliata descrizione, e di fronte ai meccanismi meravigliosi che vi si trovano avverte la
pochezza del suo patrimonio. Poco dopo, è alla vista della rotazione del palazzo
(“Karles vit le paleis turneer et fremir”, v. 385, “Carles vit le palais menuement turner”, v. 392) che egli perde l’equilibrio e finisce seduto sul pavimento di marmo.
Se, dunque, l’impatto col meraviglioso è sempre mediato dal senso della vista, che
segnala l’avvertimento di un’alterità, di un’interruzione dell’ordinario e del quotidiano, di una frattura nell’orizzonte delle attese, la frizione è tanto più forte quanto più sono in gioco anche, implicitamente, universi culturali contrapposti, mondi
di riferimento differenti, esemplificati nel Voyage de Charlemagne da Gerusalemme e
Costantinopoli. Proviamo a seguire l’iter narrativo da questo punto di vista.
Fin dall’inizio la solidarietà di Carlomagno e della religione cristiana è affermata e
ripetuta: la cornice della chiesa di San Dionigi (“Un jur fu Karlemaines al Seint Denis
muster”, v. 1, “A Seint Denis de France li reis s’escrepe prent”, v. 86), il segno della croce
(“en croiz seignat sun chef”, v. 2) e la deposizione delle offerte sull’altare (“E out faite
s’offrende al auter principel”, v. 59), il valore nel contrastare i pagani (“paiens encaucer”, v. 29) e la volontà di adorare il Santo Sepolcro (“La croiz et le sepulcre voil aler
aurer”, v. 70). Gesti e luoghi simbolici che, a confermare la circolarità del racconto e la
conclusione del suo percorso semantico, ritornano non casualmente nell’ultima lassa
(“E vunt a Saint Denis, al muster sunt entret. | Karlemaines se culcget a oreisuns, li ber:
| Quant il ad Deu preiet, si s’en est relevez”, vv. 863-865ss.). È vero che in queste lasse di
apertura e di chiusura il meraviglioso non campeggia in primo piano, occupato invece
dal contraddittorio con la consorte, risolto vittoriosamente dall’imperatore, ma tutti
gli elementi congiurano a confermare e rendere quasi scontato il rapporto fra il sovrano dei francesi e il soprannaturale cristiano, oggettivato in atti e spazi determinati.
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A Gerusalemme il primo atto è ancora di recarsi in chiesa e deporre delle offerte
(“E venent al muster, lur offrendes unt mises”, v. 110) e, una volta che l’imperatore è seduto con i suoi dodici paladini attorno all’altare, più che la magnificenza
delle pitture che decorano l’interno del luogo sacro, fino allora inviolato, l’effetto
miracoloso e sorprendente è dato dalla ‘trasfigurazione’, se così si può dire, del
volto di Carlomagno (“Tant out fer le visage, ne l’osat esgarder”, v. 131) che induce
la repentina conversione del giudeo appena entrato. La consacrazione definitiva
avviene però, com’è noto, nell’incontro col Patriarca, che sancisce la superiorità
dell’imperatore sopra tutti i sovrani del mondo e la sua ‘filigrana’ divina (“Sis as en
la chaëre u sist maïmes Deus! | Aies nun Charles <Maines> sur tuz reis curunez!”,
vv. 157-158), a cui consegue, quasi necessariamente, il conferimento di un congruo
numero di reliquie della Passione, dei Santi e della Madonna.
Sono quindi le reliquie la prima manifestazione del meraviglioso nel racconto,
anzi del miracoloso cristiano a essere più precisi, cioè di quella manifestazione del soprannaturale nel mondo che si esprime attraverso reperti materiali, residui organici o
sostanze che provengono o sono state a contatto con portatori di una potenza divina
riconosciuta. Ed ecco allora che le reliquie che il Patriarca dona a Carlomagno, perché
ne abbellisca la Francia e le sue chiese, non tardano a esibire la forza taumaturgica
promanante da esse (“Durrai vus tels reliques ke ferunt granz vertuz”, v. 186, “Les
reliques sunt forz, Deus i fait granz vertuz”, v. 192): forza la cui origene è ovviamente
una e una sola, Dio (“Or veit li patriarches Deus i fait <grant> vertut”, v. 196),5 che
agisce per loro tramite sospendendo o modificando le leggi della natura (o quanto gli
uomini ne conoscono). Alla partenza dalla Terrasanta e nell’itinerario verso Costantinopoli il racconto non manca di ragguagliarci su ulteriori prove dei miracoli che le reliquie sono in grado di operare a beneficio di chi le detiene e cammina nella vera fede
(“Les reliques sunt forz, granz vertuz i fait Deus”, v. 255) : se l’espressione non pare
azzardata, esse esemplificano in concreto il motto dell’ordine teutonico Gott mit uns.
