AA - VV. - Oreficeria (1996) PDF

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Oreficeria

Enciclopedia dell' Arte Antica - stampa

di E. Formigli, F. Tiradritti, G. Pisano, I. Pini, E. Lippolis, G. Bordenache


Battaglia, G. A. Košelenko, G. A. Košelenko — Red., F. Salviati, G. Poncini

OREFICERIA (v. vol. V, p. 730). - Le tecniche. - Il progredire degli studi archeometrici ha


avuto come conseguenza una più approfondita conoscenza delle antiche tecniche anche nel
campo dell'oreficeria. Viene così smentita la diffusa opinione che nella ricostruzione storica
delle varie fasi dell'o. l'esame tecnico del materiale non offra un valido aiuto, in quanto già
da età antichissima erano noti tutti o quasi i procedimenti tecnici che ritroveremo nelle
successive età. Ciò può essere vero in parte solo per alcuni paesi come la Siria o l'Iran, dove
ancora oggi si lavora con metodi vicini a quelli antichi. Le indagini sulle tecnologie stanno
mettendo in luce non solo gli alterni sviluppi (o regressi) delle conoscenze tecniche nei
singoli paesi, ma aiutano a comprendere meglio anche i legami di interscambio o di prestiti
tra culture diverse. Esemplare a questo proposito è la storia della tecnica della
granulazione: nata verso la metà del III millennio a.C. in Mesopotamia, si diffonde
dapprima in Siria ed Egitto per raggiungere poi la Persia, la Palestina, Cipro e l'Egeo e in
seguito, verso la fine dell'VIII sec. a.C., l'Etruria, dove questa particolare tecnica decorativa
arriva al suo massimo splendore in età orientalizzante.
Solo da pochi anni le antiche tecniche vengono studiate con moderni metodi analitici e
ottici. La semplice osservazione al microscopio dei dettagli della lavorazione rende possibile
la ricostruzione delle varie fasi di fabbricazione. Le sovrapposizioni di materiali, visibili
talvolta solo in zone interne, indicano la cronologia di esecuzione. Se, p.es., un filo (a) è
saldato su una lamina traforata (b) ed è a sua volta coperto da un'altra lamina (c), si ha la
sequenza temporale: traforo lamina (b) → saldatura filo (a) → copertura con seconda
lamina (c).
Talvolta le tracce anche microscopiche rimaste sul manufatto durante la lavorazione
permettono di risalire agli strumenti usati: scalpelli e lame da taglio, punte per incidere,
punzoni, ecc. Le analisi di limitate zone della superficie esterna o meglio ancora di campioni
sezionati, eseguite alla microsonda ai raggi X applicata al microscopio elettronico,
permettono di identificare le leghe usate, i metodi di saldatura, le dorature, le patine. Le
radiografie rendono possibile la visione interna degli oggetti e rivelano dettagli costruttivi o
differenze di materiali.
I fili e le lamine. - Fili e lamine rappresentano gli elementi fondamentali nella costruzione
di gioielli antichi di metallo prezioso.
La laminatura era eseguita mediante battitura a martello del lingotto iniziale su
un'incudine. Per ottenere foglie più sottili si stendevano ritagli di lamina tra strati di pelle
di vitello. Attraverso battiture alternate a suddivisione delle lamine, si riusciva a ottenere
foglie più sottili di quanto sia possibile realizzare mediante i moderni mezzi meccanici. L'uso
di laminatoi cilindrici non è attestato nell'o. antica: eventuali tracce in rilievo lasciate dalla
schiacciatura ai cilindri che si ripetono a distanze regolari su una lamina sono considerate
prove di falsificazione.
Nell'o. etrusca molte lamine d'oro hanno uno spessore quasi standardizzato sui due decimi
di millimetro, come se l'uso di determinati strumenti e materiali portasse a ottenere foglie
di spessore pressoché costante.
La preparazione di sottili lamine sta anche alla base della costruzione dei fili. Infatti, a parte
rari casi in cui i fili erano ottenuti direttamente per martellatura da un lingotto, la
lavorazione iniziava normalmente con il taglio di strisce di lamina; queste erano
attorcigliate su se stesse, fatte rotolare tra le dita o pressate con una lastra su un piano
liscio. Non si può escludere l'uso di un altro metodo consistente nel tirare la striscia in un
foro tondo praticato in materiale duro e levigato che non lascia segni sul manufatto.
Si spiegherebbe così la presenza di un taglio a punta osservato talvolta sull'estremità
iniziale della striscia che ha dato luogo al filo tondo, in oggetti sicuramente autentici.
Sembra invece non vi siano più dubbi da parte degli esperti sul fatto che non si usasse il
metodo moderno di tiratura di un massello iniziale in una trafila (blocco di metallo
provvisto di fori sempre più stretti attraverso i quali si tira il filo fino allo spessore
desiderato). Un tale tipo di tiratura lascia sui fili caratteristiche rigature parallele. Queste
impronte non vanno confuse con tracce simili lasciate dalla limatura o da altri trattamenti
di abrasione o levigatura, e rappresentano un serio indizio di falsificazione.
Ciò che d'altra parte risulta sempre più evidente è la presenza sui fili antichi di solchi
elicoidali più o meno marcati, riconoscibili talvolta solo in sezione trasversale. Spesso è
possibile stabilire se si tratta di un unico solco che percorre in senso elicoidale la superficie
del filo, o se invece ve ne siano più d'uno paralleli tra loro. Questo dettaglio è importante
per stabilire l'effettiva tecnica di costruzione del filo. Se vi è un unico solco si tratta di un
filo ottenuto per torsione di una striscia di metallo piuttosto larga fino a formare una sorta
di tubo o cartoccio. Se i solchi sono quattro, si tratta di torsione e pressione di un filo-
lingotto a sezione quadrata ottenuto per martellatura. Se invece i solchi sono due, come si
riscontra sulla maggior parte dei gioielli antichi, si tratta di una striscia ritorta e pressata
come nel primo metodo.
In questo caso però essa è più stretta, cosicché la pressione contemporanea sui suoi due
lati corti sposta la massa del metallo, che espandendosi a «fungo» dalle due parti, tende a
raccogliersi al centro e a formare un filo tondo.
Attraverso varî trattamenti i fili potevano assumere anche forme decorative. Fili con
effetto a «vite» si ottenevano torcendo un filo a sezione quadrata oppure tirando e girando
un filo tondo sotto la leggera pressione di una lama. Fili a «rocchetto» venivano prodotti
torcendo una striscia oltre il limite in cui essa forma un filo tondo, oppure facendo rotolare
un filo tondo sotto la pressione di una piastra fornita di scanalature. Con quest'ultimo
metodo si producevano anche i c.d. fili perlinati che sembrano formati da tante sferette
disposte in fila.
Per il taglio dei fili e delle lamine, necessario a dar loro le dimensioni desiderate, non si
usavano strumenti a doppia lama come forbici o tronchesi, ma arnesi a una sola lama come
coltelli e scalpelli. Questi strumenti lasciano sul materiale delle tracce di taglio a una sola
faccia.
La saldatura. - La saldatura su oro e argento, che rende possibile la realizzazione di gioielli
composti di tante piccolissime parti separate, era conosciuta almeno dalla metà del III
millennio a.C. in Mesopotamia. In Etruria le tecniche di saldatura furono molto
probabilmente introdotte da artigiani fenici e greci nel corso dell'VIII sec. a.C.
Due erano i metodi sicuramente applicati nell'antichità: la saldatura a sali di rame (c.d.
saldatura colloidale), e quella con lega saldante. Il sale di rame, applicato in polvere sulle
zone interessate alla saldatura, è ridotto a rame metallico nell'atmosfera riducente del
fuoco di carbone. Il rame si lega in superficie con l'oro formando una pellicola liquida che
viene attirata nei punti di contatto delle parti da saldare. La malachite (un carbonato
basico di rame, la crisocolla di Greci e Romani) era probabilmente il sale di rame più usato
per le saldature in oro. Poiché il sale di rame era applicato in polvere finissima, era
possibile saldare parti del gioiello di dimensioni ridottissime, come p.es. le sferette della
granulazione, senza inondare di saldante l'oggetto. Contemporaneamente alla tecnica del
sale di rame, era applicata anche quella che fa uso di paglioni di lega saldante. Si tratta dello
stesso metodo di saldatura usato dagli orafi dei nostri giorni: piccoli ritagli di lamina di lega
saldante (di solito a forma quadrata o rettangolare) vengono sistemati sui punti di contatto
degli elementi da saldare. Il calore oggi viene fornito localmente con una fiaccola a gas,
mentre nell'antichità ci si serviva di un beccuccio attraverso il quale si soffiava aria nei
carboni ardenti, vicino all'oggetto. Affinché l'oggetto stesso non fondesse era necessario che
la lega saldante avesse un punto di fusione più basso di quello delle parti da saldare. Dalle
analisi eseguite sul materiale saldante di oggetti d'oro fenici, celtici ed etruschi, la lega usata
come saldatura risulta composta da oro, argento e rame in proporzioni molto variabili
(sulla presenza di zinco o cadmio si veda il capitolo sulle falsificazioni).
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Le catene. - Nell'o. antica, come in quella moderna, le catene non hanno il solo scopo di
fungere da supporto a pendenti o comunque di raccordo tra varî elementi, ma rivestono
esse stesse un ruolo estetico. Di rado si trovano catene antiche composte da singoli anelli
inseriti l'uno nell'altro, normalmente esse hanno l'aspetto di una treccia di fili finissimi. In
realtà sono composte da tanti anelli fatti di segmenti di filo saldato all'estremità e piegati a
«fiocco» in modo da essere inseriti nel fiocco successivo. Spesso i singoli anelli si inseriscono
contemporaneamente in due o più fiocchi in modo da formare catene doppie, triple, ecc.
Accoppiando due o più catene singole e inserendovi trasversalmente lunghi fiocchi si
ottenevano anche bellissimi nastri usati per collane e bracciali.
La doratura. - I gioielli antichi raramente sono di oro massiccio, sia per praticità sia per
risparmio del prezioso metallo. Per lo più essi sono costruiti con sottili lamine e fili. Talvolta
proprio per la loro sottigliezza sono riempiti di materiale come la pece e lo zolfo, affinché
resistano alle schiacciature. Per risparmiare l'oro si coprivano anche oggetti di bronzo e
argento con sottili foglie d'oro, cosicché allo sguardo esterno essi potevano sembrare di oro
massiccio. Solo la corrosione del materiale interno tradisce la loro fattura debordando dalla
leggera copertura. La foglia d'oro era applicata e assicurata sull'oggetto finito per mezzo di
agganci meccanici o incapsulamenti. Ancora più spesso essa era stesa sul manufatto in una
fase intermedia della sua costruzione. Così era possibile, p.es., schiacciare insieme per
battitura a martello una lastra di argento con una foglia d'oro, ricuocere e ribattere varie
volte in modo da ottenere una aderenza perfetta tra i due metalli.
Controversa è la data di introduzione della doratura ad amalgama (dopo aver coperto la
zona da dorare con uno strato di amalgama oro-mercurio, si porta l'oggetto a una
temperatura in cui il mercurio evapora lasciando un sottile strato d'oro). Dalle analisi finora
eseguite non risulta che gli Etruschi conoscessero questo metodo. Esso è invece attestato
con sicurezza su materiale longobardo.
Granulazione e filigrana. - La granulazione (saldatura di piccolissime sfere su un supporto
di lamina) è una delle tecniche più ammirate delle O. antiche e in primo luogo di quella
etrusca. Di essa si è parlato e scritto moltissimo specialmente in riferimento al c.d. mistero
della sua esecuzione e della sua scomparsa dopo l'età romana. Raramente una tecnica
antica ha trovato tanti appassionati imitatori. Ancor oggi essa ha un ruolo importante nelle
creazioni di orafi moderni.
A più riprese dal secolo scorso fino a oggi si poteva leggere che il mistero della granulazione
era stato risolto. In realtà si trattava di tentativi più o meno riusciti di riproduzioni
realizzate con varie tecniche. Fino ad oggi si contano almeno sei diversi metodi di giuntura
con i quali è effettivamente possibile eseguire lavori di granulazione. Possiamo
sintetizzarne quattro come segue:
Saldatura dei grani con lega d'oro (v. supra, La saldatura). È difficile con questo metodo
raggiungere la finezza di lavoro delle O. etrusche, dove tra una sferetta e l'altra si vede
ancora trasparire la luce, infatti la massa saldante va a riempire facilmente tutti gli spazî
vuoti. È questa la tecnica usata dai Castellani, famiglia di orefici romani che operarono nella
seconda metà del secolo scorso, divenendo famosi per le imitazioni di O. etrusche.
Alessandro Castellani sviluppò anche un metodo per «ripulire» i lavori di granulazione
eseguiti in tal modo per mezzo di acqua regia, con la quale corrodeva il saldante superfluo,
nonché una tecnica di doratura elettrolitica per nasconderne il colore più chiaro.
Saldatura autogena. Si tratta di un metodo per congiungere metallurgicamente i metalli
attraverso la sola applicazione del calore, della pressione o di ambedue
contemporaneamente. Il materiale viene portato allo stato liquido nel punto da saldare.
Non si usano leghe di apporto come nel metodo precedente. La possibilità pratica di
applicare questo metodo nei lavori di granulazione è data dall'intervallo di temperatura che
esiste tra l'inizio e la fine della fusione di una massa metallica. Per questo metodo è
necessario un esatto controllo delle temperature e la possibilità di osservare da vicino le
fasi della saldatura in modo da poter interrompere al momento opportuno l'apporto di
calore.
Saldatura a sali di rame o colloidale (v. supra, La saldatura).
Sinterizzazione. Questa tecnica di giuntura è possibile solo con oro molto fino (almeno
900/1000) portato a temperature superiori al 50% del suo punto di fusione. Il fenomeno
della sinterizzazione non si basa sulla liquefazione dei materiali, come nel caso della
saldatura autogena, ma su un trasporto di materia solida attraverso scorrimento viscoso,
evaporazione e condensazione o altri tipi di diffusione.
Recentemente si è potuto dimostrare che la tecnica a sali di rame è stata effettivamente
applicata nella granulazione etrusca del VII sec. a.C. (Parrini e altri, 1982) e anche
nell'esecuzione di filigrana in alcuni bracciali vetuloniesi della stessa età (Mello e altri,
1983). Sono stati utilizzati dei provini metallografici ottenuti con le sezioni di campioni
prelevati dagli originali. Le sezioni attraversano le sferette e le lamine della granulazione e i
fili della filigrana. Su queste piccolissime superfici sono state eseguite serie di analisi
quantitative utilizzando una microsonda a raggi X. È risultato che nelle zone di contatto tra
sfere e lamine e tra i fili la percentuale di rame è particolarmente alta. Poiché il contenuto
di argento non varia, questo fenomeno si può spiegare solo con una saldatura a sali di rame.
Wolters, in una approfondita ricerca sulle fonti, dimostra che il «mistero» della
granulazione, a saper interpretare correttamente le fonti antiche, non era affatto tale
perché già allora si indicava nella crisocolla il saldante dell'oro. Egli inoltre, tramite
un'analisi degli originali antichi e dei testi, documenta la presenza della tecnica della
granulazione dalle sue origini, nella cultura assiro-babilonese, fino ai nostri giorni,
compreso il periodo successivo all'età romana in cui si credeva perduta.
Le falsificazioni. - La migliore conoscenza dei metodi di lavorazione antica ha portato un
valido contributo al difficile compito del riconoscimento delle falsificazioni di o. antiche,
basato fino a tempi recenti, solo su confronti stilistici e iconografici. Il problema dei falsi è di
grossa portata e interessa non solo le acquisizioni recenti al di fuori dei contesti di scavo,
ma anche materiale già esposto e classificato, presente nei musei e inserito da lungo tempo
nel circolo delle pubblicazioni scientifiche, così da indurre gli studiosi a erronee deduzioni.
Moltissimi falsi sono entrati già nel secolo scorso nelle collezioni private acquisite poi dallo
stato, oppure sono stati acquistati direttamente da musei stranieri. Recenti studî hanno
rivelato, p.es., che il pendente a teste di Acheloo venduto dai Castellani nel 1878
all'Antikensammlung di Berlino è una sofisticata falsificazione (Formigli, Heilmeyer, 1993).
D'altra parte, però, le indagini scientifiche sono servite anche a riabilitare presunte
falsificazioni, come, p.es., la «fibula di Manios» (almeno secondo l'opinione di Formigli,
1992).
La seconda metà dell'ottocento è stato il periodo di maggior produzione di imitazioni e di
veri e propri falsi cui si dedicavano in specie botteghe di orafi romani e toscani.
Rispetto ai falsari moderni questi artigiani avevano il vantaggio di una più diretta
conoscenza del materiale autentico, a quei tempi liberamente in commercio. In questi falsi
sono spesso imitate perfettamente le dimensioni, le proporzioni e lo stile degli originali,
nonché l'aspetto esterno della superficie, le patine, le incrostazioni, ecc.
I falsarî erano spesso antiquari e restauratori al contempo, e avevano pertanto la
possibilità di confrontare, in ogni fase di lavoro, l'aspetto delle loro falsificazioni con quello
degli oggetti autentici che riproducevano. Il loro impegno si applicava soprattutto a
ricreare attraverso varî artifici l'aspetto antico degli originali: la superficie corrosa, la tipica
patina rossastra, le incrostazioni di «scavo», l'usura del tempo, ecc. In questo lavoro erano
insuperabili perché non solo imitavano gli originali, ma usando gli stessi bagni di acidi, gli
stessi strumenti di pulitura, ecc., anche nel restaurare i pezzi originali, finivano per far
assomigliare i reperti autentici alle loro falsificazioni.
Riconoscere i falsi è reso anche più difficile dall'inserimento di parti o frammenti autentici.
D'altra parte non ci si curava di imitare i materiali e i metodi di lavorazione antichi, sia per
la cattiva conoscenza che se ne aveva, sia perché questi sono rilevabili solo attraverso
moderne tecniche ottiche e analitiche di cui non si sospettava neanche la futura esistenza.
Le indagini sulle tracce lasciate dagli strumenti e sui modi di esecuzione si sono rivelate
dunque essenziali a smascherare le falsificazioni.
Rigature longitudinali parallele a distanze costanti tra di loro, che si ripetono in diversi
punti dei fili, rappresentano una prova di tiratura a trafila di tipo moderno. Le prime
falsificazioni aggiornate che mostrano fili con solchi elicoidali (v. supra, I fili e le lamine)
sono apparse solo a cominciare dagli anni '80 del nostro secolo.
Le tracce a doppio taglio lasciate da tronchesi per il taglio dei fili o quelle segmentate
lasciate dal seghetto da orafi sulle lamine sono indice di falsificazione. Lo stesso vale per le
impronte zigrinate (a solchi incrociati) lasciate da moderne pinzette. In questo caso si deve
però tener conto che tali strumenti potrebbero essere stati usati in un restauro moderno
per raddrizzare e rimettere in forma l'oggetto.
L'uso estensivo della lima è sospetto, sebbene occasionalmente tracce di lima si trovino
anche su materiale autentico. L'uso del bulino di tipo moderno che asporta metallo sotto
forma di truciolo non è attestato, eccetto per le incisioni di anelli-sigillo. Incisioni lineari
senza asportazione di materiale erano eseguite con una punta metallica usata come una
penna (punta a stilo).
La saldatura in molte falsificazioni, in specie per il lavoro di granulazione, è eseguita con
truciolo o segatura di lega saldante. Spesso quest'ultima è troppo abbondante e inonda i
piccoli dettagli del manufatto. L'analisi chimica delle leghe usate come materia prima non è
decisiva per l'identificazione dei falsi, avendo gli originali leghe molto variabili nelle
proporzioni tra oro, argento e rame. Solo la presenza di zinco o di cadmio può essere
indicativa. Lo zinco è presente nelle leghe d'oro usate dai dentisti, mentre il cadmio è usato
come allegante nelle moderne leghe di saldatura. Per nascondere il colore più chiaro dei
saldanti e dare all'oro un aspetto più «antico», alcuni falsi vengono dorati per via
elettrolitica. La presenza della doratura è rilevabile con la microsonda ai raggi X: l'analisi
eseguita su una superficie piana e ristretta dell'oggetto dà inizialmente oro puro;
eliminando meccanicamente un leggero strato di materiale e analizzando una seconda volta
la stessa zona, risultano anche gli alleganti dell'oro di base.
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(E. Formigli)
Egitto. - Nell'antico Egitto il gioiello non era considerato soltanto un ornamento. A esso
venivano attribuite valenze apotropaiche che potevano influenzare la scelta e la
combinazione di forme, colori e materiali.
L'o. egizia si serviva esclusivamente di pietre dure o paste vitree, tra le quali aveva un
posto d'onore il lapislazzuli importato dall'Afghanistan. Della turchese veniva preferita la
varietà verde, oggi considerata la meno preziosa, estratta nelle miniere di Wādī Maghara e
Serabit el-Khadim nel Sinai. Il blu del lapislazzuli e il verde della turchese incontravano un
enorme favore perché considerati strettamente legati a concetti quali rinascita e
rigenerazione. Anche la corniola era usata di frequente, soprattutto per realizzare amuleti
in forma di cuore e pendenti di collana;che imitavano i frutti del melograno. Le tre pietre si
trovano sovente in associazione, soprattutto nell'o. del Medio Regno, inserite in gioielli
d'oro. Con la steatite era fabbricata la maggior parte degli scarabei: iscritti e incastonati in
anelli, vennero prima utilizzati come sigilli per poi essere impiegati come amuleti. Sin
dall'epoca predinastica la steatite veniva ricoperta con un'invetriatura di colore verde o
azzurro per imitare la turchese. Il feldspato, di colore celeste, era la pietra che i capitoli 159
e 160 del Libro dei Morti prescrivevano per la fabbricazione di amuleti in forma di papiro.
