Diritto Sindacale Mariella Magnani
Diritto Sindacale Mariella Magnani
Diritto Sindacale Mariella Magnani
Il diritto del lavoro è una materia relativamente nuova. È nato tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, con
l’industrializzazione e il sorgere della c.d. questione sociale.
Si rispose alla questione sociale in modo diverso a seconda dei Paesi, ma comunque con una disciplina
speciale - separata dal diritto civile. Il diritto del lavoro, si è poi modificato nelle varie epoche, fino ad oggi
in cui la condizione sociale è molto diversa rispetto a quella dell’industrializzazione.
Siamo, infatti, in un’epoca denominata post-fordista caratterizzata dalla perdita della centralità
dell’industria e dalla prevalenza del settore dei servizi. È anche un’epoca segnata dalla globalizzazione,
dall’interdipendenza plenaria dell’economia dovuta allo sviluppo del capitalismo.
Tradizionalmente il diritto del lavoro ha sempre riguardato i rapporti di lavoro subordinato, come definiti
dall’art 2094 c.c. Rispetto alla tradizionale impostazione si sono però verificati fenomeni nuovi che hanno
modificato l’oggetto stesso della materia.
La categoria lavoro subordinato non è più monolitica (prima era rapporto a tempo pieno e
indeterminato), ma è articolata al suo interno in figure contrattuali diverse (lavoro a tempo parziale,
somministrato, a termine, ripartito, intermittente etc.) che pongono dal punto di vista interpretativo
problemi di adattamento della normativa generale; dal punto di vista sistematico problemi di
sistemazione contrattuale.
Dall’altra parte vi è stata la diffusione di forme di lavoro autonome come, per esempio, i rapporti di
collaborazione coordinata, continuativa e prevalentemente personale.
Da tutte queste considerazioni emerge che il l’oggetto del diritto del lavoro, da un lato, si è frammentato,
dall’altro, si è ampliato, nel senso che riguarda anche i rapporti di lavoro autonomo.
Grazie a questa diversificazione del lavoro si è affermata una diversa lettura delle norme costituzionali
attinenti al lavoro, che precedentemente si riteneva che riguardassero solo il lavoro subordinato.
Il perimetro del diritto del lavoro è in realtà segnato dalle norme costituzionali che lo contemplano: art. 1
(l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro); art. 4 (sul diritto del lavoro); art. 35 (tutela della
legge in tutte le sue forme e applicazioni); art. 36 (retribuzione proporzionata e sufficiente); art. 37 (parità
uomo-donna e tutela minori); art. 38 comma2 (previdenza sociale); art. 39 (libertà sindacale); art. 40
(diritto allo sciopero); art. 46 (collaborazioni dei lavoratori alla gestione delle imprese); art. 99 (CNEL); ma
anche i principi di cui agli artt. 2, 3 comma 1, 38 comma 1, 41 comma 2 della Costituzione.
Oggi è sempre più avvertita in dottrina l’esigenza di una rilettura delle norme costituzionali, alla luce delle
modificazioni intervenute nella società che rendono inattuale la visione dicotomica e classista che sta alla
base di gran parte della lettura del sistema giuslavoratistico.
È ormai comunemente accettato che la Costituzione esprime piena neutralità circa le forme di lavoro e
che la norma base sulla tutela del lavoro - art. 35 - si riferisce a tutte le forme di lavoro, sia subordinato
che autonomo.
Ciò che interessa al Costituente è rimuovere le situazioni di debolezza contrattuale o di evidente
inferiorità socioeconomica, comunque, e dovunque si manifestino (anche nel lavoro autonomo).
Il mercato del lavoro è quel luogo di incontro dove si svolge domanda e offerta di lavoro. È li che avviene
l’assunzione dei dipendenti, è li che si può valutare il livello di occupazione.
Oggi, il mercato del lavoro è un mercato duale: da una parte vi sono i lavoratori protetti (oggi anche iper-protetti,
grazie alle garanzie date progressive conquiste dei lavoratori); dall’altra parte, soprattutto dagli anni ’70 in poi, in
Italia è nata una serie di rapporti di lavoro che hanno accentuato la precarietà.
Si tratta di rapporti subordinati, ma sforniti di garanzie del rapporto tipo e soprattutto sforniti della garanzia di
stabilità. Esempi di questi tipi di rapporti sono: il contratto a termine, il rapporto a tempo parziale (orario ridotto), il
lavoro a chiamata, call job o lavoro intermittente.
Oltre a questi vi sono anche rapporti che stanno completamente fuori dalla subordinazione, e quindi completamente
sforniti di tutela giuridica.
In questi rapporti il soggetto è debole perché economicamente dipendente dal datore di lavoro, ma non è
subordinato. Es: collaborazioni coordinate e continuative; collaborazioni a progetto; collaborazioni a partita iva.
Spesso, sono forme sostanziali di sfruttamento che nascondono un tipo di lavoro, che sostanzialmente dovrebbe
essere subordinato.
Tutte queste nuove forme di precarietà hanno dato vita al c.d. sventagliamento del diritto del lavoro: processo che
ha creato sempre più un solco tra insaider (lavoratori subordinati che sono dentro un sistema giuridico) e outsider
(lavoratori a tempo determinato o altre forme di precarietà; fra gli outsider vi sono soprattutto giovani. Oggi la
maggior parte di assunzioni è di questo tipo).
La giustificazione comune a questo tipo di problema è data dalla flessibilità, che nasce come esigenza agli inizi del
900, attraverso 2 forme economiche, a causa di quella che può definirsi come una Nuova Rivoluzione Industriale
dettata da nuova tecnologia, informatica, globalizzazione.
Oggi l’impresa si muove dove ci sono le convenzioni economiche, soprattutto convenzione sul costo del lavoro. Il
problema odierno è come superare il dualismo tra insider e outsider; da qui l’attuale discussione sull’art 18
(l’approvazione del d.d.l. non è ancora avvenuta).
Riguardo all’analisi odierna bisogna inoltre sottolineare che non è detto che sia il diritto del lavoro a poter risolvere
il problema occupazione, anche perché il diritto del lavoro si occupa principalmente dell’offerta di quella che in senso
normativo è la forza lavoro. In realtà bisognerebbe incidere sulla domanda.
Modificare il diritto del lavoro serve perché è l’unica cosa da fare in quanto l’Italia, come gli altri paesi, ha obblighi di
pareggio di bilancio verso l’UE (limite del vincolo del 3%). A causa di ciò, l’Italia non può fare investimenti e non può
quindi applicare una politica di intervento kelsenisana, non potendosi, a causa di un’Europa rigorista, indebitarsi
ulteriormente. Proprio per questi motivi si cerca di intervenire sul mercato del lavoro.
C’è infine da considerare che il lavoro si divide tra pubblico e privato (per pubblico si intendono i dipendenti della
P.A.). Ci si occupa di entrambi perché dal 92 si è portata avanti la privatizzazione dei dipendenti pubblici. Non si
occupa di questi il diritto amministrativo, ma il diritto privato, considerando però dei contratti con forme di
specialità.
B) Il diritto sindacale ha per oggetto le organizzazioni sindacali e la loro caratteristica attività: innanzitutto
la contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro e, in secondo luogo, il c.d. conflitto collettivo, vale a
dire le forme di lotta sindacale (in particolare, lo sciopero e la serrata).
Il diritto del lavoro si articola in 2 grandi settori:
1. Rapporto individuale: che concerne specificatamente il contratto di lavoro. Il contratto di lavoro è inserito nel
libro V del c.c. che regolamenta l’impresa. Non esiste una nozione di contratto di lavoro nel c.c., ma di lavoratore
subordinato; questo perché il c.c. risale al periodo storico corporativo del fascismo, che non ammetteva un
contratto nel senso di un rapporto tra soggetti in conflitto, ma era visto come un rapporto associativo, dove tutti i
soggetti concorrevano per l’interesse superiore fascista. Il contratto, al contrario implica la contrapposizione tra
parti confliggenti che perseguono interessi opposti. In quanto a metodo e approccio il contratto di lavoro non si
discosta data dalla definizione di contratto in diritto privato, ma con una grossa distinzione, il rapporto non riguarda
merci (avere), ma l’essere, il lavoratore. Da qui la necessità di una particolare tutela.
2. Rapporto sindacale: studia i modelli tra le organizzazioni sindacali e Stato e gli strumenti di lotta che hanno queste
organizzazioni, soprattutto lo sciopero e il contratto collettivo (regolamenta il rapporto tra soggetti collettivi, cioè
associazioni di datori di lavoro e associazioni dei lavoratori. Il contratto collettivo ha anche un contenuto normativo
che si rivolge direttamente ai lavoratori).
C) Il diritto della previdenza sociale o della sicurezza sociale ha per oggetto la disciplina dell’erogazione
di beni e di servizi da parte dello Stato o di Enti pubblici (ora anche privati) per far fronte a situazioni di
bisogno (infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria) in cui i lavoratori
possono incorrere.
Nella tripartizione tradizionale del diritto del lavoro, un ruolo prioritario occupa il diritto sindacale.
Prioritario sia dal punto di vista storico, in quanto il primo nucleo di disciplina speciale dei rapporti di lavoro
è frutto autonomo della contrattazione collettiva dei datori di lavoro e dei sindacati dei lavoratori, sia dal
punto di vista dell’attuale statuto scientifico della materia.
Per molti studiosi è il diritto sindacale il proprium della materia: l’organizzazione sindacale, il contratto e
il conflitto collettivo connotano il diritto del lavoro assai più dell’intervento eteronomo della legge.
A dimostrazione della assoluta centralità, ovunque, del diritto sindacale basti pensare che negli Usa la
denominazione labor law è riservata alla normativa che regola le organizzazioni sindacali e la loro attività.
Il centro dell’American labor law è il processo della contrattazione collettiva.
Dall’angolazione più tradizionale si può cogliere la rilevanza del diritto sindacale nel contesto della
materia se si considera che esso rappresenta in larga misura il diritto delle fonti di disciplina dei rapporti
di lavoro. L’assetto delle fonti è complesso in quanto accanto alla legge e al contratto individuale vi è il
contratto collettivo.
Inoltre, molto il diritto sindacale deve all’apporto di altre discipline: in particolare alle cd. relazioni
industriali, nelle quali le relazioni di lavoro sono studiate, non solo dal pdv giuridico, ma anche da quello
sociologico ed economico. L’aggettivo industriali è legato alle origini storiche di questa disciplina, sorta
in un periodo caratterizzato dalla centralità del diritto del lavoro industriale. Oggi l’espressione indica lo
studio delle relazioni sindacali in tutti i settori, privato e pubblico.
Principale studioso e sistematizzatore del diritto sindacale: Gino Giugni, il quale teorizzò, negli anni 60,
l’ordinamento intersindacale.
L’assetto di disciplina dei rapporti di lavoro è complesso e del tutto originale, soprattutto per la presenza
della peculiare figura del contratto collettivo, sul cui studio principalmente si incentra il dir. sindacale.
Per quanto riguarda la legge, accanto alla legge statale insistono le leggi regionali, anche se per aspetti che
normalmente non riguardano il diritto sindacale.
Dobbiamo ricordare che con l. cost. 3/2001 è stato modificato il titolo V del cost., in particolare l’art. 117:
il senso dell’operazione legislativa è stato quello di invertire l’ordine delle competenze legislative tra Stato
e Regioni, attribuendo alle regioni una competenza legislativa generale al di fuori delle materie riservate
alla competenza legislativa statuale (“spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato”).
Per quanto riguarda il diritto del lavoro la riforma è importante perché, in base all’art. 117, se viene
riservata alla competenza esclusiva dello Stato la materia “ordinamento civile”, è stata attribuita alla
competenza concorrente Stato-Regioni la materia della “tutela e sicurezza del lavoro”: un’espressione
talmente ampia da poter abbracciare l’intero diritto del lavoro. Un diritto del lavoro che avrebbe potuto
diventare a geometria variabile, cioè differenziato Regione per Regione.
È tuttavia prevalsa un’altra interpretazione proposta dalla stessa Corte costituzionale con la sent.
50/2005, in base alla quale la disciplina dei rapporti inter-privati, cioè del diritto del rapporto di lavoro e
diritto sindacale, in quanto parte dell’ordinamento civile, è riservata alla competenza esclusiva dello Stato;
mentre è attribuita alla competenza concorrente Stato-Regioni la disciplina dell’organizzazione e del
funzionamento del mercato del lavoro. Vi è, poi, un’area di competenza legislativa esclusiva delle Regioni
rappresentata dalle materie dell’istruzione e della formazione professionale.
La materia lavoristica è stata così ripartita in un’area di competenza statale esclusiva, in una di competenza
concorrente Stato-Regioni e in una di competenza regionale esclusiva.
La logica relativa a tale organizzazione di riparto delle competenze non appare del tutto congruente.
Basti pensare, per esempio, che i contratti di lavoro formativi, coinvolgono verticalmente sia la
competenza esclusiva dello Stato, sia la competenza concorrente Stato-Regioni, infine la competenza
esclusiva delle Regioni.
Per quanto attiene al diritto sindacale deve precisarsi che il ruolo della legislazione nel secondo dopoguerra
è stato a lungo marginale. Si è parlato di un vero e proprio astensionismo legislativo e di una formazione
extralegislativa del diritto sindacale, affidato soprattutto alla contrattazione collettiva e alle pronunce
giurisprudenziali.
Nei primi anni 90 sembrava che si aprisse una stagione di legiferazione strutturale e non episodica [si
pensi alla disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali (l. 146/1990) e a quella della contrattazione
collettiva nel pubblico impiego (d.lsvo 29/1993)]. Tale tendenza si è poi arrestata.
Il tessuto del diritto sindacale resta costituito da quella fitta trama di regole e principi, elaborati da
dottrina e giurisprudenza a partire dal diritto comune dei contratti. Ciò che è ben visibile soprattutto nella
costruzione del contratto collettivo di diritto comune.
Le ragioni di fondo della mancanza di una legislazione organica in materia sindacale stanno nella
sostanziale inattuazione delle norme costituzionali relative al sindacato, contratto collettivo, sciopero e
forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa. Le norme fondamentali del diritto sindacale si trovano
nella Cost. agli artt. 39, 40 e 46. Tutte e 3 queste norme rinviano a leggi ordinarie per la loro attuazione.
Leggi ordinarie organiche di attuazione non sono state emanate per nessuna di esse per ragioni
complesse in un contesto di pluralismo competitivo tra le medesime associazioni. Ed anche dall’assenza
di un sindacato unitario dipende la peculiarità del diritto sindacale italiano.
La giurisprudenza riveste un’importanza decisiva nella formazione ed applicazione del diritto sindacale,
ancor di più per il diritto sindacale italiano, a causa del ben noto astensionismo legislativo. Basti pensare
alla consacrazione ad opera della giurisprudenza, nell'inattuazione dell’art. 39 cost, della costruzione del
contratto collettivo di diritto comune.
Per comprendere appieno i contenuti dell’art. 39 Cost., uno dei capisaldi del diritto sindacale, occorre
considerare diacronicamente il regime giuridico del sindacato e del contratto collettivo durante il periodo
pre-corporativo e il periodo “corporativo-fascista”.
In particolare, l’esperienza corporativa è stata significativa nel forgiare lo strumento concettuale dei
giuristi, introducendo l’idea che il contratto collettivo dovesse ricondursi ad un’autonomia diversa da
quella meramente individuale: l’autonomia collettiva. Il che viene anche espresso attraverso la
considerazione, diffusa in dottrina, che il contratto collettivo è stipulato dal sindacato attraverso
l’esercizio di un potere originario, riconosciutogli dall’ordinamento.
2. PERIODO “PRE-CORPORATIVO”
Il Codice civile del 1865 non conteneva una disciplina specifica dei contratti di lavoro subordinato, che,
pertanto, venivano ricondotti alla figura civilistica della locatio operarum.
Tuttavia, anche nel nostro Paese, seppure in ritardo rispetto ad altri, la rivoluzione industriale determinò
la diffusione del lavoro salariato subordinato e la nascita della cd. questione sociale: conflitto di interessi
tra chi deteneva i mezzi di produzione e chi doveva lavorare per vivere.
In questo 1° periodo di tempo, lo Stato mancò di svolgere una funzione riequilibratrice. La tutela dei
lavoratori dipendenti si ebbe essenzialmente attraverso la coalizione sindacale.
Per vincere la situazione di debolezza contrattuale in cui si trovavano se contrattavano individualmente
le condizioni di lavoro, i lavoratori si coalizzarono costituendo i sindacati, associazioni volontarie per la
difesa dei propri interessi professionali. Essi, agendo attraverso lo strumento dello sciopero (che era allora
penalmente lecito), ottenevano di essere riconosciuti dai datori di lavoro come controparti contrattuali.
Furono così stipulati i primi contratti collettivi, concernenti all’inizio la sola retribuzione (venivano infatti
detti concordati di tariffa) per poi disciplinare, col tempo, anche altri profili del rapporto di lavoro.
Contemporaneamente, anche i datori di lavoro si associarono, a loro volta, per meglio contrastare, nella
dialettica negoziale, i sindacati dei lavoratori.
Nel codice del 1865 non esisteva alcuna previsione normativa neppure relativamente al contrat. collettivo.
Si deve all’opera pionieristica del giurista Giuseppe Messina l’inquadramento giuridico dei problemi da
esso scaturenti. Messina per primo ha evidenziato che il contratto collettivo non è una sommatoria di
singoli contratti di lavoro, ma un contratto normativo, cioè un contratto per mezzo del quale le parti
predeterminano il contenuto di una futura attività negoziale.
Per spiegare l’efficacia del contratto collettivo sui contratti individuali di lavoro, Messina deve fare ricorso,
in mancanza di una disciplina specifica, al diritto contrattuale comune. In questa prospettiva il contratto
collettivo, da una parte, non ha efficacia reale nei confronti dei singoli contratti individuali; dall’altra,
riguarda unicamente gli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti.
Per spiegare come un contratto collettivo, stipulato da contrapposte associazioni sindacali, possa
produrre effetti nella sfera giuridica del singolo datore di lavoro e del singolo lavoratore, già Messina
faceva riferimento alla figura privatistica della rappresentanza: nel momento in cui i singoli si iscrivono alle
proprie associazioni sindacali conferirebbero loro un potere di rappresentanza nella regolazione delle
condizioni di lavoro.
Ne consegue che coloro che non sono iscritti alle associazioni sindacali stipulanti il contratto sono terzi
rispetto ad esso e, dunque, nei loro confronti il contratto collettivo non produce effetti.
Dall’applicazione dell’istituto della rappresentanza al fine di spiegare gli effetti del contratto collettivo sul
contratto individuale consegue altresì che il singolo datore di lavoro ed il singolo lavoratore possano
modificare, in sede di stipulazione del contratto individuale di lavoro, la disciplina prevista dal contratto
collettivo. Il rappresentato è infatti dominus negotiie, dunque, può sempre modificare la
regolamentazione dell’affare realizzata dal rappresentante.
Se questo è vero, si riduce di molto la funzione economico-sociale tipica del contratto collettivo, cioè la
rimozione della debolezza contrattuale dei singoli lavoratori. Ma, secondo Messina, questa era l’unica
conclusione cui si poteva pervenire applicando il comune diritto dei contratti.
Ad attenuare il rigore di questa conclusione è stata un’istituzione fondamentale per il periodo e per lo
sviluppo del diritto del lavoro: si tratta dei probiviri, istituiti con la l. 295/1893. La competenza di questa
giurisdizione equitativa fu limitata alla soluzione delle controversie individuali entro ristretti limiti di
materia e di valore; ma ciò non impedì ai probiviri di prendere posizione anche su materie solo
indirettamente coinvolte nelle controversie individuali, come gli scioperi, i contratti collettivi e le
organizzazioni sindacali.
Essi teorizzarono l'efficacia ultra-partes dei contratti collettivi sulla base della loro funzione economico-
sociale, regolatrice della concorrenza fra industriali e lavoratori; così come teorizzarono il principio
dell'inderogabilità dei contratti collettivi (richiamando l'idea di solidarietà fra consorti legati in patto
associativo sia per scioperare, sia per contrattare collettivamente nuove condizioni di lavoro).
I probiviri contribuirono ad estrarre nuove regole di diritto dalle pratiche locali e dalle consuetudini. Il
moderno diritto del lavoro deve molto all'apporto creativo della giurisprudenza probivirale.
Il contratto collettivo nasce come concordato di tariffa, cioè come strumento di lotta degli operai organizzatisi
spontaneamente per costituire una controparte che bilanci il potere del datore di lavoro, migliorando le condizioni
dei lavoratori e quindi in primis aumentando i salari. Il contratto nasce quindi come strumento che limiti la
concorrenza tra i lavoratori. Esso deve essere tale da essere applicato a tutti i lavoratori in modo da evitare che si
crei tra questi una concorrenza al ribasso. Al fine di assurgere al suo ruolo, il contratto collettivo deve presentare 2
caratteristiche ontologiche:
Se il contratto collettivo nasce da spontanea unificazione dei sindacati, nel liberalismo è un atto illegale, perché si
pone come atto sovversivo che mira a modificare l’equilibrio tra domanda e offerta.
