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Le leggende del castello nero e altri racconti
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E-book161 pagine2 ore

Le leggende del castello nero e altri racconti

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Le leggende del castello nero (e altri racconti), di Iginio Ugo Tarchetti, racchiudono l’essenza della narrativa gotica italiana di quel movimento controverso che fu la Scapigliatura. Citando dalla prefazione di Luigi Bonaro, “la scrittura di Tarchetti si configurerebbe come un racconto del perturbante, volta alla ricerca del macabro, del demoniaco e dell’orrido”.
All’interno del volume sono contenuti i racconti Le leggende del castello nero, i Fatali, La lettera U, Un osso di morto, Storia di una gamba, Il lago delle tre lamprede, restituiti all’attualità linguistica attraverso un editing critico ragionato che lascia intatto il testo originario, rendendolo tuttavia più moderno, fluido e fruibile ai lettori di oggi.
LinguaItaliano
EditoreNero Press
Data di uscita15 apr 2020
ISBN9788885497450
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    Anteprima del libro

    Le leggende del castello nero e altri racconti - Iginio Ugo Tarchetti

    Tarchetti)

    Prefazione

    di Luigi Bonaro

    Incominciato in quell’età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose, continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuti – se così si può dire d’una cosa che non ebbe principio evidente – in una terra che non era la mia e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre, io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enigma insolvibile, come l’ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d’un’esistenza trascorsa.

    La Letteratura fantastica si configura come un enorme contenitore di opere eterogenee, racconti e testi in cui vi è qualcosa di sorprendente e meraviglioso. Di fatto, ciò che si rinviene analizzando i vari materiali, è un amalgama di materiali eterogenei, dal romanzetto d’appendice, al racconto misterioso, alla favola. In tutta questa eterogenea produzione è difficile ravvisare un genere ben preciso. Ma cos’è il fantastico? Secondo le più comuni definizioni il fantastico rappresenterebbe l’esitazione provata da un essere al corrente delle sole leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale.

    Poi c’è la Scapigliatura, non considerata un vero e proprio genere, tanto meno una scuola o un movimento organizzato, con una poetica comune precisamente codificata in manifesti e scritti teorici, essa si presenta come un atteggiamento intellettuale più che un movimento, un modo di vivere disordinato e anticonformista contro la modernità borghese postunitaria che aveva relegato gli spiriti letterari del tempo ai margini del vivere sociale.

    In questo quadro credo sia possibile definire il movimento scapigliato, classificato come un non-genere, all’interno del grande contenitore della letteratura fantastica, più un modus operandi volto alla rappresentazione del non essere sociale e una Scrittura del Margine come dichiarazione programmatica.

    Alcuni studiosi sostengono che gli autori della Scapigliatura vadano alla ricerca del perturbante freudiano. In questo senso, la scrittura di Tarchetti si configurerebbe come un racconto del perturbante, una ricerca del macabro, del demoniaco e dell’orrido, volto a esplorare la trasformazione estrema della carne e dello spirito, a mettere in evidenza le psicosi nascoste nel tessuto sociale attraverso visioni fantastiche estreme alla maniera degli scrittori teutonici, suoi contemporanei.

    Ma siamo sicuri che sia solo questo? In fondo che cosa rappresenta l’orrore se non il racconto di ciò che la ragione stenta a concepire?

    L’orrore è da sempre una trasgressione nell’irrazionale, è la storia del conflitto tra l’eterno dualismo, la ragione e senso. Il sovvertimento della ragione è rivelazione del sovrannaturale, un delirare, nel senso etimologico del termine, una fuoriuscita dal solco della normalità, un viaggio all’interno del sé. E, nel caso di Tarchetti e dei suoi accoliti del club dei capelli in disordine, è la risposta all’esaltazione del provincialismo, dell’amore sdolcinato di certa letteratura popolare di Feuilleton che li ha ricacciati ai confini della società.

    Ma c’è forse dell’altro? Lasciamo parlare l’autore:

    Nell’abisso che ha inghiottito il passato non vi sono più fatti o idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse – la verità è nell’istante – il passato e l’avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita.

    Come potremmo considerare oggi questo stralcio di racconto che sembra quasi una dichiarazione programmatica che la dice lunga sull’idea assolutamente avveniristica di Tarchetti riguardo il mondo fenomenico?

    Faccio appello all’intelletto dell’uomo del 2013, alle sue conquiste scientifiche, alla sua evoluzione continua, alla sua maturità intellettuale.

    In questo passo, in fondo, non si parla del macabro, né dell’orrore, né del fantastico, né del margine sociale. Si parla del tempo, dell’indifferenziato, della condizione dell’uomo sospeso tra il presente e il passato e che la verità è nell’istante esatto in cui essa si manifesta dall’abisso dove risiedono cose, fatti, idee. Certo, è un poco presto per parlare di parallelismo acausale, delle teorie che riguardano la coincidenza nel tempo e nello spazio di due o più eventi casualmente non correlati, anche se legati dallo stesso o simile significato ma Tarchetti dimostra di aver intuito qualcosa di mostruosamente moderno. Il punto è che si dovrebbe attribuire agli archetipi di Jung o alla fisica di Pauli un carattere post-scapigliato oppure riconsiderare il ruolo dell’opera di questo autore anche in un senso differente dalla solita etichetta del Macabro. In questo senso la scrittura di Tarchetti si può definire una Scrittura dell’Imperscrutabile, non di ciò che è tenebroso per il tenebroso, ma oscuro in quanto non investigabile razionalmente, una sorta di Scrittura del Sotteso sotto le pieghe del quotidiano, una scrittura di un’affascinante modernità.