In feldspato venivano anche realizzati castoni, perline di collane e i c.d. scarabei del cuore.
Anche il diaspro aveva un largo impiego in O.: la varietà di colore rosso era utilizzata
soprattutto per un particolare tipo di orecchino (di moda durante il Nuovo Regno) e per
amuleti. L'o. egiziana faceva inoltre largo uso di malachite, ematite, ossidiana, serpentino e
di varî tipi di quarzo. Le pietre dure potevano essere imitate o sostituite con la faïence (v.).
I metalli più utilizzati erano, naturalmente, l'oro e l'argento. Si riteneva che le ossa degli dèi
fossero d'argento e le loro carni d'oro. Fino in epoca romana il primo, ottenuto quasi
esclusivamente attraverso scambi commerciali, mantenne un valore doppio rispetto all'oro.
Perciò l'oro incontrò sempre un maggior favore, anche per la sua inalterabilità che lo
rendeva estremamente rappresentativo per valori simbolici legati all'eternità. Ne era
particolarmente apprezzato anche il vivace e armonioso accostamento cromatico con gli
intarsi in pietre dure o pasta vitrea. L'argento, invece, veniva utilizzato quasi soltanto in
combinazione con il lapislazzuli e con l'oro. Assai diffuso era anche l'elettro, lega d'oro con
alta percentuale d'argento che poteva essere reperita in natura o ottenuta artificialmente.
Creazione artificiale era anche il c.d. oro rosso, ottenuto riscaldando e martellando oro
misto a pirite (bisolfuro di ferro), fino alla formazione di una sottile patina rossastra sulla
superficie. Numerosi sono i gioielli in «oro rosso» nel tesoro di Tutankhamon. In ferro
meteoritico ad alto contenuto di nichel, che gli Egizî chiamavano «metallo del cielo»
attribuendogli origine divina, venivano realizzati gioielli con funzione apotropaica.
L'o. si avvaleva anche di materiali organici come l'avorio, la madreperla e il corallo. Le
conchiglie furono tra i primi ornamenti utilizzati dagli Egizi.
Credenze popolari attribuivano loro il potere di favorire la fertilità femminile e furono
perciò spesso riprodotte in oro o in argento.
Degno di nota è il pendente in oro con incastonature in turchese, lapislazzuli e corniola,
riproducente un'ostrica perlifera (Museo Egizio del Cairo, CG 53070) ritrovato nella tomba
della principessa Mereret a Dahšūr (XII dinastia, regno di Amenemhet III).
Molte testimonianze dell'o. egizia, appartenenti anche a epoche assai distanti tra loro,
rispondono a istanze di carattere sia estetico sia simbolico. Sono pochi i gioielli in cui la
composizione, la forma o il colore non richiamino tematiche legate alla protezione della
persona. Ve ne sono alcuni che traggono spunto proprio dall'accumulo di simboli
apotropaici. È il caso di molti degli ornamenti di Tutankhamon. Questa tendenza è ben
rappresentata dal pettorale in oro lavorato a giorno e con incastonature, la cui parte
centrale è costituita da un falco con le ali spiegate; la testa e il corpo dell'animale sono
sostituiti da uno scarabeo in calcedonio (Museo Egizio del Cairo, JE 61884). Intorno trova
posto una serie di simboli legati a tematiche solari e lunari, di rinascita e di rigenerazione. Il
gioiello è inoltre interpretabile come un rebus, la cui soluzione è data dal nome di
Tutankhamon stesso, racchiuso all'interno di una cornice protettiva.
Meno elaborata e più ispirata a temi naturalistici è l'o. delle epoche precedenti. Si pensi alle
gemme di corniola, lapislazzuli e turchese a forma di farfalla che impreziosivano i
braccialetti in argento ritrovati a Gīza nella sepoltura della madre di Cheops, la regina
Heteperes (Museum of Fine Arts di Boston, 47.1699-1701), oppure alla collana di
scarafaggi, insetto sacro alla dea Neith, in oro battuto, proveniente da una tomba di Gīza in
cui era sepolta una principessa vissuta all'epoca della V o VI dinastia (Museo Egizio del
Cairo, s. n.). In entrambi i casi la forma degli insetti risulta estremamente stilizzata.
Temi naturalistici ricorrono anche nei gioielli del Medio Regno ritrovati in sepolture di
principesse e regine nelle necropoli di Dahšūr, Lišt e Lahun. Tra quelli della principessa
Khnumet troviamo alcune collane in oro i cui pendenti riproducono una farfalla, stelle
marine, conchiglie e mosche (Museo Egizio del Cairo, CG 52975-52979). La stilizzazione di
queste ultime è portata agli estremi, tanto che a rappresentare l'intero insetto restano
soltanto le due ali. Sempre di Khnumet è l'elaborato pendente, realizzato in filo e granuli
d'oro, il cui elemento centrale è un medaglione in fritta dipinta (materia azzurra silicea): il
motivo decorativo, una delle prime miniature note, rappresenta una giovenca sdraiata. Lo
stile della pittura e altri elementi formali del gioiello sembrerebbero indicare un'origine
straniera.
Motivi d'ispirazione vegètale compaiono nei diademi della XII dinastia: rosette in oro
sbalzato a forma di margherita impreziosivano la parrucca della dama Senebtisi, sulla cui
sommità poggiava una coroncina di filo d'oro intrecciato a formare una catena estendibile
(Metropolitan Museum of Art di New York, 07.227.6-7). Anche i segni geroglifici con
significato di buon augurio furono largamente impiegati dagli orefici del Medio Regno:
splendidi esempî si trovano tra i gioielli delle regine Khnumet, Sit-ḥatḥor e Mereret.
Il motivo delle due sfingi affrontate, già trattato con leggerezza in alcuni braccialetti del
Medio Regno, è ripreso in un'armilla (Museo Egizio del Cairo, CG 52642) ritrovata nella
tomba della regina Ahḥotep (fine XVII dinastia). Il modellato dei corpi leonini è però più
pesante e l'intero gioiello manca della sobrietà e dell'eleganza di quelli delle epoche
precedenti. Gli altri gioielli del corredo della regina riscattano la pesantezza dell'armilla,
dimostrando una tendenza alla semplicità e una predilezione per le forme essenziali.
Splendida in questo senso è la catena in maglia intrecciata d'oro il cui pendente è uno
scarabeo di lapislazzuli incastonato in oro. Le due estremità della collana rappresentano
una testa d'anatra ripiegata su un lungo collo (Museo Egizio del Cairo, CG 52670).
Contemporaneo ai gioielli della regina Ahḥotep è verisimilmente il diadema ritrovato nella
regione del Delta orientale (Metropolitan Museum of Art di New York, 68.136.1). Su una
striscia d'elettro, che doveva essere legata sulla fronte, sono montate le teste a rilievo di
quattro gazzelle e quattro rosette; al centro, punto culminante di tutta la decorazione, si
trova la testa di un cervo, animale estraneo alla fauna egiziana e che ha fatto pensare a
un'ispirazione straniera. Notevole è la stilizzazione degli animali, giustificata dalla necessità
di ridurre i modelli a meri elementi decorativi.
Influenze esotiche di ambito mediterraneo sono rintracciabili anche nell'o. di epoca di poco
posteriore, testimoniata dai corredi funerari di tre regine, mogli di Thutmosis III.
Rappresentativo di queste nuove tendenze è il copricapo in oro con incrostazioni in
corniola, turchese e fritta colorata (Metropolitan Museum of Art di New York, 26.8.117a).
Sulla sommità poggia un elemento in oro dal quale si dipartono strisce d'oro con alcune
rosette applicate; queste sono di una forma che ha precisi riscontri in ambito egeo e di
dimensioni decrescenti dal basso verso l'alto.
La magnificenza dei tesori di Tutankhamon manifesta un gusto sempre più spiccato per
l'opulenza e lo sfarzo. Nei gioielli ritrovati nelle tombe dei faraoni della XXI e XXII dinastia
a Tanis si nota invece la quasi totale assenza dei forti contrasti cromatici tra metalli e
pietre a vantaggio della sfumatura, giocata soprattutto su varie tonalità dell'azzurro.
Aumenta l'uso dell'argento che, in combinazione con l'oro e il lapislazzuli, dà vita ad alcuni
capolavori dell'o. egiziana, caratterizzati da sobrietà e linearità di forme. Notevole è la
propensione per modelli e gioielli importati dal Vicino oriente, rilevabile, p.es., in una
collana in lapislazzuli e oro appartenuta al faraone Psusennes (Museo Egizio del Cairo, JE
85755 e 85756): una delle perle reca un'iscrizione cuneiforme che ne comprova la
provenienza dall'Assiria.
L'o. di epoca greco-romana, scarsamente documentata dai ritrovamenti archeologici, è ben
testimoniata dai sarcofagi in stucco dorato su cui erano rappresentati i gioielli del defunto,
ispirati a modelli di mille anni più antichi.
Non si tratta di una tendenza alla conservazione, ma di un'evidente volontà di riferimento
all'Egitto faraonico le cui manifestazioni artistiche riscossero enorme consenso già
nell'ambito della cultura ellenistica e nel mondo romano.
Bibl.: C. R. Williams, Catalogue of Egyptian Antiquities of the New York Historical
Society: Gold and Silver Jewelry and Related objects, New York 1924; E. Vernier,
Catalogue Général des Antiquités Egyptiennes du Musée du Caire. N.os 52001-53855:
Bijoux et orfèvreries, I-II, Il Cairo 1927; M. Vilimkova, M. H. Abdul Rahman, Egyptian
Jewellery, Londra 1969; C. Aldred, Jewels of the Pharaons. Egyptian Jewelry of the
Dynastic Period, New York 1971; A. Wilkinson, Ancient Egyptian Jewellery, Londra 1971;
T. G. H. James, Gold Technology in Ancient Egypt. Mastery of Metal Working Methods,
in Gold Bulletin, V, 1972, 2, pp. 38-42; J. H. F. Notton, Ancient Egyptian Gold Refining. A
Reproduction of Early Techniques, ibid., VII, 1974, 2, pp. 50-56; J.-L. Chappaz, La
purification de l'or, in Bulletin de la Société Egyptologique de Genève, IV, 1980, pp. 19-
24; C. Andrews, Catalogue of Egyptian Antiquities in the British Museum. VI. Jewellery,
I, Londra 1981; AA.VV., Tesori dei Faraoni (cat.), Milano 1984; E. D'Amicone, Cowrie-
Shells and Pearl-Oysters: Two Iconographie Repertories of Middle Kingdom Golden-
Work, in Bulletin de la Société Egyptologique de Genève, IX-X, 1984-1985, pp. 63-70; G.
Rosati, ornamenti preziosi: gioielli e amuleti, in A. M. Donadoni Roveri (ed.), Museo egizio
di Torino. Civiltà degli Egizi: la vita quotidiana, Milano 1987; B. Scheel, Egyptian
Metalworking and Tools (Shire Egyptology, 13), Ailesbury 1989; C. Andrews, Ancient
Egyptian Jewellery, Londra 1990.
(F. Tiradritti)
Sudan. - L'Egitto cominciò a sfruttare le miniere d'oro di Wawat (corrispondente
approssimativamente alla regione compresa tra Assuan e Semna) a partire dal Medio
Regno. È forse da attribuire proprio all'enorme ricchezza dei giacimenti il grande sviluppo
che conobbe l'o. in Sudan, e che riecheggia nei resoconti degli antichi viaggiatori sino in
epoca greco-romana. Tuttavia le testimonianze scritte non hanno riscontro nei
ritrovamenti archeologici, che illuminano la storia dell'o. sudanese soltanto
sporadicamente.
La ricchezza della gioielleria di epoca kushita, d'ispirazione egiziana ma con chiare
caratteristiche autoctone, si ritrova in una collana in granuli e lamina d'oro con decorazione
sbalzata (Museum of Fine Arts di Boston, 21.3o7), appartenente a una regina vissuta
nell'VIII sec. a.C., la cui salma fu sepolta in una tomba a el-Kurru (Ku. 72). Il gioiello è
composto da due crescenti di differenti dimensioni, incernierati alle due estremità. Il più
grande ha al centro una divinità femminile alata, il più piccolo uno scarabeo. Nonostante i
motivi iconografici appartengano al repertorio egiziano, la resa grossolana e le proporzioni
delle due figure inducono ad attribuire il gioiello a un orefice locale. Di fattura assai più
pregevole è il pendente in cristallo di rocca sormontato da una testa della dea Ḥatḥor in oro
(Museum of Fine Arts di Boston, 21.321), sempre proveniente da el-Kurru (Ku. 55) e
facente parte del corredo di una non meglio identificata moglie del sovrano Pyie (VIII sec.
a.C.).
I gioielli ritrovati nelle piramidi di Nuri, saccheggiate già in antico, sono assai scarsi. Gli
oggetti di uso comune in oro ivi sporadicamente rinvenuti testimoniano la ricchezza dei
corredi e fanno rimpiangere quello che è andato perduto. Un singolare gioiello, dal sepolcro
(Ku. 8) del re Aspelta, vissuto all'inizio del VI sec. a.C., serve da abbellimento a una fiala in
alabastro di produzione egiziana (Museum of Fine Arts di Boston, 20.1070). Una lamina
lavorata in agemina d'oro riveste il collo e il bordo, cui sono attaccati alcuni pendagli con
grani in corniola, lapislazzuli e turchese. Non si conoscono esempî simili in Egitto ed è lecito
supporre che l'ornamento sia stato aggiunto quando il vaso arrivò alla corte napatea.
D'altronde, una simile pratica si iscrive bene nel gusto per la sovrabbondanza decorativa
costante in tutta l'arte dell'antico Sudan. Una conferma di questa tendenza è fornita da un
orecchino d'oro riproducente la testa di un ariete con doppio ureo e disco solare (Museum
of Fine Arts di Boston, 23.333). La limitata superficie a disposizione dell'orefice è occupata
da numerosi particolari che quasi soffocano il muso dell'animale e il disco solare, estremità
inferiore e superiore del gioiello che, a colpo d'occhio, sembrano risaltare da una massa
confusa d'oro grezzo. Eppure, nonostante gli eccessi decorativi, l'o. sudanese di questo
periodo è molto più naturalistica di quella egiziana dalla quale deriva: la testa d'ariete non
mostra il minimo segno di stilizzazione.
Oltreché da ritrovamenti sporadici, l'o. di epoca meroitica è nota attraverso i risultati di un
saccheggio perpetrato nella necropoli di Meroe da un medico bolognese agli inizî del secolo
scorso. La piramide (Begr. Ν 6) della regina Amanishakhete, vissuta nel I sec. a.C., fu
distrutta con la dinamite e al suo interno fu trovato un gruppo di gioielli attualmente diviso
tra i musei di Berlino e Monaco. L'insieme dei reperti dimostra come anche in questo caso
l'o. sia specchio delle arti maggiori. Gli influssi, egiziani da un lato ed ellenistici dall'altro,
sono chiaramente rilevabili. Si tratta di una gioielleria estremamente elaborata,
soprattutto in oro con inserimenti di paste vitree multicolori.
Caratteristici sono i c.d. anelli a scudo, nei quali il castone è costituito da un'egida (una
collana, che ricopriva tutta la parte superiore del petto e che dai primi egittologi fu, a torto,
considerata uno scudo, su cui poggia la testa di una divinità). Tra questi spicca l'anello con
l'egida sormontata da una testa del dio Ammone criocefalo con disco solare, raffigurato
nell'atto di uscire dal portale di un tempio (Staatliche Sammlung Ägyptischer Kunst di
Monaco, Ant. 2446b). Le perline e i pendenti in faïence, vetro e sassolini, di una collana
sono ispirati agli amuleti egiziani più noti (Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di
Berlino, 1755); l'accostamento dei colori, audace e quasi chiassoso, è però estraneo alla
cultura faraonica.
Ben rappresentata è la sfragistica (cinquantasette anelli in oro e cinque in argento), i cui
temi sono legati all'immaginario divino e regale meroitico; alcune iconografie sono mutuate
dal mondo greco-romano contemporaneo, quali lo Zeus-Serapis-Ammone rappresentato
sull'incrostazione di un anello in oro (Ägyptisches Museum di Berlino, 1700). Tra i gioielli
della regina Amanishakhete figuravano anche due cammei in agata raffiguranti la dea
Atena (Ägyptisches Museum di Berlino, 1751) e una maschera tragica (Staatliche
Sammlung di Monaco, Ant. 2497) di sicura produzione greca.
Bibl.: H. Schäfer, Königliche Museen zu Berlin. Mitteilungen aus der Ägyptischen
Sammlung, I. Ägyptische Goldschmiederarbeiten, Berlino 191o, pp. 92-188; J.
Vercoutter, The Gold of Kush. Two Gold-Washing Stations at Faras East, in Kush, VII,
1959, pp. 12o-153; K.-H. Priese, Das Gold von Meroe, Magonza 1992.
(F. Tiradritti)
Vicino Oriente. - L'ampliarsi delle scoperte e l'approfondirsi delle ricerche nel senso
dell'analisi quantitativa e qualitativa della documentazione, l'evolversi della metodologia
con la sua maggiore articolazione a seguito del moltiplicarsi dei punti di approccio e delle
prospettive culturali hanno costituito negli ultimi anni i presupposti per la ricomposizione
del quadro dell'o. quale prezioso documento di cultura artistica nell'ambito della storia
dell'arte del Vicino oriente antico e del Mediterraneo occidentale. L'o. infatti riflette, meglio
di altre manifestazioni artistiche, correnti commerciali, influenze stilistiche, rapporti tra
culture diverse (G. Becatti) e rappresenta quindi un veicolo di diffusione del gusto. Proprio
perché facile oggetto di scambio e importazione risulta di difficile definizione cronologica e
areale, sicché per il gioiello antico si può desumere l'epoca di utilizzo piuttosto che quella di
fabbricazione. La sistemazione è ostacolata inoltre dal riaffiorare di motivi e forme anche a
intervalli lunghissimi di tempo e spazio; dalla tesaurizzazione del gioiello in quanto tale; dal
forte conservatorismo nella tipologia dei monili a causa del loro valore materiale; dalla
disparità di documentazione tra le aree culturali, disparità per la quale giudizi d'assieme
sono viziati o condizionati da una serie di argomenti ex silentio. Il gioiello antico non è
necessariamente d'oro, è spesso costituito da materiali differenti. Nell'assemblaggio le parti
metalliche costituiscono il supporto, le pietre preziose o semipreziose, il vetro, ecc.,
l'ornamento. In alcuni casi poi una maggiore omogeneità caratterizza il gioiello che può
essere d'oro e diversamente lavorato con granuli, filigrana e con decorazioni volte a
valorizzare il metallo. Infine è da sottolineare che l'o. è indirizzata sia agli uomini che alle
donne. Alcuni tipi sono comuni ai due sessi, per altri l'uso è alternativo e oscillante nel
tempo e nello spazio.
Mesopotamia. - La più antica storia dell'o. in Mesopotamia comincia nel Nord del paese a
Tepe Gawra alla fine del IV millennio a.C. con il rinvenimento in una ricca sepoltura di
rosette e grani d'oro, lapislazzuli e turchese. Per il periodo che precede il Protodinastico le
uniche attestazioni di lavori di O. sono i riferimenti relativi all'oro, argento e pietre preziose
contenuti nella letteratura sumerica.
Nel periodo protodinastico (c.a 2900-2400 a.C.) il consolidamento delle città-stato
comporta una concentrazione di beni e ricchezze nell'ambito regale e templare con
conseguente attestazione di notevoli complessi di oreficeria. Di questi, la collezione più
rilevante, per ricchezza e varietà di materiali preziosi e di tecniche, è stata rinvenuta nella
necropoli reale di Ur, in uso tra il tardo Protodinastico e gli inizî della III dinastia di Ur (c.a
2600-2000 a.C.). I gioielli più noti appartengono alla regina Pu-abi. Essi includevano
un'acconciatura per il capo costituita da diversi giri di foglie e fiori in lamina d'oro, pendenti
e dischi sempre di lamina aurea incastonati di lapislazzuli alternati a grani cilindrici di
lapislazzuli e corniola; splendidi orecchini d'oro a doppio crescente; diversi tipi di spilloni
per capelli; anelli in filigrana e cloisonné, varie collane formate da più fili di grani di diversa
foggia in lapislazzuli e corniola. Tra queste in particolare ne spicca una composta da nove
elementi triangolari di lamina aurea scanalata alternati ad altrettante piastrine triangolari
di lapislazzuli. Una variante che sostituisce le placchette rigide di pietra dura e oro con
triangoli formati da piccoli globetti d'oro saldati insieme rappresenta il più antico e
primitivo esempio di tecnica della granulazione. I principali materiali, oro, argento,
lapislazzuli e corniola, usati con grande profusione e accostati con meditato effetto
cromatico, erano tutti importati (i metalli dall'Iran o dall'Anatolia; il lapislazzuli dal
Badakhšān, Afghanistan orientale; la corniola, specie quella venata di bianco, dalla valle
dell'Indo attraverso il Golfo Persico). Quanto all'agata, è rara nelle tombe reali ma il suo
uso diviene più comune in epoca successiva. Altri complessi di O., seppure meno ricchi di
quelli di Ur, vengono da Mari. Qui, in una tomba sotto il tempio di Ištar, è stato rinvenuto
un gruppo di gioielli dell'inizio del periodo protodinastico (inizî del III millennio). La
collezione comprende un frontale d'oro decorato da otto rosette, frammenti di rosette
d'argento, due placche circolari (definite pettorali nella pubblicazione) con motivi
geometrici a sbalzo. Più strette connessioni con gli esemplari di Ur mostra invece un altro
gruppo di gioielli trovato chiuso in una giara. Tra questi un grano di collana di lapislazzuli
con il nome di Mesannipadda, fondatore della I dinastia di Ur, un braccialetto di grani aurei
di forma allungata e un pendente costituito da due cerchi di lamina d'oro intrecciati con al
centro un cono d'oro e lapislazzuli. Secondo alcuni studiosi quest'ultimo gruppo di monili
faceva parte della dote di una principessa di Ur per le nozze con un principe di Mari ovvero
apparteneva a un principe di una città sottomessa a Ur.