Nel c. penale sardo (poi divenuto di tutta l’Italia unificata) la coalizione spontanea è vietata e sanzionata, così come
è considerato reato e represso lo sciopero. Soltanto con c.p. Zanardelli 1889 si depenalizza la coalizione e lo sciopero,
viene mantenuto l’aggravante di commissione di violenza in uno sciopero. Coalizione e sciopero rientrano quindi in
una sfera di tolleranza, ma non sono ancora diritti.
Per i contratti di lavoro non esistevano leggi o la legislazione soprattutto all’inizio era insufficiente (una delle prime
leggi sul lavoro fu quelle sul lavoro nelle risaie). Intanto a fine 800 l’Italia assiste ad un grande sviluppo industriale.
Nascono le prime società anonime (società di imprese e banche) che iniziano a darsi dei regolamenti, validi per il
proprio personale.
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Accanto a questi, tra i primi tentativi di regolamentazione vi sono gli usi delle Camere di Commercio che vengono
formalizzati e la costituzione del tribunale dei probiviri, composto da rappresentanti delle parti sociali (datori di
lavoro e lavoratori. In Francia esiste ancora) e da un presidente imparziale deciso dal Ministero del Lavoro. Il
Tribunale dei probiviri prende decisioni secondo equità, e proprio per cercare l’equità si inizia ad estendere l’utilizzo
dei regolamenti, degli usi e dei contratti collettivi. Per far valere il contratto collettivo era necessario che le parti
fossero iscritte alle associazioni di categoria. Tuttavia, non vi era l’obbligo di iscrizione, né per i lavoratori né per i
datori di lavoro. I contratti non erano applicabili ai non iscritti per assenza di mandato.
Rappresenta questo il più grande problema di applicazione dei contratti collettivi che tutt’oggi permane.
Tuttavia, attraverso una giurisprudenza che si delinea con un netto carattere creativo, il Tribunale dei probiviri
estende gli effetti del contratto collettivo anche ai non associati.
La prima legge sul d. del lavoro in periodo pre-corporativo è la l. Giolitti del 1924. Essa riprende precedenti
provvedimenti legislativi, ma si rivolge, non ai soggetti che in realtà dovevano essere tutelati, quali operai e
contadini, quanto piuttosto agli impiegati, coloro che facevano un lavoro di tipo intellettuale e che per tanto
costituivano una classe sociale di rango superiore rispetto a quella operaia. Giolitti porta avanti questa legge perché
il suo serbatoio elettorale era costituito essenzialmente solo da impiegati. Tuttavia, la legge rimane di notevole
importanza, perché per la prima volta si sancisce l’inderogabilità delle norme contenute nella legge stessa, sia da parte
dei datori di lavoro che dei contratti collettivi.
Si crea così una gerarchia: legge, contratto collettivo, contratto individuale. Si applica la regola della derogabilità in
meglio. La regola dell’inderogabilità in peggio verrà messa in discussione a partire dagli anni 70 e spesso la legge
consentirà la derogabilità sia in meglio che in peggio per far fronte a crisi economiche ed occupazionali.
La legge Giolitti vede il soggetto impiegato come un soggetto legato al datore di lavoro con rapporto di fedeltà.
Prevede che in caso di licenziamento il preavviso e l’indennità di anzianità siano direttamente proporzionali agli anni
di rapporto. Questo porterà ad una mobilità nei posti di lavoro, i dipendenti cercano di non rompere il rapporto con
il datore di lavoro, perché questo comporterebbe una perdita economica. Non si premia l’efficienza e la competenza
del lavoratore, ma la sua fedeltà e anche la retribuzione aumenta con scatti di anzianità. Tali automatismi retributivi
per anzianità verranno molto criticati negli anni 70 perché ingessano il lavoratore in un unico posto di lavoro per
evitare delle perdite economiche.
Alcuni basando il lavoro sul rapporto fiduciario hanno anche giustificato il licenziamento per perdita di fiducia.
Fiducia che è basata sulla personalità e sul comportamento del lavoratore anche al di fuori del posto di lavoro. Nasce
una giurisprudenza che giustifica licenziamenti che non sono legati a stretti obblighi lavorativi.
3. IL PERIODO “CORPORATIVO”
La legge 563/1926 (legge sindacale del 1926), in conformità con l’ideologia del periodo corporativo-
fascista, segnò l’allontanamento definitivo dalla posizione agnostica, di tendenziale indifferenza, che
aveva caratterizzato lo Stato liberale nei confronti della dialettica tra le parti sociali nel conflitto
industriale. Attraverso degli espedienti, vengono eliminate tutte le libertà sindacali.
Tutta la società attiva viene divisa in categorie professionali. Ogni categoria ha lavoratori e datori di lavoro
che non hanno posizioni confliggenti tra loro. Non esiste conflitto di classe nel comunismo, perché vi è la
socializzazione dei mezzi di produzione e non vi è conflitto di classe nel corporativismo perché tutti
cooperano per il raggiungimento dell’interesse superiore dello Stato.
Con la legge del 1926, il sindacato venne infatti attratto nella struttura organizzativa dello Stato. La legge
prevedeva che i sindacati, una volta ottenuta, tramite la registrazione, la personalità giuridica (di diritto
pubblico), avrebbero acquisito la rappresentanza legale di tutti i lavoratori - iscritti e non iscritti
appartenenti a una data categoria. Per ciascuna delle categorie professionali (le quali venivano individuate
autoritativamente) era ammessa la registrazione di un solo sindacato.
Pur non essendo formalmente affermata l’unicità del sindacato - pur essendo, cioè, consentita la
costituzione di più sindacati per una stessa categoria di lavoratori - solo un sindacato poteva ottenere la
registrazione e con essa la personalità giuridica.
Il sindacato cui veniva attribuita la personalità giuridica di diritto pubblico aveva poi il potere di stipulare
un contratto collettivo dotato di efficacia generalizzata (erga omnes) nei confronti di tutti i lavoratori e
datori di lavoro appartenenti alla categoria, indipendentemente dalla loro iscrizione.
Quindi per ogni categoria era previsto un unico sindacato di lavoratori e un unico sindacato dei datori di
lavoro che decidevano un unico contratto collettivo.
Il sindacato doveva essere di riprovata fede fascista. Le Camere del lavoro vengono sciolte perché
sovversive. Il sindacato rappresenta legalmente tutti gli iscritti alla categoria. I contratti corporativi
vengono inseriti nelle fonti del diritto, ed essendo legge, vale automaticamente l’efficacia erga omnes e
l’inderogabilità. Si realizzano quindi le caratteristiche perfette ed essenziali del contratto collettivo, ma
senza alcuna libertà sindacale.
La legge del 1926 si occupava anche di definire il tipo di efficacia del contratto collettivo sul contratto
individuale. Essa infatti stabiliva che, in ipotesi di difformità delle disposizioni del secondo rispetto a quelle
del primo (e salvo che il contratto individuale non contenesse disposizioni più favorevoli per i lavoratori),
le disposizioni del contratto individuale difformi dovessero essere sostituite automaticamente da quelle
del contratto collettivo. Si affermava, pertanto, il principio di inderogabilità in peius del contratto
collettivo da parte del contratto individuale, principio poi ripreso dal cc del 42 nell’art. 2077: nel testo
codicistico sono fatte salve le deroghe solo in quanto contengono speciali condizioni più favorevoli ai
prestatori di lavoro.
La vena autoritaria della legge del 1926 si esprime chiaramente con la configurazione dello sciopero e
della serrata (precedentemente considerati come leciti) quali reati contro l’economia nazionale. E le
relative disposizioni saranno trasfuse nel Codice penale del 1930.
Così si spiega anche l’istituzione della Magistratura del lavoro, un organismo composto da magistrati
togati e da esperti designati dalle parti contrapposte, con lo scopo di dirimere le controversie relative ai
rapporti di lavoro. All’esame della Magistratura del lavoro potevano essere portate sia controversie
collettive giuridiche, relative cioè all’interpretazione ed all’applicazione dei contratti collettivi esistenti; sia
controversie collettive economiche, relative cioè alla determinazione dei contenuti dei contratti collettivi
(ed in tal caso era in sostanza la stessa Magistratura a fissare detti contenuti).
La repressione penale dello sciopero rappresentava in effetti il principale elemento di negazione della
libera determinazione dei rapporti sindacali.
Infatti, in un sistema di libertà sindacale e contrattuale le associazioni sindacali dei lavoratori tipicamente
avanzano rivendicazioni nei confronti della controparte datoriale; ed in tale confronto dialettico accade
fisiologicamente che le pretese vengano sostenute attraverso lo strumento dello sciopero. In un sistema,
come quello corporativo fascista, che sancisce l’illiceità penale dello sciopero, il legislatore deve porsi il
problema degli strumenti atti a rimuovere l’eventuale situazione di stallo che si produca nella contrattazione
collettiva, non rimuovibile appunto attraverso il ricorso alle forme di lotta sindacale. E, nella legge del
1926, egli individua tale strumento nella Magistratura del lavoro, organo deputato, appunto, a risolvere
le controversie, anche di natura economica, tra le parti sociali.
Le disposizioni della legge del 1926 vengono trasferite, in parte, nel Codice penale del 1930, in parte, nel
Codice civile del 1942 (libro V, Titolo I, capo III, artt. 2067).
Il Codice civile finalmente disciplina anche il rapporto di lavoro subordinato (artt. 2094), con disposizioni
che contengono ampi e numerosi rinvii alla contrattazione collettiva; esso disciplina specificamente anche
il contratto collettivo (artt. 2067), riproducendo la disciplina della legge del 1926.
Nel considerare le disposizioni del Codice civile del 1942 occorre essere avvertiti che ciò che viene
disciplinato è il contratto collettivo corporativo, stipulato dai sindacati registrati, in un sistema
sostanzialmente negatorio della libertà sindacale. Per questo si ritiene che le disposizioni sul contratto
collettivo contenute nel cc non concernano i cd. contratti collettivi di diritto comune stipulati, all’indomani
del venir meno del sistema corporativo, dai sindacati sulla base della riconquista della libertà sindacale.
Disciolte nel 1943 le corporazioni e nel 44 i sindacati fascisti, per non lasciare i lavoratori privi di tutela,
furono mantenuti in vita i contratti collettivi stipulati fino a quel momento salve le successive modifiche
(d.lgvo lgt. 369/1944).
Il decreto luogotenenziale del 44 (luogotenenza data dalla fuga del re che affida il regno al figlio Umberto) afferma
che restano in vita i contratti collettivi corporativi finché non vengono predisposte nuove regole sul contratto
collettivo. In realtà una legge sul contratto collettivo non arriverà mai, vi sarà una disposizione costituzionale, che
però rimarrà inapplicata.
Caduto il sistema corporativo, i sindacati, (ri)costituitisi sulla base del principio di libertà sindacale, si
trovarono ad operare in una situazione di anomia paragonabile a quella in cui operavano nel periodo pre-
corporativo.
Nel 1948 entra in vigore la Cost. e, con essa, l’art. 39 che sancisce: “l’organizzazione sindacale è libera”.
4. L’ENTRATA IN VIGORE DELLA COSTITUZIONE ED IL PERIODO POST-COSTITUZIONALE
Nel 1948 entra in vigore la Costituzione.
Art. 1 sottolinea che il lavoro è al centro della persona umana ed è il modo principale in cui si realizza la dignità e la
personalità dell’uomo.
Art. 2 cost da risalto ai gruppi intermedi, cioè alle formazioni sociali con funzione di facilitare la partecipazione alla
vita sociale da parte dei cittadini, e tra esse si inseriscono, oltre ai partiti politici, anche i sindacati.
Art. 3, rileva in questo campo soprattutto per quanto riguarda la seconda parte che sancisce l’eguaglianza sostanziale
e la promessa di rimuovere ostacoli e differenze che non attengono a singoli, ma a gruppi. Si potrebbe portare ad
esempio il soffitto di vetro delle donne nel campo del lavoro, che non riescono ad accedere alle cariche più alte. Per
ridurre tale divario percentuale tra donne e uomini si attuano le azioni positive. Esso si riferisce ad ostacoli che
riguardano le categorie di lavoratori più deboli, cioè i lavoratori dipendenti, subordinati.
Art. 4 sancisce che la Repubblica deve promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Rappresenta
un obbligo per lo Stato a far funzionare tutti i servizi e le politiche attive del lavoro, quali per esempio i servizi
amministrativi che devono far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro, ma anche le politiche attive sulla
formazione professionale. Secondo alcuni si tratta di un diritto giustiziabile, per il quale si può quindi chiedere un
risarcimento dei danni (es. piano giovani regione Sicilia 2014).
Art. 35 da un’accezione molto ampia di lavoro. Contiene affermazioni di principio sulla tutela del lavoro in tutte le
sue forme.
Art. 36 parla di giusta retribuzione. La retribuzione deve essere proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro,
cioè proporzionale al tempo e alle mansioni impiegati dal lavoratore (il principio di proporzionalità è un principio
liberista. E in ogni caso la retribuzione deve essere sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una
sussistenza dignitosa (riprende il principio: a ciascuno secondo i suoi bisogni, che è un principio socialista). La
retribuzione sufficiente non è spesso attuata, cioè spesso si vede nei lavori part time. La retribuzione sufficiente
dovrebbe essere colmata dallo Stato: per esempio in Germania, con la previsione dei cd. Mini-job, lo Stato aiuta chi
ha salari minimi.
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Per quanto concerne l’individuazione concreta di una retribuzione proporzionata, in Italia non vi è stata una legge
sui salari. Nel Job act di Renzi si parla di salario minimo orario pari a 7 euro l’ora. Si è cercato di individuare la giusta
retribuzione facendo riferimento ai contratti collettivi, anche laddove i contratti collettivi non erano attivi.
Si parla di retribuzione parametro; cioè il giudice per decidere la retribuzione sufficiente fa riferimento ai contratti
collettivi, anche non attivi. La giurisprudenza arriva a questo parametro di retribuzione attraverso l’art. 36 letto in
combinato disposto con l’art 2089 c.c. (in caso di lite è il giudice a decidere la giusta retribuzione).
Rappresenta questo uno dei problemi storici nella tutela dei lavoratori (il primo maggio si festeggia la riduzione della
giornata lavorativa). Anche se la durata max è stata in tempi recenti allungata con la previsione di leggi per la
flessibilità degli orari di lavoro.
Sempre il comma 2 dell’art. 36 afferma che il lavoratore ha diritto al riposo settimanale (che non deve coincidere con
la domenica) e alle ferie annuali retribuite, diritti a cui non può rinunciare.
Nasce anche da qui il problema della inderogabilità disponibilità del diritto: il diritto non può essere inderogabile
per essere valido, ma la sua disponibilità da parte dell’individuo è diversa: Es. lavoratore che ha diritto ad uno
straordinario secondo una determinata tabella retributiva. Il lavoratore può disporre di questo diritto, per esempio,
per una transazione verso il datore di lavoro. È quindi una norma inderogabile, ma disponibile.
Il riposo e le ferie sono invece diritti indisponibili, non possono essere oggetto di rinuncia o transazione. Le ferie non
possono essere monetizzate, cioè non vi si può rinunciare per avere una doppia retribuzione. Questa distinzione si
rifà all’art 2113 c.c. che riguarda rinuncia e transazione di diritti disponibili. Il lavoratore, infatti, trovandosi un una
posizione debole, può essere spinto a transazioni per necessità o bisogno per pressioni da parte del datore di lavoro.
Per questo le transazioni possono essere impugnate dal lavoratore entro 6 mesi dalla fine del rapporto di lavoro, a
meno che non si tratti di transazione avvenuta davanti al giudice, ai sindacati, ad una Camera di Lavoro o a
commissioni specifiche, perché sono questi enti che tutelano il lavoratore nel momento in cui decide di dare risposta
positiva ad una transazione.
Mentre prima la donna veniva tutelata solo come procreatrice, col tempo si è cercato di tutelare la donna in quanto
persona e non solo per la sua funzione sociale. Si vuole in primis tutelare la parità, ma allo stesso tempo prevedere
una tutela differenziata per particolari periodi di vita di una donna, dal concepimento ai primi mesi di vita del
bambino. Nel 1971 una legge ha inserito il divieto di licenziamento a causa di matrimonio e divieto di licenziamento
dal periodo del concepimento al 1° anno di vita del bambino. Divieto valido anche se la donna non è ancora cosciente
del concepimento. La 1° legge sulla parità è invece del 1977, mentre la 1° che inserisce azioni positive è del 1991.
Per quanto riguarda la retribuzione, fino al 1965 si sostenne anche nei contratti collettivi l’idea che la donna non
svolge un lavoro con la stessa efficienza di un uomo. Si prevedevano misure di retribuzione diverse anche a parità
di mansione.
L’art 38: diritto della sicurezza e della previdenza sociale. Distingue la previdenza sociale dall’assistenza sociale.
L’assistenza sociale e il mantenimento sono previsti per chi non può lavorare. Vi è sempre stata una politica
restrittiva in questo campo. Un’importante forma di assistenza sociale è la pensione sociale.
La previdenza sociale invece, considera il diritto dei lavoratori ad una tutela in caso di malattia, disoccupazione,
infortunio, vecchiaia. È stato introdotto un sistema assicurativo: i contributi versati sono il premio assicurativo in
caso di infortunio o malattia. Il datore di lavoro è sollevato da responsabilità proprio perché interviene
l’assicurazione. Il pagamento dei contributi è obbligatorio e viene effettuato presso l’INAIL (infortuni) e presso
l’INPS (previdenza sociale). Nei paesi del Nord Europa si è passati da un sistema di sicurezza assicurativo per rischi
ad un sistema di sicurezza sociale che si amplia a tutti i casi di bisogno dei cittadini; sistema che va a carico della
fiscalità generale. La sicurezza sociale si è sviluppata in Italia sono nel sistema sanitario.
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Nei commi 2° e successivi, l’art. 39 dispone che ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non
quello della registrazione, presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la
registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
A loro volta, i sindacati registrati hanno la personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente in
proporzione al numero degli iscritti, stipulare contratti collettivi con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce.
In quest’ottica, l’art. 39 è il frutto del tentativo del Costituente di conciliare la libertà sindacale, che implica
il pluralismo sindacale, con l’esigenza del contratto collettivo cui si riconosce efficacia generalizzata.
Nella 2° parte dell’art.39 cost. trovano espressione le istanze di coloro che si richiamavano idealmente alla
scuola cristiano-sociale, i quali auspicavano, non il totale superamento della soluzione sindacale delineata
nel periodo fascista, ma la sua democratizzazione.
Il costituente individua un meccanismo:
1. Registrazione dei sindacati: è diversa da quella prevista nel sistema corporativo. In realtà la registrazione non è
un obbligo, ma un onere. Se si registrano possono partecipare alla contrattazione con efficacia erga omnes.
2. Tutti possono accedere alla registrazione purché i loro meccanismi interni rispettino i principi di democrazia
(unico limite).
3. I sindacati registrati acquistano personalità giuridica di diritto privato (differenza col corporativismo).
4. Non sono i sindacati registrati a sindacare il contratto collettivo, ma le rappresentanze unitarie (organismi di II
livello) che devono essere composte dai sindacati in misura proporzionale dei propri iscritti. Secondo la
costituzione, la rappresentanza in questo campo non ha un criterio politico, ma un sistema di rappresentanza di
tipo associativo. Il peso di ciascun sindacato è misurato sulla base dei propri iscritti.
Mentre però il 1° comma dell’art. 39 è norma precettiva, cioè immediatamente applicabile nei rapporti
interprivati, i commi 2°, 3°, 4° (la seconda parte dell’art.39) necessitano, per la loro attuazione, di una legge
ordinaria che definisca, ad es., le condizioni e le modalità della registrazione e della costituzione della
rappresentanza unitaria.
Una legge ordinaria di attuazione dell’art. 39 non è però mai stata emanata, tanto che in dottrina si è
anche arrivati a prospettare l’opportunità di abrogare i commi 2°, 3° e 4°, attraverso il meccanismo di
revisione costituzionale.
La legge di applicazione dell’art. 39 non è mai stata emanata per ragioni di carattere politico, ideologico e sindacale.
