Il castello dei desideri
Di Silvio Benco
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Anteprima del libro
Il castello dei desideri - Silvio Benco
Il castello dei desideri
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1906, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728355312
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
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I.
Un’anima tremante.
— Ma l’hai tu amata davvero? – domandò quegli che staccava più alto fra i tre, ed era l’autore d’un libro lucido e contagioso, La morale della morte.
L’interrogato sollevò il capo un istante; ma come incontrò quegli occhi, lo riabbattè subito sul petto; le spalle si strinsero, oppressero il torace e vi ricacciarono la voce; non ne uscì che un filo, un filo argentino e tremebondo che si smarrì miseramente nell’aria robusta della montagna.
— In verità, io non posso dirvi se l’ho amata….
Ascendevano insieme alla montagna, il Duca coi suoi due ospiti, Zoilo e l’autore de La morale della morte. Dalla ben pettinata prateria, gemmea di rugiade, i loro passi li portavano verso la boscaglia d’abeti che, nera, recinta da una trincea di felci agitanti i loro verdi flabelli in disordine, ergeva la sua gigantesca prole d’alberi: tronchi nudi, scheletrite cime, fratellanza claustrale d’individui nati a destino solitario. La gaiezza del prato occhieggiava verso i margini della selva con un folleggiar di papaveri purpurei; ma la selva non ammetteva nel suo mistero se non un’erbetta rara e nana, tratteggiante coi suoi filetti teneri le radure del terreno bruno, smosso qua e là dall’erculeo sforzo delle radici e striato d’antiche spoglie giallognole. La immobile milizia degli alberi difendeva il silenzio; ma bastavano le sbracciate felci a frustrare la curiosità dei papaveri.
Era una mattina di mezzo agosto; la terra di recente inumidita; il cielo fantasioso e cinereo.
— In verità, io non posso dirvi se l’ho amata….
E quelle parole suonavano con una cadenza languente, come vibrazioni ultime d’un suono; e lo sforzo del Duca attingeva nel petto nuova voce, anche più fievole, passando per il velo d’un sorriso….
— Ricordi, Zoilo? Io avevo lasciato te e gli altri amici, dopo l’inverno, quando non potevo quasi più reggere…. Senza aver goduto, senza essermi abbandonato ad alcun eccesso di vita, per la sola persecuzione del malcontento che mi gettava una grande ombra dietro ogni più piccola cosa, io ero ridotto a cercare una pace nella quale mi potessi sommergere come un dormente…. Fu allora che venni ad una spiaggia tranquilla, dove ella pure era venuta, col senatore suo zio e con una zia vecchia, amara e contorta come il lichene; era venuta per dare un po’ d’illusione agli ultimi giorni d’un fratello moribondo. E perchè la vedevo sempre affaccendata intorno a quel moribondo, quasi volesse mettere il suo fiato sano nei polmoni di lui corrosi e purulenti, io incominciai a rispettarla, a sognare, e a credere nel mio sogno….
La deliziosa sofferenza della voce moriva ancora; e gli occhi chiari anelavano in alto, mentre il passo, involontariamente, perdeva la lena. Zoilo era pietoso e ansioso ascoltatore; forse perchè lo stesso orribile male segnava dei suoi pallori e delle sue caverne anche la scultoria bellezza del suo viso giovane. Ma Bertramo, un uomo che parea mostruoso su le sue alte gambe di palmipede e che non aveva traccia d’età, ma solo l’immobile ironia del tempo sul suo volto crespo, andava innanzi come se il suo pensiero mal si degnasse di raccattare il racconto, per rigettarlo tosto, qual cosa inutile, ai bronchi….
— Bella armonia – egli oltraggiò – tu e quel moribondo!
— Ah, se tu sapessi con quali strani pensieri lo contemplavo, mentre mi credevo io stesso la vittima di non so quanti mali che si sarebbero alleati per condurmi alla morte! – alzò il Duca la sua voce fragile, così sciolta nell’aria che parve un volo. – Io mi insinuavo accanto a Laus come se ella avesse dovuto alleggerire a me pure la morbosa esistenza…. E tutte le parole candide e carezzevoli ch’ella trovava per far sorridere al malato i giardini, il cielo, il mare, io le applicavo segretamente alla mia anima per lenirne le ansie…. E il senatore e la vecchia zia e certi loro amici dalle facce terree, stinte da una feroce senilità, indegne di circondare quei due esseri giovani, mi guardavano e si guardavano tra loro, ogni giorno, ogni giorno…. Tutti costoro hanno congiurato contro me.