Fino a questo punto, quindi, il motore del conflitto innescato dalla sfida iniziale, nelle incaute parole della regina, sembra girare a vuoto: Carlomagno e i suoi
francesi, quasi veri pellegrini, si muovono in un ambiente familiare, favorevole a
loro, in cui la sola emergenza di eventi inaspettati non è certo perturbante, perché
ricade nel disegno divino, manifesta la sua onnipotenza e anzi crea intorno a loro
un alone di meraviglia ed effetti soprannaturali.
L’arrivo a Costantinopoli rappresenta la vera svolta narrativa e il perno semantico di tutto il poemetto: non si dimentichi che le scene che vi si svolgono occupano
da sole circa 600 versi sugli 870 complessivi.6 Lo spaesamento e la sorpresa dei
5
6
Si noti che anche il Patriarca vede il miracolo operato da Dio: il senso della vista è sempre il primo veicolo del
meraviglioso, cristiano o pagano che sia.
Anche per questo molto studiati sotto l’aspetto della rappresentazione del meraviglioso: cfr. Schlauch, M.
“The palace of Hugon de Costantinople”, Speculum VIII, 4 (1932), pp. 500-514; Krappe, A. H., “Hugo von
Byzanz, der Pflügerkönig”, Zeitschrift für Französische Sprache und Literatur, LI, (1935), pp. 361-366; Polak,
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prodi carolingi sono dapprima l’effetto della profusione di ricchezze e di nobiltà in
ozio nei giardini della città (“Destre part la citet de une live grant | Trovent vergers
plantez de pins et lorers blans; | La rose i est florie, li alburs et li glazans†”, vv. 264266ss.), poi dell’incontro con il re Ugo il Forte che conduce un aratro, le cui parti
sono tutte d’oro, stando sollevato su un ricco baldacchino trainato da due muli
(“Les cunjugles en sunt a or fin relusant, | li essues et les roës et li cultres aranz”, vv.
284-285ss.), infine dalla magnificenza e dall’architettura straordinaria della reggia
(“Charles vit le paleis et la richesce grant: | A or fin sunt les tables, et chaëres et
banc, | Li paleis fu listez d’azur et avenanz”, vv. 342-344ss.).
Il testo non manca di sottolineare il dislivello evidente fra il mondo di Carlomagno e quello di Ugo il Forte (“Seignurs – dist Carlemaines – mult gent palais ad ci:
| Tel nen out Alixandre ne li vielz Costantins, | Nen out Crisans de Rome qui tanz
honurs bastid”, vv. 365-367), un dislivello che si gioca tutto sul piano dell’opulenza
terrena e dell’onnipotenza del sovrano di Costantinopoli, che può lasciare incustodito il suo prezioso aratro senza tema di perderlo, giacché nel suo regno non ci sono
ladri o malfattori di sorta (“Unkes nen out larun tant cum ma terre dure”, v. 324),
quasi fosse una Saturnia tellus o un paese di Cuccagna dove tutti possono soddisfare
i loro bisogni vitali senza fatica.
Il culmine di questa rappresentazione è raggiunto nelle tre lasse in cui è descritta
la meravigliosa rotazione della reggia su se stessa, ottenuta dalla canalizzazione del
vento che spira dal mare, che innesca anche una produzione di sonorità da parte
delle figure scolpite sulle colonne tale da farle apparire quasi viventi (vv. 354-361):
Si galerne ist de mer, bise ne altre venz,
Ki ferent al paleis <de> devers occident,
Il le funt turneer et menut et suvent,
Cumme roë de char qui a tere decent.
Cil corn sunent et buglent et tunent ensement
Cum taburs u toneires u grant cloche qui pent;
Li uns esgardet l’altre ensement en riant,
Que ço vus fust viarie que tut fussent vivant.