Nel post-fascismo alle elezioni del 48 ci fu un grosso scontro tra Pci e Dc. Vinse la Dc con De Gasperi, protagonista
del famoso compromesso storico realizzato con Berlinguer. Questo comportò che i primi governi di destra non
erano favorevoli ai sindacati. Ma in realtà, i sindacati stessi erano contrari ai primi d.d.l. presentati dai governi,
soprattutto perché questi contenevano forti limitazioni al diritto di sciopero. A causa di queste contrizioni politiche
la legge, nei primi anni della repubblica non venne emanata, e il diritto collettivo rimase diritto comune.
La accentuata concorrenzialità tra le principali confederazioni sindacali ha reso al momento del tutto
inattuale l’ipotesi di abrogazione della 2° parte dell’art. 39, vista da tutte le parti sindacali come baluardo
contro scelte legislative non condivise. Se fosse abrogata la 2° parte dell’art. 39, sarebbero affidati ad una
legge ordinaria e dunque alle mutevoli maggioranze parlamentari gli stessi criteri per misurare la
rappresentatività sindacale, sui quali non vi è consonanza di vedute tra i principali sindacati: alcuni
privilegiando il criterio associativo (numero degli iscritti), altri quello elettivo (numero di voti riportati
nelle periodiche elezioni) ed il ricorso a strumenti di democrazia diretta (ad es. il referendum) per
avvallare l’azione del sindacato.
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Nell’art. 39, la libertà sindacale considerata è una libertà positiva. Tutti i lavoratori devono avere il diritto di
esprimersi, coalizzarsi o aderire ad un sindacato, ma è anche libertà negativa di non aderire ad un sindacato, senza
per questo essere penalizzati. In realtà non è sempre stato così in tutti i paesi, nel Regno Unito, per es., prima del
tacherismo, negli anni 70, vi era preferenza nelle assunzioni degli iscritti al sindacato rispetto ai non iscritti.
Libertà sindacale vuol dire anche libertà contrattuale, non c’è obbligo a trattare con alcuni sindacati piuttosto che
con altri. Il sistema si è retto su rapporti di forza e libertà non sull’imposizione a trattare. Si spinge ad avere interesse
a trattare con tutti i sindacati; infatti, se il datore di lavoro non tratta con un sindacato, quell’accordo sarà monco
perché non rappresenterà i lavoratori di quel sindacato. Diventa quindi molto rilevante la forza di accreditamento
che ha un sindacato, che è una forza reale.
Libertà sindacale significa anche dare al sindacato la forma che si vuole, significa non ingerenza dello Stato nella
regolazione dei livelli sindacali.
La mancata attuazione dell’art. 39 scaturì dal timore dei sindacati che una legge di attuazione potesse
essere fortemente invasiva delle loro libertà ed autonomia interna ed esterna. Certo, sarebbe stata
possibile anche un’attuazione rispettosa di esse, ma la prospettiva storico-sociale in cui bisogna inserire
il dibattito è quella del periodo immediatamente successivo al regime corporativo, con la conseguente
vischiosità di un passato ancora troppo recente.
Quanto alle ragioni di carattere tecnico, l’attuazione dell’art. 39 avrebbe comportato (e comporterebbe)
la soluzione di problemi non irrilevanti: in primis, la verifica del numero degli iscritti nel caso di conflitto tra
le organizzazioni sindacali in merito alla reciproca consistenza associativa. Secondo il meccanismo
previsto dall’art. 39, le rappresentanze unitarie sono costituite in proporzione al numero degli iscritti. In
caso di contrasto tra i sindacati circa la loro reciproca consistenza associativa occorrerebbe affidare ad
una pubblica autorità il compito, non agevole, di verificare il numero degli iscritti.
In 2° luogo, problematica è la questione della definizione della categoria di riferimento per la stipulazione
dei contratti collettivi. Nel periodo corporativo v’era infatti una predeterminazione statale delle
categorie; e ciò, mentre si ritiene che il principio di libertà sindacale implichi anche la libertà dei sindacati
di determinare l’ambito di riferimento della propria attività (es. gli addetti ai cantieri navali sono ora
ricompresi nella generale categoria dei metalmeccanici; tuttavia, in un regime di libertà sindacale, nulla
impedirebbe la costituzione di un sindacato autonomo, rappresentante specificamente gli addetti ai
cantieri navali, con la pretesa di stipulare un autonomo contratto per gli stessi).
L’art. 39 contempla contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria nei confronti di tutti gli appartenenti
alla categoria alla quale il contratto si riferisce. Nel caso di conflitto tra sindacati circa i confini della
categoria (cd. conflitto giurisdizionale: se, ad es., la categoria debba essere quella dei metalmeccanici o
quella, più specifica, degli addetti ai cantieri navali) bisognerebbe allora attribuire ad una autorità pubblica
il compito di definirli o, cmq, individuare un meccanismo attraverso il quale dirimere siffatto conflitto.
Questo è uno dei punti + delicati del diritto sindacale: il principio di libertà sindacale implica la libertà del
sindacato di definire l’ambito di riferimento della sua attività (vale a dire la categoria) e qls meccanismo
di risoluzione autoritativa dei conflitti giurisdizionali tocca in misura + o - rilevante questa libertà.
PRIMI TENTATIVI DI INTERVENTO PER L’ATTUAZIONE DELL’ART. 39
La dottrina post costituzionale suggerì a seguito dei mancati accordi tra destra e sinistra, di tornare alla disciplina di
diritto privato della rappresentanza. In questo caso non è necessario un mandato sindacale per contrattare di diritto
collettivo, ma la rappresentanza è automatica una volta che il singolo si iscrive al sindacato. I sindacati dovrebbero
stipulare contratti collettivi secondo interesse collettivo del gruppo e non seguendo la somma degli interessi dei
singoli. Il limite di questa teoria privatistica è che in questo modo il contratto collettivo non avrebbe efficacia erga
omnes. Il datore di lavoro non iscritto, infatti, potrebbe non applicare il contratto collettivo.
Il legislatore cerca di intervenire: il primo tentato intervento è la l. delega 741/1959. Questa delegava il governo a
recepire con decreti legislativi, i contratti collettivi applicati negli ultimi 3 anni. Attraverso il recepimento da parte
del governo si assicurava efficiacia erga omnes al contratto collettivo perché questo diveniva legge. Il decreto
legislativo però, non poteva modificare il contenuto del contratto collettivo (questo procedimento è oggi utilizzato
per recepire i provvedimenti dell’UE).
Se fossero stati stipulati nuovi contratti collettivi sarebbe stata necessaria una nuova legge delega, e così avviene
con una seconda legge delega del 1970 che voleva recepire contratti collettivi anche a durata limitata.
Le 2 leggi vennero impugnate da un gruppo di datori di lavoro. La Corte cost. con sent. 106/1962, disse che entrambe
erano incostituzionale, soffermandosi nell’osservare che non potevano farsi ulteriori deroghe posteriori alla legge
del 59, perché la procedura prevista dall’art. 39 per dare attuazione ai contratti collettivi era molto diversa, e
qualsiasi altra procedura violava la disposizione dell’art. 39 cost, divenendo di conseguenza incostituzionale. La sent.
106/1962 Corte costituzionale salvava la prima legge del 1959, perché di carattere transitorio, ma dichiarava
assolutamente incostituzionale la seconda legge delega.
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L’art. 39, 2° parte, seppure inattuato, non è privo di effetti giuridici: esso impedisce, infatti, al legislatore
ordinario di attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi con un meccanismo diverso da quello
descritto. Da ciò i problemi di legittimità costituzionale sollevati ogni qual volta il legislatore cerchi di
attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi.
Il fatto che il legislatore ordinario non abbia mai proceduto ad attuare le previsioni dell’art. 39 non
significa che egli non sia mai intervenuto in materia sindacale.
L’intervento principale è indubbiamente costituito dal cd. Statuto dei diritti dei lavoratori, ossia la legge
20 maggio 1970 n. 300. Lo Statuto dei lavoratori contiene una parte (segnatamente il titolo III) funzionale
alla promozione dell’attività sindacale all’interno delle imprese, promozione che si realizza mediante la
previsione di una serie di diritti in capo alle rappresentanze sindacali aziendali. Il legislatore intende così
sostenere l’attività sindacale nelle imprese, senza però regolare il sindacato.
Ulteriore caratteristica che emerge dalla legislazione post costituzionale in materia sindacale è il sostegno
ai sindacati maggiormente rappresentativi e, più di recente, a quelli comparativamente più rappresentativi.
Nozioni, queste, attraverso cui il legislatore seleziona alcuni sindacati al fine dell’attribuzione di particolari
diritti o prerogative.
Di carattere diverso sono stati gli interventi legislativi in materia di sindacato e di contrattazione collettiva
dagli anni 80 in poi. Al sindacato (e ai contratti collettivi) è stato attribuito sempre più spesso il compito
di flessibilizzare la disciplina dei rapporti di lavoro.
La contrattazione collettiva viene così delegata a rispondere alle esigenze di flessibilità nella regolazione
dei rapporti di lavoro, cui il legislatore non vuole o non può rispondere. Questa delega è volta a privilegiare
la regolazione autonoma delle parti sociali, in una prospettiva di valorizzazione dello stesso principio di
sussidiarietà.
Le conseguenze della mancata attuazione dell’art. 39 si riverberano sul regime giuridico dell’associazione
sindacale e del contratto collettivo che hanno dovuto trovare nel diritto privato comune i propri schemi
di inquadramento: il sindacato non ha potuto acquisire personalità giuridica e trova la sua
regolamentazione nella disciplina del codice civile sulle associazioni non riconosciute come persone
giuridiche (artt. 36, 37, 38 c.c.); il contratto collettivo non ha potuto conseguire gli effetti di cui all’ultimo
comma dell’art. 39 cost e si ritiene trovare disciplina nel diritto contrattuale comune.
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Storicamente un importante intervento legislativo si ebbe negli anni 80, anni caratterizzati da un esponenziale
aumento dell’inflazione. Per cercare di rispondere a tale situazione economica, si modifica il cd. sistema della scala
mobile, un sistema di automatismo per cui ogni 3 mesi i salari aumentano all’aumentare del costo della vita. Era un
automatismo che contribuiva in larga parte a dar vita alla spirale inflazionistica.
Agli accordi dell’82 per bloccare la scala mobile, la CGIL si rifiuta di firmare. Da qui deriva il problema dell’efficacia
generale dell’accordo. I lavoratori iscritti alla CGIL, che per altro è il sindacato maggioritario, possono rivendicare
l’applicazione della scala mobile. Per tentare di risolvere il problema nel 1982, l’allora presidente del consiglio Bettino
Craxi, interviene con un decreto-legge, imponendo con legge il blocco della scala mobile. Di disse che questa
operazione era incostituzionale, in quanto la costituzione garantiva la decisione dei salari ai contraenti. In realtà,
nella Cost. non esiste una riserva alla contrattazione collettiva sui salari.
Si trattava di una pratica costituzionale, formalmente non scritta. La corte cost. rigetta quindi la riserva contrattuale
collettiva. Per altro nella sent. 1985, la corte cost. riaffermando la legittimità del decreto Craxi sostenne la sua
giustificabilità, affermando che si trattava di interventi di politica economica che sono proprio di competenza di
governo e parlamento.
Per tentare di dare efficacia generale ai contratti collettivi si considerò l’istituto della rappresentanza di diritto privato,
tuttavia l’art 1387 c.c. è difficilmente applicabile in questo campo perché riguarda interessi privati. Al contrario la
contrattazione collettiva deve tutelare interessi collettivi, di cui non è titolare il singolo, ma il sindacato. Questa la
principale difficoltà di adattare un sistema privatistico ai contratti collettivi.
Diverse sono state nel tempo le operazioni atte ad ampliare l’efficacia del contratto collettivo:
1. Una delle più importanti è quella che fa leva sull’art. 36 Cost. È un’operazione parziale, si cerca infatti di estendere
a efficacia generale la parte della contrattazione riguardante il trattamento retributivo. Il contratto collettivo viene
usato come parametro per determinare la retribuzione base sufficiente (che non comprende tredicesime o
quattordicesime).
2. Altra operazione fu quella della Giurisprudenza che ritiene che se il datore di lavoro applica una parte del contratto
collettivo, anche se in maniere parziale, questo comporta l’applicazione estensiva di tutto il contratto collettivo.
3. L’art. 36 dello st. lav. prevede i casi di appalti o finanziamenti pubblici. Quando un’impresa stipula appalti con la
P.A. o la P.A. concede sovvenzioni o mutui, il datore di lavoro ha l’onere di applicare il contratto collettivo. Si tratta
però di un onere, e non dii un obbligo.
4. Si ritenne che il contratto collettivo fosse applicato al datore di lavoro. Questo comporta che se il datore di lavoro
è tra gli stipulanti del contratto collettivo, anche i suoi lavoratori non iscritti a sindacati stipulanti si vedranno
applicato il contratto. Tale previsione è però di difficile applicazione nella pratica, in quanto potrebbe creare
discriminazioni. È una previsione applicabile solo in caso di contratti collettivi acquisitivi, contratti cioè che
conferiscono maggiori tutele. Tuttavia, durante le crisi, spesso i contratti collettivi sono di tipo dimissivo. Un
contratto collettivo dimissivo non può estendersi a lavoratori non iscritti a sindacati firmatari, in quanto questi
sicuramente rifiuterebbero di vedersi applicate condizioni peggiori.
5. Una legge del 1989 prevede che la retribuzione di riferimento da cui calcolare i contributi da pagare è quella prevista
dai contratti collettivi stipulati dai maggiori sindacati, o se maggiore dai contratti collettivi dell’impresa. Il datore di
lavoro non iscritto non deve obbligatoriamente applicare il contratto collettivo, ma il pagamento dei contributi da
versare all’INPS deve essere calcolato sui salari previsti dal contratto collettivo, applicati per intero, compresi
tredicesima e quattordicesima (anche se in realtà il salario pagato effettivamente è inferiore).
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Il problema si è posto perché nella normativa dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL)
(Convenzioni 87/1948 e 98/1949, entrambe ratificate nel nostro paese con 367/1958) viene menzionata la
libertà positiva, ma non quella negativa.
L’OIL, infatti, ha dovuto tenere conto dell’esperienza di Paesi anglosassoni, soprattutto gli USA, che
conoscono le cd. clausole di sicurezza sindacale. Si tratta di clausole, contenute nei contratti collettivi, che
prevedono, quale condizione per l’assunzione, l’iscrizione dei lavoratori ai sindacati (cd. closed shop),
oppure l’adesione successiva all’assunzione (cd. union shop) quale condizione per il mantenimento
dell’impiego. È da segnalare, al riguardo, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con del 1981, caso
Young, James e Webster, in un caso riguardante il Regno Unito ha affermato l’illegittimità di tali clausole
per violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali del 1950 (CEDU, ratificata con l. 848/1955).
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Corollario del principio di libertà sindacale è il pluralismo sindacale. In esso è infatti implicita la possibilità
che sorgano più sindacati, anche nell’ambito della stessa categoria.
Il principio di libertà sindacale implica un insieme di garanzie per gli stessi gruppi sindacali organizzati.
Esse consistono, in 1° luogo, nella libera scelta delle forme organizzative e delle regole che disciplinano
l’assetto interno, nonché nella libertà di aderire ad organizzazioni complesse (le confederazioni sindacali).
Ciò è vietato, per espressa disposizione di legge ordinaria, a i soli appartenenti alla Polizia di Stato, i cui
sindacati non possono confluire in associazioni di secondo grado e, segnatamente, nelle confederazioni
generali che rappresentano tutti i lavoratori (l. 1121/1981).
In 2° luogo, la libertà sindacale implica la libertà di scegliere l’ambito di riferimento della propria azione e,
dunque, la categoria di riferimento soprattutto ai fini della contrattazione collettiva.
Il principio di libertà di organizzazione sindacale peraltro non può essere inteso in senso statico. La libertà
di organizzazione sindacale comporta necessariamente la libertà di azione sindacale e, dunque, di
contrattazione collettiva.
Dal fatto che, correttamente, si ritenga che il principio di libertà sindacale contenga il principio di libertà
contrattuale derivano importanti conseguenze. In particolare, il problema della costituzionale di
interventi legislativi che pongano alla contrattazione dei tetti massimi.
Per quanto concerne i datori di lavoro, in particolare, nessuno dubita che essi godano di libertà sindacale.
Si discute tuttavia se tale libertà trovi fondamento nell’art. 39, 1° co. o nell’art. 18 in combinato disposto
con l’art. 41 (libertà di iniziativa economica privata).
Non è irrilevante stabilire il fondamento normativo della libertà sindacale dei datori di lavoro e, in
particolare, degli imprenditori. Dalla formulazione dell’art. 41 (e soprattutto dei commi 2° e 3°) emerge
che la libertà di iniziativa economica privata è, sì, riconosciuta, ma non è priva di limiti; e ciò, mentre
l’affermazione della libertà sindacale nell’art. 39 è incondizionata (salvi i temperamenti che possono
discendere dalla eventuale attuazione della seconda parte dello stesso art. 39).
Più convincente sembra però la tesi, confortata anche dal contenuto delle convenzioni OIL 87/1948 e
98/1949 e dell’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali (cd. Carta di Nizza), che non esclude il
sindacalismo degli imprenditori dal campo di applicazione dell’art. 39.
È bensì vero che il legislatore accorda talora un trattamento preferenziale alle associazioni sindacali dei
lavoratori (ad es., l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, il quale prevede che, in caso di condotta
antisindacale, su ricorso delle associazioni sindacali nazionali dei lavoratori che vi abbiano interesse, il
giudice pronunci un decreto immediatamente esecutivo volto a far cessare il comportamento illegittimo
e alla rimozione dei suoi effetti). Ma, per giustificare un trattamento differenziato eventualmente
riservato alle associazioni sindacali dei lavoratori rispetto a quelle dei datori di lavoro, non è necessario
sposare una lettura asimmetrica della libertà sindacale: esso si potrebbe giustificare semplicemente
richiamando il 2° comma dell’art. 3 (principio di eguaglianza sostanziale).
Una lettura simmetrica del diritto di libertà sindacale discende anche dalla stessa Corte costituzionale; in
particolare con la sent. 29/1960, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 502 c.p. anche per
quanto riguarda la serrata, configurata quale forma di libertà sindacale dei datori di lavoro protetta
dall’art. 39 cost.
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Sul piano finanziario le diverse strutture sindacali sono dichiarate autonome da tutti gli statuti. Il sistema
di finanziamento dei sindacati è complesso e talora poco definito. Le principali fonti sono: la quota tessera
e i contributi associativi, versati di solito mensilmente e in percentuale sulle retribuzioni. Questi contributi
si ripartiscono in modo diverso nelle varie Confederazioni.
Nel nostro Paese si registra una situazione di pluralismo sindacale anche per quanto riguarda i datori di
lavoro, tuttavia non su base ideologica, bensì in base al settore merceologico. Confindustria,
Confcommercio, Confagricoltura, Confartigianato associano rispettivamente le imprese industriali, del
commercio, agricole ed artigiane. Talora il pluralismo sindacale è determinato dalle dimensioni
dell’impresa: ad es. Confapi costituisce una confederazione sindacale che associa esclusivamente le
piccole e medie imprese.
Il sindacalismo dei datori di lavoro si definisce comunemente sindacalismo di risposta, per indicare che
esso è un fenomeno indotto dall’aggregazione sindacale dei lavoratori e non originario, necessitato come
il sindacalismo dei lavoratori.
I singoli datori di lavoro non hanno alcuna necessità originaria di coalizzarsi per contrattare le condizioni
di lavoro: sono essi stessi una coalizione. Tuttavia, nel momento in cui i lavoratori si organizzano, non solo
a livello aziendale, ma anche a livello territoriale (costituendo i sindacati provinciali, regionali, nazionali),
nasce per il datore di lavoro l’esigenza di dotarsi di analoghe strutture organizzative che possano
rappresentare le interlocutrici, specie nella contrattazione collettiva, dei primi ( sindacato di risposta).
Costituisce un fenomeno relativamente recente l'emersione, nel mondo del lavoro autonomo, di
un'inedita esigenza di rappresentanza e tutela collettiva, in controtendenza rispetto all'approccio
individualistico tipico delle relazioni contrattuali poste al di fuori della subordinazione. Essa trova ragione
nella situazione di debolezza economica e vulnerabilità sociale in cui versa una platea sempre più ampia
di lavoratori autonomi. Data l'estrema eterogeneità della categoria - della quale fanno parte i
professionisti e gli artigiani, come i "co.co.co." o le "partite Iva" - il sistema di rappresentanza del lavoro
autonomo si presenta nebuloso e molto frammentato, per la presenza di attori di varia natura e con
diverse strategie d'azione. Accanto ad un sindacalismo autonomo e consolidato come quello degli agenti
di commercio, vi sono associazioni create, alla fine degli anni 90 del secolo scorso, dalle 3 principali
confederazioni sindacali (Nidil-Cgil, Felsa-Cisl e UilTemp), al fine della stipulazione di accordi collettivi ad
hoc a favore dei lavoratori cd. parasubordinati.