La ricchezza dei corredi di Ur del tardo periodo protodinastico non trova riscontro nella
produzione suntuaria di epoca accadica (c.a 2370-2200 a.C.). Nel periodo di Sargon e dei
suoi successori, infatti, si colgono segni di economia nell'uso dell'oro (cui è preferito
l'argento, forse di più facile reperibilità) e dei gioielli in genere. Questi ultimi, come ben
documenta il materiale da Ur, vengono semplificati dal punto di vista morfologico: i frontali
sono in lamina d'oro, gli orecchini a crescente presentano dimensioni ridotte al pari dei
pendenti e dei grani delle collane. Per queste ultime, assai numerose, vengono impiegate
pietre poco diffuse in epoca protodinastica (agata, onice, cristallo di rocca, solo in qualche
caso incastonate in oro) e la fritta (impasto siliceo invetriato di colore azzurro). L'epoca
accadica tuttavia segna un momento determinante nella storia dell'o. e delle tecniche
mesopotamiche. All'espansione del commercio in Anatolia è verosimilmente legata la
diffusione di oggetti e tecnologie verso zone (Caucaso e Transcaucasia) ignote ai mercanti
protodinastici. Centri di lavorazione locale dell'oro in Anatolia e Persia, in zone quindi
prossime alle fonti di approvvigionamento della materia prima, furono ovviamente
stimolati e influenzati dai contatti con le aree urbanizzate della terra tra i due fiumi. Il sito
di Troia è in questo senso significativo: la fattura degli splendidi gioielli del Tesoro rivela
innegabilmente l'influenza dell'artigianato orafo mesopotamico per quanto concerne la
tipologia e la tecnica. Nell'ambito poi della diffusione degli influssi mesopotamici notevole fu
la funzione mediatrice svolta da Tell Brak, stanziamento arcadico in posizione strategica
nella Siria del Nord: oggetti d'oro e forse anche artigiani potevano viaggiare fra la costa
siriana e l'Asia Minore o via terra fra Assur e Kültepe. Tra i reperti da detto sito sono
importanti, per i raccordi che esplicano, i pendenti formati da quattro fili d'oro avvolti a
spirale e saldati insieme ad anello, con il centro cavo destinato a un originario riempimento
di pietra dura ovvero in forma di dischetto aureo. Analoghi esemplari completi di disco al
centro sono documentati anche a Kültepe, Tell Asmar e ad Assur in una tomba del periodo
antico assiro. Parimenti importanti, per le connessioni tecniche e tipologiche con affini
reperti in rame e bronzo, oro e argento trovati in Siria e Palestina, sono i chiodi di rame,
distinti in quattro tipi (a sommità conica, a tronco di cono, a cono bulboso e con sommità a
ricciolo).
Il periodo della III dinastia di Ur (c.a 2112-2004) è caratterizzato da uno scarso numero di
ritrovamenti di gioielli, il che con ogni verosimiglianza è motivato dal fatto che poche tombe
riferibili a tale periodo sono state scavate. I testi, invece, contengono numerosissimi
riferimenti a orafi, gioiellieri, ecc. impiegati nella complessa organizzazione dei santuari e
dei palazzi. Alcune testimonianze relative ai ricchi materiali dei quali danno notizie i testi
vengono da Uruk (la collana della sacerdotessa Abbabašti con enorme onice incastonata in
oro), Nippur e Ur (orecchini, anelli crinali a spirale, frontali di sottile lamina, grani
incapsulati in lamina d'oro talora granulata, perle di collana di varia forma e in pietra dura,
specie onice, agata, ecc.) abbinati a un rinnovato gusto per la policromia. Ad Assur una
tomba (n. 20) del periodo antico assiro ha fornito un gruppo di gioielli di grande rilevanza.
Tra questi gli orecchini con corpo a sanguisuga ingrossata decorata da motivi in filigrana e
granulazione, che ricalcano modelli sud-mesopotamici della III dinastia di Ur e che trovano
riscontro in analoghi e coevi reperti da Susa. La diffusione dell'o. di Ur III è inoltre
documentata in regioni assai lontane: dalle tombe di Trialeti in Georgia, tramite Assur, al
tesoro di Tepe Hissar nel Nord dell'Iran, che rivela in particolare modo stretti contatti con
la Mesopotamia.
Il sito di Assur ha fornito una ricca collezione di gioielli d'oro e d'argento trovati in tombe e
sepolture a cominciare dalla III dinastia di Ur fino al periodo tardo assiro del IX-VII sec.
a.C. Da una tomba ben databile al regno di Tukulti-Ninurta I (1244-1208 a.C.) provengono
collane formate da placche d'oro e lapislazzuli, diademi in forma di collana, pendenti
variamente foggiati e talora decorati a granulazione (a forma di melagrana, di vasi, di disco,
di pietra dura incastonata in oro, ecc.), svariati orecchini (con corpo a sanguisuga, ad anello
ingrossato da rosette, con pendenti a goccia), pettorali a cloisonné dai quali traspare un
forte influsso egiziano, che poteva essere il risultato di contatti diretti tra l'Egitto e gli
artigiani assiri ovvero indiretti e in tal caso mediati attraverso la costa fenicia e il Nord
della Siria. Nei secoli successivi gli annali assiri, da Tiglatpileser I (1115-1077) fino a Sargon
II (721-705) e oltre, menzionano, fra le liste dei bottini e dei tributi, un gran numero di
oggetti preziosi. La documentazione fornita dai manufatti viene integrata da quella
raffigurata sui rilievi che decoravano le pareti delle sale dei palazzi reali. Di questi ultimi,
soprattutto i cicli compresi nell'arco di tempo tra Assurnasirpal II (883-859 a.C.) e
Assurbanipal (668-626) sono significativi sotto più punti di vista. In primo luogo, la cura
minuziosa posta nella resa dei diversi ornamenti personali è indicativa dell'originaria
ricchezza e qualità dei monili, la cui odierna documentazione materiale risulta invece
piuttosto limitata, a seguito delle distruzioni e dei saccheggi subiti dalle capitali dell'impero,
e in specie da Ninive. In secondo luogo ê determinante il contributo che essi forniscono ai
fini dell'individuazione dell'origine di un gran numero di manufatti rinvenuti
sporadicamente, in particolare in Persia. Ancora l'espansione dell'impero assiro oltre i
confini della Mesopotamia, verso la Siria e l'Urartu a Ν e l'Elam a E, determina afflusso di
bottini e tributi, nonché deportazioni di artigiani, con conseguente introduzione di tecniche
e modelli derivati, o quanto meno ispirati, da quelli delle popolazioni finitime (Siria,
Anatolia, Iran). Tra i gioielli assiri uno dei reperti più notevoli è un pendente da una tomba
del palazzo di NE di Nimrud appartenuto a una principessa e datato al 681-669 a.C.: un
calcedonio ovale finemente inciso e montato su un castone d'oro riccamente decorato
pende da una catena anch'essa d'oro. Per quanto concerne i gioielli riprodotti sui rilievi, per
la maggior parte dei quali le recenti scoperte avvenute a Nimrud (1988-89) hanno fornito
la relativa documentazione, numerosi sono i tipi di orecchini, specie maschili (a sanguisuga
semplice, con singolo pendente a fungo, a estremità conica - il tipo più comune e con
diverse varianti - a croce con tre bracci, a bastoncello con pendenti di varia forma). Un
particolare tipo di armilla, prerogativa per lo più di sovrani, sacerdoti e alti dignitari, con
evidente funzione anche apotropaica, è costituito da una verga a estremità semplici ovvero
modellate a sbalzo in forma di protomi di leone, toro e ariete. Precipui del IX, con qualche
attardamento nell'VIII sec. a.C., e spesso raffigurati in combinazione con l'armilla sopra
citata, sono i bracciali a fascia decorati da una o più rosette d'oro o in lamina d'oro. Le
rosette sono applicate anche su diademi a fascia. Inoltre è da sottolineare il fatto che gli
Assiri usavano i gioielli quale decorazione di vesti, di tiare di sovrani e dignitari, nonché di
figure apotropaiche, decorazioni che all'epoca di Sargon e Assurbanipal assumono
particolare sfarzo.
Siria e Palestina. - L'area siro-palestinese aveva una notevole e caratteristica produzione
di gioielli. Un'ampia testimonianza relativa al III e al II millennio a.C. viene da Biblo, ove è
preminente l'influenza egiziana. Le strette relazioni che esistevano fin dall'Antico Regno tra
l'Egitto e il porto siriano giustificano l'ispirazione agli usi e costumi, nonché all'arte egiziana,
dei sovrani locali, Abi-Šemu e Ip-Šemu-Abi, del XIX e XVIII sec. a.C. I re di Biblo si fecero
infatti seppellire adorni degli attributi della regalità faraonica: corona con ureo decorato da
geroglifici, anelli di ametista a forma di scarabei, collari d'oro decorati a sbalzo con falchi ad
ali spiegate, pettorali e medaglioni in smalto cloisonné. I temi, espressi in linguaggio locale,
come ben attestano le libertà rispetto ai modelli originali, e le tecniche derivano dal
repertorio egiziano, il quale rappresenta l'elemento di raccordo e continuità con la
produzione di epoca successiva.
Un altro notevole complesso di gioielli è stato rinvenuto a Teli el-Ağğūl (nei pressi di Gaza)
in tombe ovvero in ripostigli di datazione compresa tra il 175o e il 135o a.C. Le tecniche
utilizzate dagli artigiani di Teil el-Ağğūl, granulazione, filigrana e cloisonné, sono le stesse
documentate a Biblo. Ulteriori raccordi con tale centro sono riscontrabili nell'uso di
cerniere con perno, quali elementi di chiusura per diademi, bracciali e cinture; nello stesso
tipo di fermaglio a doppia spirale per i diademi a fascia, nel motivo della rosetta realizzata
in sottile lamina nonché in grani d'oro e ametista ovvero scanalati a collarino rilevato.
Fra gli orecchini la tipologia più usuale è quella a forma di bastoncello, assottigliantesi alle
estremità aperte, variamente foggiato: con incisioni sulla superficie, a barra, a treccia, liscio
con pendente saldato alla base costituito da uno o più grani a grappolo (quest'ultimo tipo ha
larga diffusione nell'area del Vicino oriente e perdurerà anche nel corso del I millennio
diffondendosi, tramite il vettore fenicio, in tutto il Mediterraneo). Assai peculiari sono
inoltre gli orecchini in lamina a forma di falco ad ali spiegate evidenziato solo sul lato in
vista da un sottile lavoro di sbalzo e granulazione. La loro forma è da considerare, secondo
alcuni studiosi, prototipo dei più comuni orecchini a crescente ovvero a sanguisuga.
Altrettanto singolari sono gli orecchini o pendenti a schema cruciforme realizzati in oro,
cloisonné e granulazione. Lo schema cruciforme è stato letto quale disco alato sormontato
da disco maggiore e terminante in basso con protome di toro stilizzato, le cui corna rese da
fascette si rialzano congiungendosi al motivo centrale. Numerosi anche i pendenti, tra i
quali la mosca e il fiore di loto sono di chiara ispirazione egiziana. Tipico invece dell'area
siro-palestinese (oltre Gaza, Ugarit e Bet Šĕ'an), specie nel periodo del Tardo Bronzo, è il
pendente in lamina d'oro riproducente l'immagine frontale della dea nuda (Astarte)
arricchita di motivi decorativi a sbalzo. Sebbene alcuni elementi, quali l'acconciatura
hathorica a grossi riccioli e gli steli con fiore di loto stretti nelle braccia, siano un retaggio
egiziano, soprattutto gli esemplari di Ugarit del XIV e XIII sec. a.C. rivelano,
conformemente ad altri centri siriani, l'autonoma realizzazione locale di una immagine
divina, simbolica della fertilità, risalente a uno dei tipi della Ištar mesopotamica.
I gioielli rinvenuti nei tre ipogei della necropoli reale di Ebla paleosiriana («Tomba della
Principessa», «Tomba del Signore dei Capridi» e «Tomba delle Cisterne») rappresentano il
primo complesso del genere scoperto nella Siria interna. I gioielli sono databili in un arco
temporale compreso tra il 1800 e il 1650o a.C. e reso certo anche da contestuali
ritrovamenti di opere egiziane. I reperti più antichi sono quelli trovati nella «Tomba della
Principessa» (c.a 1800-1750). Si tratta di sei bracciali a barrette auree ritorte, con
granulazione negli incavi, che trovano un confronto in un analogo esemplare da una delle
tombe reali di Biblo; di un anello da naso, ovvero di un orecchino, decorato da triangoli e
losanghe granulate; di uno spillone a gambo attorto, disco centrale e testa a stella solo in
parte raccordabile ad analoghi reperti palestinesi del Bronzo Medio II; di una collana con al
centro uno scaraboide di lapislazzuli incastonato in una montatura aurea rettangolare
decorato da cloisonné di pasta vitrea perduta e grani a melone con collarino schiacciato
(questi ultimi risultano di morfologia ampiamente diffusa dall'inizio del II millennio in tutta
l'area del Vicino oriente e oltre). Dalla «Tomba del Signore dei Capridi» (c.a 1750-1700
a.C.) il gioiello più originale, opera di artigianato locale, è una splendida collana formata da
tre placche rettangolari da ciascuna delle quali pende un disco decorato a granulazione e da
una stella a sei punte tra le quali sono sei globetti. Tra gli altri monili un pendente in forma
di aquilotto di lapislazzuli con appiccagnolo d'oro, un pendente con catena aurea e due
elementi in forme di grani di collana tubolari d'oro, lapislazzuli e corniola e ancora borchie
in lamine d'oro con fori per applicazione. A una bottega egiziana della XII o XIII dinastia è
da riferire infine un anello d'oro con scaraboide incastonato tra due gigli affrontati. I gioielli
delle botteghe palatine eblaite contribuiscono quindi a delineare un quadro abbastanza
omogeneo di caratteri unitari per questo genere di produzione nel complesso dell'area siro-
palestinese degli inizî del XVIII-prima metà del XVII sec. a.C., evidenziando al contempo il
ruolo primario svolto dall'alta Siria in tale ambito.
Cipro. - La documentazione dell'o. cipriota nel corso della seconda metà del II millennio
a.C. evidenzia oltre alle origini micenee anche quelle asiatiche. Tipologie ben distinte
(orecchini a barretta ritorta, con pendente a grappolo ovvero a protome di toro stilizzato e
realizzato a granulazione) riflettono stringenti legami con i gioielli dell'antistante costa siro-
palestinese, legami peraltro esistenti già in epoca anteriore (2000 a.C.). Al riguardo è da
sottolineare il fatto che il più antico esempio di tecnica a granulazione attestato a Cipro è
fornito dagli orecchini rinvenuti nella tomba 8 di Enkomi. Per la morfologia del pendente (a
protome di toro stilizzato) e per la tecnica (granulazione), essi possono essere collegati a
quelli a cloisonné da Tell el-Ağğūl, considerati i prototipi dei suddetti esemplari. Nel corso
del I millennio la produzione orafa cipriota rappresenta il naturale proseguimento delle
manifestazioni della Fenicia e il tramite verso l'occidente mediterraneo di motivi e forme,
che diverranno precipui del mondo delle colonie. Alcuni tipi di orecchini - con pendente a
forma di chiodo rovesciato dalla testa arrotondata, a cestello cubico ovvero composto da
piccoli grani saldati a grappolo e attaccati alla base del corpo a bastoncello ingrossato -
nonché diversi pendenti (protome femminile, palmetta, fiore di loto, melagrana, disco con
umbone centrale, anelli, ecc.) sono particolarmente significativi per le attestazioni che
trovano nei diversi centri dell'occidente fenicio-punico. Tali gioielli sono databili, in base ai
contesti di rinvenimento, al VII-VI sec. a.C.
Fenicia e colonie occidentali. - L'artigianato orafo fenicio e punico con le possibilità offerte
dal commercio dei metalli lungo le rotte del Mediterraneo affonda le radici nella tradizione
dell'area siro-palestinese. Nello sviluppo di questo genere artigianale si osserva una
notevole omogeneità: non sempre è infatti possibile distinguere tra gioielli prodotti in
oriente ed esemplari rinvenuti nei diversi centri occidentali di produzione (Tharros,
Cartagine e Cadice) o in zone a questi collegati, anche per la disparità di documentazione
tra le due aree, carente per l'oriente ove in gran parte è andata perduta. In occidente,
nell'ambito del conservatorismo tipologico e tecnico che caratterizza tale genere di oggetti,
la documentazione presenta in prosieguo di tempo soluzioni originali e autonome rispetto al
repertorio di tradizione fenicia. La tematica religiosa egizia, che connota l'o. di area siro-
palestinese, diventa caratteristica precipua e distintiva dei monili fenici e punici di metallo
e pietra, nonché di quelli a essi ispirati. Tale tematica viene poi elaborata e penetrata da
successive intrusioni di filoni allogeni, che talvolta alterano l'impronta originaria e danno
luogo a caratterizzazioni che, pur conservando la matrice culturale, risultano diverse.
Recente è il rinvenimento nelle tombe di Sarafand di gioielli (orecchini di bronzo con corpo
a bastoncello, d'argento a croce ansata, a cestello, pendenti a disco) che riproducono forme
stereotipe già note dal repertorio delle colonie d'occidente. Proviene da Sidone, inoltre, da
un contesto tombale di età tarda (V-IV sec. a.C.), una delle poche testimonianze degne
delle più antiche O. delle tombe principesche della regione. Tra gli esemplari si ricordano:
una corona formata da una doppia banda d'oro intrecciata con al centro un rosone a smalto
cloisonné decorato a granulazione, alcuni elementi di collana (vaghi d'oro rotondi, allungati,
lisci o d'agata incastonata in oro, passanti modellati a occhio ugiat, un pendente a testa di
gorgone), anelli con castone, tra i quali, in particolare, uno con agata incastonata in una
coroncina d'edera e un'ametista sulla quale è incisa una scena di offerta a una dea in trono
fiancheggiato da sfingi alate.
Per quanto concerne l'occidente, la maggior parte dei gioielli proviene da Cartagine,
Tharros e Cadice. Tali centri, tutti collegati dal comune attaccamento a ima medesima
tradizione, accanto all'importazione di esemplari finiti o in parte lavorati, testimoniano lo
sviluppo di un artigianato dei manufatti pregiati, nei quali riversano il proprio repertorio
d'origine arricchito dalle suggestioni derivate dall'ambiente indigeno nonché dai contatti
con culture allogene. Rispetto a essi la documentazione offerta dalle altre colonie fenicie e
puniche del Nord Africa, Malta, Sicilia, Sardegna e Spagna meridionale è minoritaria.
Un gran numero di manufatti, soprattutto in oro, è stato trovato nelle tombe di Cartagine
del VII-VI sec. a.C. La produzione orafa, fiorente fin dall'epoca arcaica, comprende diversi
tipi di orecchini: con pendente a goccia, talora arricchito da granulazione, a sferetta, a
cestello, a croce ansata, a testa di chiodo rovesciato, con estremità assottigliantisi e avvolte
a spirale; anelli da naso (nezem), da caviglia. Fra gli anelli da dito caratteristici sono quelli
con castone rettangolare, fisso o girevole, incisi con motivi per lo più di carattere
egittizzante. A partire dal V sec. a.C. sono attestati anche quelli a staffa con soggetti talora
derivati dal repertorio classico e comunque sempre interpretati autonomamente. I
bracciali sono a bastoncello semplice o arricchito da motivi a rosetta o a lamine sbalzate con
scarabei alati e palmette. Tra i pendenti in metallo, pietra dura o pasta di vetro sono la
figura femminile con mani al seno, l'occhio ugiat, i medaglioni a complessa figurazione
egittizzante, ad arco centinaio con motivi di significato magico-religioso, il crescente con
disco, ecc. In epoca tarda la produzione viene semplificata in conseguenza delle mutate
condizioni socio-economiche, e tra l'altro modificata da suggestioni e influenze diverse,
senza comunque che essa venga meno al canone figurativo originario, denso di implicazioni
religiose e culturali. In Africa, una documentazione molto prossima a quella di Cartagine è
offerta dal materiale di Utica, Rašgun, Tangen e Mogador.