Bertramo rise: tanto gli piacque il convincimento supino di quella voce. Il Duca, sommesso, accettò il riso….
— In questi giorni, da che siete venuti al mio invito, vi ho detto tante volte, e ve l’avrà detto la gente, quanto ella fosse bella…. Bella, per sentimento mio, come non è una donna; ma vorrei dire di quella specie di bellezza che hanno le concezioni…. Una solennità, un’armonia, una pace: guardando e parlando, i suoi occhi limpidi, le sue chiome dall’ondeggiamento calmo, il suo volto dai lineamenti tranquilli, imponevano di riposare in un’ammirazione confidente. La pensavo una natura epica, senza mutamento: Ifigenia od Andromaca…. E tanto dolce, e tanto buona, e tanto compassionevole…. I nostri occhi s’incontravano nelle pupille del malato, punteggiate, mercè l’affetto di lei, da una luminosità argentea di vita, quanto più le carni si dissolvevano…. Oh, qual profonda coscienza nelle sue parole!… Non mai il menzognero conforto…. Sempre la quiete della vita, che è bella, che dura, che deve durare senza fine, attraverso vicende di ricche primavere e di poveri inverni, come uno spettacolo interminabile ai sensi più e più annobiliti e mai sazii…. Io fissavo ogni giorno questi pensieri, e ogni giorno in quelle segaligne facce senili scoprivo avidi occhi che mi guardavano….
— E quegli occhi hanno finito col prenderti, col beverti, come il suolo beve una goccia d’acqua tremolante! – disse il perfido uomo più alto.
II Duca sofferse visibilmente. Zoilo, camminando docile dietro di lui, parve ascoltare il suo destino, quando egli disse, senza rispondere ad altro:
— Il malato è morto prima che cadesse l’estate….
E vibrò a un tratto, e riprese rapidamente:
— Lo seppellirono e fuggirono tutti, non so come, quasi le bellezze della spiaggia fossero divenute funeste…. Ed io, che dovevo fare?… Non potei rimanere di più un solo giorno…. Laus partita, l’agitazione risorgeva nel mio essere e mi soffocava…. I miei sensi erano esasperati dal vuoto di tutte le cose, dall’inesistenza di bellezze afferrabili nel mondo. Sono fuggito anch’io. E andai a precipitarmi nella cerchia degli occhi che m’aspettavano; poichè m’avevano dato convegno il giorno della sepoltura, quando io, smarrito, palpitante, levavo lo sguardo dalla mia nebbia e lo affondavo disperatamente nelle pupille di Laus, umide di dolore e, ve lo giuro, innocenti della colpa di tutti quegli occhi!
Abbattuto dallo scatto, tacque. Vide Bertramo innanzi a sè, come se colui guidasse i due uomini deboli nella grandezza della foresta; e accelerò il cammino, poichè il passo di Bertramo manteneva una ritmica imperiosa.
Come questi lo sentì alle spalle, disse senza voltarsi:
— Prosegui pure. T’ascolto. Ho orecchie fine, io. E posso sdoppiarmi per tener dietro al tuo pensiero ed al mio.
— Oh…. pensiero…. – sorrise il Duca amaramente. – Perchè non dici l’assenza di pensiero? Per un intero anno io sono vissuto senza concentrarmi mai su me stesso; agivo per una continua e inconsapevole forza riflessa dagli altri. Giunto che fui alla città, ebbi un solo bisogno: vivere sotto l’influenza di Laus, come sotto quella di un astro di calma. Mi recavo nella casa del senatore, con un pretesto o con l’altro, o senza pretesto, e il mio essere stanco si lasciava ammorbidire dolcemente da quella virginea pace. Consideravo dette per me solo tutte le parole di lei. Avrei voluto non accorgermi della presenza d’altri esseri intorno a noi, non sentire le avide impazienti pupille dei suoi famigliari ostinarsi a chiedere qualche cosa da me: ella era tanto sola, tanto staccata, tanto intatta, tanto integra nella beltà del suo spirito: la prima fanciulla che conoscevo profondamente: e mi piaceva idealizzarla in un nome, in un nome di concezione che tutti avrebbero trovato assai strano se non l’avessi tenuto lontano da ogni orecchio: la chiamavo Armonia….