Un discorso a sé merita la rappresentanza dei lavoratori tramite piattaforma digitale e, in particolare, dei
cd. riders (ciclofattorini addetti alla consegna di beni per conto altrui in ambito urbano), settore nel quale,
accanto al tentativo di aggregazione da parte delle confederazioni sindacali tradizionali dei lavoratori
subordinati, riscontriamo una forte propensione all'auto-organizzazi0ne in strutture informali e a carattere
locale.
Per le pubbliche amministrazioni la funzione di contrattazione viene svolta ex lege dall'Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN).
Ci si è chiesto se l’art. 39 cost. si estende anche ai contratti aziendali. La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria
hanno affermato che tendenzialmente il principio dell’art. 39 cost non si estende ai contratti aziendali, in quanto
questi hanno efficacia erga omnes, tra tutti i dipendenti dell’azienda. Questo è sicuramente valido quando il
contratto aziendale è acquisitivo. La giurisprudenza ha ritenuto che l’efficacia generale del contratto aziendale sia
giustificata dal fatto che questo ha obiettivi di natura gestionale, cioè serve a far funzionare logisticamente
l’azienda, e per questo può e deve applicarsi a tutti quei lavoratori.
In realtà la questione non si è presentata, nella pratica, di così semplice risoluzione, come dimostrato dal caso fiat
2010/2011: la Fiat volle introdurre nei suoi stabilimenti un nuovo contratto collettivo che prevedeva un’organizzazione
del lavoro molto diversa (già applicata a Ditroid-USA), più gravosa per i lavoratori, ma più proficua per l’azienda.
FIAT era iscritta a Confindustria e quindi applicava un contratto collettivo del settore metalmeccanico. Per tentare
di modificare l’organizzazione, Fiat prima esce da Confindustria, poi stipula un contratto per il settore auto, diverso
da quello metalmeccanico, cioè un contratto aziendale. Fiat riesce a sottoscrivere l’accordo con CISL e CGIL, ma la
FIOM decide di non firmare. Nasce il problema, se il contratto aziendale si applichi agli operai iscritti alla FIOM.
La giurisprudenza afferma che il contratto aziendale si applica agli iscritti ai sindacati firmatari, ai non iscritti a
sindacati, ma non può applicarsi agli iscritti ad un sindacato esplicitamente dissenziente.
Per superare ogni problema, Fiat decide di sciogliere la sua società, licenzia tutti gli operai per poi riassumerli in un
secondo momento. Nelle successive riassunzioni vengono però eliminati tutti gli operai iscritti a FIOM. Ne nasce un
processo per discriminazione, basato essenzialmente su prove statistiche che alla fine obbliga Fiat a riassumere tutti
gli operai FIOM.
Vi sono però delle contrattazioni collettive che ponendosi al di fuori della fattispecie prevista dall’art. 39 cost
possono avere efficacia erga omnes diretta, sono questi contratti collettivi che hanno funzioni diverse rispetto a
quella di determinare trattamenti economici o normativi dei lavoratori.
Tipico esempio è la contrattazione collettiva che si occupa di sciopero. Vi sono dei servizi ritenuti essenziali perché
legati a diritti fondamentali dell’uomo quali il diritto alla vita, la libertà di circolazione, il diritto alla salute o all’ordine
pubblico. La legge afferma che per i lavoratori che garantiscono questo tipo di servizi lo sciopero deve essere
controllato, trattandosi di prestazioni indispensabili.
La legge rimette l’organizzazione dello sciopero in queste prestazioni alla contrattazione delle parti con contratto
collettivo. Esiste poi una commissione che controlla la correttezza nel testo e nell’applicazione di tali contratti
collettivi, potendo sostituire in caso di contrattazione ingiusta con norme temporanee. Sono questi contratti
collettivi che tutelano i cittadini, restano quindi al di fuori dall’art. 39 cost. e pertanto hanno efficacia erga omnes.
Altro esempio tipico di questo genere è il contratto collettivo integrativo o sostitutivo della fattispecie legale. Con
una legge del 1987 si è previsto che i contratti collettivi, anche aziendali possono introdurre ipotesi di assunzioni a
tempo determinato anche al di fuori dalle fattispecie previste dalla legge. La contrattazione collettiva in questo caso
ha funzione di legge perché integra le fattispecie legali e a volte si sostituisce a queste. Esempio comune è il caso di
licenziamento per riduzione personale causato da problemi di natura economica.
I criteri oggettivi per il licenziamento sono stabiliti dall’accordo collettivo. Solo se i criteri non sono stati previsti dalla
contrattazione collettiva si ricorre alle previsioni di legge. La contrattazione in questo caso sta modificando la legge
perché siamo al di fuori della fattispecie dell’art. 39 cost. Ci si chiede se abbia efficacia erga omnes: la dottrina
maggioritaria da risposta affermativa, spiegando che avendo, in questi casi, il contratto funzione paralegislativa
deve avere efficacia generale.
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3. … E A LIVELLO EUROPEO
Con il progredire dell’integrazione europea, anche i sindacati si sono dotati di strutture organizzative a
questo livello. Le maggiori confederazioni europee sono: per i sindacati dei lavoratori, la CES
(Confederazione Europea dei Sindacati), cui aderiscono anche CGIL, CISL, UIL; la Business Europe che
rappresenta le i datori di lavoro privati, cui agisce anche CONFINDUSTRIA, e CEEP (Centro europeo delle
imprese pubbliche) che rappresenta le imprese pubbliche.
L’organizzazione delle imprese agricole sono rappresentate nel COPA (Comitato delle organizzazioni
professionali agricole dell’Ue) e nel COGECA (Comitato generale della cooperazione agricola dell’Ue).
L’UEAPME (Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie imprese) rappresenta le piccole e
medie imprese e l’artigianato.
Si tratta di strutture organizzative che svolgono funzioni differenti rispetto a quelle ricoperte
abitualmente dai sindacati negoziali. La differenza maggiore consiste nel fatto che non esiste un livello
europeo di contrattazione collettiva.
È vero che esistono esperienze di contrattazione collettiva che potremmo definire europee, transnazionali
ma queste sono solo quelle poste in essere da imprese multinazionali. Si tratta di un’esperienza diversa,
che, appunto, possiamo definire di contrattazione multinazionale ad opera della singola impresa, più che
di contrattazione collettiva a livello europeo.
Sotto altro profilo, è vero che l’art. 154 TFUE attribuisce alla Commissione il compito di consultare le parti
sociali a livello dell’Unione e di favorire il dialogo prima di presentare proposte nel settore della politica
sociale; in realtà il legislatore ha disciplinato non una vera e propria contrattazione collettiva europea, ma il
procedimento attraverso il quale si arriva ad emanare una disciplina, in particolare una direttiva, in campo
sociale. La contrattazione è una fase del procedimento di legiferazione a livello dell’Unione, attraverso la
quale si vuole far fronte ad un deficit di rappresentanza politica.
Tuttavia, nell’ultimo periodo il dialogo sociale europeo si è mosso verso un progressivo affrancamento
delle attività che vengono svolte dalla Commissione. Tali spinte autonomistiche, da un lato, si registrano
nella scelta dell'attuazione dell'accordo secondo le procedure e le prassi delle parti sociali nazionali (cd.
accordi autonomi); d'altro lato, si esprimono, ancor più decisamente, nel dialogo sociale definito
volontario, in quanto caratterizzato dal trarre avvio, non dalle sollecitazioni provenienti dalla
consultazione della Commissione, ma dalla spontanea iniziativa delle parti sociali. E ciò sulla base degli
artt. 152 e 155, par. 1, TFUE.
4. IL SINDACATO COME ASSOCIAZIONE NON RICONOSCIUTA.
La prima conseguenza della mancata attuazione dell’art. 39, 2° parte, è che gli attuali sindacati, costituitisi
sulla base del principio di libertà sindacale, non hanno potuto ottenere la personalità giuridica, né lo
potranno fino a che la 2° parte dell’art. 39 non verrà attuata o abrogata. Allo stato attuale, le associazioni
sindacali non possono attivare i mezzi di riconoscimento ordinario previsti dall’art. 12 del Codice civile.
E ciò poiché il legislatore costituzionale ha tipizzato le modalità di attribuzione della personalità giuridica
alle associazioni sindacali, assoggettandole ad una disciplina peculiare, contenuta, appunto, nella 2° parte
dell’art. 39.
Negli anni 50 del secolo scorso la Confcommercio - così come l’Unione alimentare - tentò di ottenere il
riconoscimento della personalità giuridica attraverso il meccanismo previsto dall’art. 12 c.c.: giustamente,
in quel caso, il riconoscimento fu condizionato all’eliminazione della finalità sindacale dallo statuto
dell’associazione.
22
La mancata attuazione dell’art. 39, si riconnette, peraltro, ad una precisa opzione del sindacato, volta ad
assicurarsi l’immunità da indebite interferenze dell’ordinamento statuale.
E, comunque, il mancato riconoscimento come persona giuridica non implica che l’associazione sindacale
non possa essere considerata come soggetto di diritto distinto ed autonomo rispetto ai singoli soci.
Le attuali associazioni sindacali sono da qualificare come associazioni non riconosciute, come persone
giuridiche, assoggettate alla disciplina degli artt. 36, 37, 38 del Codice civile. Il problema della soggettività
giuridica delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche è un problema di carattere generale
e non concerne specificamente il diritto del lavoro.
Prima del codice del 42, l’ordinamento riconosceva come soggetti di diritto, vale a dire come centro di
imputazione di effetti giuridici, solo le persone fisiche e le persone giuridiche. L’opinione venne
mantenuta per un certo periodo di tempo anche dopo l’emanazione del codice, senza considerare
attentamente la disciplina dell’associazione non riconosciuta, contenuta negli artt. 36-38 c.c.
Sennonché, una più moderna corrente di pensiero ha messo in evidenza la falsità dell’equazione:
soggetto di diritto = persona giuridica.
Si considerino in particolare la norma sulla capacità di stare in giudizio (art. 36) dell’associazione non
riconosciuta e quella sul fondo comune (art. 38). La 1° prevede che “dette associazioni possono stare in
giudizio nella persona di coloro ai quali (...) è conferita la presidenza o la direzione”. La 2° che “per le
obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione i terzi possono far valere i loro diritti
sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone
che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”.
Dunque, non solo le associazioni non riconosciute hanno capacità di stare in giudizio, ma delle
obbligazioni assunte risponde l’associazione stessa con il fondo comune, oltreché personalmente e
solidalmente coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione.
Dal che si desume che anche le associazioni non riconosciute come persone giuridiche hanno soggettività
distinta ed autonoma rispetto ai soggetti che ne fanno parte. In realtà la personalità giuridica è solo il
mezzo tecnico mediante il quale la legge conferisce certe prerogative ai gruppi organizzati secondo il
metodo collegiale ed il principio di maggioranza per la formazione della volontà del gruppo: prerogative
riassumibili nell’autonomia patrimoniale perfetta.
E ciò, mentre nel caso delle associazioni non riconosciute come persona giuridica, l’autonomia
patrimoniale è imperfetta, poiché per le obbligazioni assunte vi è responsabilità, non solo
dell’associazione attraverso il patrimonio sociale, ma anche dei soggetti che hanno agito in nome e per
conto dell’associazione.
È evidente la pochezza della disciplina pensata nel 42 per le ipotesi delle associazioni non riconosciute
come persone giuridiche al fine di disciplinare fenomeni complessi come il sindacato o il partito politico.
Il caso più interessante a dimostrazione di ciò è la vicenda originata dalle scissioni del 1948, col distacco
dalla CGL della corrente democratico-cristiana e poi, nel 1949, dei lavoratori repubblicani e social
democratici. Ne seguì una complessa vicenda giudiziaria: da un lato i gruppi secessionisti rivendicavano
una parte del patrimonio dell’associazione; dall’altro si opponeva che in base all’ordinamento vigente,
l’atto di secessione di un gruppo dell’associazione non poteva riguardarsi che come una somma di
dimissioni di singoli componenti. I quali, come recidenti, non potevano avanzare alcuna pretesa di
ripetizione della quota di versamenti effettuati, né di devoluzione di parte del patrimonio sociale. In base
all’art 37 c.c. finché l’associazione dura, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo
comune né pretenderne la quota in caso di recesso. La questione non venne decisa giudizialmente e fu
oggetto di transazione stragiudiziale.
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La disciplina dell’associazione non riconosciuta è, invero, più attenta a tutelare la posizione dei terzi che
entrano in contatto con l’associazione stessa (appunto, l’art. 38 c.c.) che a tutelare la posizione dei membri
all’interno dell’associazione. A tale riguardo, è stata dettata solo una norma molto scarna, vale a dire l’art.
36, 1° co., c.c., secondo cui “l’ordinamento e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute come
persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati”, cioè, essenzialmente, dall’atto costitutivo e
dallo statuto.
Di fatto la disciplina contenuta negli statuti e nei regolamenti dei sindacati italiani è abbastanza stereotipa.
Gli statuti, oltre a prevede i doveri dei soci, prevedono anche per la loro violazione sanzioni disciplinari.
Organo di magistratura interna sono i probiviri: normalmente il sistema di giustizia interno è concepito
come esclusivo, sebbene non sia esplicitato il divieto di ricorso alla magistratura statale.
Anche questa pochezza di disciplina si può spiegare storicamente tenendo conto che, quando il
legislatore del codice dettava le norme relative alle associazioni non riconosciute, non pensava a
fenomeni complessi come i partiti politici ed i sindacati (si tenga conto che il Codice civile è stato adottato
nel periodo corporativo quando ancora i sindacati erano dotati di personalità giuridica).
A partire dagli anni 70 del secolo scorso una linea di pensiero, muovendo soprattutto dalla valorizzazione
dell’art. 2 Cost., ha affermato l’applicabilità in via analogica (qualora cioè mancasse una diversa
regolamentazione espressa nell’atto costitutivo o nello statuto) o addirittura in via diretta (e, dunque,
anche se vi fosse una diversa regolamentazione espressa nell’atto costitutivo o nello statuto) di alcune
norme dettate dal codice civile per le associazioni riconosciute come persone giuridiche, che non siano
connesse con la presenza della personalità giuridica.
Una di queste norme riguarda, in particolare, l’esclusione dell’associato che, in base all’art. 24 c.c., è
deliberata dall’assemblea solo in presenza di “gravi motivi”, ovviamente sempre sindacabili dal giudice.
Dunque, nel caso, ad es., di espulsione dal sindacato, il giudice potrebbe sindacare la sussistenza dei gravi
motivi posti alla base del provvedimento; e ciò indipendentemente dalle previsioni dell’atto costitutivo o
dello statuto.
Si tratta di tesi certamente suggestiva, priva però di significativi riscontri giurisprudenziali e grandemente
controversa. È stata anche argomentata in maniera incisiva (sia da civilisti, sia da giuslavoristi) la tesi
contraria: l’immunità del sindacato (e in generale dell’associazione non riconosciuta) da simili forme di
controllo sarebbe, tutto al contrario, perfettamente rispondente ai principi vuoi di libertà di associazione
(art. 18 Cost.), vuoi di libertà di organizzazione sindacale (art. 39 Cost.).
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Sebbene la nozione, al fine di selezionare i sindacati chiamati a svolgere le funzioni sopra indicate, fosse
già presente nell'ordinamento, tali problemi sono stati scandagliati, ad opera di dottrina e giurisprudenza,
soprattutto a seguito della entrata in vigore dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori.
L’art. 19 St. lav., nella versione originaria del 1970 - poi modificata da un referendum abrogativo nel 1995-
disponeva che RSA potessero essere costituite, ad iniziativa dei lavoratori, in ogni unità produttiva,
nell’ambito:
a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;
b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni…firmatarie di contratti collettivi,
nazionali o provinciali di lavoro, applicati nell’unità produttiva.
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Dunque, tra i requisiti per la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali, titolari dei particolari diritti
e delle prerogative delineati nel titolo III dello Statuto dei lavoratori, vi era l'affiliazione del sindacato, nel
cui ambito la rappresentanza si costituisce, ad una confederazione maggiormente rappresentativa.
I dubbi di legittimità costituzionale sono stati avanzati, anzitutto, in relazione al principio di libertà
sindacale (art. 39 Cost.) e al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). La Corte costituzionale ha respinto le
eccezioni di illegittimità costituzionale con una fondamentale sentenza 54/1974.
In 1° luogo, non vi sarebbe lesione del principio di libertà sindacale, in relazione all’art. 39, 1° co. e all’art. 3
Cost. giacché anche associazioni sindacali diverse da quelle previste dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori
possono costituire rappresentanze sindacali all’interno dei luoghi di lavoro (ex artt. 39 Cost. e 14 St. lav.).
Ma il punto è che queste rappresentanze sindacali non sarebbero titolari dei diritti previsti dalla
legislazione di sostegno; e, secondo i giudici remittenti, sarebbe stato in tal modo compromesso il
principio di eguaglianza. La Corte costituzionale non ha dato credito a questa tesi, ricordando che il principio
di uguaglianza non è da intendere in senso automaticamente livellatore: esso implica unicamente che a
situazioni uguali deve corrispondere un trattamento uguale, mentre a situazioni diverse può
corrispondere un trattamento differenziato, purché tale differenziazione risponda a criteri di
ragionevolezza. Ebbene, la Corte ha ritenuto che la differenziazione di trattamento introdotta dallo
Statuto dei lavoratori risponda a criteri di ragionevolezza, poiché il criterio di rappresentatività in concreto
è a garanzia dell’effettività dell’azione sindacale all’interno dell’azienda. I sindacati individuati dall’art. 19
St. lav. sarebbero i garanti dell’esercizio effettivo e responsabile dei diritti sindacali previsti dal Titolo III.
E ciò anche al fine di evitare d compromettere la funzionalità dell’impresa (attraverso la concessione
indiscriminata, a un numero imprevedibile di organismi, ciascuno rappresentante pochi lavoratori, se non,
addirittura, ad organismi di comodo, di diritti sindacali che comportano significativi oneri sul datore di
lavoro).
Successivamente, con sentenza 334/1988, la Corte costituzionale è stata chiamata ad esprimersi sulla
legittimità dello stesso art. 19 sotto altri profili.
Poiché il requisito della maggiore rappresentatività (menzionato nell’art. 19, lett. a) era riferito alle
confederazioni sindacali, ne sarebbe scaturita, secondo i giudici remittenti, la violazione dell’ultimo
comma dell’art. 39 Cost.
Secondo tale prospettazione, nella norma costituzionale ad assumere rilievo centrale sarebbe il sindacato
di categoria e non la confederazione sindacale: infatti nel 4° comma dell’art. 39 Cost. si fa riferimento al
sindacato ed al contratto collettivo di categoria.
Contesto in cui la questione è sorta: il contesto è rappresentato dalla nascita delle associazioni sindacali
dei quadri intermedi, categoria di lavoratori che occupano una posizione intermedia tra operai/impiegati
e dirigenti nell’organizzazione produttiva, è dalla creazione, da parte loro, di una confederazione
sindacale (di tipo professionale o di mestiere: SINQUADRI), cui la giurisprudenza, proprio x la mancanza
del requisito dell’intercategorialità, negava il carattere di “confederazi maggiormente rappresentativa”.
La Corte costituzionale ha avvallato questa interpretazione sul rilievo che il legislatore statuario avrebbe
compiuto una precisa opzione “consistente…nel favorire un processo di aggregazione e di
coordinamento degli interessi dei vari gruppi professionali, anche al fine di ricomporre, ove possibile, le
spinte particolaristiche in un quadro unitarie”.
L’eccezione di incostituzionalità è stata respinta dalla Corte costituzionale sul rilievo che il riferimento
all’associazione sindacale di categoria, di cui all’art. 39, 4° co., Cost., è funzionale alla contrattazione
collettiva, mentre l’art. 19 St. lav. inerisce alla rappresentanza e all’attività sindacale e non alla
contrattazione collettiva in azienda. In buona sostanza, non c’è un problema di contrasto con la norma
costituzionale, in quanto le materie regolate nell’art. 19 St. lav. e nell’art. 39, co. 4°, Cost. sono diverse. La
norma costituzionale attiene alla contrattazione collettiva, mentre con lo Statuto dei lavoratori e, in
particolare, con il suo art. 19, il legislatore non si propone affatto di regolare la contrattazione collettiva.
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c) La svolta referendaria e la riproposizione delle questioni di legittimità cost. dell’art. 19 St. lav.
Nel 1995, a seguito di referendum popolare, sono state abrogate (d.p.r. 312/1995) la lett. a) e parte della
lett. b) dell’art. 19.