Allo stato attuale degli studi e delle scoperte, il complesso dei gioielli di Tharros risulta
ancora il più rilevante per quantità e qualità. Questo non implica che tutti gli esemplari ivi
rinvenuti siano necessariamente da attribuire a Tharros quale luogo di produzione. È
verosimile che nella fase fenicia (seconda metà del VII-VI sec. a.C.), come sembrano
indicare anche le recenti scoperte di preziosi da Cadice, vi sia stata un'importazione totale o
parziale di oggetti dall'area orientale del Mediterraneo. È altrettanto verosimile pensare
per alcuni esemplari a un'origine, tramite commercio, da altre località non sarde.
All'importazione si accompagna lo sviluppo di un artigianato locale particolarmente ricco,
articolato tipologicamente e iconograficamente, che anche quando la produzione dal V sec.
in poi si standardizza conserva il livello e il carattere distintivo che gli sono stati precipui fin
dall'inizio. Per quanto concerne la tipologia dei reperti, accanto ai tipi di orecchini già
indicati per Cartagine, sono da segnalare come caratteristici di Tharros, e ora anche di
Cadice, quelli a più pendenti agganciati (corpo a sanguisuga modellata alle estremità a
protome schematica di falco, con pendenti a falco, a ghianda ovvero a cestello) di attestata
ascendenza orientale. Numerosi sono anche gli orecchini d'argento, tra i quali particolare
frequenza presenta il tipo con pendente a cestello cubico che, nell'ambito della produzione
arcaica, si qualifica come prodotto destinato a un mercato più commerciale. Inoltre diversi
sono i bracciali a più lamine decorate a sbalzo e granulazione, gli anelli crinali semplici o a
protome di ibis, collane, pendenti in oro e pietra dura a protome e busto femminile, a
crisalide, a falco Horus, ecc. Gli anelli d'oro, d'argento o d'argento placcato d'oro con castone
di varia foggia (rettangolare, quadrato, circolare, con scarabeo o pietra dura) riproducono
tematiche di antica tradizione fenicia. In generale, infine, i reperti sono caratterizzati da
maggiore impegno decorativo, anche quando si tratta di tipologie poco significative. Altre
testimonianze sparse e limitate sono note da Cagliari, Nora, Bithia, Sulcis e Olbia.
Per quanto concerne l'Iberia, una delle fonti di approvvigionamento dei metalli (oro e
argento), le recenti scoperte di gioielli nelle tombe di Cadice (orecchini a più pendenti, simili
a quelli di Tharros, pendenti a disco, a crescente lunare, decorati da granulazione e
filigrana, anelli, vaghi tubolari, lisci, baccellati, ecc.) evidenziano per il VII-VI sec. a.C.
stretti rapporti con il centro di Tharros. Ciò da un lato prospetta la possibilità di
acquisizione di taluni reperti affini da ateliers vicino-orientali, dall'altro un'identica
provenienza orientale, nel caso specifica tiria, degli artigiani che lavoravano sui modelli
importati, elaborandone la struttura compositiva e la funzione in base alle offerte e alla
domanda. Né va esclusa, infine, l'ipotesi che, proprio per le stesse caratteristiche dei due
centri di Tharros e Cadice, entrambi scali fenici e sedi di grossi emporia, uno dei due abbia
operato da distributore all'altro. Dal V sec., con l'impianto di officine locali che rivelano la
piena acquisizione di una autonoma maturità artistica, si colgono, invece, maggiori raccordi
con l'ambiente cartaginese. I complessi rinvenuti ad Aliseda, al Carambolo e a Evora vanno
inseriti nell'ambito dell'arte orientalizzante: l'ispirazione primaria della corrente fenicia
attiva dal VII secolo a.C. si fonde con una varietà di componenti in una forma espressiva
locale.
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(G. Pisano)
Creta e Micene. - L'o. dell'Età del Bronzo nell'area egea è un campo finora relativamente
poco esplorato. Gran parte dei manufatti proviene da tombe, e si pensa che molti di essi, a
parte alcune eccezioni, non avessero una destinazione specificatamente funeraria.
Nel Neolitico si trovano semplici perle e pendagli di forme diverse in pietra, argilla e
conchiglie, mentre oggetti di metallo prezioso, come p.es. un pendaglio d'oro ad anello da
Sesklo nel Museo Nazionale di Atene, sono un'eccezione rara. oggetti simili ci sono noti più
tardi anche da Haghios onouphrios a Creta, probabilmente da un contesto risalente
all'Antico Minoico I-Medio Minoico II (3300-1700 a.C.).
Nella prima Età del Bronzo materiali per l'esecuzione di oggetti di oreficeria erano, oltre
alle pietre locali, il bronzo, il piombo, l'argento e soprattutto l'oro. Le tombe a camera di
Mochlos contenevano un gran numero di tali reperti, fra cui meritano speciale menzione
diademi ricavati da una sottile lamina d'oro, spesso incisi con motivi a punti, con i fori per i
fili alle estremità. Esemplari simili sono testimoniati anche dalle tombe a thòlos della
Messarà, da Mallia e Cnosso. Esemplari in argento risalenti all'inizio della media Età del
Bronzo provengono da Chalandrianì, a Syros e da Amorgo. Da Creta conosciamo anche
fiori, formati da fili e lamine d'oro, foglie di svariate forme, i cui bordi sono anche qui
decorati con serie di punti incisi; gli steli degli ornamenti vegetali sono talvolta lavorati a
formare catene sottili. Inoltre da ritrovamenti dell'Antico Minoico abbiamo file di catenelle
più o meno cilindriche in lamina d'oro, realizzate con un delicato lavoro di filigrana
composto da forme a spirale di un filo d'oro ritorto applicato mediante saldatura. In
contesti dell'Antico Minoico si incontrano solo di rado semplici anelli e bracciali d'argento.
Infine sono noti sigilli di zanne di ippopotamo e di pietra, in forme di animali o singole parti
di essi. Perle sferiche a rilievo in pasta vitrea, che riproducono la parte anteriore di due
animali avvinghiati fra loro, testimoniano della fase di trapasso al Medio Minoico (c.a 2000
a.C.). Sul continente dal periodo protoelladico sono attestate ¡ spille di bronzo e di argento
con capocchia a spirale doppia, oppure sferica o conica. Nelle tombe di Zygouries e a
Leukas sono venuti alla luce semplici oggetti in oro e in argento. Nella Thyreatide, fra
Argolide e Laconia, sono stati rinvenuti diversi elementi singoli di quello che si suppone fu
un ricco monile da collo.
Alla media Età del Bronzo risale verosimilmente l'insieme delle O. ritrovate nelle tombe a
thòlos della Messarà. Colpisce il gran numero di elementi di collana a forma sferica o
amigdaloide in steatite, ma anche in cristallo di rocca, corniola e faïence. Perle di forma più
o meno cilindrica ricavate da lamine d'oro sono talvolta incise con motivi tortili o a
meandro. Un vero capolavoro è il ciondolo d'oro a forma di due api disposte araldicamente
in posizione antitetica, rinvenuto in un complesso tombale a Mallia, e i cui dettagli sono
evidenziati con la granulazione. Inoltre fra i pendagli emerge un piccolo leone ricavato da
una lamina d'oro, proveniente dalla thòlos di Kumasa (c.a 2000 a.C.): anche il suo corpo è
in parte decorato a granulazione. Forse anche l'o. del cosiddetto tesoro di Egina, composto
da numerosi elementi diversi, venne prodotta a Creta nel Medio Minoico. Il pezzo più
importante è un pendaglio a forma di «signore degli animali» con due oche e una specie di
cornice a serpenti. Il c.d. Affresco dei gioielli da Cnosso mostra perle di una collana in
forma di teste umane, che a loro volta hanno orecchini penduli costituiti da anelli
intrecciati. A questo stesso periodo risalgono sia i primi anelli da dito in metallo, con castoni
rotondi incisi o meno, sia orecchini a forma di bucranì, che ebbero la massima diffusione nel
Tardo Minoico. Nel continente si segnalano pendagli d'oro dall’Amphiarèion di Tebe, datati
alla media Età del Bronzo. Essi consistono di un genere con doppie spirali sui lati e due fiori
sovrapposti l'uno all'altro; tale decorazione deriva sicuramente da una tradizione orafa
continentale.
I ricchissimi rinvenimenti di manufatti in oro delle tombe a pozzo di Micene e di alcune
altre risalenti all'epoca di transizione tra la media e la tarda Età del Bronzo mostrano il
repentino arricchimento degli abitanti del continente greco. Non sappiamo se nel
medesimo tempo a Creta ebbe luogo uno sviluppo analogo, in quanto fino a oggi rarissime
sono le tombe risalenti all'inizio del Tardo Minoico. Una parte considerevole degli oggetti
d'oro rinvenuti nelle tombe a pozzo venne prodotta appositamente per i corredi funerari:
infatti molti sarebbero risultati troppo sottili per un uso quotidiano. Fra essi si contano
maschere incise, diademi, pettorali, piccoli dischi con decorazioni di tipo geometrico o
figurativo ricavati da una sottile lamina d'oro, che un tempo servivano come ornamento dei
defunti. Al corredo delle tombe appartenevano ancora lunghe fibule di materiali diversi,
non di rado con capocchie in cristallo di rocca, pendagli zoomorfi e antropomorfi, bracciali,
orecchini, sigilli e anelli con castone in oro; a partire dal Tardo Elladico II nelle tombe le
fibule iniziano a comparire spesso accoppiate. Dall'inizio della tarda Età del Bronzo sono
noti tanto nella Grecia continentale quanto a Creta anche anelli d'oro, nei cui castoni erano
inseriti pietre colorate, smalto e, più tardi, vetro azzurro. Le incisioni di tipo ornamentale
attestate nelle prime tombe di Micene e Peristeria si svilupparono indubbiamente da una
tradizione indigena, mentre i motivi figurati subirono per lo più l'influsso minoico. Dalla
necropoli di Mavro Spilio presso Cnosso proviene una fibula d'argento, che da una parte
allinea fiori di croco in rilievo, dall'altra un'iscrizione piuttosto lunga in lineare A. Si
incontrano abbastanza spesso semplici elementi di collana a forma di lentoidi o amigdaloidi,
di cilindro e disco, principalmente in corniola e agata, e isolatamente anche le perle
corrispondenti, di ambra importata. Nella tarda Età del Bronzo III A (c.a 14oo a.C.) ebbe
inizio nella Grecia continentale e a Creta la produzione in quantità considerevoli di perle a
rilievo con motivi spesso figurati (p.es. conchiglie, argonauti, gigli, edera e papiro) in lamina
d'oro e vetro. Presumibilmente le perle in oro venivano incise in stampi di steatite, quelle
di vetro modellate in forme analoghe: così si riuscì a produrre perle pressoché identiche in
grandi quantità. A ragione si pensa che le perle, in massima parte azzurre, servissero come
surrogato del lapislazzuli, che per ragioni finora ignote non fu più disponibile dal 1400 a.C.
circa. Verso la fine della tarda Età del Bronzo la produzione di oggetti di o. in pietre locali
riprende vigore, mentre diventano più rari quelli in metalli preziosi, anche se su un
frammento di affresco di Micene del Tardo Elladico III B-C è raffigurata una donna con
ricchi ornamenti intorno al collo e alle braccia, e con un altro monile nella mano. Nel Tardo
Elladico III B-C (secc. XIII e XII a.C.) iniziano a diffondersi le fibule ad arco di violino e a
staffa appiattita.
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part. pp. 292-312.
(I. Pini)
Grecia. - Nuove scoperte e il riesame di alcuni nuclei di materiali cronologicamente
significativi della documentazione acquisita in passato hanno permesso di avanzare
proposte di ricostruzione più attendibili per la conoscenza dell'o. greca. I reperti di questo
artigianato, purtroppo, continuano a interessare il commercio antiquario, responsabile
della frequente e grave decontestualizzazione dei rinvenimenti, fenomeno che rende
ancora molto difficile una comprensione organica di tali manifestazioni e un loro opportuno
inquadramento storico. La mancanza di informazioni sufficientemente elaborate sulla
situazione degli altri ambiti culturali con i quali la società greca ha stretto rapporti di
reciproca influenza non consente, inoltre, di definire chiaramente il carattere degli apporti
e delle sollecitazioni provenienti dall'esterno. Si tratta di un problema di particolare
importanza nello sviluppo dell'artigianato orafo ellenico, che sembra essersi costantemente
ispirato alle realizzazioni del Vicino oriente, anche se con esigenze e significati differenti a
seconda delle varie fasi storiche. Infatti l'arte assira prima, e quella achemenide poi, non
sembrano essere stati gli unici modelli significativi nello sviluppo dell'o. greca che, invece,
ha sempre attribuito un ruolo di riferimento importante al mondo orientale per la funzione
del gioiello come status-symbol privilegiato. Non si possono sottovalutare le gravi lacune
della nostra informazione, dipendenti soprattutto dal carattere molto specifico dei contesti
che hanno restituito i materiali sui quali si fondano le nostre analisi; come è noto, infatti, si
tratta quasi unicamente di corredi funerari, nei quali il gioiello acquista una valenza
particolare. La tomba, inoltre, non costituisce un riflesso diretto e costante della realtà
sociale; varie motivazioni di ordine culturale determinano non solo la scelta degli oggetti di
accompagnamento, ma anche la stessa volontà di deporre o meno il corredo funerario.
Il mondo greco, già a partire dall'età protogeometrica, tende a sviluppare il valore
rappresentativo dei rari accessori dell'abbigliamento e degli anche meno frequenti oggetti
di ornamento. Il materiale impiegato nella realizzazione è prevalentemente il bronzo e i
rinvenimenti più comuni sono costituiti da fibule e spilloni, mentre si manifesta
precocemente, anche in questo settore, la vitalità degli ambienti attici ed euboici. orecchini
a semplici spirali, anelli a verga circolare, poche collane con vaghi di pasta vitrea e faïence,
oggetto di importazione, formano lo scarno repertorio morfologico del periodo.
Non mancano, comunque, situazioni di particolare rilievo, come nel caso di una deposizione
femminile nell’heròon di Lefkandì che ha restituito una collana in vaghi in oro e faïence,
con pendente decorato a granulazione, e un pettorale aureo. La collana, probabilmente, è
un'importazione dal Vicino oriente, ambiente dal quale si mutuano da questo momento
forme e tecniche evolute. Nell'VIII sec., però, la presenza di un gusto decorativo
geometrico chiaramente locale nelle ancora rare o. mostra lo sviluppo di laboratorî
artigianali destinati a servire la committenza dei centri più vivaci del mondo greco.
Non mancano, comunque, oggetti di importazione, come p.es. alcuni orecchini di artigianato
siriano e fenicio ad Atene e a Lefkandì. Un particolare interesse rivestono i diademi in
lamina aurea che appaiono in ambito attico a partire dalla seconda metà del IX sec. a.C. e
che denotano un primo processo di specializzazione della produzione, a seconda dell'uso
dell'oggetto di prestigio, in questo caso legato alla sfera funeraria. La tomba 44 di Cuma
documenta, inoltre, la prima apparizione di un tipo di bracciale che avrà un'interessante
diffusione ¡ nell'o. greca e che dipende direttamente da modelli orientali; si tratta della
forma a cerchio con le terminazioni aperte e decorate da protomi animali, in questo
esemplare realizzate in elettro e montate su una verga in argento. Nella tomba 56 di Ialiso,
a Rodi, invece, sono stati rinvenuti orecchini a spirale del tipo a omega, una varietà
destinata ad avere una lunga evoluzione sino all'età ellenistica. Contemporaneamente
appaiono i primi orecchini a «navicella», chiaramente derivati da esemplari largamente
diffusi nell'o. assira coeva.
Le innovazioni provenienti dal mondo orientale in questo periodo mostrano stretti rapporti
che dipendono forse da un nuovo sistema di relazioni con l'Asia Minore più che da uno
sviluppo della tradizione «orientalizzante» affermatasi in precedenza. In questa situazione
un notevole rilievo mostrano gli ambienti insulari; a Creta, in particolare, il rinvenimento di
un gruppo di o. a Khaniale Tekke, presso Cnosso, all'esterno di una tomba riutilizzata nel
IX sec. a.C., ha fatto pensare al tesoro occultato da un artigiano.
Dalla metà dell'VIII sec. sensibili mutamenti nel costume funerario mostrano la tendenza a
limitare o ridurre l'uso del corredo di accompagnamento, specialmente nella Grecia centro-
meridionale. Da questo momento sono soprattutto le aree periferiche e le regioni limitrofe
al mondo ellenico a restituirci quella documentazione che ci permette di ricostruire lo
sviluppo dell'o. nella madrepatria.
Per il VII sec. a.C., in particolare, le nostre informazioni dipendono in maniera significativa
anche dai doni votivi dei santuari riportati alla luce dagli scavi eseguiti, da Perachora a
Sparta, da Delfi a Efeso. I dati in nostro possesso sembrano dimostrare che proprio in
questo periodo ha luogo un processo di definizione di differenti aree produttive,
individuabili come grandi comprensori che incominciano a sperimentare linguaggi
espressivi peculiari; possiamo distinguere, così, i reperti della madrepatria e delle colonie
occidentali da quelli della Grecia costiera anatolica o dalle realizzazioni degli ambienti
insulari. La crescita della produzione instaura una nuova consapevolezza formale e
decorativa anche in quegli oggetti più tradizionali come gli spilloni, che nella Grecia propria
sviluppano caratteristiche forme dal fusto profilato. Nel repertorio delle fibule si diffonde il
tipo detto a occhiali, a volte impreziosito da applicazioni in osso o anche in lamina aurea,
largamente attestato nei santuari (in quello di Hera Limenta a Perachora, p.es., ne sono
stati rinvenuti circa sessanta esemplari). Per le collane, invece, la scarsa documentazione
può essere compensata da fonti indirette, come le raffigurazioni sulla coroplastica fittile; se
ne può desumere la prevalenza del tipo a cordone, di materiale deperibile, con uno o più
pendenti in metallo, anche se non mancano attestazioni di collane a vaghi. I pendenti
assumono frequentemente la forma a bocciolo o a melagrana, di rado sono cilindrici o a
crescente lunare e si servono di occhielli tubolari a «T» per la sospensione. Nel Santuario di
Artemide orthìa a Sparta, infine, appare il primo esempio di corona in metallo pregiato: un
serto in argento a foglie di alloro.
Un interesse particolare riveste il rinvenimento del deposito della base dell'altare di Efeso,
seppellito intorno al 560 a.C. e contenente materiale del VII-VI sec. Esso mostra
chiaramente l'importanza del santuario, deputato non solo a scambi e commerci, ma anche
luogo di esibizione del prestigio economico. Tra i varî reperti alcuni sono riconducibili a
officine della madrepatria, altri richiamano indiscutibilmente i ritrovamenti delle isole
greche, e non mancano importazioni orientali e produzioni dell'area ionica stessa. Si
distingue in particolare l'orecchino a navicella, di evidente derivazione assira, che forse
proprio da questi centri dell'Asia Minore si diffonde nel resto del mondo greco, rimanendo
una delle forme basilari per tutto lo sviluppo dell'o. ellenica.
Un importante salto qualitativo si può registrare nella seconda metà del VII sec. nei
laboratorî dell'area insulare, che elaborano uno stile caratteristico, comunemente definito
«rodio», anche se non si può escludere l'esistenza di officine in altre isole degli arcipelaghi
egei. In quest'area non solo si sviluppano forme nuove di gioielli, ma si sperimentano anche
tecniche innovative, volte a conferire un carattere di maggiore plasticità al rilievo
ornamentale, a soggetto prevalentemente figurativo. L'ampio uso di matrici su cui
ribattere le sottili lamine auree permetteva, inoltre, una produzione quasi in serie, che
soddisfaceva il consumo degli oggetti di prestigio nella società aristocratica delle isole e di
Rodi in particolare. L'uso della placca di tipo rettangolare, decorata con soggetti
caratteristici quali la Pòtnia theròn o la c.d. melissa, come elemento base serviva per
l'elaborazione di collane o specie di pettorali. Brattee a giorno da montare su stoffa e
diademi con decorazioni incise o a rosette applicate completano il panorama delle
produzioni insulari. Tra le prime si distinguono alcune rosette riccamente decorate,
rinvenute soprattutto a Milo, che hanno indotto a supporre l'esistenza di un laboratorîo
specializzato in quest'isola.
Le tombe rodie di Ialiso e di Camiro hanno restituito orecchini con spirale a omega, vaghi di
collane in faïence non solo importati dalle aree fenicia ed egizia, ma anche lavorati
nell'emporio di Naukratis o nella stessa Rodi e i primi anelli con placca a «cartouche»,
anch'essi di ispirazione egizia. Un panorama simile, anche se meno chiaramente delineato,
presentano i rinvenimenti di Cipro, isola saccheggiata dagli Assiri nel 712 a.C., che può aver
svolto un ruolo particolarmente importante nella trasmissione di mode e motivi decorativi
orientali.
Con il VI sec. a.C. si sviluppano ulteriormente le sperimentazioni formali e decorative,
mentre la produzione si regionalizza in maniera più accentuata, mantenendo le linee
evolutive già delineatesi nel secolo precedente. Decresce l'importanza di fibule e spilloni,
mentre il restante repertorio è attestato in una grande varietà di forme, testimoniata,
anche indirettamente, dalle documentazioni iconografiche.
