Papers by Enrico Santangelo
Per quanto siano rari gli studi dedicati alla storia antica di San Valentino in Abruzzo Citeriore... more Per quanto siano rari gli studi dedicati alla storia antica di San Valentino in Abruzzo Citeriore, è opinione comune-diffusa ed amplificata soprattutto sui siti Internet-che la primigenia denominazione del borgo sia duplice: accanto al nome prevedibile di "Sanctus Valentinus" sarebbe infatti documentato anche quello di "Castrum Petrae"; l'odierna promozione del luogo sembra peraltro fare leva sull'assunzione strategica di questo secondo e più suggestivo riferimento, tanto da vederlo sempre più utilizzato a vario titolo: una legittimazione che sembra tuttavia provenire principalmente dal web e dalla sua autorità indiscussa nel veicolare ormai anche la conoscenza storica. La stessa duplicità di tale denominazione convive acriticamente, come apprendiamo anche sul sito istituzionale del Comune: «Castrum Petrae e Sanctus Valentinus sono le denominazioni riportate nel Chronicon». Facendo evidentemente riferimento al celebre Chronicon Casauriense, scritto nel 1182 dal monaco Giovanni di Berardo su incarico di Leonate, abate dell'abbazia di San Clemente a Casauria, in particolare vi si fa risalire la sua fondazione al 12 luglio 1006 allorché «l'abate Giselberto concesse ai figli di Lupone, Wido, Sifredo e Senebaldo una porzione di terreno in località Zappino» 1. Wikipedia-ritenuto ormai l'autorevole punto di riferimento a garanzia della veridicità di quanto passa in rete-se da un lato conferma la data di fondazione nell'anno 1006, fornisce tuttavia un'indicazione toponomastica sensibilmente diversa, in quanto vi leggiamo che «fino al 1182 [data della redazione del Chronicon ndr] era nota come Castrum de Petra», e «successivamente prese il nome recente a causa del martirio dei fratelli Valentino e Damiano presso un borgo della località Zappino» 2. Preso atto di questa dinamica culturale, sembra opportuno verificare, sulla base documentaria, l'attendibilità dei contenuti enunciati, al fine di scongiurare che un'affermazione perentoria, solo perché ripetuta e moltiplicata acriticamente, finisca definitivamente per diventare verità acquisita. 1 Il testo integrale: «La storia di San Valentino e le prime notizie sul castello medievale sono legate alla vicina Abbazia di San Clemente a Casauria e si desumono dal Chronicon Casauriense del XII secolo (1182). Il cartularium fu scritto dal monaco Giovanni di Berardo, su incarico dell'abate Leonate, e fa risalire la data di fondazione il 12 luglio 1006, quando l'abate Giselberto concesse ai figli di Lupone, Wido, Sifredo e Senebaldo una porzione di terreno in località Zappino, citato anche nel Catalogus baronum (1152)». Castrum Petrae e Sanctus Valentinus sono le denominazioni riportate nel Chronicon (cfr. https://scoprisanvalentino.com/it/palazzo-farnese). 2 «Fino al 1182 era nota come Castrum de Petra sul Chronicon casauriense dell'abbazia di San Clemente a Casauria, e successivamente prese il nome recente a causa del martirio dei fratelli Valentino e Damiano presso un borgo della località Zappino» (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/San_Valentino_in_Abruzzo_Citeriore).
artista probabilmente "minore" del panorama del XVI secolo abruzzese ma stimolante perché ancora ... more artista probabilmente "minore" del panorama del XVI secolo abruzzese ma stimolante perché ancora in parte enigmatico, è stata oggetto di una recentissima, necessaria ricapitolazione a tutto tondo da parte di Gianluigi Simone, il quale nel ricostruirne la personalità artistica ne ha peraltro ampliato il catalogo, aggiungendo all'esiguo repertorio di sculture alcuni numeri significativi 1. Sebbene si tratti di un plasticatore di non alto profilo, specie se paragonato ai "grandi" della scultura rinascimentale aquilana (il che vale a dire "abruzzese" tout court), Troiano de Giptiis suscita più di un interesse proprio per questa patente affiliazione a quella che può essere considerata una vera e propria "scuola" occupando-dalle prime esperienze di un Andrea dell'Aquila (e già con esiti più che rilevanti)-un'intera stagione artistica e percorrendo per circa un secolo l'intero territorio abruzzese, tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del Cinquecento.