La voce s’era sempre più innamorata del suo fantasma.
— Dunque, perchè negarlo? l’amavi?
— O Zoilo, come vuoi che io l’amassi, se le davo quel nome? Sei tu l’amante di questa selva perchè ti piace la sua frescura? Ami il sonito del mare, sebbene ti è tanto dolce stando a riva? D’inverno, sei tu l’amante del fuoco? Ami ciò che non vuoi e non ardisci toccar con la mano? Io e Laus non eravamo un uomo e una donna: ma un’anima malata e la sua cura, una stanchezza e il suo riposo; non avrebbero dovuto turbarci mai!
— Ma perchè dunque eri tanto stanco?
Alle parole sfuggite ingenue a Zoilo, si volse e li guardò beffardamente la loro guida. E gli occhi di costui e quelli del Duca s’incontrarono: il malato ed il medico nella confidenza dell’occulta malattia.
— Non avrebbero dovuto turbarci mai! – riprese il Duca, mentre con la svogliatezza del pigro continuava l’ascesa. – E invece erano indefessi nell’assalirmi, nel piegare la mia cima: vedevo i loro occhi, vedevo le loro mani che filavano filavano tacitamente…. un filo conduttore per la mia vita…. Lo sentivo prolungato nell’aria, in una linea rigida, senza torcersi mai…. Io non sapevo che cosa avrei fatto dall’oggi al domani; ed essi già mi prescrivevano tante risoluzioni, tanto tempo futuro; s’erano già intesi fra loro su ciò che dovesse essere di me….
— E poi…. hanno parlato?…
— No…. io ho parlato….
— Senza tua voglia…. perchè?
E gli cadde addosso l’occhiata obliqua di Bertramo rivolto.
— E chi ti dice, Bertramo, – supplicò il Duca umilmente – che io volessi non parlare? Io volevo e non volevo. Ma bene essi volevano qualche cosa; per qual motivo altrimenti m’avrebbero perseguitato con la loro presenza odiosa, con le loro bave lusinghiere, con la loro falsa austerità paterna? Insistevano che io mi fidanzassi a Laus; soffocavano ogni mio libero arbitrio nella loro muta volontà; e io ho obbedito, mi sono fidanzato, ho accettato la loro Laus in cambio della mia Laus, della mia concezione, della mia immagine che chiamavo Armonia, per dire alcunchè sovrumanamente astratto e incorporeo. Ed essi giubilarono. Non erano molto ricchi. Concludevano uno stupendo negozio. Io davo una desiderata ricchezza; essi mi davano un corpo, come se io per l’armonia della vita ne avessi avuto desiderio e bisogno.
— Ed ella?
A ciò gli occhi del narratore s’alzarono e l’inespressiva bianca porcellana del bulbo salì ciecamente fra ciglio e ciglio.