Una più ampia fantasia compositiva ispira le realizzazioni del periodo; nelle collane, p.es.,
appaiono varietà che combinano il tipo a pendenti con quello a vaghi, come in un ricco
esemplare da Eretria o in una collana da Ruvo con maschere femminili che dipendono dalla
tradizione rodia più antica. Tra i tipi di pendente comincia a diffondersi quello a ghianda,
attestato per la prima volta in una tomba di Gordion del 560 e in alcune deposizioni poco
più recenti di Eretria. Particolarmente caratteristici del periodo sembrano essere i
pendenti a protome animale riccamente decorati.
Il fenomeno più interessante, comunque, è costituito dall'eccezionale sviluppo del
commercio greco di gioielli in ambiente non greco, particolarmente in quello tracio. Si pone
da questo momento il problema delle produzioni attestate nelle culture limitrofe al mondo
ellenico. Molto spesso, accenti estranei alla tradizione greca o forme tipiche del repertorio
indigeno tradiscono chiaramente che si tratta di oggetti eseguiti per una committenza
specifica, i principes di questi gruppi etnici diversi, ma accomunati dal processo di
acculturazione greca e dall'importanza attribuita al corredo funerario come occasione di
rappresentazione sociale. Il fenomeno perdura sino a tutta l'età ellenistica, insieme con il
mantenimento dei sistemi politici retti da queste bellicose aristocrazie.
Una situazione specifica è riscontrabile nell'area macedone, caratterizzata da una società
aristocratica e da una monarchia spesso poco stabile nella sequenza dinastica, ma in un
ambito culturale greco e con un continuo riferimento allo sviluppo del mondo delle pòleis. I
rinvenimenti della necropoli di Sindos (v.) e recentissime scoperte nel sito di Verghina,
l'antica capitale Aigai (v.), testimoniano abbondantemente la fase arcaica dell'o. macedone.
Forme espressive peculiari, come le maschere mortuarie in lamina aurea e le tipiche fibule
che perdurano fino all'età ellenistica, o particolari varietà di collane, testimoniano l'attività
di artigiani locali, accanto a prodotti sicuramente importati. L'esibizione della ricchezza,
come di consueto, viene espressa soprattutto nelle tombe femminili, in un arco di tempo
compreso tra il 560 e il 450 a.C., come nel caso della n. 28 di Sindos, che conteneva una
collana aurea a vaghi di varia forma e pendente centrale ad anfora, diciotto lamine circolari
ornamentali con decorazione fitomorfa, una collana con vaghi di ambra, due spilloni in oro, i
caratteristici orecchini, a banda traforata e applicazione a rosetta, un anello e una lamina
romboidale, oltre agli altri oggetti di corredo.
Nel VI sec., inoltre, il mondo greco sviluppa la produzione degli anelli a scarabeo con
gemme lavorate, dei quali un esempio tra i più antichi proviene da una tomba di Ialiso del
550. Alla fine del secolo appaiono anche le gemme incise incastonate, precocemente
documentate a Cipro.
Proprio le realizzazioni dell'ambiente insulare arcaico costituiscono un'esperienza
particolarmente importante per l'o. di età classica, che sviluppa idee e soluzioni precedenti,
mostrando di curare soprattutto la resa plastica e l'apparato decorativo che tenderà
progressivamente verso effetti molto «ricchi». Le ¡nostre informazioni derivano ormai in
maniera preponderante dalle aree esterne al mondo greco, dove gli artigiani itineranti o i
rapporti commerciali servono le esigenze delle aristocrazie scite e tracie, con frequenti
concessioni al gusto locale, come nell'elaborazione di torques e pettorali. Le nuove soluzioni
formali che compaiono nelle produzioni della zona del Mar Nero o nell'area cipriota, in
quanto mostrano tendenze comuni, possono essere state mutuate da uno stesso centro di
riferimento: è probabile, infatti, che siano sempre gli ateliers della Grecia centrale a
elaborare le nuove sperimentazioni. Proprio per questo si pensa che sia possibile
ricostruire un quadro produttivo generale in cui si debba distinguere tra officine «centrali»,
con un ruolo di guida, e «provinciali»; è difficile, comunque, stabilire fino a che punto
possano essere considerate provinciali regioni di particolare vitalità come Cipro, con una
ricca tradizione in tale settore.
In questo periodo si diffondono le nuove collane caratterizzate da una maggiore fantasia
compositiva sulla base del lessico formale precedentemente acquisito, le collane con
elementi a stampo lavorati a giorno e legati da fili, da cui sono sospesi catenelle e pendenti
anche figurati con soggetti tipicamente locali, quali la sfinge frontale. La documentazione
più antica è fornita da alcuni prototipi isolati, come una collana di Taranto nel British
Museum attribuita al secondo quarto del V secolo. Tra gli orecchini acquista nuovamente
importanza il tipo a navicella, che tende a sviluppare una ricca decorazione di particolare
effetto, già manifesta in un esemplare con applicazioni e pendenti da Eretria, sempre al
British Museum, e risalente alla fine del V secolo. Il tipo tradizionale a omega, invece,
sviluppa una nuova soluzione a elice, che appare dalla prima metà del V sec. a Cipro e in
Sicilia, dove è attestato soprattutto nelle raffigurazioni monetali.
Tra i bracciali tornano di moda quelli a estremità aperte e decorate da protomi animali, per
i quali è difficile valutare se dipendano dai rari esemplari arcaici dello stesso tipo o
piuttosto da nuovi influssi dall'area achemenide. Le produzioni greche, comunque, si
differenziano chiaramente per la superiore qualità di esecuzione e per la resa più
naturalistica delle protomi animali. Continuano i tipi di anelli già attestati e i diademi a
fascia, mentre appaiono corone funerarie in oro, argento o bronzo, queste ultime attestate
a Olinto. ormai molto rare sono invece fibule e spilloni; per questi ultimi, comunque, si
deve ricordare una coppia eccezionale dal Peloponneso a Boston, con le teste riccamente
ornate da globi, capitelli, animali ed elementi vegetali.
Nel IV sec. si sviluppa lo stile «ricco», frutto di una tendenza affermatasi nel corso del V
sec. e che si ritiene rappresenti il punto più alto nella storia dell'o. greca. Ancora una volta
la nostra conoscenza dipende soprattutto da tombe e tumuli della Crimea, ma anche da
alcuni siti greci quali Homolion e Derveni (v.), Cuma eolica e Taranto. Questo panorama
viene integrato anche da documentazioni indirette, come le raffigurazioni sulla ceramica
attica detta «delle pendici occidentali» (v.). La probabile ubicazione dei laboratorî deve
essere cercata dove maggiormente si concentrava la committenza e cioè nell'ambiente
urbano delle principali pòleis greche, italiote, siceliote e dell'Asia Minore e nelle aree
indigene limitrofe. Nonostante si possa pensare a una notevole pluralità di officine, si deve
registrare un chiaro sviluppo della tendenza a una koinè espressiva abbastanza uniforme,
con il conseguimento di un carattere definito generalmente «internazionale», che
caratterizza anche l'età ellenistica. In questo panorama è impossibile individuare su base
areale differenze tipologiche o stilistiche facilmente apprezzabili. Si sviluppa
contemporaneamente l'imitazione di gioielli in terracotta dorata, di evidente destinazione
funeraria, mentre nell'ambito decorativo prevale la tendenza a una ornamentazione
esuberante e naturalistica che sperimenta l'impiego del colore per mezzo degli inserti in
pasta vitrea. Sembrano particolarmente tipiche le maglie lavorate a spina di pesce
utilizzate per le collane con pendenti di vario tipo o nella nuova forma lanceolata. Si
elaborano a volte soluzioni particolarmente complesse, con pendenti varî e su registri
diversi, collegati da catenelle intermedie.
Nel panorama degli orecchini permangono le forme precedenti di cui si realizzano, però,
varietà eccezionalmente ricche, che occultano quasi completamente la struttura originaria.
Si tratta soprattutto del tipo a navicella, riccamente decorato, che segue la soluzione
prospettata dall'esemplare di Eretria cui si è già fatto cenno. Sono gli esuberanti esemplari
di Kul'-oba, Taranto e Trapezunte (quest'ultimo nella Collezione N. Schimmel) che si
distinguono in maniera particolare. A Taranto, inoltre, sin dall'inizio del IV sec. a.C. la
documentazione fornita dalle necropoli della pòlis e degli ambienti indigeni circostanti
cresce notevolmente, mostrando anche esemplari di particolare pregio qualitativo, come gli
orecchini di Crispiano con pendente costituito da una testa femminile, piccolo capolavoro di
plastica miniaturistica. Sempre abbastanza rari, i bracciali mantengono le forme attestate
nel secolo precedente, anche con esemplari di notevole impegno esecutivo, come uno da
Kul'-oba con verga tortile a terminazioni aperte decorate da due sfìngi. Intorno alla metà
del secolo appaiono gli anelli a castone circolare e i c.d. Giebeldiademe; sempre a Taranto,
invece, è diffuso un tipo a lamina semicilindrica montata su supporto deperibile o a cilindro
ricurvo, a volte riccamente decorato, destinato a ornare solo la sezione centrale
dell'acconciatura femminile.
Mentre in area greca le fibule sono ormai completamente fuori moda, esse persistono
nell'abbigliamento tipico delle regioni più periferiche, come la Macedonia, e nell'ambiente
indigeno, come nella Campania oscizzata, dove a volte mostrano di essere oggetti di
particolare prestigio.
Le nuove disponibilità di metallo prezioso collegate con l'espansionismo militare di Filippo
II e di Alessandro concentrano nelle mani della famiglia dinastica e dell'aristocrazia
macedone una notevole ricchezza che viene esibita attraverso l'o. e la toreutica, secondo gli
schemi propri di un'aristocrazia sino ad allora provinciale rispetto al centro del mondo
greco. La ricca deposizione attribuita da M. Andronikos al sepolcro dello stesso Filippo II
dimostra largamente, insieme al nuovo sviluppo della locale architettura funeraria,
l'accrescimento economico e i profondi cambiamenti che vive la società macedone del
periodo. Alcuni oggetti del corredo, come il pettorale e il celebre gorytòs aurei, sono
certamente prodotti originariamente per una committenza tracia o scita, ottenuti quindi
come dono o come preda bellica; accanto a essi si trovano corone e diademi o stoffe
intessute in oro di produzione greca, ma che testimoniano le nuove esigenze della
committenza reale.
La concentrazione della ricchezza può aver indotto sia lo sviluppo di eventuali officine della
Grecia settentrionale già esistenti, sia l'afflusso alla corte macedone di artigiani provenienti
da altre aree, prefigurando la situazione che sarà tipica delle successive corti ellenistiche.
Allo stato attuale, comunque, in questo come in altri settori dell'attività artistica macedone,
la cospicua documentazione recuperata recentemente non è stata ancora sistematizzata e
interpretata in maniera adeguata. La straordinaria impresa orientale di Alessandro Magno
contro lo stato achemenide ha convogliato nel mondo greco e nelle mani dell'aristocrazia
macedone in particolare, una notevolissima quantità di ricchezze, riversando sul mercato
l'oro tesaurizzato dalla dinastia persiana sconfitta, impegnato ora per assoldare truppe,
intraprendere ampi programmi di urbanizzazione e nell'esibizione del lusso, elemento di
ostentazione nella lotta per il potere.
Tra la fine del IV e il III sec. a.C., pur nella continuità con la tradizione precedente, si
possono notare alcuni importanti segni di trasformazione; ancora forme nuove e nuovi
elementi decorativi caratterizzano l'artigianato del periodo, che si serve maggiormente
degli smalti per gli effetti di colore e della plastica miniaturistica, soprattutto negli orecchini
a pendente. Si diffondono le catene a cordicella con maglia a spina di pesce radiale e, nelle
collane, i ganci decorati da protomi animali, oltre all'uso di un antico elemento ornamentale
come il nodo erculeo, utilizzato in bracciali, collane e diademi. Nel repertorio della prima età
ellenistica, comunque, non deve essere sopravvalutato l'influsso dell'o. orientale, in quanto
esso non costituisce un fatto nuovo, se si considera il costante rapporto documentabile
anche precedentemente con il mondo achemenide; p.es. i bracciali tortili con terminazioni
aperte e decorate da protomi animali, come si è visto, sono diffusi anche prima dell'impresa
di Alessandro e non possono essere considerati una novità del periodo.
Tra le collane, spesso a semplice maglia piatta, si diffonde anche il tipo con inserti di pietre
colorate e, verso la fine del III sec., quello con vaghi ricavati direttamente da pietre
colorate, alternati a vaghi aurei di forma analoga. Gli orecchini sono soprattutto a pendente
figurato, spesso una Nike, o a cerchio desinente con una o due protomi leonine,
rielaborazione di un vecchio repertorio orientale diffusa particolarmente a Taranto, o con
protomi differenti, se non addirittura con una piccola figurina di erote; non mancano,
comunque, anche orecchini più semplici, con pendente conico, piramidale o a grappolo di
vite, quest'ultimo attestato verso la fine del secolo. Tra i bracciali, a parte il tipo già
segnalato, continuano anche i tradizionali esemplari serpentiformi in cui il giro del bracciale
viene sempre più chiaramente rappresentato come il corpo dell'animale. Si sviluppano
anche le varietà a larga banda lavorata a giorno o a filigrana con soggetti vegetali, che, per
una maggiore sommarietà decorativa, a volte vengono considerati prodotti provinciali.
Tra gli anelli si diffondono quelli con pietra a cabochon non incisa e appaiono anche tipi
serpentiformi, replica miniaturistica degli analoghi bracciali. Molto più frequenti sono le
corone, largamente attestate nelle iscrizioni votive relative ai santuari; a Taranto e in
misura minore in Egitto sembrano molto popolari le varietà di corone di edera di vario tipo,
in bronzo e terracotta dorata. Tra i diademi, invece, mentre permane il Giebeldiadem che
nell'esemplare di S. Eufemia raggiunge una delle più interessanti realizzazioni, appare il c.d.
Blütendiadem: questo si sviluppa dagli esemplari di Sedes e Verghina, ancora del IV sec., a
quello della Tomba degli ori di Canosa della seconda metà del III sec. a.C.
Alla fine di questo secolo si deve registrare la prima profonda frattura rispetto alla
tradizione precedente: l'introduzione massiccia delle pietre dure e l'ampio impiego degli
smalti colorati modificano lo stesso sviluppo morfologico, mentre si riduce sensibilmente la
tendenza al naturalismo e la plastica miniaturistica, che comunque permane, acquista un
tono sempre più astratto. L'omogeneità delle produzioni rende sempre abbastanza difficile
il riconoscimento delle officine, come è stato opportunamente sottolineato (Amandry,
Miller), anche se in alcuni casi la ricerca, finalmente orientata sull'analisi dei contesti di
rinvenimento, in particolare per la Tessaglia, che ha restituito importanti tesori di o.
ellenistiche, e per Taranto, permette di incominciare a definire alcune aree artigianali.
Permane, comunque, il problema delle produzioni o degli influssi dei centri più importanti
dell'ellenismo contemporaneo; in quest'ambito sono state effettuate proposte spesso
contrastanti, che riguardano, in particolare, il ruolo che deve essere assegnato ad
Alessandria. La Segali, che in un primo tempo riconosceva tra la fine del III e il II sec.
l'apparizione di un gusto artistico testimone di un nuovo Stilzentrum, certamente
Alessandria, in seguito ha anticipato la data di inizio dell'influsso esercitato dalla capitale
lagide, facendolo risalire all'epoca di Tolemeo Filadelfo e attribuendo a officine egiziane
oggetti rinvenuti in tutto il mondo greco, da Eretria all'Asia Minore, alla Tessaglia, alla
Russia meridionale, all'Italia e all'Etruria. Tale «panalessandrinismo» non sembra tuttavia
pienamente confermato dalle ricerche successive, anche a causa della scarsa conoscenza
dei rinvenimenti effettuati nell'area della metropoli egiziana. Allo stato attuale della
documentazione, comunque, si può forse attribuire ad Alessandria un ruolo importante
nella fase di passaggio tra le realizzazioni della fine del III sec. a.C. e le tendenze più tipiche
del II secolo.
In questo periodo sono documentate collane più semplici dei tipi precedenti, a volte
arricchite da serie di amuleti di vario tipo o da elementi ornamentali costituiti da
composizioni di pietre dure. Tra gli orecchini a cerchio si diffondono quelli a testa di negro,
rinvenuti nella penisola balcanica e nell'Italia centro-meridionale e per i quali è stata
recentemente avanzata l'ipotesi di un centro di produzione ad Apollonia o a Durazzo, ma
senza prove concrete. Anche in questo caso, invece, può darsi che si debba pensare a
diversi ateliers sparsi in un'area più ampia. Negli orecchini compare il motivo della corona
di Iside, in questo caso chiara testimonianza di un'origine o di un forte influsso
alessandrino.
Tra i bracciali diventano fuori moda i tipi con verga a spirale e terminazioni a protome
animale, mentre ne appaiono di nuovi, composti da elementi congiunti da una o due
cerniere, motivo più decorativo che funzionale. Gli anelli appaiono di dimensioni ridotte e a
volte mostrano soluzioni originali, come quelli con castone a bauletto o a forma di sandalo.
Tra i diademi acquistano popolarità le forme caratterizzate da nodi erculei decorativi
centrali, bande laterali e talvolta pendenti. Particolarmente diffuse sembrano essere le
semplici corone di serti, soprattutto di quercia, ritagliate nella lamina aurea e montate in
genere su supporti deperibili, con una prevalente funzione funeraria, come i loro
precedenti della fase più antica. Non mancano, infine, oggetti nuovi, come i sàkkoi per i
capelli, decorati da medaglioni a rilievo o le bandoliere e i gioielli da petto a croce di S.
Andrea.
Ultima fase di sviluppo dell'o. greca viene considerato il tardo ellenismo, prima della data
tradizionale del 31 a.C., un momento in cui la definitiva affermazione politica romana ha già
completamente mutato il quadro storico tradizionale. Sembra inutile insistere sul fatto che
nel nuovo centro di potere si vanno delineando situazioni sociali e produttive nuove, al
servizio delle quali rispondono ora anche gli artigiani di formazione ellenica.
Nelle più tarde documentazioni di questo periodo di trasformazioni si assiste così alla
rinuncia alla decorazione naturalistica e all'abbandono di tutto il repertorio tradizionale
delle applicazioni a palmette, rosette e girali, mentre acquistano sempre maggiore
importanza le pietre preziose e, dalla fine del II sec., le perle orientali. Al centro delle
collane appaiono grandi castoni con composizioni di pietre colorate e accanto ai popolari
orecchini a erote si trovano le varietà con sviluppo del gancio a «S», con inserti di vaghi di
pietra colorata e di paste vitrec. Nei bracciali è particolarmente evidente il gusto per
l'astrazione, anche nei residui ornamentali di tradizione naturalistica.
Laboratorî di o. sopravvivono certamente nelle aree greche più vitali, forse ad Atene come
a Rodi, ma il punto di riferimento principale ora è costituito dall'adeguamento alle mode e
alle produzioni della nuova capitale.
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(E. Lippolis)
Roma. - Se gli studi sulla gioielleria antica sono stati sempre insufficientemente
approfonditi, specialmente negletta è stata la gioielleria romana che, dopo gli splendori
dell'arte orientalizzante e di quella greca (arcaica, classica, ellenistica), non avrebbe creato
nulla, o quasi, di nuovo, limitandosi a ripetere, appesantire o semplificare tipi preesistenti.
Si tratta in realtà di un'interpretazione inesatta, derivante dall'accettazione dell'età
augustea quale data d'inizio dell'o. romana, come di tutti i rami dell'arte. Il primo gruppo
compatto di gioielli preso in esame è stato sempre quello di Pompei (Casa del Menandro) e
di Ercolano, perché costituisce un affidabile terminus ante quem; a esso possiamo oggi
aggiungere i numerosi gioielli trovati in una delle due ville suburbane di Oplontis. D'altra
parte mancavano quasi del tutto, sino a una quarantina di anni fa, studi di raffinata critica
moderna su corredi funerari datati, in Italia o nelle province, su specifici periodi storici o su
determinate classi di prodotti in oro (anelli, braccialetti, collane, pendenti, orecchini),
nonché cataloghi sistematici ed esaurienti di grandi collezioni pubbliche o private. Erano
inoltre quasi tutti inediti quei ricchi «tesori» - monete, gioielli, vasellame prezioso o lingotti
- interrati in momenti di pericolo nelle varie Provincie dell'impero, a cominciare dalla metà
del II sec. d.C., ma specialmente tra il III e il V sec., tesori che, più di ogni altra
documentazione, ci indicano con chiarezza la fantasiosa ricchezza del gioiello romano.