La chiesa di San Pietro in Valle nel Comune di Caporciano, se affascina per la sua suggestiva pos... more La chiesa di San Pietro in Valle nel Comune di Caporciano, se affascina per la sua suggestiva posizione immersa nella natura, suscita anche più di un interesse sotto il profilo storico-artistico per le complessità inaspettate che si racchiudono all'interno di un piccolo edificio, di cui presto si dirà.
Un inedito fregio scultoreo medievale proveniente dal Santuario della Madonna dell'Elcina ad Abba... more Un inedito fregio scultoreo medievale proveniente dal Santuario della Madonna dell'Elcina ad Abbateggio
Per l'arte in Abruzzo, 2017
Per l'arte in Abruzzo, 2017
Ancora sull'attività abruzzese di Bernardino Monaldi. La tela di Caporciano, 2020
Un nuovo, felice trovamento -che qui si presenta -giunge a riproporre con forza il problema della... more Un nuovo, felice trovamento -che qui si presenta -giunge a riproporre con forza il problema della permanenza e dell'attività in Abruzzo del pittore fiorentino Bernardino di Lorenzo Monaldo, a cavallo tra i secoli XVI e XVII.
Per l'arte in Abruzzo, 2017
Per l'arte in Abruzzo, 2017
Confronto Studi E Ricerche Di Storia Dell Arte Europea, 2008
Il corredo pittorico della chiesa di S. Panfilo intra-moenia si compone di varie tele esposte sul... more Il corredo pittorico della chiesa di S. Panfilo intra-moenia si compone di varie tele esposte sulle pareti laterali della navata unica. Tra queste, un gruppo omogeneo inquadrabile tra la fine Settecento e il primissimo Ottocento, da credere allogate ab origine nelle sedi attuali, può essere agevolmente ricondotto allo stesso artista, il pennese Giuseppangelo Ronzi. Due di queste risultano firmate, ovvero la tela che raffigura San Panfilo vescovo in cattedra ((JOSEPH: ANG: RONZI / INV: T PINX: 1794) e quella con la Madonna del Carmelo e i santi Nicola di Bari e Pietro (JOSEPH ANGELUS RONZI INVENT:) 1 ; in particolare nella tela del San Panfilo compare in basso a destra lo stemma del committente, la famiglia Figliola, da identificare probabilmente nel duca Pietro o meglio nel suo congiunto don Giuseppe, dal primo nominato Prevosto di Spoltore 2 . Le evidenti assonanze stilistiche -caratterizzate nella tipica compostezza quasi ieratica dei personaggi e in una semplicità e chiarezza "accademica" che introduce già in un clima neoclassicoinducono ad ascrivere all'artista pennese anche il Riposo dalla fuga in Egitto, la Madonna che libera San Tommaso dalle tentazioni, e lo stesso San Michele Arcangelo, dove i demoni nella posizione riversa a testa in giùsebbene esemplati su modelli tardo-seicenteschi, da Reni ma con componenti giordanesco-riberesche 3sono riconducibili ad un ricorrente campionario fisionomico. Un'assegnazione al Ronzi, ma forse già di Ottocento avanzato, può proporsi anche per la pasticciatissima tela raffigurante un Santo papa in adorazione della Vergine (forse san Pietro Celestino, come proposto dal Pace, sebbene in un'iconografia insolita, a meno di ritenere la barba verosimilmente aggiunta successivamente). Occorre osservare come -nel panorama della produzione pittorica "autoctona" del secondo Settecento, escludendo cioè le numerose importazioni extra-regionali 4 -la figura di Ronzi spicchi per la prolificità della sua produzione, sebbene i suoi esiti avanzino di poco i casi ancor più modesti di varie altre personalità locali. Se inoltre i pittori abruzzesi agiscono per lo più in un ambito ristretto, essenzialmente legato al circondario della propria municipalità (come accade per l'aquilano Bernardino Ciferri, il chietino Donato Teodoro, il "peligno" Domenico Gizzonio), l'attività di Giuseppangelo Ronzi copre un raggio di azione significativamente più ampio, di portata abruzzese tout court, spaziando da Lanciano a Bisenti, da Caramanico a Celano, pur concentrandos'intendein ambito vestino-pennese la maggior parte delle sue realizzazioni. All'interno del più generale fenomeno di "rioccupazione" della scena regionale, sul limitare del secolo XVIII, da parte delle espressioni "autoctone", la prevalente deriva provinciale -che nello stesso periodo sperimentiamo con i più oscuri Francesco Salvatori e Giovanni Della Valle -è scongiurata a Penne da due singolari figure, Domiziano Vallarola 5 e appunto Giuseppangelo Ronzi. Madonna del Carmelo e i santi Nicola di Bari e Pietro (JOSEPH ANGELUS RONZI INVENT:) Riposo dalla fuga in Egitto (attr.) San Michele Arcangelo (attr.) Catignano, S.