— Chi sa? Forse, nella sua purezza, e perchè tra noi non era mai stata parola d’amore, ella amava soltanto…. allora…. la compagnia del mio spirito. Nel giorno che me l’hanno fidanzata, mi è sembrato che ella si sentisse un diritto più forte d’essere compassionevole; nei suoi lineamenti trasparì una tale tenerezza che dubitai avesse compreso tutto e mi chiedesse perdono. Povera Laus! così intelligente…. ha compreso mai nulla? I suoi parenti mi circuirono, mi presero, mi portarono a far vedere al mondo; ebri di vanità, essi; ed io saturo di nausea…. Le intimità gentili e delicate con Laus non rivissero più. Avevano tutti coloro un’arte sapiente d’allontanarsi per brevi momenti affinchè io mi sfogassi a prenderla fra le braccia. Doveva essere il premio per il trionfo che menavano di me, empiendone la città, i teatri, le sale, le case degli amici; portandomi a spettacolo innanzi a tutte le pupille malevoli; bisbigliando la mia vecchia corona ducale in tutti gli orecchi invidi…. E no; io non prendevo la mia Laus fra le braccia! io non compiacevo la contenuta e pudica curiosità delle sue labbra! io ero triste di non poter soffermare un’ora mia in tutto quel tempo ciarliero, fra le mille cose vacue che si chiamavano la preparazione del nostro avvenire. Hanno mosso rimprovero alla mia tristezza…. Questa ruga – e il Duca indicò tra gli archetti delle sopracciglia un solco d’ombra – questa ruga li irritava sconciamente; ed era un rinfacciarmi quotidiano la stanchezza ed il tedio segnati così su la mia fronte…. Talchè, per sottrarmi a quel nuovo accerchiamento, io mi decisi ad affrettare le nozze, ad annunziarle per la primavera….
Si riposò, ansante: e Bertramo, staccandosi dal racconto, fece passi più veloci nella selva che diradava verso la sommità della montagna e diè fuori alcune note d’un canto ilare. Alto ed ossuto, abbracciando larghi spazii nel gesto, aveva egli negli alberi tanti fratelli d’irta apparenza e di vigoria.
— Mi sono dato riposo, – continuò il Duca; – sono venuto in questa valle a riabbellire il castello dei miei per accogliervi la sposa; ho fatto spolverare gli antichi quadri e rimettere nella sala le mattonelle e innalzare sul letto un padiglione verde e argento e trarre dagli armadii le nostre tappezzerie più preziose. C’era, scolpita su la soglia, una vecchia divisa de’ padri miei; io la feci togliere e porre in sua vece la parola Amore. Disponevo tutto, tristemente e serenamente, come se avessi saputo di non preparare la felicità. Ho scalpellato io stesso quella parola, lo scorso autunno, quando fui certo che ella non sarebbe tornata più…. Un pastorello mi guardava coi suoi occhioni attoniti tra le frasche; io scalpellavo, vergognoso e furioso, senza volgere il capo, per timore che la mia demenza distruttiva fosse abbattuta da quegli occhi innocenti…. E forse non era tanto mutata l’anima mia dal giorno che avevo fatto scolpire la pietra! Questi monti erano allora nevicati dalle falde alle cime, ed io, guardandoli, riflettevo la loro grande pace, il gelo ed il silenzio che tranquilli scintillavano al sole. E mi gemeva l’anima per invidia. E chiamavo il nome di Laus, non so perchè, come una forza conciliatrice, e m’illudevo che nascesse dagli echi della valle. E così, dopo pochi mesi, quando fu finito, tutto finito, ed ebbi anche finito di scalpellare quella parola, mi gettai sul letto e stetti ivi, immemore, senza lagrime e senza pensieri, invidiando a tutte le cose una grande pace e mormorando il nome di Laus come un balsamo spremuto dalla morte: da ciò che non è e non sarà mai più.
— Cose abbastanza singolari in bocca d’un profeta della vita, di un futuro rappresentante dei suoi villani alla Camera del Regno! – osservò Bertramo.
— Taci: impazzisco a ricordarlo! Ohimè! in quei giorni impazzivo anche di più…. Basta, basta! Sii contento di sapere che Laus è vissuta per due mesi con me, in questa valle….
Così si spense la voce triste, e il respiro fu mozzo dalla fatica.
Poichè avevano sorpassato la foresta, e l’ascesa si faceva aspra, per detriti calcarei, rotti dall’erba magra che ne divorava la polvere. Oltre i cimieri degli ultimi abeti, il paesaggio s’apriva agli sguardi.