Oggi la situazione è diversa. Sono stati pubblicati in modo sistematico corredi di numerose
tombe, datate tra il I e il III sec. d.C.; è stata rivelata al pubblico la fastosa necropoli di
Armaziskhevi in Georgia. È tutto ciò offre già una guida sicura per le oscillanti e vaghe
cronologie proposte sinora per molti gioielli del I-II sec. d.C., incamerati sotto la generica
definizione di ellenistico-romani. Cataloghi degni di questo nome sono stati dedicati a
collezioni importanti, quali p.es. quella di Berlino (Greifenhagen, 1970, 1975). Molti
«tesori», scoperti in gran parte nella prima metà dell'ottocento, sono stati pubblicati e
ripubblicati, spesso ricostruiti faticosamente, dopo la loro dispersione (come p.es. il tesoro
di Beaurins), sino alla mirabile edizione di un tesoro scoperto nel 1979 a Thetford,
nell'Inghilterra orientale (Johns, Potter, 1983). Aggiungiamo a tutto ciò studi su
determinate categorie di gioielli o su specifici periodi storici nonché il contributo di mostre
recenti non più generiche e limitate ai soli gioielli, ma specialistiche ed estese a tutti i rami
dell'arte, dedicate in altre parole alla luxuria romana, dal I sec. d.C., quando nelle dimore
imperiali si ornavano persino i muri e i soffitti di certi ambienti con ricchi fregi di bronzo
dorato e sbalzato, carichi di pietre preziose (Cima, La Rocca, 1986) sino al tardoantico, con i
suoi lussuosi e straordinari gioielli (Age of Spirituality, New York 1979; Spätantike und
frühes Christentum, Francoforte 1983). I rispettivi cataloghi, di altissimo livello, mettono
in evidenza la straordinaria ricchezza e, nello stesso tempo, l'unità di quest'arte messa a
servizio del potere imperiale e delle nuove classi di ricchi, costituite dalla borghesia
municipale delle varie provincie dell'impero, nonché del nuovo mondo cristiano. Numerosi
problemi - determinazione di officine e di centri di produzione, analisi metallografiche -
sono tuttavia ancora irrisolti. Molte collezioni pubbliche e private sono tuttora inedite;
basti ricordare, per l'Italia, la Collezione Augusto Castellani, ora a Villa Giulia, o, per
l'estero, le ricchissime collezioni del British Museum, ancora affidate ai vecchi cataloghi del
Marshall (1907, 1911). Non è ancora possibile tracciare una pianta completa di tutti i tesori
scoperti sulla vasta area dell'impero, dal '700 a oggi. Si può tuttavia tentare un primo
schizzo della gioielleria romana.
Limitandoci ai gioielli femminili (anche se gli anelli e determinate collane erano portati
anche da uomini), escluderemo comunque le fibule, portate da uomini e da donne, perché,
essendo parte integrante del costume nazionale dei varî popoli dell'impero, queste
assumono forme e decorazioni così diverse da richiedere un discorso a parte; citeremo solo
le fibule-monete che, limitate alla moneta d'oro, entrano di diritto nel gruppo dei gioielli
monetali. Per lo stesso motivo escludiamo quegli elementi ornamentali del costume
maschile di parata, militare o civile, quali fibbie e cinturoni a placche sbalzate o traforate,
ecc., che nel corso dell'età imperiale assumono sempre maggiore importanza e ricchezza. Si
è sempre parlato, per comodità, di arte ellenistico-romana per tutto il I e anche per il II
sec. d.C., ma questa denominazione ê valida solo per gli intagli e cammei del I e dell'inizio
del II sec., quando i più famosi gemmari greci (Aspasios, Hyllos, Dioskourides, Herakleidas,
ecc.) accorsero a Roma. Ma per quanto riguarda la produzione di ornamenti in oro si può
affermare che, nonostante la continuità del repertorio decorativo - nodi di Eracle, onda
corrente, gorgòneia, maschere teatrali, ecc. (motivi che ritroveremo sino al tardoantico e
oltre) - e pur nella loro relativa modestia, i gioielli campani, che prendiamo in esame, ci
offrono parecchie novità: l'uso della perla e della madreperla; la decisa predilezione, tra le
pietre preziose, per lo smeraldo che, per il suo brillante colore, fu denominato iucundus
(Plin., Nat. hist., XXXVII, 5, 63); collane a maglia e a catena, variatissime, corte o lunghe, a
due o tre giri, tutte d'oro e smeraldi, con o senza grossi fermagli a borchia, e pendenti a
ruota o a lunula·, gli orecchini a barretta; l'oro stesso usato cromaticamente, in larghe
superfici ricurve, lisce e lucenti, quale appare nelle grandi bulle, di tradizione etrusca
(Siviero, 1954, pp. 200-201), negli orecchini a spicchio di sfera o in braccialetti a serie di
piccole emisfere cave, collegate tramite anelli. Le pietre preziose vengono spesso inserite
nei varî gioielli in semplici intagli (cioè senza castoni), il che obbliga a colmare la cavità con
una sostanza compatta, non ancora esaminata, a invisibile sostegno della pietra preziosa (v.
una buona esemplificazione in D'Ambrosio, 1987, con riproduzioni a colori). Materiale
modesto, prodotto di massa e per di più di una città di provincia, non può offrirci un'idea,
neppure insieme a qualche pezzo scelto venuto in luce nell'ambito stesso della Campania
(Siviero, 1954, figg. 133-135, 212, 213, 233, 240, 241) di quei lussi che le rapide ricchezze
avevano creato a Roma, provocando la protesta dei conservatori e ripetute leggi
sumptuariae. Di tali lussi ci offre invece un'immagine diretta un gruppo di gioielli di età
augustea del Museo di Berlino, noto come «tesoro di Petescia», acquistato a Roma nel 1876
dall'antiquario Martinelli, tramite il noto archeologo tedesco W. Helbig. Un tesoro di
composizione anomala - solo braccialetti e anelli, nonché resti di corone fogliate d'oro e di
vasellame d'argento - di altissima qualità artistica, che dà l'impressione che possa trattarsi
di parte di una di quelle collezioni imperiali note solo dalla tradizione letteraria e che
potrebbe provenire da una villa di Vespasiano, le cui rovine sono state localizzate presso
Petescia, non lontano da Cittaducale (cfr. Suet., Vesp., 24).
Oggi i dodici braccialetti d'oro massiccio (ogni braccialetto pesava da un minimo di 5 a un
massimo di 694 g) sono andati perduti nel furto del 1947, che ha gravemente menomato le
collezioni del Museo di Berlino.
Rimangono tuttavia una serie di vecchie fotografie e tutti i dati di archivio che hanno
permesso al Greifenhagen di fornircene un quadro preciso. Due braccialetti conservano il
tipo naturalistico del serpente avvolto a una o più spire di tradizione ellenistica o quello a
due clave ricurve (Greifenhagen, 1970, tav. LVII), già presenti in Campania (Siviero, 1954,
fig. 132 a-b); ma altri, ove il serpente assume forme di anello rigido, piatto, desinente a due
teste, con un elemento centrale figurato, circolare o rettangolare, collegato tramite due
cerniere, sono non solo nuovi, ma precorritori della tendenza della gioielleria romana verso
forme geometriche e astratte. Di singolare bellezza sono gli anelli, specialmente quelli
ornati da cammei ad altorilievo (Greifenhagen, 1970, tav. LVIII) o da un rubino del
Bengala intagliato (ibid., tav. LX) e l'anello decorato da una testa di Giove in oro, quasi a
tutto tondo, sbalzato e cesellato; uno di questi anelli (ibid., tav. LIX/I) ha un peso di ben
57,37 g, eccezionale per l'età augustea; gli altri sono invece cavi, rigonfi al centro e pesano
normalmente tra i 5 e i 15 g.
A questo eccezionale lotto di gioielli - che rimane isolato nel patrimonio a noi noto -
possiamo aggiungere qualche pezzo di qualità da corredi del I sec. provenienti da tombe di
o presso Roma, come l'anello cavo, ingrossato al centro, di una tomba di Mentana, con
grande castone ovale ornato da pseudo-cammeo - una lastrina di cristallo di rocca sulla
quale è applicata una minuscola lamina d'oro battuto, con leopardo di profilo a destra, un
unicum per il momento - oppure la collanina della stessa tomba costituita da una serie di
granati cuoriformi in castoni d'oro (Bordenache, 1983, p. 44, figg. 3, 4 a-b) e anche le due
collanine d'oro e smeraldi di una tomba di Vetraila (ibid., p. 52 ss., figg. I, 2). Merita una
speciale menzione una reticella di finissimi fili d'oro, ricostruita da un informe ammasso di
fili, l'unico esemplare noto sino a oggi di questo elegante ornamento femminile, così spesso
riprodotto nelle pitture pompeiane (ibid., p. 82 s., figg. 2, 3) e menzionato nei testi (Petr.,
Satyr., 67, 6). Ricordiamo inoltre, quale novità dei gioiellieri romani del I sec. d.C., gli anelli
d'ambra (forse limitati all'uso funerario per l'estrema fragilità del materiale) con testine-
ritratto o figurine di animali a tutto tondo (AquilNost, L, 1979, p. 98, fig. 9), moda che
continuerà almeno fino alla metà del II sec. - come pure gli anelli e braccialetti in gagate, in
vetro, in cristallo di rocca e, più tardi, in agata (Siviero, 1954, figg. 238-299).
Nel II sec. alcune forme, come gli orecchini e i braccialetti a spicchi di sfera, scompaiono
definitivamente, mentre altre si sviluppano o presentano delle varianti. L'anello tende ad
allargare la sua parte superiore (il castone e le spalle), le collane variano nel tipo di catena:
eccezionalmente a pendenti, con piccoli pendagli di smeraldo (prismi a otto facce) di
tradizione ellenistica (Mura Sommella, Talamo, 1983, p. 39, n. 5) o di un tipo in cui la
catena a maglie è costituita da una barretta rigida di cinque dischetti, quasi simile a un filo
godronato schiacciato (corredo di Grottarossa: Bordenache, 1983, p. III, fig. 9), alternati a
tredici piccoli zaffiri di colore intenso, pure essi schiacciati a seme. Gli orecchini assumono
forme variate e sempre più fastose.
La rapida diffusione fin nelle più lontane provincie dell'impero dei tipi messi in evidenza già
nel materiale della Campania è testimoniata da un «tesoro» della Britannia (Backworth,
Northumberland) che conserva un dono votivo alle Matres celtiche, da parte di Fabius
Dubitatus. Dato che la più recente delle duecentonovanta monete che lo accompagnano è
del 139 d.C., possiamo considerare questo tesoro il più antico di quanti siano venuti in luce
sino a oggi. Due lunghe collane del deposito (rispettivamente cm 81,3 e 71,1), d'oro a larghi
anelli, hanno quale unico ornamento una ruota, presso il fermaglio, e una lunula quale
pendente. Egualmente ornato da una ruota granulata è un braccialetto da caviglia a catena
(cm 17,5) costituito da vaghi d'oro sferici alternati a una sola maglia. Dei cinque anelli d'oro
del tesoro uno ha una dedica alle Matres incisa sul castone, in lingua latina - altro elemento
unificante dei gioielli romani, come il greco, sino al tardo antico (Böhme, 1978, p. 6 ss. figg.
5-6).
Nella seconda metà del secolo, rimane isolato, per la sua ricchezza e la sua straordinaría
policromia (specialmente granati e turchesi), il materiale proveniente dalla necropoli di
Armaziskhevi, in Georgia (Apakidze e altri, 1958; v. georgia, civiltà della), ben datato da
monete romane deposte insieme ai corredi funerari. Siamo oltre i confini dell'impero, ma si
tratta delle sepolture di un'elite in stretto contatto con Roma e il mondo romano. Due pezzi
eccellenti, tra i tanti: una collana composta di due diversi fili d'oro, l'uno, più lungo, a
maglia, l'altro ad anelli che sostengono rispettivamente un porta-amuleti rotondo ornato al
centro da una testa d'ariete in ametista e, tutt'intorno, da granati e turchesi a gocce
(ciascuno nel suo castone); e una bottiglietta per profumi in oro tempestata di granati.
Inoltre un'altra collana d'oro rigida (dalla tomba 5, datata da una moneta di Commodo)
composta da due archi di cerchio a nastro ornati al centro da una fila continua di granati,
ciascuno nel suo castone, tenuti insieme e articolati da un disco centrale con cerniere
laterali, sempre con granati e turchesi a goccia. Di grande bellezza e raffinata esecuzione
sono anche i braccialetti costituiti da una solida fascia d'oro con la superficie modulata
plasticamente in motivi geometrici e inserti di pietre preziose, divisi in due parti ineguali da
due cerniere, come già i braccialetti di Petescia. Tipicamente romani sono invece gli anelli
con intagli (Pfeiler, 1970, tav. XXV), cammei o pietre non lavorate. Va osservato inoltre
che se la gioielleria romana è policroma, quella di Armaziskhevi lo è in modo fastoso, con le
turchesi, opache e di un azzurro splendente, sconosciute alla gioielleria ellenistica e romana
d'occidente, ma frequenti nel mondo partico e centro-asiatico. Alla fine del II sec. si
collocano i gioielli del tesoro di Lione, scoperto nel 1841 insieme a 2.000 monete d'argento
(da Vespasiano a Settimio Severo). I gioielli sono numerosi e diversificati: ventuno oggetti
tra collane, braccialetti, orecchini a pendente, anelli, tutti ornati da granati, smeraldi,
zaffiri, perle e anche paste vitree di forme diverse; una collana lunga, a due fili, e costituita
da piccoli elementi d'oro, composti di otto fili avvolti (versione romana nel braccialetto
tortile ellenistico), con fermaglio tondo a bordi rialzati, nel quale è inserita una moneta di
Commodo, fior di conio, che possiamo annoverare tra i primi gioielli monetali; così pure i
braccialetti di lamina d'oro ripiegata ad angoli acuti che, quale elemento di chiusura, hanno
una laminetta liscia su cui è rappresentato a sbalzo il busto di Crispina, anche questo
dettaglio precursore di gioielli, più tardi (Commarmond, 1844, tavv. I-IV). In altri tesori
coevi, come quelli di Obfelden-Lunnen (Zurigo, Svizzera) (Böhme, 1978, fig. 17), con
pesanti catene a più fili, o tesori di poco più recenti, prevale invece la presenza dell'oro, con
la nuova tecnica a traforo (aurum interrasile, Plin., Nat. hist., XII, 94) che possiamo
considerare una delle più notevoli creazioni degli orafi romani. Monete d'oro, generalmente
fior di conio, chiuse in una cornice traforata, a motivi geometrici o floreali, rotonda o
poligonale, sono montate in collane, ma anche in braccialetti e anelli. Non sappiamo dove
sia sorta questa moda che rispecchia chiaramente la mentalità romana di un lusso
ostentato e vistoso. Essa dovrebbe essersi formata a Roma, ove già nel II sec. il
giureconsulto Pomponio ci parla di monete d'oro e d'argento antiche «che si sogliono usare
nei gioielli come gemme» (Dig., VII, 1, 28). Ma il suolo di Roma non ha restituito nessun
gioiello monetale mentre l'estrema dispersione dei ritrovamenti (Britannia, Gallia
Cisalpina, Mauretania Cesariense, Egitto, Libia, Pannonia, Siria, ecc.) rende incerti sulla
scelta del centro (o dei centri) di produzione.
Tra i gioielli monetali la collana costituisce uno dei tipi più appariscenti. Essa è formata da
una catena a uno o più fili, con pendenti costituiti da monete d'oro montate in eleganti
cornici traforate (facile sostituzione alle elaborate incorniciature di età ellenistica), in
numero variabile (da una a undici) divise da tubuli cilindrici o poligonali, a volte filigranati
che ne assicuravano l'equidistanza e con fermaglio formato da una moneta più piccola o da
elementi globulari filigranati e anche godronati. La moneta era montata per essere vista
solo dal dritto, che riportava l'effigie imperiale, e così pure la cornice in opus interrasile che
la circondava come un merletto. Le monete non sono utili ai fini della datazione dei gioielli
in cui sono inserite (collane, braccialetti, anelli o fibule (British Museum Catalogue,
Jewellery, nn. 2869-71, 2860). La moneta può essere sostituita a volte da un cammeo
(collana frammentaria di Naix) o da una pseudo-moneta sia con immagini cultuali come il
Sole e la Luna, sia con il ritratto del proprietario sul dritto e una scena di fantasia sul
rovescio (collana a un solo pendente da Abukir: Vermeule, 1975, p. 20 s., n. 29a). Di
notevole importanza è il problema del pendente con ritratto personale (sul quale non ci si
può soffermare in questa sede). Tra le collane giunte sino a noi in perfetto stato di
conservazione citiamo tre esemplari a più fili intrecciati, oggi tutti in America (Baltimora,
Chicago e Kansas City). La loro provenienza dalla Siria e dall'Egitto, paesi di antichissima
tradizione orafa, può spiegare la raffinatezza del lavoro, ma non deve indurre a localizzare
nel Vicino oriente il centro di produzione di questa categoria di gioielli: è più verosimile
l'ipotesi che ogni provincia avesse i suoi centri - senza escludere la possibilità di qualche
pezzo di importazione - e questo ci è ampiamente dimostrato da alcuni modesti tesori
trovati in Ungheria, a Rábakovácsi (Alfoldi, 1954) o nella Francia stessa ove, oltre ai tesori
tradizionali già citati, sono venuti recentemente in luce, a l'Houmeau, nella Charente
Maritime (Flouret, Nicolini, Metzger, 1981, pp. 85-101), due pendenti con monete che non
sono aurei, ma denari d'argento di Settimio Severo o Caracalla ricoperti da una foglia d'oro
con cornice piuttosto rozza, chiari esempî di imitazioni a buon prezzo d'un gioiello molto
costoso.
Quando il pendente è unico l'incorniciatura aurea assume spesso dimensioni maggiori,
come appare nella insolita collana, a larghi anelli a nastro, del tesoro di Parma (Frova,
1965, p. 149, tavv. LXXXVI-LXXXVII/I), con aureo di Gallieno racchiuso da una larga
cornice circolare radiata, di cm 4,5 di diametro. È questo uno dei rarissimi esempi, nel III
sec. d.C., di un pendente con moneta con bordura ampia ma scarsamente traforata. Questo
tesoro, cronologicamente omogeneo - anche le trentatré monete trovate insieme vanno da
Nerone a Traiano Decio (252-257 d.C.) - offre una buona esemplificazione di altri gioielli
coevi, quali una collana d'oro di fili intrecciati godronati, otto braccialetti, anche questi di fili
intrecciati, con chiusura a scatto e tre magnifici anelli. Esempî di collane di tipo corrente
con catena vengono offerti dal tesoro di Beaurins (Bastien, Metzger, 1977). Quanto ai
braccialetti del III sec., nei quali è più manifesta la fantasia degli orafi romani, citiamo un
esemplare frammentario del Museo di Berlino (Greifenhagen, 1975, tav. XXXV/6)
costituito da un'alta fascia d'oro battuto nella quale l'orafo, nello sfondo di una ricca
decorazione vegetale, ha copiato due pendenti monetali, con relativa cornicetta (Caracalla e
Plautilla). Notevoli anche i braccialetti del tesoro di Beaurins sia con serie continua di
castoni contenenti pietre preziose, sia a vaghi sferici d'oro, con grande varietà di motivi
geometrici (Bastien, Metzger, 1977, tavv. V-VI).
Meritano una speciale menzione due braccialetti monetali di singolare fattura: lavorazione
a giorno, non in opus interassile ma con grossi fili d'oro ripiegati a pelte doppie, tra le quali
sono simmetricamente inseriti quattro aurei con cornicetta traforata da Antonino Pio a
Claudio Gotico (268-276). Nel pur ricco patrimonio di braccialetti di lusso questi due pezzi,
provenienti da un importante tesoro scoperto nel 1805 a Petri janee (Croazia), nella
Pannonia Superiore, del peso di 100-103 g ciascuno, oggi a Vienna, rimangono isolati
(Spätantike und frühes Christentum, cit., p. 400, n. 20θ).
Tra la fine del III e l'inizio del IV sec. d.C., l'arte orafa romana conosce uno sviluppo
straordinario; la tecnica del traforo, in ogni sua forma, si manifesta in tutti i gioielli
dell'epoca.
La collana a più pendenti monetali sembra scomparire; rimane isolato l'esemplare
composto di quindici monete d'oro, opera di pieno IV sec. d.C., trovata a Simleu Silvaei
(Transilvania, Romania), oggi a Vienna. Anche qui la catena è andata perduta. È un tesoro
germanico, frutto di uno di quei pagamenti che gli imperatori solevano effettuare a
popolazioni barbariche, stanziate nelle antiche Provincie per assicurare le frontiere
(Florescu, Midea, 1979).