La lett. a) consentiva di costituire RSA “nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale”. I sindacati autonomi (non aderenti alle
confederazioni considerate sicuramente maggiormente rappresentative, vale a dire CGIL, CISL e UIL)
erano nondimeno in grado di costituire RSA, sulla base della lett. b), purché fossero firmatari “di contratti
collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva”. Secondo tale criterio, il sindacato
che avesse avuto rilevanza meramente aziendale risultava perciò escluso dalla possibilità di costituire
RSA.
Con il referendum del 95, venendo abrogata la lett. a) dell’art. 19, scompare il concetto di rappresentatività
presunta (o per irradiazione).
D’altro canto, venendo soppressa l’espressione “nazionali o provinciali” contenuta nella lettera b), ogni
sindacato che sia firmatario di un contratto collettivo di qualsiasi livello, anche solo aziendale, può
costituire RSA ai sensi dell’art. 19.
Viene così data rilevanza alla rappresentatività effettiva, al fatto cioè di essere firmatari di un contratto
collettivo.
In dottrina, l’esito referendario non è stato accolto da tutti con favore. Si è infatti sostenuto che la nuova
formulazione della norma, scaturente dal referendum abrogativo, subordini oggi la costituzione di RSA al
potere di accreditamento da parte dei datori di lavoro, in violazione dell’art. 39, 1° co., Cost.
Il datore di lavoro potrebbe infatti escludere un sindacato dalle trattative, dunque, dalla possibilità di
stipulare un contratto collettivo ed impedire così la costituzione di RSA ex art. 19 St. lav.
La questione è stata portata davanti alla Corte costituzionale, che ha respinto siffatta eccezione di
illegittimità con la sentenza 244/1996.
La sentenza ha costituito l’occasione per importanti indicazioni interpretative. La Corte ha puntualizzato,
infatti, che, non è sufficiente il dato formale dell’apposizione di una “firma” al contratto collettivo per
essere considerati sindacato “firmatario” ex art. 19 St. lav., ma è necessaria un’effettiva partecipazione
alla stipulazione del contratto (questo è il vero significato, secondo dottrina e giurisprudenza,
dell’espressione “firmatari”).
Neppure è sufficiente la stipulazione di un contratto collettivo qualsiasi: è necessario che il contratto sia
un contratto normativo, “che regola in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un
istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livell o aziendale, di un contratto
nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva”. La Corte sottolinea che l’art. 19
“valorizza l’effettività dell’azione sindacale, desumibile dalla partecipazione alla formazione della
normativa contrattuale collettiva” (sent. 492/1995) quale indicatore di rappresentatività già apprezzato
dalla sent. 54/1974 come “non attribuibile arbitrariamente o artificialmente, ma sempre direttamente
conseguibile e realizzabile da ogni associazione sindacale in base a propri atti concreti e oggettivamente
accertabili dal giudice”. E continua osservando: “respinto dalla volontà popolare il principio della
rappresentatività presunta sotteso all’abrogata lett. a), l’avere tenuto fermo, come unico indice
giuridicamente rilevante di rappresentatività effettiva, il criterio della lett. b), esteso però all’intera
gamma della contrattazione collettiva, si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi di razionalità
pratica, per la corrispondenza di tale criterio allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, e
di riflesso della sua rappresentatività, tipicamente proprio dell’ordinamento sindacale.
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Così interpretata, in conformità della sua ratio, la norma impugnata non contrasta con nessuno dei
parametri costituzionali richiamati. Non viola l’art. 39 Cost. perché le norme di sostegno dell’azione
sindacale nelle unità produttive, in quanto sopravanzavano la garanzia costituzionale della libertà
sindacale, ben possono essere riservate a certi sindacati identificati mediante criteri scelti
discrezionalmente nei limiti della razionalità; non viola l’art. 3 Cost. perché, una volta riconosciuto il potere
discrezionale del legislatore di selezionare i beneficiari di quelle norme, le associazioni sindacali
rappresentate nelle aziende vengono differenziate in base a criteri prestabiliti dalla legge, di guisa che la
possibilità di dimostrare la propria rappresentatività per altre vie diventa irrilevante ai fini del principio di
eguaglianza”.
Al concetto di rappresentatività presunta (contenuto nella lett. a dell’art. 19, ora abrogata, ove si faceva
riferimento al sindacato maggiormente rappresentativo) si sostituisce un criterio di rappresentatività
effettiva; e il sindacato meramente aziendale è oggi considerato diversamente dal passato, perché, se è
in grado di stipulare un contratto collettivo applicato nell’azienda, è legittimato a “costituire”
rappresentanze sindacali aziendali.
Se sino ai tempi recenti, nessuno pareva porre in dubbio seriamente la conclusione cui era pervenuta nel
1996 la Corte costituzionale, il caso Fiat ne ha disvelato, secondo molti, la fragilità.
In sintesi, il caso Fiat è stato determinato da un conflitto particolarmente aspro fra la parte datoriale e
FIOM-CGIL con riguardo all’adozione di un nuovo modella di disciplina contrattuale dei rapporti di lavoro,
prima ideato per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco e poi via via esteso a tutti gli stabilimenti e alle
imprese del gruppo. Tale nuovo modello di disciplina dei rapporti di lavoro era (è) contenuto in un
contratto collettivo sostanzialmente aziendale, fortemente innovativo rispetto ai contenuti del contratto
collettivo nazionale dei metalmeccanici. In questo contratto si è previsto anche espressamente, per
quanto riguarda le relazioni sindacali, il passaggio dal sistema delle r.s.u. a quello delle r.s.a.
Ebbene, non essendo il contratto in questione stato sottoscritto da FIOM-CGIL, che pure aveva
partecipato alle trattative, questo sindacato si è trovato escluso dalla possibilità di avere proprie r.s.a. ex
art. 19 St. lav., per un sindacato certamente rappresentativo e addirittura maggioritario in azienda di
costituire una r.s.a. ai sensi della norma, ha alimentato nuovamente una questione di legittimità
costituzionale. Una questione che effettivamente la sent. della corte cost 244/1996, calata in un contesto
di relazioni sindacali totalmente diverso, non aveva completamente fugato.
Qualcuno ha prospettato un’interpretazione adeguatrice dell’art 19 st. lav., nel senso che può considerarsi
firmatario di contratto collettivo anche chi abbia partecipato alle trattative senza apporre la firma, non
condividendo i contenuti dell’accordo; altri hanno sottolineato come la interpretazione adeguatrice
comporterebbe un evidente e indebita forzatura della lettura della norma, la quale al più avrebbe dovuto
essere sottoposta al vaglio della Corte Cost.
sindacali che, pur firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque
partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
Si tratta di una sentenza di accoglimento manipolativa del teso della norma, che, non solo non è risolutiva
dei problemi di legittimità costituzionale, ma è a sua volta fonte di problemi interpretativi, già evidenziati
dalla dottrina, e che potrebbero dare la stura ad un nuovo contenzioso giudiziario. Il caso Fiat, come altri
casi, dimostra i limiti del nostro sistema sindacale “di fatto”, che ha retto e può continuare a reggersi sul
presupposto di una sostanziale unità di azione dei principali sindacati.
Ad esempio, quando, nel 1997, è stato introdotto il cd. lavoro interinale, il legislatore ha rinviato alla
contrattazione collettiva per la determinazione delle fattispecie in cui la stipulazione di tali contratti
poteva ritenersi ammessa; in questo caso, di fronte alla possibile stipulazione di una pluralità di contratti
collettivi, la legge 196/1997, ha voluto attribuire ad un solo contratto collettivo (quello concluso dalle
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative) l’idoneità ad attuare il rinvio legale.
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Con l’entrata in vigore del d. lgs. 276/2003, il criterio della rappresentatività comparata è stato utilizzato
in maniera ancora più diffusa, essendo numerosi i rinvii operati dal legislatore del 2003 alla contrattazione
collettiva.
In verità, la nozione di “sindacato comparativamente più rappresentativo” viene usata nel d. lgs. 276/2003
in modo ambivalente: ora come criterio di selezione tra una possibile pluralità di contratti collettivi (al fine
di individuare l’unico applicabile), ora come criterio di legittimazione soggettiva delle diverse associazioni
sindacali.
Quest’ultima ipotesi si verifica, ad esempio, nell’art. 86, 13° co.: si tratta di una sorta di norma-annuncio,
attraverso la quale si prevede che il Ministro del lavoro convochi, entro 5 giorni dall’entrata in vigore del
decreto, le associazioni sindacali “comparativamente più rappresentative”, al fine di verificare la
possibilità di demandare ad accordi interconfederali l’attuazione di alcune parti del decreto legislativo.
Nel caso della norma citata, il criterio selettivo non è calibrato sulla comparazione tra contratti collettivi,
al fine di stabilire quale tra essi sia espressione di sindacati più rappresentativi, bensì opera come criterio
di legittimazione soggettiva delle associazioni sindacali a cui viene attribuita una patente di interlocutore
qualificato dei pubblici poteri.
Aumenta l’ambiguità (o plurivalenza) del concetto - anche quando esso appaia criterio di selezione della
disciplina contrattuale applicabile - la sostituzione, avvenuta a partire dal d.lgs n. 276/2003, della formula
“contratti stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative”, con la formula
“contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative”.
Il legislatore - attraverso la sostituzione della preposizione articolata “dalle” con la preposizione semplice
“da” - vuole sottolineare che, al fine di integrare il precetto legale, là dove vi sia rinvio alla contrattazione
collettiva, non è necessario il consenso unanime di tutte le associazioni sindacali “comparativamente più
rappresentative”: è chiaro, in questo caso, che la locuzione non assume un significato dissimile da
sindacati maggiormente rappresentativi.
La l. 28 giugno 2012 (legge Fornero) torna ad utilizzare la locuzione di sindacato maggiormente
rappresentativo al fine di individuare i sindacati chiamati a monitorare gli effetti nell’ambito del sistema
di monitoraggio istituito presso il Ministero del lavoro.
Anche i provvedimenti attuativi del Jobs Act utilizzano la nozione di sindacato comparativamente più
rappresentativo.
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Le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) sono titolari dei diritti di cui al titolo III dello Statuto dei
lavoratori. Certamente, possono costituirsi anche rappresentanze sindacali che non presentano i requisiti
fissati dall’art. 19 (e ciò in forza vuoi dell’art. 39, 1° co. Cost., vuoi dell’art. 14 St. lav.): esse però non godono
dei diritti riconosciuti dal titolo III dello Statuto dei lavoratori.
In base all’art. 19, RSA possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva
nell’ambito di determinate associazioni sindacali (oggi, nell’ambito di associazioni sindacali che siano
firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva).
La legge, dunque, non definisce la struttura della RSA. Si limita a porre 2 requisiti minimali per la
costituzione di RSA, indicati dall’art.19 St. lav.:
1) l’iniziativa dei lavoratori
2) la riconducibilità ai “sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva o, a seguito
della sent. della Corte costituzionale 231/2013, che, pur non essendo firmatari, abbiano partecipato alla
negoziazione di siffatti contratti.
Si deve porre in evidenza che si tratta di requisiti minimali: l’iniziativa dei lavoratori può manifestarsi in
qualsiasi modo ed anche il collegamento tra le RSA e le associazioni sindacali è definito in termini molto
flessibili, attraverso l’ampia espressione “nell’ambito”.
La formula della rappresentanza sindacale aziendale di cui all’art. 19 St. lav. è così idonea ad ospitare le più
svariate forme organizzative, purché ricorrano detti requisiti.
L'originaria impostazione dello Statuto dei lavoratori, ancorando le r.s.a. alle associazioni sindacali aderenti
alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, era promozionale del
radicamento e dell'attività dei sindacati nei luoghi di lavoro. Secondo parte della dottrina, il referendum
abrogativo del 1995 avrebbe fatto perdere all'art. 19 st. lav. Il suo originario carattere promozionale per
consacrare la posizione dei sindacati che si fossero già autolegittimati con la stipulazione di un contratto
collettivo. Non vi sarebbe stato bisogno di attribuire i diritti del titolo III ad un sindacato che, essendo
interlocutore del datore di lavoro, questi diritti sarebbe stato in grado di ottenere contrattualmente. Altri
sono andati più in là, rilevando la dubbia legittimità costituzionale della norma giacché essa avrebbe fatto
dipendere la fruizione dei diritti sindacali dalla scelta del datore di lavoro (c.d. potere di accreditamento)
in ordine ai sindacati da ammettere al tavolo negoziale.
La questione è rimasta latente fino agli sviluppi più recenti della contrattazione collettiva, quando è stato
messo in discussione il presupposto di fatto su cui reggeva l'art. 19, vale a dire la sottoscrizione dei contratti
collettivi da parte di tutti i sindacati pacificamente maggioritari.
A fungere da detonatore, è stata la cd. contrattazione separata in particolare nel famoso caso Fiat, che,
tramite una sofisticata operazione di sganciamento dal sistema confindustriale e dunque da tutti i
contratti stipulati da Confindustria alla quale essa aderiva, ha regolato ex novo i rapporti di lavoro tramite
contratti “aziendali” non sottoscritti da FIOM-CGIL. Tale sindacato, pur maggioritario nel settore e nella
stessa Fiat, non avrebbe avuto diritto di costituire r.s.a. ex art. 19 st. lav. Così si spiega che la questione di
legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2, 3, 39 Cost., sia stata nuovamente sollevata: secondo i
giudici rimettenti, la sottoscrizione di un contratto collettivo non può essere considerata quale unico
indice della rappresentatività di un sindacato. Nessuna norma, a fini selettivi, utilizza il solo criterio delal
sottoscrizione del contratto collettivo. Di qui, l'arbitrarietà e, dunque, l'irrazionalità del criterio utilizzato
dall'art. 19 st. lav.
32
La corte, pronunciando una sentenza manipolativa del testo della norma, di tipo additivo, ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art 19 st. lav. Nella parte in cui non prevede che la rappresentanza
sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non
firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla
negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda.
La sentenza del caso FIAT non risolve i problemi della disciplina legale delle r.s.a., snaturata dopo il
referendum abrogativo del 1995. Da una parte il requisito della effettiva partecipazione alla negoziazione,
non suggellata dalla sottoscrizione, può essere di non facile accertamento; d’altra parte, è la stessa Corte
a rilevare l'insufficienza della sua operazione additiva in caso di mancanza di un contratto collettivo
applicato nell'unità produttiva per carenza di attività negoziale ovvero per impossibilità di pervenire ad
un accordo aziendale. Mentre dunque, manipola il testo della norma, essa rivolge un monito al legislatore
affinché determini nuovi criteri per la costituzione delle rappresentanze sindacali titolari della
rappresentanza di cui al titolo III.
33
L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori consentì, in un certo senso, il recupero e il riassorbimento di tali forme
organizzative da parte delle associazioni sindacali tradizionali, dal momento che esse, solo se avessero
avuto un collegamento con associazioni sindacali, e con associazioni sindacali qualificate, potevano
essere considerate RSA ex art. 19 St. lav. e godere dei diritti e delle prerogative di cui al tit. III dello Statuto
dei lavoratori.
Nel 1972, CGIL, CISL e UIL stipularono il cd. patto federativo, un accordo per giungere ad una sostanziale
unità di azione, che avrebbe dovuto essere addirittura prodromico all’unità organica (cui, come noto, non
si è mai arrivati). Con esso gli stipulanti riconobbero i consigli di fabbrica come proprie strutture
organizzative di base all’interno dei luoghi di lavoro. Stante la genericità del requisito del collegamento
con i sindacati posto dall’art. 19 St. lav., il riconoscimento fu sufficiente a far considerare tali organismi
elettivi (consigli di fabbrica) quali RSA ai sensi della norma statutaria.
Per lungo tempo, i consigli di fabbrica hanno costituito l’unica forma di rappresentanza sindacale
all’interno dell’azienda.
Tale situazione si è però modificata con la rottura, nel 1984, dell’unità tra i sindacati tradizionali
(determinata da posizioni diverse, anzi antitetiche, di CGIL, da una parte, e CISL e UIL dall’altra, per quanto
attiene alle vicende della indennità di contingenza). Si è assistito così alla rottura dell’unità dei consigli di
fabbrica e, talora, alla costituzione di separate RSA ai sensi dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori. Nello
stesso tempo si sono presentati sulla scena sindacati non riconducibili a quelli tradizionali (ad es., in quel
periodo, il sindacato dei quadri intermedi) che pretendevano di costituire proprie RSA. Ne è conseguita
una situazione di frammentazione delle rappresentanze sindacali, anche a livello aziendale.
Il consiglio di fabbrica come organismo tendenzialmente unitario di rappresentanza dei lavoratori dunque
venne meno, sia perché era venuta meno l’unità di azione dei sindacati storici, sia perché alcuni gruppi di
lavoratori non si riconoscevano più nelle medesime associazioni sindacali.
Cominciò così un tentativo da parte dei sindacati tradizionali di modificare e ridefinire le forme delle RSA.
3. LE RAPPRESENTANZE SINDACALI UNITARIE
Uno di questi tentativi ha avuto esito positivo, traducendosi in una regolamentazione contrattuale delle
rappresentanze sindacali aziendali, che è quella attualmente vigente: si tratta del Protocollo del 1993 e
dell’Accordo interconfederale del 1993 (stipulati da CGIL, CISL e UIL, da una parte, e Confindustria e le
altre principali confederazioni datoriali, dall’altra).
Con questi accordi viene prevista la costituzione di rappresentanze sindacali unitarie (RSU), organi
elettivi e, nelle intenzioni, rappresentativi dei lavoratori di una determinata impresa.
La RSU è composta per 2/3 da membri eletti dai lavoratori sulla base di liste presentate sia dai sindacati
firmatari dei contratti collettivi nazionali di lavoro applicati nell’unità produttiva, sia da parte di associazioni
sindacali non firmatarie, a condizione che accettino la disciplina delle RSU contenuta dall’accordo
interconfederale del 1993 e abbiano raccolto un numero minimo di firme di lavoratori dipendenti
dell’unità produttiva, pari al 5% degli aventi diritto al voto. Il restante terzo è riservato alle liste presentate
dalle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell'unità
produttiva e alla sua copertura si procede mediante elezione o designazione, in proporzione ai voti
ricevuti (art. 2, accordo interconfederale del 1993).
In ciò consiste la clausola del terzo riservato (ai sindacati firmatari dei contratti collettivi nazionali) la cui
funzione è di attribuire ai sindacati stipulanti il contratto nazionale applicato nell’unità produttiva un
minimo di controllo sulle strutture di rappresentanza dei lavoratori nell’impresa, soprattutto nell’ottica di
governo della contrattazione collettiva.
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Le RSU sono individuate, infatti, dal protocollo del luglio 1993 quali soggetti legittimati alla stipulazione dei
contratti collettivi aziendali, sia pure congiuntamente con gli organismi territoriali delle associazioni
sindacali nazionali. Diversamente è avvenuto con l’accordo interconfederale del 2011, ove si prevede che
la legittimazione a concludere contratti aziendali-anche derogatori rispetto al contratto di categoria- sia
in capo alle r.s.u., senza necessario coinvolgimento delle organizzazioni sindacali esterne.
Di qui una nuova disciplina contrattuale della r.s.u.: già prefigurata dall'accordo del 2012 e dal Protocollo
d'intesa del 2013, essa è ora contenuta nell'ambizioso accordo, denominato T.U. sulla rappresentanza,
sottoscritto nel 2014 da CGIL, CISL e UIL e Confindustria.
Il Testo Unico interviene, oltre che sui requisiti di rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva,
anche in materia di r.s.u., introducendo alcuni adeguamenti alla disciplina contenuta nell'accordo
interconfederale del 1993, al quale si sostituisce.
Tra le novità più importanti va segnalata, accanto all'espresso riferimento alla regola di maggioranza per
le deliberazioni in seno alla r.s.u., l'eliminazione della discussa clausola del terzo riservato. Secondo la
disciplina contenuta nel nuovo accordo, la ripartizione dei seggi in seno all'organo di rappresentanza
aziendale avverrà pertanto sulla base dei soli voti ottenuti da ciascuna lista. Alle elezioni della possono
partecipare, oltre alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni stipulanti il Testo Unico, anche
le associazioni di categoria aderenti al contratto collettivo nazionale applicato nell'unità produttiva
nonché quelle la cui lista sia sostenuta da un numero di firme d ratori pari al 5% degli aventi diritto al voto
(o da almeno tre firme di lavoratori se l’azienda è di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti), purché
accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del Testo Unico.
Recentemente, tuttavia, si sono manifestati evidenti fenomeni di rottura dell’unitarietà di questi organismi
rappresentativi del personale, come già era avvenuto in passato con i consigli di fabbrica, con il ritorno al modello
delle r.s.a. emblematico è il caso del gruppo Fiat nei cui stabilimenti il sistema delle r.s.u. è stato sostituito da quello
delle r.s.a., con esclusione dalla possibilità di accesso al medesimo, di FIOM-CGIL, in quanto non firmataria del
contratto collettivo applicato.