— Guarda il castello! – accennò Zoilo verso un punto dell’opposta catena. Tutto intorno erano le pendici maestose declinanti e i baluardi di roccia precipitanti negli imi boschi a somiglianza di scogli nelle spume d’un tetro mare. Bertramo già di molto li precedeva; l’aiutavano le mani come artigli a superare gli ossami nudi del monte. Zoilo e il Duca aveano scelto meno arduo sentiero; ma, come quest’ultimo si rivolse a guardare il castello, ebbe dall’abisso una sorta d’aereo abbracciamento impetuoso, talchè l’essere sbigottito si rannicchiò tutto in sè stesso e per terrore dello spazio affascinante tentennò come cercasse riparo. Rimase fermo su i due piedi rigidi un istante; errò intorno con l’occhio; calcolò altezze fantastiche; immaginò un ruinare precipitoso, un abbassarsi improvviso del mondo; le lontananze estreme, ingombre di nebbia, gli raddolcirono sole la crudità dello spazio. E si teneva con le mani a certi sterpi che s’arricciavano fuor dal sasso selvaggiamente.
— L’hai veduto, il castello?
Così Zoilo, con la sua voce benigna.
— Lo guardo, – rispondeva fievole. – I faggi lo coprono quasi.
— La torre sola è nuda. – Come è rimpicciolita la nostra collina! Pare tenuta a freno dai monti!…
— È terribile e bello, Zoilo…. Troppo grande e troppo forte per noi…. Anche la bellezza vuole valore a sopportarla. – Le due voci si tacquero; un petto cavo affannava; un respiro temeva il silenzio; Bertramo chiamò dall’alto, ritto su la voragine come ceppo di monte. – Andiamo, – invitò Zoilo. E porse al Duca la mano.
Inchiodato al suolo, egli trepidò di compiere il movimento. Ma quando alfine si fu staccato, prese tosto impetuosamente ad afferrarsi ai ciuffi d’erbe, a sollevarsi, mentendo audacia, con un arrampicare sregolato e veloce; si valse di mani e ginocchi e del bastone ferrato con una lena maldestra, come quegli che ha perduto la misura delle proprie energie e follemente si avventa dietro il panico impulso di fuggire. Zoilo, rimasto il più basso, vedeva innanzi a sè quel dorso scomparire nel proprio arco sotto l’enormità della fatica, quelle mani brancolare, tasteggiare fra i massi; quelle gambe formare puntelli dall’incoerente dinamica sul terreno. Andava solo, nell’ansia di giungere al termine. Stanco, si fermava talvolta e ardiva mostrare all’abisso uno scorcio bieco del pallore che gli assottigliava la faccia.
Ad una di tali soste lo raggiunse Zoilo.
— Non correre, non t’affannare, chè io non ti tengo dietro e la montagna non ti si squarcierà ai piedi! Non siamo avvezzi alla sua ginnastica; ti farà male; pazza idea che ha avuto Bertramo!
— Dov’è Bertramo?
Gli occhi del Duca cercavano in alto, incontravano il cielo, inorridivano….
Già il prato sassoso e le sue lubriche rugiade stavano a tergo; si arrampicava per le calcari secondarie, screziate di radici e occellate dalle conchiglie d’uno spento mare. Creste succedevano a creste, e un coltello di pietra smisurato minacciava al sommo la bianca nuvolaglia mattutina. Zolle di gramigna nerboruta e breve si radicavano al margine delle lavine, ove il piede così spesso aveva il senso d’una sua attività sgretolatrice. Più volte Zoilo sorresse il Duca; gli diceva dell’odore di pietra che si fiutava nell’aria; e questi, fra il terrore imperioso del pericolo, apriva pur le narici alla sensazione della pietra e dell’aria, di due cose crude e immutevoli, incapaci di ogni conforto e di ogni pacificazione ad un’incerta esistenza. Alfine giunsero sotto l’ultima, cresta.
Ivi si allargava di nuovo un più dolce e più erboso pendio, qua e là sollevandosi intorno a massi disseminati, testimonii d’antichi scoscendimenti. In quel grigio della pietra, in quelle barbe di muschi e di licheni, in quelle lanceole verdi dell’erba, in quelle chiazze di fiorelli minuscoli su steli duri, erano figurate l’antichità della montagna e la tenacia di tutto quanto prorompeva dai suoi fianchi sdegnosi. Zoilo tossiva e s’avvolgeva nel mantello; pure i suoi occhi vagheggiavano l’ultima cima.
— Non salgo più, – disse il Duca.
Il giovane compagno lo fissò in volto, nè rammentò d’averlo mai veduto così pallido. Un raccapriccio occulto lo disfaceva.