Nel corso del IV e del V sec. assistiamo al trionfo del gioiello monetale non solo per la
cornice in opus interrassile che assume notevoli dimensioni (cm 9-10 di diametro), ma per
il tipo stesso della moneta d'oro - multipli di un solido - che non era battuta per la
circolazione, ma soltanto per l'uso personale dell'imperatore, che la inviava come dono
secondo le circostanze. Si ricorda l'importante tesoro scoperto nel 1967 a Sidi bu Zayd, in
prossimità di Bengasi (Libia), acquistato in gran parte dalla Dumbarton Oaks di
Washington, e contenente trecentottanta solidi in oro - il più tardo del 388 d.C. - quattro
grandi medaglioni di Costantino, un braccialetto in opus interrasile, frammenti di un
diadema o braccialetto. I medaglioni presentano un'ampia cornice traforata, con motivi di
racemi alternati a foglie d'edera. Intorno alla moneta sono simmetricamente inseriti sei
tondi in lamina d'oro battuta, ad altorilievo, con busti femminili e maschili dei quali si
discute il significato. Il lavoro è unitario, nonostante le monete non appartengano tutte alla
stessa emissione ed esistano differenze nella disposizione e nel tipo dei busti nonché nel
fantasioso traforo. Tutte le monete sono battute a Sirmium, una delle tre zecche imperiali
autorizzate ai tempi di Costantino, ed è logico postulare che nella stessa città fossero
lavorati i gioielli. Non è pensabile che questi medaglioni fossero riuniti in un'unica collana,
come i pendenti del III sec. d.C., né che potessero appartenere alle donne della famiglia
imperiale, quali Fausta o Elena. L'uso continuato di tali doni imperiali è dimostrato, tra la
fine del IV e l'inizio del V sec. d.C., da un medaglione di onorio proveniente da un tesoro di
Asyùt, nell'Alto Egitto, oggi a Berlino, pervenutoci completo di catena. La moneta è battuta
a Mediolanum e il minuto disegno àtWopus interrasile, nel quale è tracciata una stella a
otto punte, può spiegarsi solo con la sua provenienza dall'Egitto, paese di antichissima
tradizione orafa. Ma un pendente dello stesso imperatore, sempre con moneta battuta a
Mediolanum (Becatti, 1955, n. 518), mostra quanto potessero essere diversi, per gusto e
fattura, questi gioielli imperiali: la cornice, infatti, è d'oro massiccio decorata da tre fasce
con linguette concave alternate a due petali, fra tre centri concentrici godronati, senza il
minimo traforo. Il pendente fa parte di un gruppo di cinque, tre di Onorio, due (di diametro
minore) di Galla Placidia, trovato a Velp (Olanda) nel 1715.
Con onorio la moneta-gioiello perde il suo valore di segno del potere imperiale; troverà una
continuità nell'arte bizantina, ma in forme molto diverse.
Tra i gioielli privati ritroviamo sia collane d'oro del tipo a maglie, con un solo pendente
monetale di piccolo formato oppure con un medaglione che si potrebbe definire nuziale
(tesoro scoperto a Roma nel 1908 a Piazza della Consolazione), sia collane a più fili
intrecciati, semplici, o con qualche pietra preziosa interposta.
Anche nel IV e nel V sec. la varietà e la creatività sono particolarmente manifeste nei
braccialetti: ad anello rigido chiuso, con serie continua di pietre preziose (granati e
smeraldi) in piccoli castoni d'oro della stessa forma ovale saldati tra loro (Heurgon, 1958,
tav. V, 2) oppure alternativamente tondi e romboidali (Johns, Potter, 1983, tav. IV, 27), a
fili attorti con gancio e fibbia tonda centrale (Heurgon, 1958, tav. V, 3-4; Johns, Potter,
1983, tav. iv) oppure a traforo, con motivi geometrici o naturalistici. Quest'ultima serie ha
in comune la tecnica a intaglio, ma presenta forme notevolmente diversificate e tutte le
regioni dell'impero, dalla Britannia alla Siria, ce ne offrono una nutrita esemplificazione, con
o senza iscrizioni (greche o latine) inserite nel traforo.
Non mancano braccialetti a nastro, in placchette articolate in filigrana d'oro e pietre
preziose, che si dipartono da un grande fiore centrale con grossa ametista al centro,
incorniciata da granati e smeraldi. Dal tesoro di Desana proviene un vasetto miniaturistico
d'oro, il corpo sferico decorato con quattordici ametiste.
Quanto agli anelli è impossibile descriverne sistematicamente forma e decorazione. Tondi,
romboidali, poligonali, con verga cava e massiccia, vistosi o sobri (moltissimi di bronzo o di
bronzo dorato, anche di ferro), con castone incassato o prominente - nel V sec. molto alto,
spesso con monogramma e girevole - con sigillo, con iscrizioni greche o latine, ornato da
gemme o paste vitree, con verga liscia o lavorata (a incisione, a sbalzo, a traforo, a
filigrana), gli anelli costituiscono una massa di materiale che non è mai stato classificato.
Accanto ad anelli di tipo tradizionale, quale il serpente a più spire, o con simboli più che noti
quali il nodo erculeo, il gorgòneion, il phallus eretto, i segni zodiacali e astrali (luna e stelle),
meritano attenzione gli anelli nuziali, che possiamo seguire per tutto l'arco dell'impero,
dalle mani congiunte (dextrarum iunctio) ai due busti affrontati, pagani o cristiani (Viale,
1971, tav. LVII; Spätantike und frühes Christentum, cit., tav. CCLVII), più raramente con
l'immagine intera dei due sposi, sempre affrontati e nell'atto di stringersi la mano, come nei
sarcofagi (Siviero, 1954, p. 115, tav. XXIV). Abbiamo persino un anello tardo, sempre del
tesoro di Tarbus, in oro massiccio, con lettere greche niellate, che ci conserva l'oroscopo
personale - con il nome dei pianeti, dei segni dello zodiaco e i gradi per misurare le
rispettive posizioni - di un (o di una) giovane nato nella notte tra il 16 e il 17 agosto del 327
d.C. (Spätantike und frühes Christentum, cit., p. 557, n. 102). Tra le numerose invenzioni
di epoca tarda possiamo annoverare gli anelli doppi o triplici, questi ultimi di solo uso
funerario, con ben cinque castoni, nonché gli anelli d'oro massiccio donati da Costantino agli
ufficiali dell'esercito per assicurarsene la fedeltà (anello a fascia con castone rettangolare
piatto, sul quale è incisa la parola fidem, sulla verga Costantino, al British Museum, v. Kent,
Painter, 1977, p. 27, n. 17).
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(G. Bordenache Battaglia)
Asia centrale. - Le più antiche testimonianze della o. in Asia centrale risalgono all'Età del
Bronzo (II millennio a.C.) e provengono dagli scavi nel sito di Altïn Depe, nel Turkmenistan
meridionale. Nelle sepolture degli esponenti dei ceti superiori sono attestati gioielli, a volte
già eseguiti in argento e oro. Lo studio della tecnica di produzione di questi gioielli ha
mostrato che gli artigiani avevano raggiunto un livello professionale sufficientemente alto
(si utilizzavano diverse leghe, in particolare di argento con rame, e diversi tipi di fonditura
e di successiva rifinitura).
Alla fine del ΙΙ-inizî del I millennio a.C., in concomitanza con un generale decadimento nella
cultura, si verifica anche una decadenza della oreficeria. Si usano quasi esclusivamente i
gioielli di tipo più semplice in bronzo (anelli, placchette cucite sugli abiti, braccialetti),
mentre i gioielli d'oro sono molto rari, e anch'essi delle forme più semplici (orecchini dagli
scavi di Yaz Depe). Una situazione molto curiosa si verifica tra il VI e il IV sec. a.C. Negli
scavi in centri urbani non sono stati rinvenuti gioielli di pregio né botteghe di O.; persino il
famoso «Tesoro dell'Óxus» (v.) secondo diversi studiosi (E. V. Zejmal' e altri) sarebbe
costituito in prevalenza da oggetti eseguiti in botteghe della parte occidentale dell'impero
achemenide. D'altro canto, le sepolture dei nomadi, specialmente quelle dei loro capi,
testimoniano del livello sufficientemente alto dell'o. in Asia centrale, visto che, con molta
verisimiglianza, le botteghe dove si producevano questi materiali si trovavano nelle città. Il
carattere dei gioielli, eseguiti prevalentemente in oro, ci è noto soprattutto grazie a queste
sepolture (vesti e copricapo rituali): corone composite, a volte con raffigurazioni di alberi;
placchette che, di regola, venivano applicate sulle vesti; cinture, che evidentemente
svolgevano una funzione simbolica. Anche le armi venivano abbellite. La produzione di o.
era su livelli tecnici abbastanza alti: si utilizzavano la fonditura (compresa quella a cera
perduta), la punzonatura, lo stampaggio, l'incisione, era nota la tecnica della granulazione,
raramente venivano incastonate pietre, di solito pietre semipreziose quali la turchese. Le
figurine decorative a volte erano ritagliate da foglie d'oro, che in genere erano molto
popolari. Spesso la base delle placchette era di rame, ricoperta con foglia d'oro. Le cinture
erano in cuoio e all'esterno erano decorate con dischetti d'oro a rilievo. Le corone avevano
uno scheletro ligneo, cui erano applicati i dettagli d'oro mediante chiodini di rame. Si
incontrano anche dei casi in cui, p.es., il corpo della figurina dell'animale era piatto e la testa
a rilievo, fusa.
L'ultimo stimolo allo sviluppo dell'o. fu dato dalla conquista greco-macedone. Gli scavi di Ai
Khānum (Alexandria oxiana, secondo alcuni) testimoniano sia del progresso tecnologico sia
della continuità degli impulsi creativi che giungevano dall'occidente durante tutto il periodo
ellenistico. La caduta del potere dei Greci non portò a una decadenza dell'oreficeria. Come
mostrano gli scavi della necropoli di Tillyā Tapa (ν.) nell'Afghanistan settentrionale e di
alcune altre necropoli dell'Asia centrale di quest'epoca, i capi nomadi utilizzarono
attivamente gli orafi greco-battriani. Questa necropoli permette di osservare l'avvio della
simbiosi di due correnti nell'o.: quella greco-battriana e quella nomadica. Ritornarono al
rango di oggetto principale dell'attività degli orafi le vesti rituali e le armi: corone,
placchette applicate, cinture, a cui si aggiunsero fermagli di mantelli e di calzature. Anche
se i principi rimasero gli stessi, la tecnologia fu perfezionata e il livello artistico salì. Le
cinture d'ora innanzi non furono di cuoio, ma intrecciate con fili d'oro e decorate con dischi
ad alto rilievo. La saldatura e l'esecuzione dei dettagli dopo la fonditura divennero comuni.
È opportuno inoltre rilevare la notevole quantità di oggetti d'oro (dall'80 al 98%).
Contemporaneamente l'ampio uso di inserti di lapislazzuli e granati testimonia che l'Asia
centrale (compresa la Battriana) fu uno dei centri di elaborazione dello stile «policromo» o
«a incrostazioni», così popolare nei primi secoli della nostra era, soprattutto tra i nomadi.
L'o. proseguì nel suo sviluppo in Asia centrale nei primi secoli dell'era cristiana. In
numerosi centri sono stati individuati resti di officine (Merv) o matrici in pietra per la
colatura degli elementi dei gioielli (Dalverzin Tepe). Anche i rinvenimenti dei gioielli stessi
e la loro raffigurazione sulla scultura monumentale e sulla coroplastica costituiscono una
testimonianza rilevante dell'oreficeria. Il copricapo reale, p.es., almeno in Battriana, aveva
la forma di un berretto conico decorato con una fascia d'oro a cui erano fissate pietre
preziose. Esistevano anche corone, similmente decorate con pietre. Tra gli ornamenti d'oro,
erano diffusi pendenti (sia lisci, sia con inserti in pietre), collane, bracciali, cinture, fermagli
per vesti e grandi fibbie circolari per calzature.
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Košelenko (ed.), Drevnejšie gosudarstva Kavkaza i Srednej Azii («I più antichi stati del
Caucaso e dell'Asia centrale»), Mosca 1985; V. Sarianidi, Bactrian Gold, Leningrado 1985.
(G. A. Košelenko)
India. - I più antichi gioielli del subcontinente indiano provengono dagli scavi dei siti della
civiltà dell'Indo. Con i metalli preziosi si producevano collane con fili aurei e vaghi a stampo,
bracciali in lamine d'oro, anelli e orecchini ottenuti da un filo d'oro martellato avvolto a
spirale; anche le pietre semipreziose erano ampiamente utilizzate. Già in epoca
protostorica l'o. indiana aveva raggiunto un alto livello come testimonia, p.es., una fascia
aurea per la testa da Mohenjo-daro (v. indo, civiltà dello).
Se relativamente al periodo vedico (prima metà del I millennio a.C.) la nostra
documentazione è limitata ai riferimenti testuali, a partire dall'epoca maurya essa si
arricchisce delle testimonianze iconografiche fornite dalla produzione in terracotta, ini
particolare le figurine femminili dalla complessa acconciatura e dai pesanti monili. Le fonti
scritte ci informano inoltre del perfezionamento tecnico della produzione di gioielli e
dell'esistenza di botteghe orafe regall.
Tra le varie tecniche di lavorazione, oltre alla fusione a stampo (si segnala l'interessante
rinvenimento nella bottega di un orafo di Nāgārjunakoṇḍa, v., di diverse matrici a stampo
per motivi ornamentali, crogioli, ecc.), molto diffusa era la tecnica a sbalzo: una foglia d'oro
o argento veniva pressata su di una matrice concava e l'immagine impressa veniva in
seguito rifinita con un bulino.
I gioielli erano prodotti di regola in oro, con l'applicazione di pietre preziose e semipreziose,
oppure realizzati in materiali più poveri, come p.es. gli orecchini lavorati in rame o
terracotta e rivestiti con una foglia d'oro.
Nel complesso le testimonianze archeologiche, ossia le effettive scoperte di preziosi,
restano scarse. oltre ai reperti provenienti da siti megalitici e del primo periodo storico
dell'India peninsulare (p.es. Sutukeny nel Sud, Kumrāhar e Vaiśālī nella regione gangetica)
e a qualche ritrovamento eccezionale come i grandi orecchini d'oro decorati con figure di
elefanti e leoni alati databili al I sec. a.C., forse provenienti dall'Andhra Pradesh (ora al
Metropolitan Museum di New York), si segnalano, per quantità, tecnica e stile, i materiali
restituiti dagli scavi di Taxila (Pakistan).
Da essi risulta evidente che nei primi secoli della nostra era i Greci esercitarono un
notevole influsso sull'o. dell'India, non tanto nei procedimenti fondamentali di lavorazione
del metallo, già noti nel subcontinente, quanto nella trasmissione di alcune specifiche
tecniche (granulazione, esecuzione di sottili fili d'oro, ecc.).
Nei gioielli di epoca indo-partica si possono distinguere anche diversi elementi decorativi
ellenistici: il girale di vite, la foglia di acanto, la palmetta. In qualche misura è riconoscibile
anche l'apporto delle tradizioni nomadiche, tramite le invasioni śaka e kuṣāṇa. A Taxila,
oltre ai monili sono stati rinvenuti anche strumenti per la loro lavorazione.
Un tesoro composto per lo più di gioielli indiani in oro, evidentemente bottino di una
campagna militare nel subcontinente, è stato rinvenuto nel corso degli scavi di Dalverzin
Tepe (v.), in Uzbekistan.
A partire dagli ultimi secoli a.C., il contributo delle arti figurative per lo studio dell'o.
indiana diviene assai più consistente. La fonte principale è costituita dalle decorazioni
scultoree dei monumenti buddhisti: dai rilievi degli stūpa di Bhārhut e Sāñcī (I sec. a.C. - I
sec. d.C.), alla produzione di epoca kuṣāṇa dal Gandhāra (di particolare interesse, le
immagini di Bodhisattva) e da Mathurā, a quella di epoca āndhra di Amarāvatī,
Nāgārjunakoṇḍa, e diversi siti rupestri del Deccan. Come ornamenti venivano utilizzati varî
tipi di diademi e turbanti (di stoffe arricchite da elementi di metalli preziosi e gemme), così
come orecchini, collane, bracciali di grande varietà tipologica, e complesse cinture come
quelle raffigurate sui rilievi da Sanghol (v.). I gioielli femminili, come anche i copricapo,
erano in genere più semplici e modesti di quelli maschili.
Bibl.: J. Marshall, Buddhist Gold Jewellery, in ASIAR 1902-03, pp. 189-190; E. J. M.
Mackay, Personal ornaments, in J. Marshall, Mohenjo-daro and the Indus Civilization, II,
Londra 1931 (rist. Delhi 1973), tavv. CXLIII-CLVII, p. 522 ss.; M. N. Banerjee, on Metals
and Metallurgy in Ancient India, in Indian Historical Quarterly, III, 1927, I, pp. 121-133;
Κ. Κ. Gangoly, Early Indian Jewellery, ibid., XVIII, 1942, 2, pp. 110 ss.; G. M. Young, A
New Hoard from Taxila (Bhir Mound), in Ancient India, I, 1946, pp. 27-36; J. Marshall,
Taxila, 3 voll., Cambridge 1951, pp. 616-650, tavv. CXC-CXCVIII; J.-M. e G. Casal, Site
urbaine et site funéraires des environs de Pondichéry, Virampatnam-Mouttrapaléon-
Souttoukèny, Parigi 1956, pp. 86-90, tavv. XXVIII-XXXI; A. S. Altekar, V. Mishra,
Report on Kumrahar Excavations 1951-1955, Patna 1959, p. 131, tav. LIX; R. G.
Chandra, Studies in the Development of ornaments and Archaeology in Protohistoric
India, Benares 1964; B. P. Sinha, S. R. Roy, Vaisālī Excavations 1958-1962, Patna 1969, p.
195, tavv. LXXV, LXXVII-LXXVIII; A. M. Loth, Bijoux (La vie pubblique et privée dans
l'Inde ancienne, VII, 2), Parigi 1972; R. G. Chandra, Indo-Greek Jewellery, Nuova Delhi
1979; G. A. Pougatchenkova, Les trésors de Dalverzine-Tépé, Leningrado 1978; F. Tissot,
Gandhāra, Parigi 1985, pp. 85-86, figg. 205-229, tavv. XXXII-XXIV; M. Postel, Ear
ornaments of Ancient India, Bombay 1989; R. Nanda, The Early History of Gold in India,
Nuova Delhi 1992; S. Kossak, The Arts of South and Southeast Asia, in The Metropolitan
Museum of Art Bulletin, LI, 1993, 4, pp. 1-88.
(G. A. Košelenko - Red.)
Cina. - Nella Cina antica e per tutto il periodo Shang (XVI-XI sec. a.C.), la produzione
metallurgica è dominata dai recipienti in bronzo destinati alle offerte rituali per gli antenati.
Come dimostrano i pur esigui rinvenimenti, l'oro non è mai stato utilizzato in maniera
consistente e il suo impiego è stato limitato a fini puramente ornamentali.
Le poche tracce di lavorazione dell'oro in epoca Shang sono rappresentate da sottili lamine,
decorate con motivi a sbalzo derivati dal repertorio iconografico del periodo. Conosciute
grazie a esemplari presenti in collezioni private, esse sono state anche rinvenute in alcune
sepolture reali presso la capitale Anyang (Henan) e nelle due fosse sacrificali a Sanxingdui,
presso Guanghan (Sichuan). Le lamine servivano probabilmente per decorare oggetti in
legno o lacca e, molto più raramente, alcuni bronzi rituali: tra i pochi reperti che
testimoniano questa non diffusa pratica, va menzionato un calice di tipo jue conservato
presso il Museum of East Asian Art a Bath, in Inghilterra.
Per assistere a una prima rilevante fioritura dell'o. cinese, bisogna attendere la successiva
dinastia dei Zhou, e particolarmente il periodo finale di questa - c.d. degli Stati Combattenti
(475-221 a.C.) - quando fanno la loro comparsa oggetti in bronzo ageminati con oro e
argento. Prodromi di questa particolare tecnica possono tuttavia essere individuati sin
nella tarda età neolitica, epoca alla quale risalgono alcuni oggetti in osso con frammenti di
turchese incastonati sulla superficie, come nel caso di un cilindro in avorio rinvenuto in un
sito della cultura Dawenkou (c.a 4300-2400 a.C., Shandong). Questa pratica continuò
anche nella successiva Età del Bronzo, prima con la cultura di Erlitou (1900-1600 a.C.
circa), alla quale risalgono alcune placche bronzee intarsiate di turchesi, e poi con quella
Shang, sotto la quale la tecnica dell'intarsio con turchesi rimase tuttavia limitata
soprattutto alle impugnature di armi, a pochi bronzi rituali e a oggetti in osso e avorio.
Come materiali da intarsio, la turchese e la malachite rimasero in uso durante tutto il
periodo di fioritura dell'arte dell'ageminatura - dal VI sec. a.C. all'inizio della dinastia Han -
ma accanto a esse cominciarono a venire utilizzati anche oro, argento e rame. L'impiego di
questi metalli mutò radicalmente l'aspetto tradizionale dei recipienti in bronzo, che da
monocromatici quali erano stati per secoli, cominciarono adesso ad avere le superfici
intensamente decorate e ricche di effetti coloristici. L'influenza della bronzistica cinese
tradizionale si fece tuttavia sentire anche con l'adozione di queste nuove tecniche
decorative, in quanto i metalli impiegati per gli effetti cromatici venivano applicati a freddo
sulla superficie degli oggetti, entro gli appositi spazi creati al momento della fusione
effettuata a matrici multiple. In alcuni casi questa tecnica raggiunge vette di autentico
virtuosismo artigianale, come nel caso di un recipiente di tipo fang lei dove, negli spazi
predisposti per ospitare i metalli, sono state poste una accanto all'altra sottilissime striscie
di rame che, nell'insieme, danno l'impressione di una banda di metallo più ampia.
I motivi impiegati per decorare i bronzi ageminati spaziano dal naturalistico al geometrico
astratto; questi ultimi trovano poi un riscontro puntuale in temi decorativi analoghi che
ornano le sete e lacche coeve, a dimostrare la fitta rete di rapporti e influenze da un
materiale all'altro e la sostanziale omogeneità dell'arte del periodo. Un fenomeno questo
che si verifica soprattutto nella produzione artistica che va dal IV sec. a.C. agli inizî della
dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.): gli eleganti e sinuosi motivi curvilinei e spiraliformi che
ricoprono gli oggetti in bronzo ageminato ricordano da vicino le morbide pennellature
tracciate sulle lacche prodotte nella Cina meridionale, in specie nello stato di Chu (Hubei e
Hunan).