Carlomagno è sbalordito e i suoi paladini ancora di più: quando il meccanismo descritto si mette in moto, creando un contrasto fra la burrasca di fuori e la
quiete di dentro, i francesi perdono l’equilibrio e per il moto rotatorio del palazzo
ruzzolano a terra spaventati e alla mercé del loro ospite (“Ne pout ester sur pez, sur
le marbre s’asist. | Franceis sunt tut verset ne se poent tenir, | E covrirent lur ches
L., “Charlemagne and the Marvels of Constantinople”, in The Medieval Alexander Legend and Romance Epic,
Essays in honour of Davis J.A. Ross, edited by P. Noble, L. Polak, and C. Isoz, New York, 1982, pp. 159-171;
Trannoy, P., “De la technique à la magie: enjeux des automates dans Le voyage de Charlemagne à Jérusalem
et à Constantinople”, in Le merveilleux et la magie dans la littérature. Actes du colloque de Caen, éd. Gérard
Chandes, Amsterdam et Atlanta, 1992, pp. 227-252.
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et adenz et suvin”, vv. 387-389). Non si potrebbe dare raffigurazione più icastica
dell’inferiorità patita dai carolingi alla corte di Costantinopoli.7 Le caratteristiche
e le qualità intrinseche del meraviglioso utilizzato in quest’occasione vanno però
considerate più da vicino; ciò che appare incomprensibile, stupefacente e perturbante (giusta l’osservazione iniziale che il ‘meraviglioso’ sta tutto dalla parte della
ricezione, è un effetto, non una sostanza, forse nemmeno un accidente) in fondo è
il prodigio realizzato da un artefatto umano, da costrutti e congegni che trasformano positivamente degli elementi naturali (il vento, la tempesta).8 Siamo cioè nel
dominio che meglio si definirebbe come artificiale, in cui solo la insufficiente conoscenza, come già riconosceva Gervasio di Tilbury,9 può scorgere delle manifestazioni soprannaturali o addirittura delle illusioni diaboliche. L’imitazione e il dominio
della natura sembrano dunque le specialità del regno di Ugo il Forte, quindi dell’universo orientale, costantinopolitano, come è presentato nel Voyage de Charlemagne,
in contrasto e in competizione con l’universo occidentale, ‘parigino’ di cui è espressione l’imperatore Carlomagno. Si viene così a delineare una contrapposizione che
movimenta la dinamica di superiorità e inferiorità che governa la storia narrata
nel testo, a seconda che prevalga il meraviglioso ‘pagano’ o il miracoloso cristiano,
ma sarebbe forse meglio dire la tecnica che sa proseguire e addomesticare il mondo
naturale o la potenza soprannaturale che promana da lacerti e frammenti di realtà
materiali venuti a contatto con il divino: più riduttivamente, il profano o il sacro.
Anche la stanza in cui i francesi sono alloggiati dopo il lauto banchetto è ricca di
elementi meravigliosi e lussuosi (“Voltue, peinte a flurs, a peres de cristal”, v. 422),
dagli arredi alle coperte (“Duze liz i ad dous de quivre et de metal, | Oreillers de
velus e linçous de cendal”, vv. 425-426) all’illuminazione assicurata dal carbonchio
incastonato in un pilastro di età remota (v. 423); ma Carlomagno e i suoi dodici pari,
ristorati dal convivio e dalle libagioni, si prendono una sorta di rivincita immaginaria sulle esperienze sgradevoli che hanno subito fino a quel momento alla corte di
Costantinopoli e si abbandonano alle inverosimili millanterie, i gabs, che hanno reso
celebre il poemetto. Non è qui il caso di ripercorrere l’analisi di questi versi, che è stata
fatta più volte; dirò soltanto che, dal punto di vista che qui stiamo perseguendo, la
competizione con il sovrano orientale si appoggia essenzialmente su prodezze, prove
di bravura, exploits eccezionali, doti sovrumane, ma che restano appunto, anche per
l’essere più atti di parola che azioni concrete, prevalentemente nell’ambito dello straordinario sì ma terrestre, risultato dell’intensificazione e amplificazione di qualità fi-
7
8
9
Come ho argomentato altrove (cfr. Bonafin, M., Guerrieri al simposio..., op. cit., pp. 42-44) si attiva qui l’acme
della ridicolizzazione di Carlomagno e dei paladini; ma, siccome il testo è animato da una logica ambivalente
(come ogni buona parodia che si rispetti), questo abbassamento è narrativamente un passaggio necessario
in vista della supremazia finale ritrovata.