Tra le molteplici sollecitazioni che il poderoso Editoriale di Ferdinando Bologna (apparso sui nn... more Tra le molteplici sollecitazioni che il poderoso Editoriale di Ferdinando Bologna (apparso sui nn. 0 e 1 della neo-nata rivista di studi e ricerche di storia dell'arte europea «Confronto») può continuare a suscitare ad ogni sua saggia rilettura, sembrano potersi enucleare queste tre esortazioni: studiare la storia dell'arte attraverso i documenti offerti dalla contingenza storica; indagare le peculiarità espressive che "intrinsecamente" il linguaggio figurativo possiede in quanto strumento di comunicazione del pensiero (anzi quale forma di "oggettivazione" del pensiero); diffidare di contro di quelle categorie extra-artistiche o meta-storiche che vorrebbero per certi versi quasi prescindere dal fatto artistico stesso, per cercare intenzionalità ed ideologie dell'artefice al di là perfino della perentorietà del testo, fino a consentire ad esempio a Massimo Firpo -aderendo in tal modo all'«officio della religione» piuttosto che al «mestiero del dipingere» -di ricostruire la sensibilità religiosa di Lotto al di là della sua produzione artistica (e dove si ritrova quasi un'eco delle affermazioni del Longhi, ad andarsi a rileggere le storiche «Proposte per una critica d'arte» del 1950, quando avvertiva dei rischi di scivoloni da parte della critica d'arte verso un «esprit de géometrie» che non tenesse in buon conto quello di «finesse»). Questa pur estrema semplificazione interpretativa di un pensiero evidentemente più alto, può tuttavia giovare come introduzione di metodo allo studio dei cosiddetti "manifesti artistici" di tante avanguardie del Novecento (ma chiamando in causa non tanto i movimenti storici in séche rientrano a buon titolo nell' "oggetto" dell'indagine -quanto alcuni atteggiamenti critici che le hanno analizzate). Epperò anche guardando ai "manifesti in sé", gli ammonimenti di approccio teorico e metodologico riaffermati da Bologna inducono quantomeno a virgolettare anche taluni programmi di intenti (qualora fossero riguardati, ad esempio, come sorta di "critica ante rem"), dovendosi in realtà anche in quel caso prestare attenzione al dato in sé, come fattore significante e qualificante, ovvero all'esito effettivo che l'opera d'arte ha prodotto sul pubblico e nel tempo, rispetto alle intenzioni a monte, più o meno esplicitate appunto programmaticamente dai manifesti, così come rispetto alle poetiche individuali quando sono dichiarate. In particolare, interrogandoci sul portato effettivo della vantata pittura "metafisica" di Giorgio De Chirico (autodefinizione sì, ma accordata dalla critica, e che le recenti mostre di Merano e di Roma hanno anzi sembrato rilanciare), viene da porsi la seguente questione: in che senso la pittura di Giorgio De Chirico può realmente chiamarsi "metafisica" stando almeno all'accezione strettamente filosofica che diamo al termine con cui De Chirico volle definire quella sua stagione artistica, al di là cioè di un'accezione contingente, riformulata e in qualche modo aggiornata da parte della cultura contemporanea? Sembra in sostanza problematico -pur nella consapevolezza di una rivisitazione attuata dalla filosofia tardo-ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della mitologia greche -in primo luogo inquadrare tout court la reale portata semantica di una possibile "metafisica" agli esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali nuovi rapporti possa stabilire una teoria puramente filosofica -per quanto, appunto, "rivisitata" -con il manifesto programmatico della pittura dechirichiana, la quale per suo conto si configura in realtà come la mera "poetica" dell'artista (che è cosa ben diversa rispetto ad una più generale e fondante teoria estetica). Non si tratta pertanto, e ovviamente, di una qualche censura dell'elaborazione teorica di De Chirico -della quale non possiamo, con buona pace delle riserve longhiane, che prendere attoma della constatazione di come la critica non abbia forse affrontato sufficientemente il problema della decodificazione di una citazione tolta dal pensiero antico -e che a mio avviso nella sostanza resta invece relegata nella cultura greca -, e non si sia in realtà preoccupata dei riscontri "pittorici" di quell'elaborazione teorica.