La funzione dei recipienti in bronzo mutò: da eminentemente sacrale passò a indicare la
condizione sociale del proprietario, ed essi divennero simboli di ricchezza e prestigio. Un
caso limite di questa trasformazione può essere riscontrato nei recipienti in oro massiccio,
parte del corredo funerario del marchese Yi dello stato di Zeng (Hubei), i quali, pur
riecheggiando nelle forme i prototipi in bronzo dai quali derivano, acquistano un nuovo e
maggiore valore grazie al materiale di cui son fatti.
Tutta la produzione in bronzo dell'epoca subì questo profondo cambiamento, estetico e
funzionale; gli oggetti ageminati spaziano infatti dai finimenti per carri e parti di armi, agli
ornamenti per la persona. Tra questi ultimi meritano menzione particolare le fibbie di
cintura che, mediate dall'abbigliamento dei cavalieri nomadi delle steppe, costituiscono una
delle categorie più spettacolari di oggetti, lavorate come sono nelle forme e nelle dimensioni
più varie: animali fantastici intrecciati tra loro in atteggiamenti combattivi, o semplici
forme geometriche decorate con eleganti e regolari temi astratti a intreccio costituiscono
alcuni dei temi dominanti.
Come accennato, questo primo grande periodo di fioritura dell'o. cinese continuò nella
prima parte della successiva dinastia degli Han. Le tecniche della doratura e
dell'ageminatura furono adesso applicate a oggetti consoni al clima culturale dell'epoca, tra i
quali si segnalano gli incensieri noti come boshanlu, raffiguranti la montagna sacra ove si
supponeva dimorassero gli Immortali (v.). Uno degli esemplari più raffinati della categoria
è conservato presso la Freer Gallery of Art di Washington: gli effetti coloristici si
arricchiscono della presenza di turchesi e di altre pietre semipreziose incastonate
sull'oggetto, che bilanciano le parti ageminate con oro e argento. In oro massiccio o in
bronzo dorato e lavorate a tutto tondo sono invece alcune figurine tridimensionali di esseri
fantastici, con funzione di supporti per recipienti, la cui produzione continua anche durante
il successivo periodo delle Sei Dinastie (220-581 d.C.), peraltro fase di relativa stasi nell'o.
cinese, prima della grande ripresa Tang. Gli unici oggetti di rilievo di questo periodo non
appartengono, in senso stretto, alla sfera culturale propriamente cinese, ma sono prodotti
dalle popolazioni seminomadi che gravitano presso i confini settentrionali della compagine
imperiale cinese. Tra essi risaltano diademi aurei per capelli, lavorati a giorno, dove si
riscontra l'impiego di tecniche diverse - lavorazione a sbalzo, saldatura e granulazione - che
si ritrovano anche in complesse fibbie di cintura in oro con incastonate pietre preziose quali
turchesi o agate: nel complesso, una lavorazione che anche nella scelta dei motivi decorativi
denuncia una profonda influenza della tradizione artistica unno-sarmatica.
Il successivo grande momento dell'o. cinese si ha con la dinastia Tang (618-9o6 d.C.), fase
di grande apertura culturale verso l'esterno e di profondi contatti con altre civiltà, che bene
si riflettono anche nell'o. del periodo. Ottimi esempî ci sono offerti dal buddhismo, non solo
con la grande produzione di statue devozionali in bronzo dorato che trovavano posto nei
numerosi templi, ma anche con gli oggetti religiosi legati ai rituali buddhisti: reliquiari in
lamine d'argento o d'oro decorati con motivi al cesello derivati dal mondo classico;
incensieri a sfere concentriche lavorate a giorno con temi floreali; insegne rituali in oro e
argento.
Ai contatti con altre civiltà, resi possibili dagli intensi scambi commerciali attraverso la Via
della Seta, si deve la penetrazione in Cina di oggetti in metallo di origine sasanide, come
coppe, bacini e vassoi in argento, spesso decorati con motivi in oro al cesello, che
appartenevano all'aristocrazia del periodo. Accanto a questi oggetti di importazione, il
campo dell'o. più propriamente cinese si arricchisce con la produzione di ornamenti
femminili quali diademi e spilloni per capelli in argento, dalle teste molto elaborate,
lavorate a giorno e impreziosite da gemme e pietre preziose, nonché piume di uccello,
tradizione che perdurerà fino alla dinastia Qing. Gli sviluppi dell'o. si fanno sentire anche
sugli specchi in bronzo, il cui retro è spesso ricoperto da una lamina in argento decorata con
motivi a sbalzo, sulla quale venivano successivamente applicate a pressione ulteriori
decorazioni ottenute ritagliando sottili lamine d'oro. Se questa combinazione di metalli -
base in bronzo e applicazioni in argento e oro - riecheggia in qualche modo le tecniche del
periodo degli Stati Combattenti, i motivi decorativi - temi floreali, animali reali o fantastici
- sono consoni al clima culturale e al gusto dell'epoca Tang.
Come emerge dal quadro tracciato, l'o. non può pienamente ritenersi parte integrante della
tradizione artistica e culturale della Cina. Essa, nei varî periodi, deve molto all'influsso di
stimoli culturali esterni, tra i quali quello più costante è dato dai contatti con le popolazioni
seminomadi a settentrione.
Bibl.: B. Gyllensvärd, Chinese Gold and Silver in the Cari Kempe Collection, Stoccolma
1953; M. Medley, T'ang Gold and Silver, in Pottery and Metalwork in T'ang China,
Londra 1970, pp. 19-26; A. S. Melikian-Chirvani, Iranian Silver and Its Influence in T'ang
China, ibid., pp. 12-18; C. W. Kelley, Chinese Gold and Silver in American Collections,
Dayton 1984; C. Mackenzie, From Diversity to Synthesis: New Role of Metalwork and
Decorative Style during the Warring States and Han Periods, in Inlaid Bronze and
Related Material from Pre-Tang China (cat.), Londra 1991; E. G. Bunker, The Enigmatic
Role of Silver in China, in orientations, XXV, 1994, 11, pp. 73-78.
(F. Salviati)
Corea. - Il periodo di massima fioritura dell'o. coreana può a ben diritto essere considerato
quello dei Tre Regni (c.a 300-668 d.C.), denominazione collettiva con la quale si indicano i
regni di Silla, Paekche e Koguryŏ tra i quali era al tempo suddiviso il territorio coreano. La
più alta concentrazione di oggetti in oro, di fattura finissima e originali per forme e
decorazioni, si ha con il regno di Silla - nel Sud del paese - al quale, nelle antiche cronache
storiche giapponesi, si fa spesso riferimento con l'appellativo di «splendente», forse proprio
con allusione alla profusione di ornamenti in oro utilizzati dai loro sovrani.
Tra le sepolture di Silla (v. monumento funerario) la tomba 155, del «Cavallo Celeste», fu
rinvenuta praticamente intatta e scavata dal 1973 al 1975: una serie di elementi fanno
ritenere trattarsi di quella del sovrano Chizung, deceduto nel 513 d.C. Tra gli ornamenti in
oro qui rinvenuti si distinguono una cintura, composta da maglie decorate con motivi a
giorno e alle quali sono appesi numerosi pendenti sempre in oro (lavorati nelle forme più
varie e di probabile valore simbolico) e una sorta di «elmo» militare, formato da lamine in
oro saldate tra di loro, interamente traforate a regolari motivi geometrici. La condizione
regale dell'occupante della tomba era comunque evidenziata soprattutto da una corona in
oro, simile ad altre rinvenute in sepolture Silla, e uno degli oggetti più caratteristici per
forma e iconografia dell'intera o. coreana ed estremo-orientale in genere. La base circolare
della corona è formata da una serie di sottili lamine in oro saldate insieme: da queste si
dipartono verticalmente, sulla porzione anteriore dell'oggetto, lamine in oro che nella forma
sembrano richiamarsi a una versione stilizzata dell'albero della vita; sui lati della corona
altre foglie auree sono invece state ritagliate nella forma di corna d'animale. A ciascuno di
questi elementi superiori sono appese una serie - cinquantotto in tutto - di piccole giade
note come gogok, assicurate per mezzo di anellini d'oro alle parti verticali della corona, ma
mobili, sì da produrre un vivace effetto quando l'ornamento veniva indossato. Corone simili
a questa, con minime varianti tipologiche e iconografiche, sono venute alla luce in altre
tombe di Silla: un ulteriore esemplare, insieme a un corredo di oggetti in oro solitamente
associati a questi ritrovamenti, si trova inoltre al Musée Guimet, a Parigi.
Una notevole serie di reperti in oro proviene dalla tomba di Silla 98, ove era stata sepolta
una donna, probabilmente una regina, con un corredo interamente in oro massiccio, per un
peso complessivo di c.a 4 kg. Esso comprende una corona, una cintura, cinque paia di
braccialetti, due collane in vetro con appendici in oro. Le tecniche di lavorazione sono
abbastanza sofisticate. Gli orecchini, p.es., hanno gli anelli di attacco ai lobi delle orecchie
prodotti per cupellazione; a essi sono appese forme sferoidali impreziosite da motivi
ottenuti con la granulazione, dalle quali pendono piccole lamine d'oro ritagliate a foglia.
Accanto a questi ornamenti in oro, figurano anche oggetti in argento, come una splendida
coppa lavorata a sbalzo, esternamente decorata con motivi fitomorfi e zoomorfi compresi
entro un regolare reticolo geometrico formato da esagoni. La coppa, nella forma come nei
motivi decorativi, tradisce una provenienza sasanide, e potrebbe trattarsi di un dono
offerto dagli imperatori cinesi ai sovrani Silla.
Lo stesso motivo decorativo si ritrova in un oggetto rinvenuto nella tomba del re Muryong
(501-523), venticinquesimo sovrano del regno Paekche, ivi seppellito insieme alla
consorte. Un poggiapiedi in legno laccato è decorato infatti con una serie di motivi
esagonali, ottenuti con piccole lamine d'oro applicate sul legno grazie a spilli in oro dalla
forma a fiore. Dalla stessa tomba provengono anche uno spillone per capelli in oro lavorato
a sbalzo e nella forma stilizzata di un uccello in volo, parte del corredo funerario del
sovrano. Gli ornamenti in oro e argento della regina comprendono invece una coppia di
braccialetti, una collana e una coppa per servire il vino, in argento con motivi decorativi -
fiori, montagne e draghi - incisi sulla sua superficie. Pur rivelando una sostanziale linea di
continuità con la produzione artistica cinese, negli oggetti già si riscontrano quella
raffinatezza e sensibilità estetica proprie dell'arte coreana.
Bibl.: W. Kim, Recent Archaeological Discoveries in the Republic of Corea, Tokyo 1983; S.
M. Nelson, The Archaeology of Korea, Cambridge 1993.
(F. Salviati)
Giappone. - Quantunque Marco Polo menzionasse il Giappone come paese ricco di oro, tale
metallo vi si trova in quantità piuttosto esigua e la prima intensa attività metallurgica si
registra soltanto tra il VII e il IX sec. d. C. A differenza dell'argento che si trovava in filoni
localizzati prevalentemente nel Giappone occidentale, l'oro era per lo più presente nei
depositi fluviali della parte orientale del paese. Secondò la tradizione, la scoperta del primo
giacimento aurifero nell'Honshu settentrionale risale al 749 d.C.; tuttavia, piccole miniere
d'oro sembra fossero note, nel VII e VIII sec., anche nel Giappone occidentale, nelle
provincie di Nagato e Suō, da dove proveniva anche rame di alta qualità usato per rilevanti
opere di bronzistica.
Tranne che per la doratura delle immagini buddhiste o di qualche pregiato esemplare di
vasellame metallico (noti esempî provengono dal Tesoro dello Shōsōin), l'impiego dell'oro
rimase piuttosto limitato nel Giappone antico, come dimostra la quasi assoluta mancanza di
oggetti di considerevoli dimensioni in oro massiccio. La doratura, principale tipo di
applicazione del metallo prezioso, oltre a dare splendore agli oggetti, era finalizzata
soprattutto a proteggerli dall'ossidazione.
Una lega d'oro, nota come shakudo, consistente in rame con aggiunta dal 3 al 6% di oro, fu
un'invenzione giapponese usata come base aurea per incisioni di motivi in oro, argento e
rame. Benché spesso combinato in notevole quantità in leghe a base di piombo anche
l'argento non è molto usato nell'arte giapponese, mentre sono di gran lunga preferite dagli
artigiani varie tecniche di lavorazione di metalli meno nobili: forgiatura, lavorazione a
sbalzo, punzonatura, cesellatura, incisione, damaschinatura, placcatura.
La prima tecnica di produzione metallica praticata in Giappone consisteva nel versare
metallo fuso entro una matrice. Fra i metalli (oro, argento, bronzo e leghe varie) il bronzo
era di gran lunga il più usato. Monopolizzato per lo più dalla classe dominante, esso tendeva
a essere associato a usi cerimoniali, mentre il ferro, limitato alle classi subalterne, era
impiegato per fini pratici.
Le prime opere metalliche di rilievo artistico prodotte in Giappone sono le campane di
bronzo rituali (dotaku) prive di batacchio del periodo Yayoi (III sec. a.C. - III sec. d.C.),
incise con stilizzate scene di vita quotidiana o con motivi decorativi curvilinei «ad acqua» e
«a fronda di felce».
I primi oggetti metallici in bronzo e ferro erano stati introdotti in Giappone dalla Cina degli
Han, probabilmente fin dall'inizio del periodo Yayoi, intorno al III sec. a.C. Verso la fine del
II sec. a.C. artigiani locali cominciarono a usare tali metalli per produrre punte di freccia,
spade, daghe, alabarde, lame, specchi, campanelli e varie guarnizioni ornamentali, che
durante il periodo Kofun ebbero grande diffusione nell'ambito dei corredi funerari,
presentando spesso una parziale doratura o ageminatura. L'importazione di specchi
metallici cinesi, iniziata dalla tarda epoca Yayoi, era continuata fino al periodo di Nara,
mentre la tecnologia di produzione si era sviluppata in Giappone intorno al III-IV sec. sui
modelli cinesi Han. Stilisticamente affini a quelli cinesi, di cui riprendevano i motivi
petaliformi e ferini, gli specchi giapponesi avevano una gamma di misure più ampia dei
primi (da 5 a 45 cm). Tipicamente giapponesi sono il motivo curvilineo «a fronda di felce» e
quello geometrico che consisteva in sezioni circolari concentriche attraversate da linee
diagonali, motivi più antichi che cominciarono a comparire sugli specchi tra il V e il VI
secolo. Furono anche prodotti specchi con piccoli sonagli applicati agli orli. La produzione di
specchi propriamente giapponesi, talora con applicazione di doratura, affermatasi
soprattutto nel periodo Heian (794-1185), è caratterizzata da nuovi motivi di fiori, uccelli, e
linee sinuose di «corrente d'acqua» ed erbe.
Con l'introduzione del buddhismo, a partire dal VI sec., le immagini in metallo dorato
cominciarono ad avere grande diffusione. La prima e più imponente opera fu la statua del
Buddha Vairocana del Tōdaiji di Nara (752) che, secondo le fonti storiche, richiese 441
tonnellate di rame, 7,6 di stagno, 2 di mercurio e 390 kg d'oro. Un'eco di questa intensa e
fiorente attività artistica sono le raffinate opere in metallo coeve conservate presso il
Tesoro dello Shōsōin, che comprendono vasellame, specchi, spade, daghe e ogni tipo di
monile. Durante il periodo di Heian (794-1185) e nei periodi successivi, spade e armature
furono i prodotti metallici più ricorrenti, ancor oggi considerati capolavori nelle rispettive
tecniche.
Per quanto riguarda la produzione di monili, i più antichi tipi di bracciali e collane, databili
tra il 5000 e il 3500 a.C., restarono in uso fino al VI sec. d.C., quando con l'affermarsi del
buddhismo andarono via via scomparendo. Gli esemplari del periodo Jōmon erano ricavati
dalle conchiglie bivalve nelle quali venivano praticati fori. Nel periodo Yayoi comparvero le
conchiglie a spirale: conchiglie coniche per i bracciali femminili, mentre per quelli maschili
venivano tagliate verticalmente le conchiglie alate provenienti dal Pacifico meridionale.
Imitazioni di bracciali in bronzo che riprendevano la forma a punta delle conchiglie fecero la
loro apparizione con le campane rituali e le armi di bronzo. Importate dal continente nel
primo Yayoi, furono prodotte in Giappone soltanto nell'ultima fase del periodo (100-300
d.C.) soprattutto nel Kyushu settentrionale. Bracciali, sia con elementi metallici sia formati
da conchiglie, continuarono a essere prodotti per tutto il periodo Kofun con l'aggiunta di
sonagli, mentre comparvero eleganti bracciali in diaspro e tufo vulcanico verde, talora a
forma di lama di zappa, imitazioni dei precedenti esemplari di conchiglie; i bracciali a forma
di ruota riprendevano il cono appiattito della conchiglia patella conservando le forme degli
spigoli della conchiglia attorno a un foro centrale di c.a 6 cm di diametro. I bracciali più
grandi a forma ellittica sono tipici dell'area del Kinai (Kyoto, osaka, Nara), mentre quelli
tondeggianti si trovano un po' ovunque da Fukuoka a Chiba. I bracciali a lama di zappa, pur
essendo concentrati nell'area del Kinai, si riscontrano anche nelle prefetture di Ishikawa,
Aichi e Oita. Tesaurizzati, piuttosto che di uso quotidiano, appaiono i bracciali litici che nel
periodo Kofun sono associati ai corredi dei tumuli funerarî insieme agli specchi in bronzo.
Gli orecchini risultano già in uso per tutto il periodo Jōmon, come pendenti litici o in
terracotta a forma di «C» appiattita, atti a scivolare entro il lobo dell'orecchio attraverso
una stretta apertura che risultava quindi rivolta verso il basso (l'uso di perforare i lobi
sembra estraneo alla cultura giapponese). Molto diffusi nel medio Jōmon, i pendenti
d'orecchino sono attestati soprattutto nel Giappone orientale, come, p.es., nel sito di
Togariishi, ove sono stati rinvenuti esemplari con elaborati disegni a giorno applicati alla
terracotta. Questi ornamenti non si riscontrano più nel periodo Yayoi, mentre in quello
Kofun gli orecchini, molto diffusi e portati da donne e uomini, come documentano le
figurine degli haniwa (v.) della regione del Kantō, sono per lo più semplici anelli massicci in
oro, argento, bronzo o ferro, stretti ai lobi. I nobili portavano talora orecchini con pendenti
in oro, come rivelano i tumuli funerari di epoca Funayama e di Ōzuka, databili
rispettivamente al V e al VI secolo. Tali pendenti risultano affini a quelli trovati nelle
tombe coeve della Corea meridionale. Come per i bracciali, anche l'uso degli orecchini
decade in Giappone con l'avvento del buddhismo, intorno al VII sec., e non ricompare
prima della modernizzazione del paese sulla scia della cultura occidentale.
I granuli erano usati come ornamenti personali fin dal periodo preistorico e protostorico, e
dopo l'introduzione del buddhismo prevalentemente come rosarî. La forma più antica e
consueta di pendente è il magatama (v.), in pietre semipreziose.
Grandi tondi in pietra, documentati nel tardo Jōmon a Kamegaoka, appaiono in impasto
vetroso blu nel periodo Yayoi e in argento, bronzo dorato e vetro policromo nel periodo
Kofun. Nel tardo Kofun vi è un arricchimento di forme e materiali; luoghi di produzione
delle gemme sono stati localizzati in molti centri; nella città di Tamanoyu è stata
individuata una corporazione di artigiani controllati dal clan familiare Imbe e specializzati
nella produzione di granuli in diaspro e magatama in agata.
Corone in lamine metalliche spesso dorate, trovate nelle sepolture nobiliari, riprendono
fedelmente modelli coreani tipici dei regni di Silla e Koguryŏ (ν. coreana, arte); esse sono
composte di un cerchio su cui si innestano tre o cinque lamine ramificate, con ciondoli in
metallo prezioso e pietra dura.
Con le corone sono generalmente presenti scarpe rituali in lamine di bronzo dorato
traforate, anch'esse di derivazione coreana, in cui si inserivano pendagli.
La doratura del bronzo veniva invece applicata per urne cinerarie e contenitori di sūtra,
festoni in lamine traforate e vasellame metallico di varia foggia, i cui esemplari più antichi
provengono dall'Hōryūji e dallo Shōsōin.
Bibl.: V. Elisseeff, Giappone, Ginevra 1976, pp. 121-143; Β. Hickman (ed.), Japanese
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138b, s.v. Ear ornaments, Ancient; V, pp. 184b-185a, s.v. Mining; AA.VV., Special
Exhibition: Japanese Archaeology; History and Achievements, Tokyo 1988; H. Seki,
Kyōzuka to sono ibutsu («Tumuli dei sūtra e i loro resti») (Nihon no bijutsu, 292), Tokyo
199o; M. Ōtaki, Kinkō; dentō kōgei («Oreficeria; arte tradizionale») (Nihon no Bijutsu,
305), Tokyo 1991.
(G. Poncini)

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