Cfr. Costantini, F., “I sensi ‘ingannati’: forme e funzioni dell’artificiale fra i secoli XI-XII”, Critica del testo, VIII
(2005), pp. 113-146., che prende in considerazione anche il nostro testo.
Secondo il quale sono meraviglie i fenomeni naturali che sfuggono alla nostra comprensione: il passo degli
Otia imperialia III è molto noto e citato da tutta la critica che si è occupata del meraviglioso medievale.
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siche, corporee, materiali.10 Accade insomma che i francesi fantastichino di misurarsi
con il loro rivale costantinopolitano sul suo terreno, cioè sulla possibilità di imitare,
addestrare e padroneggiare delle forze naturali, senza apparentemente ricorrere a o
invocare un ausilio soprannaturale. Ma questo può funzionare fintantoché si rimane
sul piano dell’immaginario, del gab, dello scherzo, della tracotanza verbale che non
vuole essere messa alla prova, dei messaggi di dominanza e di minaccia, come direbbero gli etologi.11 Grande è la sorpresa, quindi, quando il re Ugo il Forte, venuto a
sapere dei contenuti dei discorsi di vanto dei suoi ospiti, chiede loro di realizzare sul
serio e immantinente le imprese di cui si sono proclamati capaci prima di coricarsi.
La scena dello scambio verbale fra i due sovrani mette a confronto emblematicamente i due ambienti in cui sono collocati: Ugo il Forte, attorniato dalle sue milizie
armate, nel suo palazzo (“E mandet de ses humes en avant de cent mile, | Il lur
ad cumandet qu’aient brunies vesties, | E capes afublez, ceint espees burnies; | Il
entrent al palais <et> entur lui s’asistrent”, vv. 634-637), Carlomagno, invece, all’uscita della chiesa dove ha ascoltato la messa, con un ramo d’ulivo in mano (“Karles
vint del muster, quant la messe fu dite, | Il et li duze per, les feres cumpainies; |
Devant vait l’emperere, car il est li plus riches, | E portet en sa main un ramisel d’olive”, vv. 638-641). La corte e la chiesa, le armi e l’ulivo. Invano l’imperatore propone
dapprima un risarcimento (v. 658); di fronte all’irremovibilità del re, si raccoglie
con i suoi in un luogo appartato, facendosi portare le reliquie e pregando Dio che
lo salvi dal pericolo in cui si trova (vv. 667-677):
E ad fait les reliques aporter devant lui:
A ureisuns se getent, s’unt lur culpes batud,
E priënt Deu del cel et la sue vertud,
Del rei Hugun le fort qu’il les garisset ui,
Qui encontre lur est <si> forment irascuz.
Atant es vus un angele qui Deus i aparut,
E vint a Carlemaine, si l’ad releved sus:
“Carles, ne t’esmaer, ço te mandet Jhesus!
Des gas qu’ersair desistes, grande folie fud;
Ne gaberez mes hume, ço cumandet Christus!
Va, si fai cumencer, ja n’en <i> faldrat uns”.
Ecco dunque che ricompare l’elemento meraviglioso cristiano, nella figura dell’angelo che, sì, rimprovera Carlomagno per essersi lasciato andare a dire delle cose sconve-
10 Con l’eccezione di Bernardo (lassa XXXII) che promette di far uscire dall’alveo l’acqua di un fiume per allagare
la città, ma non si capisce come possa fare, e di Ademaro (lassa XXXIV) che sembra ricorrere a un copricapo
che lo rende invisibile (ma il testo non è del tutto perspicuo).
11 Ho verificato il rendimento di un approccio di antropologia biosociale al riso e a testi comici medievali in una
precedente occasione: cfr. Bonafin, M. “Rire, comique et parodie médiévale à la lumière d’une théorie biosociale”, in Ravy me treuve en mon deduire. Mélanges en l’honneur de Jean Dufournet, a cura di E. Gaucher e
L. Pierdominici, Fano, 2011, pp. 13-35.
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nienti, i gabs, ma promette quel soccorso soprannaturale di cui i francesi hanno bisogno
in questo frangente. Alle meraviglie e agli artifici del mondo di Costantinopoli si contrappongono le reliquie e i miracoli di chi è stato pellegrino a Gerusalemme.12 Il testo
declina quindi nelle diverse fenomenologie del meraviglioso il conflitto di poteri che
incarnano i due sovrani: il potere assoluto nell’ordine terreno e profano, che si estrinseca anche nel dominio delle forze naturali, come s’è visto, e il potere conferito dal sacro,
dall’alleanza con la divinità che assicura una protezione e un aiuto soprannaturale.