La necessità di revisione della disciplina delle r.s.u., anche allo scopo di ricomporre l’unitarietà della rappresentanza
sindacale in azienda, è oggi prefigurata dall’accordo 2012 (cd. Accordo sulla produttività). Esso in particolare pare
voler superare la regola del terzo riservato. E il protocollo d’intesa del 2013, là dove prevede il principio dell’elezione
delle r.s.u. con voto proporzionale.
Ci si deve a questo punto chiedere se le RSU (previste dall’accordo del 1993) siano da considerare RSA ai sensi
dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori.
Ci si deve chiedere in che rapporto stia la disciplina convenzionale delle rsu con quella legale della rsa: le rsu
sono da considerare rsa ai sensi dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori?
Perché si possa parlare di RSA ai sensi dell’art. 19 St. lav., è necessario che siano presenti i 2 requisiti
previsti dalla norma: l’iniziativa dei lavoratori e il collegamento con i sindacati qualificati indicati dalla
medesima. Ebbene, l’iniziativa dei lavoratori è garantita dal fatto che le RSU sono, almeno in parte, organo
elettivo. Il collegamento con i sindacati indicati dall’art. 19 (quelli cioè firmatari di contratti collettivi
applicati nell’unità produttiva) parimenti si riscontra, poiché le liste sono presentate, innanzitutto,
sebbene non solo, dai sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.
Pertanto, le RSU, dal punto di vista della legge, possono considerarsi RSA. Più precisamente, dal punto di
vista tecnico, la RSU può essere considerata come un’ipotesi di costituzione di un’unica RSA nell’ambito
di più associazioni legittimate a costituirne (realizzando l’ipotesi delineata nell’art. 29 dello Statuto dei
lavoratori).
35
In Italia le associazioni sindacali firmatarie di ciascun contratto collettivo nazionale - ed anche aziendale -
possono essere molteplici, attesa la situazione di pluralismo sindacale e teoricamente potrebbero
costituirsi RSA autonome, separate, distinte. Il legislatore, però, nell’art. 29 dello Statuto dei lavoratori
contempla l’ipotesi sia della costituzione di un’unica RSA nell’ambito di 2 o + associazioni sindacali
legittimate a costituirne, sia della fusione delle RSA già costituite.
Di qui la possibilità di considerare la RSU come costituzione di un’unica RSA nell’ambito delle diverse
associazioni sindacali legittimate a costituirne.
Teoricamente RSU e RSA potrebbero convivere all’interno della stessa unità produttiva. Immaginiamo
l’ipotesi di un sindacato firmatario di un contratto collettivo solo aziendale: nel momento in cui i sindacati
firmatari del contratto nazionale indicono le elezioni per le RSU, il sindacato aziendale potrebbe
presentare una sua lista e partecipare alla competizione elettorale per la costituzione della RSU
(confluendo quindi in essa). Esso però potrebbe anche non aderire all’accordo del 1993 e mantenere
intatto il suo diritto di costituire una RSA, ai sensi dell’art. 19 St. lav.
È da rilevare tuttavia che, da un punto di vista fattuale, anche se non giuridico, la RSU è tendenzialmente
il modello di rappresentanza esclusivo dei lavoratori a livello aziendale.
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Negli altri Paesi europei, eccettuato il Regno Unito, la materia della rappresentanza sindacale è
disciplinata in maniera più organica. Tali Paesi conoscono il doppio canale di rappresentanza sindacale,
in base al quale, all’interno dell’unità produttiva, vi sono sia forme elettive di rappresentanza della
generalità dei lavoratori dell’impresa - iscritti e non iscritti ai sindacati - sia forme di rappresentanza
(associativa) dei soli lavoratori iscritti al sindacato. A questa duplicità di struttura della rappresentanza
dei lavoratori, all’interno dell’azienda, corrisponde solitamente una duplicità di funzioni.
Le funzioni partecipative (ad es. i diritti di informazione in materia di igiene e sicurezza sul lavoro)
spettano alle strutture rappresentative elette dalla generalità dei lavoratori. Le funzioni di contrattazione
spettano invece alle forme di rappresentanza associativa dei lavoratori.
In Italia si riscontra invece un canale unico di rappresentanza. Nella RSU, tuttavia, si cerca di effettuare
una combinazione sia della rappresentanza generale dei lavoratori che della rappresentanza dei
lavoratori iscritti al sindacato. Un canale unico, dunque, nel quale convivono però le caratteristiche delle
due strutture, quella elettiva di rappresentanza generale e quella associativa.
Parte della dottrina non ha mancato di affermare che anche nel nostro Paese sarebbe auspicabile, de iure
condendo, la creazione di una duplice struttura: una rappresentanza generale dei lavoratori dell’impresa o
dell’unità produttiva, con funzioni consultive e partecipative, e una rappresentanza degli iscritti al
sindacato, con funzioni di contrattazione, secondo il modello del doppio canale.
6. DIRITTI SINDACALI
Lo Statuto dei lavoratori riserva alle r.s.a., identificate all’art. 19, un’importante serie di prerogative,
preordinata allo scopo di promuovere e sostenere l’attività sindacale in azienda. Si tratta di previsioni che
superano il riconoscimento della sola libertà sindacale e che fondano dei veri e propri diritti in capo alle
r.s.a., cui, correlativamente, corrispondono obblighi di cooperazione in capo al datore di lavoro.
Nel caso sia costituita una r.s.u., in luogo delle r.s.a., l’accordo istitutivo del 1993 prevede espressamente
che la r.s.u. subentri alle r.s.a. ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad
essi spettanti, così come i componenti della r.s.u. subentrano ai dirigenti della r.s.a. nella titolarità dei
diritti, permessi, libertà sindacali e tutele.
Tali previsioni sono perfettamente compatibili col quadro legale. Ciò però non ha impedito, il manifestarsi
di taluni problemi applicativi nell’adattamento della normativa contrattuale a quella legale.
Anche a causa della reticenza dell’accordo interconfederale del 1993, che non precisa i sistemi di
formazione della volontà nell’ambito delle r.s.u., si sono formati diversi orientamenti, in particolare, ad
esempio, per quanto riguarda la titolarità a convocare l’assemblea: se essa sia in capo alle r.s.u., come
organismo unitario a funzionamento collegiale, ovvero in capo ai singoli componenti. È prevalso il primo
orientamento.
a) Assemblea (art. 20 st. lav.)
L’art. 20 St. lav. riconosce espressamente il diritto di tutti i lavoratori a riunirsi in assemblea nei luoghi di
lavoro, fuori dall’orario di lavoro o all’interno dell’orario stesso nei limiti di 10 ore annue retribuite (limite
che può essere elevato dai contratti collettivi).
Il diritto di riunirsi in assemblea costituisce un diritto potestativo di sospendere l’esecuzione della
prestazione lavorativa, la cui titolarità è posta direttamente in capo ai lavoratori. Hanno piena titolarità di
partecipare all’assemblea anche i lavoratori non iscritti al sindacato e i lavoratori sospesi (come quelli in
cassa integrazione) o in sciopero.
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L’assemblea può essere generale, cioè riguardare tutti i lavoratori dell’unità produttiva, o settoriale, cioè
riguardare solo uno o più gruppi di lavoratori (ad esempio i lavoratori appartenenti ad un reparto o ad
una determinata categoria professionale).
All’assemblea possono partecipare i dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza
sindacale aziendale, previo preavviso al datore di lavoro. Non sono titolari del diritto di partecipare
all’assemblea il datore di lavoro o i dirigenti apicali, salvo, ovviamente, il caso in cui siano stati
espressamente invitati.
Il potere di convocare l’assemblea spetta però alle r.s.a, singolarmente o congiuntamente. Tale potere
può essere esercitato dalla r.s.u. istituita in base alle previsioni dell’accordo interconfederale del 1993. Vi
è stato un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale volto a determinare se il diritto spettasse ad
ogni singola componente sindacale o alla r.s.u. nel suo complesso, come organo collegiale.
L’orientamento prevalente sembra essere il 2°, anche se non mancano decisioni di segno contrario.
Non hanno il potere di convocare assemblee organismi diversi dalle r.s.a., ovvero i singoli lavoratori.
La convocazione dell’assemblea deve essere comunicata al datore di lavoro che, nel caso di convocazione
di più assemblee da parte di diverse r.s.a. operanti in azienda, sarà tenuto a rispettare l’ordine di
precedenza delle comunicazioni che gli sono pervenute. Per lo svolgimento dell’assemblea, inoltre, il
datore di lavoro è tenuto a mettere a disposizione un locale all’interno dell’unità produttiva.
Sebbene non sia previsto dal legislatore alcun intervallo temporale fra comunicazione al datore ed
effettivo svolgimento dell’assemblea, i contratti collettivi spesso prevedono periodi di preavviso, al fine
di permettere al datore di lavoro sia di predisporre i locali per l’assemblea, sia di predisporre opportune
misure organizzative per fronteggiare la sospensione della prestazione di lavoro provocata
dall’assemblea stessa.
L’art. 20 St. lav. dispone che l’assemblea dei lavoratori riguardi “materie di interesse sindacale e del
lavoro”. La locuzione “materie di interesse sindacale e del lavoro” escluderebbe, secondo una prima
interpretazione, qualsiasi controllo di merito, sull’oggetto dell’assemblea, vuoi da parte del datore di
lavoro, vuoi da parte del giudice. Secondo questo orientamento, le materie di interesse sindacale e del
lavoro sarebbero tutte quelle che il sindacato assume concretamente quale oggetto del suo intervento.
Sul rilievo che, se così fosse, non si spiegherebbe la specificazione legislativa, è tuttavia prevalsa la tesi
contraria, per la quale è sempre ammesso un controllo da parte del datore di lavoro e, in caso di
contestazione, da parte del giudice. Secondo questa prospettazione, per interpretare la formula
legislativa (“materie di interesse sindacale e del lavoro”) si possono utilizzare i risultati dell’elaborazione
in materia di sciopero politico e segnatamente di sciopero politico-economico.
Ne deriva che oggetto di assemblea possono essere, non solo le questioni che attengono alle condizioni
del rapporto contrattuale (di lavoro), ma anche quelle che hanno a che fare in senso lato con le condizioni
generali economiche dei lavoratori subordinati.
Sulla base di tale impostazione, sarebbe del tutto conforme alle previsioni dell’art. 20 St. lav.
un’assemblea avente ad oggetto materie di interesse economico per i lavoratori (ad es. un’assemblea
avente ad oggetto la riforma pensionistica o la politica fiscale). Non altrettanto potrebbe dirsi per
un’assemblea in cui si voglia discutere delle ragioni di un intervento militare in una data area del pianeta.
Il tema della pace, pur essendo in senso lato un argomento che interessa il mondo sindacale, non riguarda
le condizioni economiche dei lavoratori e pertanto fuoriesce dalle “materie” di cui all’art. 20.
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b) Referendum
L’art. 21 St. lav. riconosce il diritto delle RSA di indire – in questo caso solo congiuntamente – referendum
tra i lavoratori, fuori dall’orario di lavoro, su materie di interesse sindacale.
Il diritto di partecipare alle votazioni spetta a tutti i lavoratori, al pari del diritto di assemblea.
Sebbene non espressamente previsto dalla norma si desume che l’obbligo di “consentire” lo svolgimento
del referendum debba essere inteso come un obbligo di collaborazione da parte del datore di lavoro, in
primo luogo mettendo a disposizione un congruo locale per lo svolgimento delle votazioni.
Si ritiene che i contratti collettivi possano preveder un periodo di preavviso fra la comunicazione al datore
di lavoro dell’intenzione di indire un referendum e lo svolgimento del medesimo.
Per quanto attiene all’oggetto della consultazione, questa deve riguardare “materie inerenti l’attività
sindacale” e non anche del lavoro, come invece previsto per l’assemblea.
A differenza dell’assemblea, che può anche essere convocata separatamente dalle r.s.a. presenti in
azienda, il diritto di indire referendum è esercitabile solo congiuntamente dalle stesse.
Va da sé che il diritto di indire referendum è esercitabile dalle r.s.u., qualora sia subentrata alle diverse
r.s.a. in azienda. L’esercizio solo congiunto del potere di indizione di referendum è stato previsto al fine
di evitare che esso si potesse trasformare in uno strumento di accentuazione della frammentazione e
della rivalità sindacale.
Le consultazioni dei lavoratori, al di fuori delle ipotesi previste dall’art 21 st. lav., ad esempio perché
indette da gruppi spontanei di lavoratori, sono in ogni caso, da considerare ammesse in forza del principio
di libero svolgimento dell’attività sindacale. Tuttavia, il datore di lavoro non ha alcun obbligo di
consentirne lo svolgimento.
La prassi ha tradizionalmente affermato la funzione secondaria del referendum nel nostro sistema di
relazioni industriali, soprattutto rispetto al diritto di assemblea. Tuttavia, in tempi recenti, si è avvertita la
tendenza a rivalutare l’istituto quale strumento idoneo a ridurre lo scollamento tra sindacato e “base”
dei lavoratori, soprattutto per quanto riguarda l’applicazione dei contratti collettivi aziendali e di tipo
derogatorio (da ultimo referendum per l’approvazione degli accordi aziendali relativi agli stabilimenti Fiat
di Pomigliano e Mirafiori stipulati nel dissenso FIOMCGIL).
Il ricorso alla prassi referendaria si verifica in circostanze diverse: ex ante per approvare piattaforme
contrattuali e, soprattutto, ex post per approvare accordi collettivi già conclusi, specie aziendali e di tipo
derogatorio (si veda, da ultimo, l’accordo Fiat Mirafiori del 23 dicembre 2010).
Il problema più delicato concerne, in tali ipotesi, le conseguenze giuridiche dell’esito negativo del voto.
Dottrina e giurisprudenza, a meno che l’esito positivo del referendum non sia espressamente previsto
come condizione risolutiva o sospensiva dell’efficacia dell’accordo, hanno optato per la conclusione che
l’eventuale esito negativo ha solo una valenza politica e non giuridica (Cass. 10119/1994). Si intende, cioè,
che l’eventuale esito negativo del referendum, ad esempio, non incida né sulla validità né sull’efficacia di
un contratto collettivo già concluso, ma riguardi solo i rapporti interni fra sindacati stipulanti e lavoratori.
A meno che l’esito positivo del referendum non sia espressamente previsto nel contratto collettivo stesso
come condizione risolutiva o sospensiva dell’efficacia dell’accordo.
Il Testo unico del 2014 valorizza il ricorso al referendum nel caso di stipulazione di contratto aziendale da
parte di r.s.a. ex art 19 st. lav., allorché la richiesta provenga da almeno un’organizzazione sindacale
firmataria dell’accordo interconfederale ovvero da almeno il 30% dei lavoratori. In questo caso, l’esito
positivo del referendum è condizione per l’efficacia erga omnes del contratto aziendale.
39
Il successivo art. 8 del d.l. n.138, convertito nella l. 148/2011, ha inteso sancire tale efficacia erga omnes
ogni qual volta gli accordi aziendali siano sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario.
Il Protocollo del 2013 valorizza la “consultazione certificata dei lavoratori” ai fini dell’attribuzione di
efficacia generale ai contratti collettivi nazionali: le modalità di questa consultazione dovranno essere
specificate nei contratti nazionali di categoria.
40
La titolarità del diritto ad usufruire dei permessi, sia retribuiti che non retribuiti, è posta in capo ai dirigenti
della r.s.a.
Poiché l’art. 19 dello statuto nulla dice in merito alla formazione della rappresentanza, non reca nemmeno
una definizione di dirigente. Si ritiene, pertanto, che i criteri per l’attribuzione della qualifica di dirigente
siano rimessi alla volontà dell’associazione che costituisce la r.s.a.
I permessi sono utilizzabili da qualsiasi membro delle r.s.u., senza la necessità dell’identificazione della
figura di dirigente.
Accanto ai permessi appena esaminati, che sono usufruibili dalle r.s.a./r.s.u., lo statuto prevede altri
permessi usufruibili dai lavoratori che svolgano attività sindacale anche esterna all’azienda.
In particolare, l’art. 30 st. lav. prevede che i componenti degli organi direttivi, provinciali o nazionali, delle
associazioni di cui all’art. 19 st. lav. abbiano diritto ai permessi retribuiti per la partecipazione alle riunioni
degli organi suddetti, secondo le disposizioni dei contratti collettivi.
Sempre in funzione di tutela dei dirigenti esterni, l’art. 31 st. lav. prevede che i lavoratori che siano chiamati
a ricoprire cariche sindacali, nazionali o provinciali possano, a richiesta, essere collocati in aspettativa non
retribuita per tutta la durata del mandato.
dell'organizzazione della struttura sindacale aziendale. Domina, dunque, un criterio di effettività del ruolo
ricoperto dal dipendente nella struttura sindacale.
Il problema è, però, ridimensionato nel caso in cui la rappresentanza sindacale assuma la forma della r.s.u.:
già nell'accordo interConfederale del 1993 ed oggi nel Testo Unico del 2014 si fissano precisi limiti numerici
dei componenti della medesima, disponendone il subentro ai dirigenti di r.s.a. nella titolarità dei diritti e
delle tutele del titolo III.
I dirigenti delle r.s.a., così come i membri e i candidati nelle elezioni delle commissioni interne godono
anche di una tutela rafforzata in caso di licenziamento, a presidio, non tanto della loro posizione
individuale, quanto del libero svolgimento dell’attività sindacale. Oltre a poter ottenere, su istanza
congiunta del lavoratore e del sindacato, la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 st.lav., con
provvedimento (ordinanza) anticipatorio ed interinale, in caso di inottemperanza, all’ordinanza o alla
sentenza con cui si conclude il giudizio, il datore di lavoro, in aggiunta elle retribuzioni, deve
corrispondere, in favore del fondo di adeguamento pensionistico istituito presso l’INPS, una somma pari
all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. Tale previsione è rimasta inalterata anche dopo le
modifiche apportate all’art. 18 dalla l. Fornero.
Nelle particolari tutele accordate ai dirigenti di r.s.a. in caso di trasferimento e licenziamento si accomunano
a questi i candidati alle elezioni delle commissioni interne e i loro membri fino alla fine dell’anno successivo
in cui è cessato l’incarico.
Mai regolate dalla legge, le commissioni interne, organi di rappresentanza dei lavoratori di tipo elettivo
che trovano la loro disciplina in risalenti accordi interconfederali, hanno vissuto quale forma di
rappresentanza sostanzialmente esclusiva all’interno dei luoghi di lavoro fino all’entrata in vigore dello
statuto dei lavoratori e talvolta anche oltre. È perciò che il legislatore le prende in considerazione al fine
di attribuire ai loro componenti le medesime tutele previste per i dirigenti delle r.s.a.
g) Contributi sindacali
L’ art. 26 st. lav. riconosceva il diritto delle associazioni sindacali a percepire i contributi sindacali mediante
una trattenuta sulla retribuzione spettante al lavoratore ad esse iscritto che ne facesse richiesta. Il datore
di lavoro effettua la trattenuta sulla retribuzione spettante al lavoratore ad esse iscritto che ne facesse
richiesta. il datore di lavoro, effettuata la trattenuta, aveva poi l’obbligo di trasferire la somma alle
associazioni sindacali. Più precisamente si prevedeva che le associazioni sindacali dei lavoratori hanno
diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti
previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai
contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a
ciascuna associazione sindacale.
Sebbene la previsione sia stata abrogata nel 1995 a seguito di un referendum popolare, i contratti collettivi
contengono normalmente disposizioni del tutto analoghe, sicché il diritto della partecipazione ai
contributi sindacali tramite ritenuta salariale permane. Si tratta tuttavia di un diritto che, in quanto
costituito negozialmente, è in capo unicamente ai sindacati stipulanti il contratto collettivo.
Nel caso di sindacato non firmatario di contratto collettivo, si è posta la quesitone se la richiesta del
lavoratore al proprio datore di lavoro di effettuare per suo conto, mediante trattenuta sulla retribuzione,
il pagamento dei contributi sindacali sia inquadrabile nella delegazione di pagamento o nella cessione di
credito. A seconda che si opti per l’uno o per l’altra costruzione, le conclusioni sono differenti, essendo il
datore di lavoro libero nel primo caso, obbligato nel secondo, ad aderire alla richiesta del lavoratore. La
tesi maggioritaria, a seguito di un intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2005, è nel
senso dell’inquadramento della fattispecie nella cessione del credito, con le conseguenze del caso.
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È importante sottolineare che il campo di applicazione del Titolo III dello Statuto dei lavoratori è limitato,
per le imprese industriali e commerciali, alle unità produttive che occupino più di 15 dipendenti.
Per unità produttiva si intende ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, in cui si
articola l’azienda.