Una trattazione consapevole del patrimonio storico-artistico presente nella Provincia di Chieti p... more Una trattazione consapevole del patrimonio storico-artistico presente nella Provincia di Chieti porta con sé il problema, non facile, di circoscrivere ed arginare -secondo una partizione moderna, anzi recente, quale è appunto l'acquisizione della provincia -una vicenda che non solo si è sviluppata in contesti geo-storici diversi e ben più vasti, ma dove i nessi più strettamente artistici si riannodano con ancor più estesi, e complicati, svolgimenti. Risulta evidente, cioè, come l'accezione di "provincia" modernamente intesa appaia quasi un'astrazione, nella perentorietà del suo mero dato amministrativo, rispetto ad un'articolazione di fatti artistici precedenti, i quali per giunta non sempre -nemmeno al tempo delle più antiche organizzazioni monarchiche -si sono prodotti secondo una stretta coerenza con l'assetto geo-politico dominante; né può giovare la constatazione che, comunque, l'attuale Provincia di Chieti non costituisce una nuova sintesi ma appare come un "sottoinsieme" delle realtà politiche precedenti, e resterebbe pertanto, da questo punto di vista, un territorio omogeneo, coerente: dall'osservazione dei complessi influssi culturali ed artistici prodottisi resta in ogni caso non estraibile una formula che ne preservi un'identità culturale significante in sé, alienabile da nessi vincolanti con altri contesti. L'unica scelta possibile dunque, constatato questo sostanziale scollamento ma volendo restare fedeli all'impegno assunto, è quella di prospettare una ricognizione geo-artistica tesa a mettere in luce ciò che, sul territorio oggi delimitato da questa sovrapposizione amministrativa, da un lato si è prodotto artisticamente nel corso dei secoli, e dall'altroanzi soprattutto -vi è attualmente presente. Se il primo criterio risponde più coerentemente all'istanza di continuità fisica tra passato e presente, il secondo è un hic et nunc, e non a caso ha a che fare essenzialmente col sistema museale. Il criterio discriminatore da impiegarsi nella selezione delle emergenze artistiche significanti, finirà pertanto per essere quello che consente l'individuazione di una possibile peculiarità identitaria della provincia, esigenza che si sostanzia soprattutto attraverso le sue emergenze "fruibili", visitabili e tangibili sul territorio, al di là cioè di quella che sia stata la più generale vicenda di fatti artistici a volte perduti, a volte modificati o stravolti; ed accogliendo come propri, invece, anche oggetti provenienti da altri territori (o per dire meglio, che oggi il contenitore "provincia" finisce per percepire come tali, cioè come "altri" da sé): è il caso ad esempio dei due comparti laterali dello smembrato polittico del Maestro dei Polittici Crivelleschi, oggi conservato nel Museo Costantino Barbella di Chieti, ma proveniente dal convento dei Minori Osservanti di Santa Maria del Paradiso a Tocco da Casauria. Raramente il territorio "chietino" si configurerà inoltre, nella trattazione presente, come luogo speciale della produzione artistica (eccezione fatta, forse, per il Settecento, dove il ruolo attivo della committenza ecclesiastica teatina agisce come promotore di campagne di interventi molto significativi, ed estesi ad ampie aree di pertinenza): esso si rivela sovente terra di passaggi di artisti e di presenza di opere, ma quasi sempre le matrici rimandano ad altri ambiti; se i richiami sono interni all'Abruzzo, è sovente chiamato in causa il contesto aquilano. Così saranno spesso necessari rinvii ad altre città abruzzesi, in quanto strettamente collegate con le realtà politico-economiche ma anche con le attività artistiche di quelle rientranti nel territorio provinciale: non si può ad esempio comprendere la vicenda artistica di Guardiagrele senza uno sguardo costante su Manoppello (ora in provincia di Pescara). Così non è immune da questo nesso la città di Ortona, la quale, ma è giusto un esempio, nel 1251 chiama lo scultore Luca di Manoppello per realizzare la fontana detta del mare 1 1 V. BALZANO, L'Arte abruzzese, Bergamo 1910, p. 19. Luca da Manoppello è noto soprattutto per la fontana realizzata a Teramo nel 1270, la cui epigrafe è conservata nella chiesa di San Giuseppe Metodologicamente, il profilo storico-artistico qui proposto prende avvio dal secolo XI, coerentemente con la nascita, più in generale, di quell'arte "delle origini" che -tutt'altro che disegnare un'arte "italiana" -si riconosceva però in valori estetici nuovi e comuni. La fase ancora più antica, che spazia dal periodo