Perciò, se l’effetto della reggia rotante e dei suoi suoni sugli ospiti francesi aveva
confermato ed esibito la loro inferiorità rispetto al regno d’oriente (già espressa dal
confronto sul piano delle ricchezze materiali), ora, con la prova dei vanti a cui devono sottostare, ma forti dell’appoggio divino, si offre loro la possibilità di ribaltare
quella situazione, di surclassare Ugo il Forte, circoscrivendo quella temporanea
inferiorità al solo dominio umano e profano.
Il re di Costantinopoli sceglie dunque i paladini che dovranno realizzare ciò di cui
si sono vantati e comincia con Olivieri: il conte, che aveva dichiarato di poter copulare
con la principessa cento volte in una sola notte (“Ci astat Olivers qui dist si grant folie, | Qu’en une sule nuit avreit cent feiz ma fille”, vv. 693-694), viene messo in camera
con la fanciulla e, con le sue buone maniere, ne ottiene la complicità necessaria ad
assicurare all’incauto genitore (“Cele fud ben curteise, si l’en plevit sa fei”, v. 725), il
giorno dopo, che la prodezza erotica è stata pienamente portata a termine.13 Come
si vede, apparentemente, il gab viene compiuto senza l’intervento di un aiuto miracoloso, data anche la natura dell’azione e il regime comico-fiabesco da cui ha probabilmente origene,14 eppure il commento con cui Ugo il Forte esprime il suo vivo disappunto certifica la componente magica e quindi preternaturale (“Li primers est gariz.
Encantere est, ço crei!”, v. 733) denunciando Olivieri come operatore di incantesimi.
Il secondo paladino scelto per mettere in pratica la sua millanteria è Guglielmo,
che deve sollevare una sfera, lanciarla e con essa demolire una larga parte del muro
del palazzo reale: anch’egli riesce a fare ciò che ha detto, ma, pur essendo uno degli
eroi epici più connotato dalla forza sovrumana, il testo non lascia dubbi sull’ausi-
12 Un altro indizio sottotraccia della frizione fra i due universi culturali raffigurati nel testo potrebbe essere nella
serietà monovalente di Ugo il Forte e del suo entourage, che gl’impedisce di riconoscere nelle parole dei francesi
il tono di scherzo, di vanteria eccitata dall’alcol e pure di ammettere che si tratta, per loro, di una consuetudine,
di un’abitudine dei gruppi maschili al seguito di un capo – anche se, beninteso, un tale riconoscimento di
una peculiarità culturale sarebbe parimenti impensabile da parte carolingia – una sorta di monologismo, o di
binarismo rigido, a fronte del quale spicca l’ambivalenza, la capacità di tenere insieme serio e comico, sacro e
profano, da parte dei francesi e, si capisce, dell’autore del poemetto che con loro si identifica.
13 Per i dettagli di questo, come degli altri gabs, non posso che rinviare alla mia edizione: cfr. Bonafin, M., Viaggio
di Carlomagno in Oriente, Alessandria, 2007.
14 Come dimostrato altrove (cfr. Bonafin, M., Guerrieri al simposio..., op. cit.), se i gabs rappresentano la
declinazione epica della funzione fiabesca dei compiti difficili imposti all’eroe dal suocero ostile per provare
di essere fornito di quelle doti sessuali e magiche che lo rendono degno di sposare la principessa e succedere
al trono, alla morte del vecchio re, l’esagerazione erotica della performance di Olivieri riflette e parodizza gli
exploits di cui spesso i cavalieri sono inclini a vantarsi, senza contare che protagonista ne è qui il paladino eroe
della prudentia e della moderazione nella Chanson de Roland.
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lio divino di cui ha goduto (“Ne fu mie par force, mes par <la> Deu vertud, | Pur
amur Carlemaine, chi.s i out acunduit”, vv. 751-752), per il favore dell’imperatore.
Il commento di Ugo il Forte ripete sconfortato lo stupore di essere di fronte a dei
maghi (“Ces sunt ancanteür qui sunt entret ceenz”, v. 756).