— Non è per me, – soggiunse con umili accenti puerili. – E nemmeno tu dovevi venire….
— Oh, per me! – Il tisico sorrise con un orgoglio tristemente spensierato. E non si curò più se non dell’amico: – Restiamo qui, insieme; prendi una goccia di cognac, siedi, riposa….
Il Duca cercò con l’occhio un riparo; scelse d’adagiarsi dietro uno dei pietroni, ch’era sporto per tre lati nell’aria; e, fiducioso alfine di questo asilo, sollevò il viso e osò allungare e sprofondar nella valle lo sguardo.
Si chiudeva ad oriente la valle, fra una montagna bianca di sua calvizie ed una chiomata di selve fino alla cima; proseguiva ad occaso, fra colline imboscate e colline pratensi, svolgendo nella fluidità argentea delle nebbie e nel verde delle praterie il disegno grazioso dei suoi molti ruscelli e del suo fiume dai vezzi di perle. Dalla vetta d’un colle guatava il castello, macchia rossa, angolosa, di mura e di torri; a piè del colle stesso qualche avanzo di fortilizio diruto, che i faggi stringevano nel recinto delle loro tenebre; mezzo schiacciato nello stretto varco fra due colline, il villaggio si ritagliava nel verde con gli spigoli dei suoi tetti a gronda e dei suoi comignoli; e un lungo viale bianco, serpendo verso le ghiaie del fiume, s’allargava a sagrato dinanzi a una chiesetta solitaria, dal campanile non più alto dei faggi, che gli crescevano, quasi emuli, accanto. Sinfonia di colori larga e sfumata, in lunghe linee interrotte dai frastagli selvosi, sotto la regola dei monti, sotto gli sprazzi d’una luce ch’era di raso là dove il dì batteva su le marcite con gli scialbi riverberi. Mortali non si vedevano; erravano forse indistinti.
Strano il rapporto fra i due uomini. Il Duca, all’aspetto un uomo di trent’anni, biondo, con pochi crini riportati pudicamente su la cotenna che pareva continuare il suo pallore, con due chiari occhi cangianti, nelle loro infossature azzurrognole, quanto tutti i loro smarrimenti e le loro desolazioni, con una bocca fragile e dissanguata d’onde le parole fiatavano talvolta come una comunicazione metafisica dell’affanno interiore: parea che un triste angelo si fosse congiunto con una donna esausta dal male per incarnare nel mondo quell’essere. E colui che gli dava conforto, era un malato già sacro alla morte; una insinuante e perversa bellezza di tisico, dall’occhio fosforescente tra gli svolazzi dei capelli castani che inanellavano con le loro curve aeree l’orecchio già quasi modellato fuori dal volto come una forma di cera. Nulla in lui che fosse stanco e non sembrasse guizzare nella vitalità del mondo. E nel Duca tutto era stanco, e i suoi pensieri dal ritmo indeciso si scioglievano dalle labbra in un contrattempo ostinato o in una stonatura lene con la musica dell’universo.
— Zoilo, – egli disse, – tutti questi luoghi furono visitati da Laus…. L’avessi tu veduta spazzare coi suoi abiti chiari le ghiaie del fiume come Matelda, o cogliere fiori a mazzi enormi come Lia!… Tutti questi luoghi le volevano tanto bene; l’avrebbero tanto volentieri trattenuta! Io, io solo, l’ho lasciata partire; ed ora questa valle, che è la mia patria, par divenuta per me un luogo d’esilio…. Sai tu che cosa sia l’esilio?
Zoilo ascoltava.
— È il luogo dove non si sente più il meriggio e dove si sentono mille volte più lunghi e più intensi i crepuscoli….
— Perchè dunque non parti? Perchè non partiamo tutti?…
Il Duca lo interruppe:
— Perchè qui sono le mie radici, Zoilo…. Qui io mi sento salire nell’anima la forza di tutte le cose…. Qui le cose tessono instancabilmente il sogno…. I padri miei qui regnavano…. Disponevano anche dell’aria…. Vi si spiccava il volo dei loro girifalchi…. Quella era la loro volontà….