Sempre per le imprese industriali e commerciali le medesime norme si applicano quando le unità
produttive nell’ambito dello stesso comune occupino più di 15 dipendenti. I limiti dimensionali sono ridotti
a 5 dipendenti (qui riferiti all’impresa nel suo complesso) per le imprese agricole.
La ragione di siffatti limiti dimensionali risiede nella considerazione che i diritti esaminati comportano
oneri organizzativi e costi economici che difficilmente possono essere sostenuti da piccole imprese. È
necessario, inoltre, un numero di lavoratori dotato di una minima consistenza, altrimenti non si
riuscirebbe neppure a distinguere tra rappresentati e rappresentanti.
7. ALTRE TUTELE DELL’ATTIVITÀ SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO.
Altre tutele della libertà nei luoghi di lavoro non conoscono limiti dimensionali.
Art. 14 st. lav.: tutti i lavoratori hanno il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi di svolgere
attività sindacale.
Tutti i lavoratori possono poi svolgere attività di proselitismo, purché non risulti compromesso il regolare
svolgimento dell’attività aziendale.
Gli artt. 15 e 16 st. lav. contengono previsioni indirizzate a preservare la dialettica sindacale dal fenomeno
delle discriminazioni. L’art. 15 sancisce il divieto di atti discriminatori:
lett. a), sancisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore
alla condizione che aderisca ad un’associazione sindacale, ovvero cessi di farne parte.
lett. b), sancisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo
nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli
altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad
uno sciopero. Si tende a ritenere che la formula di chiusura “qualsiasi atto o patto” sia stata inserita per
coprire qualsiasi provvedimento lesivo degli interessi del lavoratore, con il solo limite di atti suscettibili
di assumere rilevanza giuridica.
Per quanto attiene alla specifica ipotesi del licenziamento discriminatorio, va ricordato che la sanzione
prevista è quella della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Il regime è rimasto immutato
anche a seguito delle modifiche portate all’art. 18 dalla l. 92/2012 (Legge Fornero) e il nuovo regime di
licenziamenti introdotto dal Jobs Act nel 2015.
Art. 16 st. lav. vieta la concessione, da parte del datore di lavoro, di trattamenti economici di maggior favore
aventi carattere discriminatorio in ragione del “comportamento sindacale” dei lavoratori.
Si pensi, ad es., alla corresponsione di una somma di denaro o all’attribuzione di qualsiasi altra utilità
valutabile economicamente a favore dei lavoratori che non aderiscono ad uno sciopero. È prevista, una
sanzione amministrativa: il pagamento a favore del Fondo adeguamento pensionistico dell’INPS di una
somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel
periodo massimo di un anno.
Infine, l’art. 17 st. lav. vieta i sindacati di comodo: vieta ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di
lavoro di costruire o sostenere con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori.
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Si tratta di una norma posta a salvaguardia della genuina dialettica sindacale. Essa vuole reprimere
espressamente il fenomeno dei cd. Sindacati gialli; vale a dire quei sindacati che, sostenuti dal datore di
lavoro, si comportino come controparti compiacenti nei confronti del medesimo, inquinando la dialettica
sindacale.
Nonostante la norma faccia riferimento al sostegno mediante mezzi finanziari o “altrimenti”, si deve
escludere che l’art. 17 vieti di per sé la scelta dell’interlocutore, in caso di pluralismo sindacale, da parte
del datore di lavoro ai fini della contrattazione collettiva. N on è qualsiasi “sostegno” al sindacato ad
essere vietato, ma solo quello che ne determina un asservimento sottraendogli il carattere di genuino
interprete dell’interesse dei lavoratori.
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1. L’ART 28 ST. LAV.: LA REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE DEL DATORE DI LAVORO.
L’art. 28 st. lav. è considerata generalmente norma di chiusura del sistema in quanto garantisce l’effettività
dei diritti sindacali, sia di quelli sanciti dal titolo III della legge sia da quelli desumibili da altre fonti.
L’ispirazione per questa norma è stata tratta dall’ordinamento nordamericano.
Esso prevede un particolare procedimento giurisdizionale improntato all’informalità e alla celerità,
all’esito del quale, in caso di accertamento della condotta antisindacale, il giudice con un decreto
motivato e immediatamente esecutivo, ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento
illegittimo e la rimozione degli effetti.
Contro il decreto è ammessa opposizione, entro 15 giorni dalla comunicazione del provvedimento, avanti
al tribunale in funzione del giudice del lavoro, che decide con sentenza anch’essa immediatamente
esecutiva. Ma la particolare incisività del procedimento si desume dal fatto che l’inosservanza dell’ordine
del giudice è assistita dalla sanzione penale ex art 650 c.p. (inosservanza di un provvedimento legalmente
dato dall’autorità).
Altra parte della giurisprudenza ha elaborato una diversa tesi (che infine è prevalsa ed è stata avvallata
dalla stessa Cassazione), ritenendo necessario verificare se il sindacato operi a livello nazionale.
È da considerare “nazionale” innanzitutto il sindacato che sia diffuso con le proprie strutture
organizzative su tutto il territorio nazionale o, quanto meno, in un numero significativo di province e di
regioni. Se il sindacato è stato in grado di stipulare un contratto collettivo nazionale, anche se la struttura
organizzativa dello stesso sindacato è circoscritta ad alcune regioni, sembra pacifico che esso debba
essere considerato nazionale ai sensi dell’art. 28 st. lav.
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La tesi più accreditata, fatta propria anche dalle Sezioni Unite della Cassazione appare comunque quella
per cui rientrano nella fattispecie “condotta antisindacale” tutti i comportamenti obbiettivamente idonei a
ledere i beni protetti dalla norma, indipendentemente dalla prova di uno specifico elemento intenzionale del
datore di lavoro.
Va tuttavia chiarito che non tutti i possibili comportamenti illeciti del datore di lavoro sono, per ciò solo,
antisindacali. Può infatti verificarsi un comportamento illecito- ad esempio il licenziamento di un
lavoratore senza giusta causa o giustificato motivo- senza che ciò integri gli estremi della condotta
antisindacale: un licenziamento ingiustificato non è, in generale, antisindacale, a meno che non si tratti di
licenziamento discriminatorio per motivi sindacali: ad esempio, irrogato perché il lavoratore è un attivista
sindacale.
Ciò che rileva, è dunque, verificare se il comportamento del datore di lavoro sia idoneo a ledere i beni protetti
(libertà, attività sindacale, diritto di sciopero). Tale lesione può anche derivare da un comportamento che
colpisce il singolo lavoratore, purché si tratti di un cd. comportamento plurioffensivo. Nel caso di
condotta plurioffensiva è prospettabile la coesistenza dell’azione individuale del singolo lavoratore, ex
art. 414 cpc, con quella del sindacato ex art 28 st. lav.
Si tratta di azioni autonome e distinte. Si ritiene che il sindacato potrà comunque fare valere il proprio
interesse all’accertamento dell’antisindacalità, di cui peraltro il singolo, a seguito di rinuncia all’azione o
alla domanda non potrà avvalersi.
Il giudice può adottare, con decreto, ogni provvedimento che ritiene giusto al fine di ripristinare la normalità
sindacale. Problemi si sono poste per le pronunce di mero accertamento e, soprattutto, per quelle di
condanna in futuro, delle quali si tende ad escludere l’ammissibilità.
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C’è ancora da domandarsi se il rifiuto da parte del datore di lavoro di trattare con le associazioni sindacali
sia da considerare condotta antisindacale ex art. 28 st. lav.
Nel nostro ordinamento non è ricostruibile un obbligo generale id trattare. Parte della dottrina ritiene che
tale obbligo possa essere tutt’al più configurato nel pubblico impiego, in quanto il sistema della
contrattazione collettiva è regolato dalla legge.
Nel settore del lavoro privato, invece, la contrattazione collettiva non è regolata dalla legge e dunque non
è stabilito, in capo ad alcun sindacato, un diritto di trattare di portata generale.
Per tali ragioni, il rifiuto di trattare deve considerarsi, in generale, lecito. Va però segnalata la previsione
di specifici obblighi di trattare imposti da singole leggi o da clausole dei contratti collettivi. Ciò avviene ad
esempio in materia di Cassa integrazione guadagni ovvero in materia di licenziamenti collettivi, poiché la
legge prevede un obbligo di informazione sindacale preventiva, cui segue un obbligo di esame congiunto,
intrepretato dia più come obbligo di trattare.
Là dove un obbligo di trattare sia specificatamente previsto, vuoi dalla legge, vuoi dai contratti collettivi, il
rifiuto della trattativa costituisce condotta antisindacale.
Il datore di lavoro può prescegliere con chi trattare, anche eventualmente escludendo alcuni sindacati. A
ciò osta un solo limite: la trattativa con alcuni sindacati, non deve essere talmente irragionevole da
integrare la fattispecie del sostegno ai sindacati di comodo, ex art 17 st. lav.
Resta infine da verificare se la trattativa condotta dal datore di lavoro con i singoli lavoratori,
scavalcando le associazioni sindacali, costituisca condotta antisindacale.
Ebbene, una volta negata l’esistenza di un obbligo generale di trattare con le associazioni sindacali, se ne
dovrebbe inferire logicamente la possibilità di trattare direttamente con i singoli, escludendo le
associazioni sindacali. Eppure, la giurisprudenza talora ritiene che il datore di lavoro, pur restando libero di
non trattare affatto, nel momento in cui decide di farlo deve rivolgersi necessariamente all’interlocutore
sindacale.
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7. PROCEDIMENTO EX ART. 28 ST. LAV. E ALTRI RIMEDI GIURISDIZIONALI ESPERIBILI DAL SINDACATO.
La giurisprudenza del lavoro è stata tra le più restie ad abbandonare la concezione atomistica
dell’associazione sindacale e si è a lungo espressa nel senso dell’impossibilità di proporre in giudizio
domande di accertamento del contenuto del contratto collettivo e persino di intervenire nel processo. Di
modo che anche la tesi che gli associati possono deporre come testi nel giudizio di cui sia parte
l’associazione è stata praticamente inoperante.
Una smentita di queste concezioni si è avuta con l’art 28 st. lav. e, successivamente, con le pronunce della
Corte cost. 54/1974 e 334/1988, che, nel respingere le eccezioni di illegittimità costituzionale sul rilievo che
la norma ha introdotto solo un mezzo processuale nuovo ed aggiuntivo rispetto a quelli ordinari dai
singoli e dalle altre associazioni sindacali, hanno chiaramente affermato la possibilità per tutte le
associazioni sindacali di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti ed interessi legittimi.
Di qui si è tratta la conferma della stessa possibilità dei sindacati legittimati ex art 28 st. lav. di agire in via
ordinaria ex art. 414 cpc.
Tale indirizzo è stato recentemente confermato da una sentenza pronunciata nel famoso caso Fiat
(Tribunale Torino 2011). In essa, nell’affermare direttamente la legittimazione ad agire di FIOM-CGIL
nazionale, dunque, non di un organismo locale dell’associazione sindacale, il giudice conferma che le
organizzazioni sindacali che non sono in condizione di accedere allo strumento dell’art. 28 st, lav., inteso
quale particolare procedimento urgente, non avendone i requisiti, possono utilizzare lo strumento
processuale diverso e cioè quello ordinario, al fine di ottenere una tutela ex art 28 st. lav., intesa come
norma sostanziale, denunciando condotte datoriali antisindacali.
In aggiunta ai rimedi ordinari, l’art. 28 del d.lgvo. 150/2011, prevede una particolare procedimento relativo
alle controversie in materia di discriminazione, attivabile anche dal sindacato ai sensi dell’art. 5 d.lgvo
216/2003.
In particolare, al sindacato è riconosciuta una legittimazione ad agire su delega del soggetto passivo della
discriminazione, ovvero una legittimazione ad agire in via autonoma nei casi di discriminazione collettiva
qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
L’art. 28 del d.lgvo 150/2011 prevede che le controversie in tema di discriminazione siano regolate dal rito
sommario di cognizione (artt. 702 bis cpc) con una particolare disciplina probatoria: quando il ricorrente
fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere
l’esistenza di atti o patti o comportamenti discriminatori spetta al convenuto l’onere di provare
l’insussistenza della discriminazione.
Anche questo procedimento ha avuto il suo banco di prova nel caso Fiat, trattandosi di valutare la
sussistenza di una discriminazione nella mancata assunzione degli iscritti alla FIOM presso lo stabilimento
di Pomigliano d’Arco. Uno dei problemi affrontai, è stato quello dell’utilizzabilità di questo procedimento-
in luogo all’art 28 st. lav- stante il fatto che il d.lgvo. 216/2003 e il successivo d.lgvo 150/2011 non fanno
riferimento alle discriminazioni di carattere sindacale.
La conclusione, anche muovendo da un’ampia considerazione della normativa interazionale, e,
soprattutto, comunitaria in materia di tutela contro le discriminazioni, è stata nel senso che la vasta
nozione di divieto di discriminazione a causa delle convinzioni personali racchiude una serie di categorie.
Pertanto, nell’ambito della categoria generale delle convinzioni personali può essere ricompresa anche la
discriminazione per motivi sindacali, con il conseguente divieto di atti o comportamenti idonei a realizzare
una diversità di trattamenti o un pregiudizio in ragione dell’affiliazione o della partecipazione del
lavoratore ad attività sindacali.
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La 1° conseguenza della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. (più precisamente, dei commi 2°, 3° e 4°) è che
il sindacato non ha potuto acquisire la personalità giuridica né potrà acquisirla – attraverso gli strumenti
di riconoscimento ordinari – finché l’art. 39 Cost. rimarrà inattuato.
La 2° conseguenza della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. è che il contratto collettivo stipulato dagli
attuali sindacati ricade nell’ambito del diritto contrattuale comune. Di qui la denominazione di contratto
collettivo di diritto comune, per indicare che esso trova (o dovrebbe trovare) disciplina unicamente nelle
norme dettate dal Codice civile sui contratti in generale (art. 1321 ss c.c.).
La stessa possibilità di ammettere la cittadinanza, nel nostro ordinamento, di un contratto collettivo non
riconducibile alle previsioni dell’art. 39 Cost. è dipesa dalla interpretazione storicamente affermatasi della
norma, interpretazione in base alla quale la stessa norma costituzionale non determinerebbe la forma
necessitata del contratto collettivo, ma prefigurerebbe le condizioni in presenza delle quali al contratto
collettivo può essere attribuita efficacia erga omnes (efficacia vincolante nei confronti di tutti gli
appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce).
I punti chiave di questa interpretazione sono costituiti dall’accentuazione del valore precettivo del 1° co.
dell’art. 39 Cost. (“l’organizzazione sindacale è libera”) e dalla corrispondente svalutazione del termine
“obbligo” contenuto nel 2° co.
Poiché la registrazione è necessaria al fine di poter stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes,
si è detto che essa è oggetto più propriamente di un onere: un onere per i sindacati che appunto vogliano
ottenere simile diritto. Ma la norma costituzionale non esclude che i sindacati possano stipulare contratti
collettivi che non abbiano quel particolare effetto. E ciò, in base al principio di libertà sindacale, che è
libertà di organizzazione e di azione e, dunque, di contrattazione.
La norma costituzionale, insomma, non inibisce al sindacato di non chiedere la registrazione, né, pur
avendola chiesta ed ottenuta, di stipulare contratti collettivi senza seguire il procedimento di cui all’ultimo
comma dell’art. 39 Cost.
Al contratto stipulato dal sindacato non registrato o dai sindacati registrati ma al di fuori del procedimento
di cui all’art. 39 Cost. non potranno imputarsi gli effetti previsti dalla norma costituzionale. Si tratterà più
semplicemente di una fattispecie regolata dal diritto contrattuale comune.
La mancata attuazione della norma costituzionale ha portato come conseguenza necessitata che il
contratto collettivo attualmente stipulato dai sindacati sia un contratto regolato dal diritto contrattuale
comune, vale a dire, dalle norme del Codice civile sui contratti in generale.
E spesso si è ricondotto il contratto collettivo di diritto comune oltre che all’art. 39 Cost., all’art. 1322 c.c.,
in base al quale le parti possono stipulare anche contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina
particolare purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico;
e tale sarebbe da ritenere appunto il contratto collettivo.
La qualificazione del contratto collettivo come contratto di diritto comune non poteva tuttavia
considerarsi soddisfacente già originariamente, perché la giurisprudenza non ha mai applicato tout court
al contratto collettivo le norme del Codice civile sui contratti in generale, applicando, anzi, in via diretta e
non analogica alcune norme - si pensi in particolare all’art. 2077 c. c. - dettate dal Codice civile per il
contratto collettivo corporativo. Tanto meno può considerarsi soddisfacente al momento attuale, perché
il legislatore rinvia sempre più spesso al contratto collettivo, attribuendogli determinati effetti giuridici.
50
Ora vi è anche da considerare l’art. 8 della l. 148/2011 che ha dettato una peculiare disciplina, quanto meno
per il contratto aziendale e territoriale.
Nel settore del pubblico impiego, che ormai a seguito della privatizzazione fa pienamente parte dello
statuto scientifico del diritto del lavoro, il contratto collettivo deve sicuramente considerarsi un contratto
atipico, avendo ricevuto una specifica disciplina legislativa (v. ora d.lgvo n. 165/2001).
Essi vengono tuttora stipulati per regolare istituti importanti del rapporto di agenzia (ad es. le provvigioni)
e, anzi, la normativa civilistica sul contratto di agenzia (artt. 1742 c.c.) rinvia ampiamente proprio alla
disciplina contenuta negli accordi economici-collettivi. Anche per altre categorie di lavoratori, cd.
parasubordinati, si conoscono esperienze di vera e propria contrattazione collettiva.
L’aggettivo collettivo sta a significare che il contratto viene stipulato da 2 soggetti collettivi. Tipicamente,
si tratta delle associazioni sindacali che rappresentano i lavoratori, da un lato, e di quelle che
rappresentano i datori di lavoro, dall’altro; ma anche il contratto aziendale stipulato dalle RSA o da
sindacati provinciali di categoria con il singolo imprenditore/datore di lavoro si considera un contratto
collettivo.
Agli albori del fenomeno sindacale, i contratti collettivi avevano quale contenuto tipico ed esclusivo la
determinazione dei livelli di retribuzione dei lavoratori (di qui la denominazione di concordati di tariffa).
Con il passare del tempo, i contratti collettivi di lavoro si sono arricchiti di contenuti ulteriori (per es., la
durata delle ferie, dell’orario di lavoro, del preavviso in caso di licenziamento, ecc.), sempre attinenti alla
disciplina del rapporto individuale di lavoro subordinato. In seguito, accanto a queste clausole (dette
normative), sono comparse le clausole obbligatorie, che regolano, non già le condizioni dei singoli rapporti
individuali di lavoro, bensì i rapporti tra i soggetti collettivi stipulanti (ad es. la costituzione di commissioni
paritetiche, le clausole procedurali relative al rinnovo del contratto collettivo, ecc.).
All’interno del contratto collettivo possiamo quindi distinguere le clausole normative, che hanno per
oggetto la disciplina dei rapporti individuali di lavoro, e le clausole obbligatorie, che non incidono
direttamente sulla disciplina dei singoli rapporti di lavoro, ma regolano i rapporti reciproci tra i soggetti
collettivi stipulanti il contratto collettivo (cioè, prevalentemente, associazioni sindacal i di lavoratori e di
datori di lavoro).
All’interno delle clausole obbligatorie si possono distinguere le clausole cd. istituzionali (relative
all’istituzione di organismi paritetici sindacali – si pensi, in passato, alle Casse edili ed oggi agli enti
bilaterali); le clausole di amministrazione del contratto (es. quelle che disciplinano le procedure di
conciliazione e arbitrato, o l’istituzione di commissioni tecniche); le clausole relative alla produzione
negoziale (es. le clausole di rinvio alla disciplina di una determinata materia dal contratto nazionale al
contratto aziendale) e le clausole di tregua sindacale (con cui le associazioni sindacali si impegnano a non
proclamare e a non sostenere scioperi per il periodo di vigenza del contratto stesso).
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Oggi si ritiene, giustamente, che sia qualificabile come contratto collettivo pure quello che abbia un
contenuto meramente obbligatorio, anche se i problemi giuridici che le 2 tipologie di clausole – normative
ed obbligatorie – pongono sono differenti.
Nonostante si tratti di distinzione fondamentale, qualificare una clausola come normativa o obbligatoria
non è sempre facile. La dottrina ha recentemente evidenziato l’esistenza di clausole ibride o bivalenti in
quanto hanno valenza, ad un tempo, normativa e obbligatoria.
Ciò avviene essenzialmente per le clausole di procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali: le clausole
che assoggettano l’esercizio di poteri unilaterali attribuiti al datore di lavoro dalla legge o dal contratto
collettivo a condizionamenti sindacali.