Infine tocca al conte Bernardo che, per assicurarsi la riuscita della sua insolita
vanteria di allagare tutta la città, chiede a Carlomagno di pregare Iddio e si accinge
a benedire le acque perché realizzino ciò di cui si è dichiarato capace (“E dist a Carlemaine: “Damnedeu en priez!” | Il vent curant a l’ewe, si ad les guez seignez, | Deus
i fist <tels> miracles, li glorius del cel”, vv. 772-774). Ed è ciò che avviene: si noterà
incidentalmente il crescendo nell’enfasi sul contributo miracoloso alla riuscita dei
vanti, dal grado zero di Olivieri (solo il commento del re denuncia la presenza di una
magia), al primo grado di Guglielmo (la cui forza è in un certo senso trasvalutata nel
miracolo di Dio), al secondo grado di Bernardo (che abbina preghiera e benedizione,
senza metterci nulla di suo). L’inondazione causata è tale da provocare la resa definitiva di Ugo il Forte a Carlomagno, il quale prova cristiana pietà per il re e quindi nuovamente ricorre alla preghiera per far rifluire le acque nel loro alveo (“Quant l’entend
l’emperere, pitet en a mult grande | Envers humilitet se deit eom ben enfraindre | E
priët a Jhesu que cele ewe remaignet. | Deus i fist grant vertut pur amur Carlemaigne”, vv. 788-791). Si sarà notato quanto il testo sia esplicito nel far sottolineare dal
re di Costantinopoli non soltanto il successo dei paladini nelle loro bizzarre e iperboliche azioni, ma anche il fatto che essi hanno dalla loro parte un alleato in più, una
potenza sacra che li sostiene e difende e di cui invece egli non può godere il favore.
Ottenuta dal suo rivale piena soddisfazione con un solenne corteo in cui tutti
possono vedere con i propri occhi la superiorità dell’imperatore di Francia, Carlomagno si reca ancora una volta in chiesa, il luogo in cui meglio si può esprimere la
sua solidarietà con il divino, la loro reciproca alleanza (“Il entrent al muster cum issent de l’encloistre; | L’arcevesques Turpins, ki maistre fud des ordres, | Il lur cantat
la messe et li barnez i ofret”, vv. 827-829). Non stupisce dunque che il poemetto si
chiuda là dove tutto era cominciato, nella chiesa di Saint-Denis, con la distribuzione delle reliquie, che tanto gli hanno già giovato, e con il perdono della regina, per le
sue parole avventate, da parte di chi si è messo alla prova e l’ha superata grazie alla
forza soprannaturale aumentata dalla venerazione del Santo Sepolcro (vv. 864-870):
Karlemaines se culcget a oreisuns, li ber:
Quant il ad Deu preiet, si s’en est relevez,
Le clou et la corune si ad mis sur l’auter
E les altres reliques depart par sun regnet.
Iloec fud la reïne, al pied li est alet,
Sun mautalent li ad li reis tut perdunet,
Pur l’amur del Sepulcre que il ad auret.
Il Voyage de Charlemagne visto nell’ottica dell’utilizzazione del meraviglioso tematizza dunque un conflitto netto fra il soprannaturale cristiano, di cui è investito
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Carlomagno, e il meraviglioso profano, di cui è signore Ugo il Forte; e non c’è dubbio che il conflitto si risolva a favore del primo.
Ci si può domandare a questo punto come si concilia questo piano semantico con
gli altri che la critica ha nel tempo messo in luce e, di volta in volta, valorizzato come
preponderanti. La questione è forse troppo ampia per essere analiticamente discussa
in queste righe conclusive, ma merita almeno un supplemento di riflessione.