    Queste e altre sono le motivazioni che ci portano a pensare l’attualità di Tarchetti. Non solo. All’inizio di Ottobre 2013, sul Corriere di Alessandria, l’illustre Danilo Arona parla di una letteratura (nera) di pianura, riconoscibile in quanto tale e identificabile come un unico Mitologema. L’intento di Arona, autore e studioso, è quello di una dichiarazione di estetica letteraria, il maneggiare materiali preziosi in grado di dar vita a un ipotetico manifesto della letteratura di pianura marchiata Alessandria.

    Mi sento molto vicino a questa dichiarazione programmatica d’intenti. A questo manifesto, mi sento di aggiungere Tarchetti, sia per provenienza geografica, San Salvatore Monferrato, (San Salvadùr in dialetto monferrino), sia per la modernità delle tematiche molto vicine agli autori della letteratura di pianura poiché ancora una volta, si parla del disagio sociale, della frizione generata dalla nuova e appena costituita modernità borghese postunitaria che genera mostri, un poco più vecchi di quelli attuali, ma comunque in gran forma, genuini mostri di pianura. E tramite Arona che parafrasa il pensiero di Károly Kerényi attraverso il Mitologema, ci ritroviamo a constatare come le società evolvano portandosi dietro le proprie miserie, i propri archetipi, i propri mostri.

    In tutto ciò – e non solo perché, come credo saprete già, abbiamo una certa dimestichezza con gli undead – risiede la scelta di Nero Press di scegliere come primo autore della collana Infinito, dedicata ai classici, Iginio Ugo Tarchetti. Nel prezioso volume che tenete in mano in questo momento potrete leggere i seguenti racconti: Le leggende del castello nero, I fatali, La lettera U, Un osso di morto, Storia di una gamba, Il lago delle tre lamprede, restituiti all’attualità linguistica attraverso un editing critico ragionato che lascia intatto il testo originario, I racconti fantastici, edito per la prima volta a Milano nel 1869 dai fratelli Treves, gli editori di Verga, Boito, Capuana, Pirandello, Tozzi, Wells, rendendolo tuttavia più moderno, fluido e fruibile ai lettori del terzo millennio.

    Questo libro nasce dalla passione di Nero Press per la letteratura nera, sarà il primo di una Collana di letteratura che abbiamo deciso di chiamare, appunto, Infinito: la caratteristica di ciò che non ha limiti, che non può avere una conclusione perché, senza-fine, proprio ciò che definiamo classici senza tempo. Per questo motivo, abbiamo espresso questa idea con il segno ∞ che contraddistinguerà la nuova collana, un simbolo matematico, certo. Ma non solo. Esso rappresenta la Creazione, ad esempio, e molte altre cose, tra valenze, religiose, esoteriche, ufologiche. Ciò che ci conforta è che, in tutte le discipline – o in tutti i miti – in cui compare, rappresenta sempre la stessa cosa, ciò che non finisce.

    Insomma, Nero Press vi augura un buon viaggio nei meandri fantastici della mente di questo meraviglioso autore. La speranza è che vi possiate perdere nel sogno e appassionarvi, almeno per un poco, tra le pagine di questo infinito qualunque cosa succeda…

    Le leggende del castello Nero

    Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me, le scrivo a ogni modo per me. Esse si riferiscono pressoché tutte a un avvenimento pieno di mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o desumere una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il potrò, io attore e vittima a un tempo.

    Incominciato in quell’età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose, continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuti, se così si può dire d’una cosa che non ebbe principio evidente, in una terra che non era la mia e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre, io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enigma insolvibile, come l’ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d’un’esistenza trascorsa.

    Erano fatti, o erano visioni? L’uno e l’altro, né l’uno né l’altro forse. Nell’abisso che ha inghiottito il passato non vi sono più fatti o idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse, la verità è nell’istante, il passato e l’avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita.

    Ma abbiamo noi avuto una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro cuore e sotto un altro destino, alla esistenza dell’oggi? Vi fu un’epoca, nel tempo, nella quale abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o cerchiamo la memoria nelle storie o nell’oscurità delle tradizioni? Mistero!

    E nondimeno… sì, io ho sentito spesso qualche cosa che mi parlava di un’esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo limite angusto della mia vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la curva degli anni, risalire molto lontano… due o tre secoli…

    Anche prima d’oggi era successo più volte nei miei viaggi di arrestarmi in una campagna e di esclamare: «Ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui altre volte! Questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco!»

    E chi non ha esclamato talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: «Quell’uomo l’ho già veduto: dove? Quando? Chi è egli? Non lo so, ma per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo!»

    Nella mia infanzia vedevo spesso un vecchio che certo avevo conosciuto fanciullo, da cui certo ero stato conosciuto già vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone che sanno di conoscersi da tempo.

    Lungo una via di Poole, rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi rammento benissimo di essermi seduto, saranno circa settant’anni, e ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettavo una persona di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara.

    In una galleria di quadri a Graz ho veduto un ritratto di donna che ho amato, la riconobbi subito benché ella fosse allora più giovine, e il ritratto le fosse stato fatto forse vent’anni dopo la nostra separazione. La tela portava la data del 1647: press’a poco, a quell’epoca, risale la maggior parte di queste mie memorie.

    Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non potevo ascoltare la cadenza di certe canzoni che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare a un tratto in un’epoca così remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti nell’esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per cadere sull’istante in uno stato come di paralisi, come di letargia morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse lo stato d’animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltato quella nota? O la mia anima, già abbastanza immedesimata con la vita presente, si era resa insensibile a quel richiamo? O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei esprimere in qual guisa, che la mia vita, o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome, non è incominciata col giorno della mia nascita,

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