italico al tardoantico e all'alto medioevo, sarà argomento interno alla sezione finale, relativa al sistema museale, nella constatazione che le testimonianze di civiltà artistica conservate nei numerosi musei presenti sul territorio provinciale sono prevalenti rispetto a quelle presenti in situ. Non si tratta, peraltro, di un'inversione cronologica, in quanto ciò che consente la nuova fruizione di tali istanze artistiche, ovvero la sistemazione museale dei reperti, è testimonianza vivace della nuova stagione culturale almeno tanto quanto lo è delle stagioni antiche che si rievocano. La ragione contingente, in un certo senso "l'occasione" del presente contributo si giustifica -almeno nella sua portata di ricapitolazione generale dello stato degli studicome estensione alla provincia di Chieti di una recentissima stagione di studi che si è occupata massicciamente delle esperienze artistiche in altri territori regionali, come è accaduto soprattutto per quella che è stata l'antica provincia teramana (prima del 1927). Non si dirà dei limiti dei precedenti approcci della cultura erudita, la quale, per quanto utile nella raccolta di dati documentari altrimenti perduti, anche nelle più recenti esperienze ha prodotto l'effetto della stasi degli studi stessi, fermi nella migliore delle ipotesi, per dirla col Bologna, a «scrivere lo scritto». Ma occorrerà rammentare il modo con cui è stato lungamente trascurato il periodo a cavallo tra il Cinque e il Seicento, in parallelo con il più generale ostracismo toccato a quella che è oggi riconoscibile come "arte meridionale" tout court e che fortunatamente gli studi del Bologna prima e del Previtali e del Leone de Castris poi hanno progressivamente riabilitato. Sembra fare eccezione, tra gli studiosi di fine Ottocento di cose abruzzesi, Vincenzo Bindi, il quale nella sua monumentale opera Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi lascia dichiarazioni sorprendenti -dette qui in riferimento all'arte napoletana ma che potremmo allargare al problema meridionale e quindi anche al caso abruzzese -, sembrando quasi anticipare le relativamente recenti conclusioni del Previtali, quando afferma: «gli scrittori che tennero dietro al Vasari, seguirono le orme di lui; e gli artisti Napoletani, dimenticati, disprezzati e peggio, non ebbero diritto alla venerazione ed alla riconoscenza dei posteri: non si volle riconoscere l'esistenza di una scuola e di una arte Napoletana, già fiorente fin dai tempi Ducali, tempi gloriosissimi per Napoli, Benevento, Amalfi, Salerno, Ravello, Capua: arte, la quale progredendo sempre nei secoli posteriori, splendida apparve durante il glorioso regno dei Normanni e degli Svevi; né tener presente la differenza ed il fare diverso che distingue Francesco e Fabrizio Santafede, Bernardo Lama, Cavallini, Falcone, del Po, Micco Spadaro, Salvator Rosa, Luca Giordano, Giacinto Diana, il Solimena, e gli artisti dell'altre scuole italiane» 2 . In questo passo Bindi, riscoprendo biografi come il De Dominici e l'abate Lanzi, pare peraltro indicare il recupero di alcuni contributi storiografici oggi ritenuti fondamentali per lo studio dell'arte meridionale. Detto questo in via di principio, occorre avvertire che le espressioni locali -e del territorio esaminato, in specie -non sempre esprimono valenze artistiche di qualità, ed i limiti prodotti di contro da un certo isolamento non saranno sottaciuti in questa sede, come si avvertirà in particolare per il secolo XVII. Con i doverosi excursus extraterritoriali, e le necessarie citazioni delle molte importazioni culturali, sarà tuttavia possibile ritrovare, nel circoscritto distretto "chietino" (dal 1927 ancor più ristretto, come noto, con la cessione alla neonata provincia pescarese di una parte consistente e artisticamente significativa del suo territorio) le istanze più sincere di una sintesi abruzzese a cui, senza scadere nelle angustie del regionalismo, si riconoscono connotati di originalità e valori artistici propri. Ma, si diceva, nella molteplicità dei rimandi non va intesa una limitazione, quanto piuttosto il suo contrario: la partecipazione feconda ad una più vasta vicenda artistica. Così nel postulare il rapporto contingente, anzi volto ad aggiornarsi caso per caso, tra importazioni e prassi locale si rifiuterà di aderire alla prevedibile opposizione tra centro e periferia, almeno nel modo in cui è stata posta dalla critica. (MAGISTER LUCAS DE MANUPPELLO FECIT HOC OPUS). 2 V. BINDI, Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, Napoli 1889, p. 772.
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