La figura dell’imperatore col seguito dei suoi dodici pari esce certamente vincitrice nel confronto con il sovrano orientale, ma non ci si può fermare a questa
banale constatazione di fronte a un testo così ricco di determinazioni ideologiche
e semantiche. Carlomagno è superiore a Ugo il Forte, ma il modo in cui il poemetto rappresenta questa gerarchia è ambiguo: la scena in cui i due monarchi sfilano
insieme così che tutti vedano come il francese stia e sia più in alto del suo rivale
(“Karlemaines portat la grant corone a or, | Li reis Hugue la sue plus basement un
poi: | Karlemaines fud graindre <un> plein ped et tres pouz”, vv. 809-811) potrà forse apparire ingenua, ma è anche indubbiamente comica, per la specificazione della
misura esatta di quella superiorità. E Carlomagno è senz’altro riuscito vincitore perché ha dalla sua parte la benevolenza divina, espressa nell’aiutante soprannaturale
(l’angelo e le reliquie), insieme però a quell’improbabile comandamento aggiuntivo
di non pronunciare più dei gabs, e in un certo qual senso compromessa dall’abbassare l’intervento di Dio al compimento di atti tutt’altro che commendevoli. Ma senza
la risorsa del sacro, conferitagli dal Patriarca di Gerusalemme e mobilitata ad hoc,
l’imperatore nell’universo profano, cioè nel mondo comune, di tutti, è costantemente in difficoltà: la consorte lo sfida davanti a tutti e ne mette in dubbio la potenza
e il carisma, al punto che egli deve dapprima nascondere ai suoi pari il vero scopo
del viaggio, pretendendo di aver sognato di dover andare in Terrasanta; a Costantinopoli, si è visto, i francesi sono a tal punto a disagio da soccombere di fronte
alle meraviglie meccaniche e architettoniche del palazzo reale e da abbandonarsi a
riscatti immaginari a pancia piena, da soli (credendo di non essere ascoltati) e fra
i fumi dell’alcol. I contenuti dei vanti che essi pronunciano sembrano a bella posta
modellati parodicamente sulle caratteristiche serie di ognuno di loro, per quanto si
conosce delle leggende e dei testi che li riguardano. La parodia, infatti, è un altro dei
registri a cui il Voyage de Charlemagne ricorre nella sua raffinata tessitura stilistica e
narrativa: non la parodia grettamente intesa e spesso anche in modo corrivo dalla
critica letteraria moderna (avvezza a ben altro tipo di opere, fortemente individualizzate), ma la parodia nel senso ampio e profondo di un’attitudine dialogica e ambivalente, che si avvale di una modalità serio-comica in grado di mostrare la dinamica
dei valori contrapposti, l’avvicendamento dei ruoli e delle gerarchie, l’instabilità e la
contraddizione, piuttosto che il piatto e rigido rovesciamento dell’alto nel basso.15
15 Sottintendo qui, ovviamente, il magistero bachtiniano: cfr. Bonafin, M. Contesti della parodia. Semiotica,
antropologia, cultura medievale, Torino, 2001 per una disamina più ampia e bibliograficamente corredata.
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Non mi soffermo poi sull’adibizione del modello narrativo folklorico, sull’impianto fiabesco sottostante al racconto e in grado di validarne l’unità strutturale
e morfologica quanto di illuminarne molti dettagli del significato. Né richiamerò
qui la problematica dei generi letterari, che può far apparire nella trama del poemetto il contrasto fra l’universo delle canzoni di gesta e quello del romanzo (di
materia antica e arturiano).16
Questa pluralità di sfaccettature interpretative dice anche della ricchezza del testo, che non si lascia rinchiudere nell’esegesi storico-erudita che lo vorrebbe inchiodare all’intentio auctoris, peraltro difficilmente attingibile dopo otto secoli, ma si apre
alle sollecitazioni e agl’interessi dei lettori che il tempo gli ha assicurato in forza della
sua polisemia, del suo fascino narrativo, della sua piacevolezza estetica: qualità che
sono perlopiù proprie dei ‘classici’ o comunque della letteratura di rango. In definitiva, il Voyage de Charlemagne esemplifica la povertà delle letture rigide e monovalenti,
incoraggiando invece le letture flessibili e ambivalenti,17 cioè in grado di concepire e
restituire nel testo una visione contraddittoria e dinamica del reale rappresentato.
Fecha de recepción / date of reception / data de aceptación: 23-III-2021
Fecha de aceptación / date of acceptance / data de aceptación: 21-IV-2021
16 Da questo punto di vista, non sarebbe azzardato paragonare la translatio imperii del Voyage de Charlemagne alla
translatio studii del Cligès di Chrétien de Troyes.
17 Il suo più recente editore parla, in un senso non dissimile, di una “double rationalité” sottesa al testo: cfr.
Corbellari, A. L’épopée pour rire. Le Voyage de Charlemagne à Jérusalem et à Constantinople et Audigier, Paris,
2017, p. 51.
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