Inoltre, si pensi ad es. alle clausole, spesso presenti nei contratti collettivi, con le quali si sottopongono a
controllo sindacale gli atti di esercizio di determinati poteri datoriali.
Si consideri l’ipotesi del “trasferimento collettivo”. La legge dispone, all’art. 2103 c.c., che il lavoratore
possa essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra, purché sussistano comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive. Ebbene, in caso di trasferimento collettivo dei lavoratori, spesso i
contratti collettivi impongono al datore di lavoro un obbligo di informazione preventiva delle associazioni
sindacali, che, così, possono cercare di condizionare la decisione del datore di lavoro. Una clausola siffatta
è da considerare obbligatoria, perché fonda un diritto di informazione in capo al sindacato, al fine di
consentirgli una sorta di controllo sulla decisione imprenditoriale; nello stesso tempo essa fonda un diritto
del lavoratore a subire un esercizio controllato (dal sindacato) del potere di trasferimento. Sotto questo
profilo finisce per incidere sulla disciplina del rapporto individuale di lavoro e, dunque, è da considerare
(anche) normativa.
Buona parte delle clausole relative agli obblighi di informazione e consultazione preventiva del sindacato,
rispetto all’adozione di provvedimenti direttamente incidenti sui rapporti di lavoro, è, appunto, di natura
bivalente.
Negli anni 50 dello scorso secolo ad assumere centrale, se non esclusivo, rilievo è stato il livello
confederale di contrattazione: le condizioni di lavoro venivano disciplinate da accordi interconfederali,
cioè da contratti collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali, con cui si stabilivano i livelli retributivi
dei lavoratori, indipendentemente dal settore produttivo di appartenenza.
Le differenze di redditività esistenti tra i diversi settori produttivi portarono tuttavia, ben presto, e
diremmo inevitabilmente, al predominio della contrattazione collettiva di categoria (ad es.
metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.), per regolare, vuoi i livelli retributivi, vuoi le altre condizioni di lavoro.
Sopravvissero gli accordi interconfederali, ma per regolare aspetti generali dei rapporti di lavoro che
riguardano tutti i settori produttivi. Si vedano ad es. gli accordi interconfederali del 1950 e del 1965 sui
licenziamenti collettivi; gli accordi interconfederali del 1950 e 1965 sui licenziamenti individuali e gli accordi
interconfederali dell’1953 e 1966 sulle Commissioni Interne.
La contrattazione collettiva, sia pure spostata a livello del sindacato di categoria, restava tuttavia
centralizzata. All’inizio degli anni 60 del secolo scorso cominciarono le pressioni delle associazioni
sindacali per giungere ad una contrattazione collettiva di impresa, non in sostituzione, ma in aggiunta
alla contrattazione collettiva di categoria. E ciò per il fatto che la contrattazione collettiva di categoria
non poteva che rispecchiare il livello di redditività delle imprese dell’intero settore e dunque anche di
quelle marginali; non si teneva cioè conto del livello di redditività (che poteva essere molto superiore)
delle singole imprese.
Alla rivendicazione sindacale di un livello (aggiuntivo) di contrattazione, cioè quello aziendale, si opposero
le associazioni sindacali dei datori di lavoro privati. Al contrario, la rivendicazione venne accolta dalle
associazioni sindacali delle imprese a prevalente partecipazione statale.
Nel 1956 venne istituito il Ministero delle partecipazioni statali e che, in base alla legge 1589/1956 (cd.
legge di sganciamento delle imprese a prevalente partecipazione statale da Confindustria) fu disposto
che le imprese a prevalente partecipazione statale dovessero cessare il proprio rapporto associativo con
Confindustria e costituire apposite associazioni sindacali.
Ebbene, nel 1962 Intersind ed Asap stipularono, con le associazioni dei metalmeccanici che allora
rappresentavano le aziende a partecipazione statale, un Protocollo che fissava i principi generali di un
nuovo sistema di contrattazione, detto di contrattazione articolata, che fu poi recepito dai contratti
collettivi dell’intero settore industriale.
Il sistema di contrattazione era articolato: al livello nazionale si affiancava un livello provinciale e,
soprattutto, aziendale. Esso era ordinato nel senso che era il contratto collettivo nazionale a rinviare (cd.
clausola di rinvio), per la disciplina di certe materie, alla contrattazione collettiva (provinciale o aziendale).
E chiave di volta dell’intero sistema erano le cd. clausole di tregua sindacale, attraverso le quali i sindacati
si impegnavano a non proclamare e a non sostenere scioperi per la modifica di quanto convenuto nel
contratto collettivo nazionale, nell’arco temporale di vigenza dello stesso.
Nel 1969 il sistema di contrattazione articolata, pur rimasto formalmente inalterato, di fatto venne meno
a seguito delle vicende del cd. autunno caldo: le forme di rappresentanza spontanea dei lavoratori, in
particolare i consigli di fabbrica, che nacquero e al di fuori delle (e in opposizione alle) associazioni
sindacali, non riconobbero le limitazioni di competenza contrattuale poste dal contratto nazionale. Si
passò così ad un sistema di contrattazione non vincolata: la contrattazione aziendale poteva svolgersi su
qualsiasi oggetto; dunque, anche materie già disciplinate dal contratto nazionale.
Negli anni 80 del si assiste ad una ri-centralizzione della contrattazione collettiva, riacquisendo
importanza il livello interconfederale.
53
Nello stesso periodo si registra altresì la nascita dei primi accordi di concertazione, accordi triangolari che
vedono come parti, non solo le associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, ma anche lo
Stato con il ruolo, più che di mediatore, di negoziatore delle proprie risorse (ad es. il Protocollo del 1983).
Il contesto di sovrapposizione tra le competenze dei diversi livelli (in particolare nazionale ed aziendale)
è rimasto inalterato fino a quando non è stato stipulato lo storico Protocollo del 23 luglio 1993, attraverso
il quale si è cercato di riordinare il sistema di contrattazione collettiva.
Il Protocollo è un accordo di concertazione, che vede come parti le organizzazioni sindacali dei lavoratori,
quelle degli imprenditori e il Governo. Per la parte relativa agli assetti contrattuali (punto 2), è un vero e
proprio contratto collettivo che disciplina, appunto, il sistema di contrattazione collettiva. Vi si prevedono
due livelli di contrattazione collettiva (quello nazionale e quello aziendale), senza alcuna sovrapposizione
di competenze. Nel Protocollo del 1993 si prevede infatti espressamente che “la contrattazione aziendale
riguarda materie ed istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL”; e che le
“erogazioni del livello di contrattazione aziendale” sono strettamente legate alla produttività o alla
redditività di impresa.
Al protocollo del 1993 è stato attribuito giustamente, nelle condizioni date, un valore storico. Esso ha
esercitato una notevole influenza sulla stabilizzazione dell’assetto contrattuale e sul contenimento della
dinamica salariale, sostenuto in realtà dalla sempre incombente pressione, anche europea, del
risanamento economico del Paese.
Esaurita la funzione storica del Protocollo, con il rientro dall’inflazione, si è aperta una fase di stallo tra i
soggetti delle relazioni industriali.
La Commissione nominata dal governo Prodi nel 1997 e presieduta da Giugni, con il compito di verificare
l’opportunità di aggiustamenti, dopo il primo quinquennio della sua applicazione, registra il gradimento
delle parti sociali per l’assetto complessivo, anche se non nasconde alcune esigenze di trasformazione,
specie in direzione di una maggiore apertura della struttura verso ulteriori forme di decentramento. È su
questo che matura il logoramento dei rapporti unitari tra CISL e UIL da una parte, e CGIL, dall’altra parte:
le prime premono per dare maggiore spazio alla contrattazione decentrata a livello di impresa e anche di
territorio; la seconda, invece, favorevole al rafforzamento dell’impianto che ritrova il suo baricentro nel
contratto nazionale di categoria.
Questo logoramento di rapporti unitari (che già aveva portato ad esperienze di contrattazione separata:
accordo sul mercato del lavoro del 2002-cd. Patto per l’Italia-e, a livello categoriale, contratti collettivi
nazionali di lavoro separati dei metalmeccanici del 2001 e del 2003) trova il suo culmine nell’accordo
interconfederale del 2009.
Dopo molteplici tentativi di aggiornamento del Protocollo del 1993 e dopo una lunga trattativa, nel 2009
le Associazioni imprenditoriali e CISL, UIL, UGL hanno sottoscritto un “Accordo quadro per la riforma
degli assetti contrattuali”, della durata sperimentale di quattro anni. Già la denominazione di Accordo
quadro mette sull’avviso che si tratta di una cornice, di un accordo destinato ad essere completato con
altri accordi. Ed infatti il 15 aprile 2009 è stato stipulato, tra le stesse parti, un accordo per l’attuazione
dell’accordo quadro del 22 gennaio 2009; analoga intesa è stata stipulata per il pubblico impiego.
L’accordo quadro conferma i 2 livelli di contrattazione, nazionale e aziendale, cercando di valorizzare la
contrattazione di 2° livello; esso porta inoltre a 3 anni la durata dei contratti collettivi, sia per la parte
normativa, sia per la parte economica.
Per inciso va sottolineato che l’accordo quadro, così come i successivi accordi attuativi, non è stato
sottoscritto dalla CGIL: si tratta di un accordo separato. Dal che nascono delicati problemi applicativi.
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Ma la prospettiva che interessa maggiormente gli stipulanti, e che aveva fatto registrare il dissenso della
CGIL in occasione della stipulazione dell’Accordo interconfederale del 2009, è quella dei limiti in cui il
contratto aziendale può derogare in peius al contratto nazionale. È questo il tema oggi all’ordine del
giorno non solo nel nostro ordinamento, ma in tutti gli ordinamenti europei che tradizionalmente hanno
visto la centralità del contratto nazionale di categoria: consentire, ed anzi, incentivare, la contrattazione
aziendale anche derogatoria rispetto alla disciplina del contratto nazionale, là dove si tratti di risolvere
situazioni di crisi aziendali o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa.
Il decentramento della contrattazione: la direttiva di spostare il baricentro della contrattazione collettiva
verso l’azienda proviene dalle stesse istituzioni dell’Ue ed è già presente nelle indicazioni trasmesse dalla
BCE nel 2011 al Governo italiano.
In questo accordo interconfederale si prevede espressamente che i contratti collettivi aziendali possono
modificare le “regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”, sebbene “nei limiti e
con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro”. Col che l’enfasi viene spostata
dalla contrattazione aziendale migliorativa a quella peggiorativa. E le stesse parti stipulanti si
preoccupano, a fronte delle sempre più frequenti manifestazioni di dissenso tra i sindacati tradizionali, di
definire le condizioni per l’attribuzione di efficacia erga omnes ai contratti aziendali.
Ovviamente, trattandosi di disciplina pattizia, è persino superfluo sottolinearlo, essa è priva di natura
imperativa. E tuttavia il consenso ritrovato tra le principali organizzazioni sindacali, in relazione al ruolo
del contratto nazionale e del contratto aziendale e in relazione ai criteri di misurazione della
rappresentatività, gli conferiscono un’indubbia valenza pratico-giuridica (per via dell’efficacia persuasiva
che l’accordo può avere sui sindacati di categoria e sulle rappresentanze in azienda).
Ad ogni buon conto, dal fatto che in Italia il sistema della contrattazione collettiva sia comunque articolato
su più livelli (principalmente, interconfederale, nazionale di categoria ed aziendale) deriva che un singolo
rapporto di lavoro può trovare contestualmente disciplina in differenti contratti collettivi (interconfederale,
nazionale di categoria, territoriale, aziendale). Nel caso di conflitto tra le discipline collettive
astrattamente applicabili, si pone il problema giuridico di stabilire quale disciplina prevalga (è il problema
del concorso-conflitto tra contratti di diverso livello).
L’art. 8 del d.l. 138/2011, convertito nella l.148/2011, si è poi pesantemente inserito in questo quadro di
regole dettate autonomamente dalla contrattazione collettiva; consacrando legislativamente la
possibilità di attribuire efficacia erga omnes ai contratti, non solo aziendali, ma anche territoriali, e la facoltà
di deroga da parte di questi contratti, denominati di prossimità, alle disposizioni dei contratti nazionali e a
norme imperative di legge, in una serie, in verità molto vasta, di materie. Il tutto con il limite del necessario
“rispetto della Costituzione”, nonché dei vincoli derivanti dalle norme comunitarie e dalle convenzioni
internazionali sul lavoro”.
È chiaro l’intendimento del legislatore di agevolare la riforma del sistema della contrattazione collettiva,
anche sulla scorta delle indicazioni europee: quella flessibilizzazione della regolazione del mercato del
lavoro pure richiesta dalla BCE e attuata dal legislatore con la l. 92/2012 e con il Jobs Act.
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È controverso se si tratti di una normativa che si pone in linea di continuità con l’accordo interconfederale
del 2011, oppure se essa si ponga in termini pesantemente invasivi rispetto a quest’ultimo.
È la prima volta che il legislatore affronta in modo così diretto il problema della efficacia erga omnes della
contrattazione aziendale e territoriale ed attribuisce, per una tale ampia gamma di materie, la possibilità
di derogare a norme imperative di legge. Di qui, una serie di dubbi di legittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, con la sent. 221/2012, ha già respinto quantomeno l’eccezione di legittimità
costituzionale sollevata in relazione ad una pretesa violazione dell’art. 117 Cost, per invasione delle
prerogative legislative regionali.
L’accordo del 2012, cd. accordo sulla produttività, stipulato dalle associazioni imprenditoriali e da CISL e
UIL, nell’opposizione della CGIL, conferma la disciplina collettiva su due livelli, derivante dai precedenti
accordi interconfederali del 2009 e del 2011. Vi si prevede espressamente che il contratto collettivo
nazionale abbia la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi per tutti i
lavoratori rientranti nel suo campo di applicazione.
Particolare enfasi è posta proprio sull’attribuzione alla contrattazione aziendale dell’obiettivo di favorire
la produttività a livello della singola impresa.
Anche con il Protocollo d’intesa (cd. accordo su rappresentanza e rappresentatività), stipulato nel 2013
da Confindustria e CGIL, CISL e UIL a conclusione, per ora, della lunga stagione di accordi interconfederali,
resta confermata la struttura della contrattazione collettiva a due livelli.
Esso, in verità, più che una struttura della contrattazione collettiva, si occupa dei soggetti legittimati a
partecipare alle trattative e delle condizioni per l’attribuzione dell’efficacia generale ai contratti collettivi
nazionali.
Le regole prefigurate sono simili a quelle delineate nel pubblico impiego. Sono ammessi alle trattative per
la stipulazione dei contratti collettivi nazionali i sindacati che abbiano, nell’ambito di applicazione del
contratto, una rappresentatività pari al 5%: si considera a tal fine la media tra la percentuale degli iscritti
calcolata sulla base delle deleghe per la trattenuta dei contributi sindacali e la percentuale dei voti
ottenuti nell’elezione delle r.s.u. (sul totale dei votanti).
È idoneo a produrre un’efficacia generale il contratto collettivo che sia stato sottoscritto da sindacati con
un livello di rappresentatività pari ad almeno il 50% più 1, previa consultazione certificata dei lavoratori. Si
tratta di un accordo programmatico, che contiene solo principi generali, implicanti una successiva attività
negoziale di specificazione, vuoi a livello interconfederale, vuoi a livello dei singoli contratti nazionali di
categoria.
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Aspira ad assumere una valenza costituzionale nella disciplina delle relazioni sindacali: lo stesso si era
detto per l'accordo del 1993, ma il Testo Unico ha ambizioni più vaste toccando i temi della
rappresentatività sindacale, non contemplati dall'accordo del 1993, in coerenza con gli accadimenti e le
nuove esigenze emerse nel turbolento periodo che stiamo vivendo da almeno un decennio.
Non può dunque trascurarsi l'importanza del Testo Unico, pur dovendosi sottolineare subito, anche per
esso, non solo la sua natura meramente contrattuale, priva del valore cogente delle norme imperative di
legge, ma anche il carattere programmatico di gran parte delle sue disposizioni, che necessitano di una
successiva attività negoziale di specificazione, vuoi a livello interconfederale, vuoi a livello dei singoli
contratti nazionali di categoria.
Peraltro, le associazioni di categoria, cui compete la stipulazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro,
potrebbero determinarsi in modo autonomo ed eventualmente in contrasto con le disposizioni poste a
livello interconfederale. Le disposizioni del Testo Unico sono di fonte convenzionale, sicché hanno solo
efficacia obbligatoria e non reale: esse cioè non sono idonee a determinare l'invalidità delle pattuizioni
difformi. Inoltre, vincolano solo i soggetti firmatari (cioè le confederazioni) sui quali grava solo un dovere
di influenza sulle associazioni di categoria.
La 4° parte contiene disposizioni relative alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle clausole sulle
conseguenze dell'inadempimento, la cui attuazione è peraltro in toto demandata ai contratti nazionali di
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categoria e ai contratti aziendali. L'obiettivo è, comunque, una volta definito un assetto di regole
condiviso, di prevenire e.…sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a
compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi
interconfederali vigenti".
E da sottolineare il significato politico dell'intesa ritrovata tra le maggiori confederazioni sindacali dei
datori e dei lavoratori sui problemi cruciali del nostro sistema sindacale. È chiaro, tuttavia, che i limiti
strutturali sopra evidenziati, non rendono questo accordo capace di normare il sistema sindacale italiano
(almeno nel settore privato: quanto al settore pubblico). Siamo sostanzialmente in una fase interlocutoria:
ad un assetto contrattuale delineato dalle principali confederazioni sindacali, il cui successo è tutto da
verificare, si sovrappongono interventi legislativi non sistematici (l'art. 8, l. 148/2011) o comunque parziali
(l'art. 51, d.lgvo 81/2015).
Ma la legge ordinaria organica che avrebbe dovuto attuare il sistema delineato dall’art. 39, seconda parte,
Cost., non è mai stata emanata; cosicché il regime giuridico dei contratti collettivi può essere determinato
solo con riferimento ai principi del diritto comune dei contratti (artt. 1321 e ss. c.c.).
A tale stregua, si pone il problema di spiegare in quale modo un contratto collettivo, stipulato dalle
associazioni sindacali dei lavoratori e da quelle dei datori di lavoro, possa dispiegare efficacia nella sfera
giuridica di soggetti diversi, ossia nei confronti dei singoli lavoratori e dei singoli datori di lavoro.
Per spiegare questa efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale si è fatto riferimento
all’istituto civilistico della rappresentanza: nel momento in cui il lavoratore e il datore di lavoro si
iscrivono alle rispettive associazioni sindacali conferirebbero alle medesime il potere di determinare le
condizioni di lavoro in loro nome e per loro conto. In altre parole, le associazioni sindacali, quando stipulano
un contratto collettivo, agirebbero in qualità di rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori che vi sono
iscritti.
Se questo è vero, deve allora concludersi che il contratto collettivo dispiega efficacia unicamente nei
confronti degli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, mentre coloro che non vi sono iscritti restano
terzi rispetto al contratto collettivo. Ed invero, come noto, il contratto non può produrre, di norma, effetti
ultra-partes.
Secondo i principi del diritto comune, quindi, il contratto collettivo avrebbe un’efficacia soggettiva limitata
agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti.
Questo, tuttavia, vale solo in via di prima approssimazione, poiché dottrina e giurisprudenza, ed in certi
casi lo stesso legislatore, hanno cercato di dilatare l’ambito soggettivo di efficacia del contratto collettivo.
Naturalmente il problema non si pone quando il singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore, pur non
iscritti alle associazioni sindacali che hanno stipulato il contratto collettivo, rinviino, nel contratto
individuale di lavoro, alla disciplina contrattuale collettiva.
È, questa, una situazione frequente, perché difficilmente i contratti individuali di lavoro sono costruiti in
modo tale da regolare tutti i possibili profili inerenti al rapporto di lavoro e, conseguentemente, rinviano,
di norma, alla disciplina del contratto collettivo di riferimento.
Questo rinvio, a sua volta, può essere esplicito, allorché il contratto individuale contenga un’espressa
clausola di rinvio; ovvero implicito, quando, pur mancando una clausola espressa nel contratto
individuale, le parti applichino di fatto, nei reciproci rapporti, la disciplina prevista dal contratto collettivo
(rinvio tacito o per comportamento concludente).
La giurisprudenza afferma che, perché si possa parlare di rinvio per comportamento concludente, non è
necessario che le parti applichino nei propri rapporti il contratto collettivo nella sua integralità, essendo
sufficiente che del contratto applichino parti importanti e significative. Se le parti applicano di fatto parti
importanti e significative del contratto collettivo (ad es., la parte relativa alla retribuzione), si può
presumere, secondo la giurisprudenza, che esse vogliano applicare integralmente la disciplina collettiva.
Il rinvio del contratto individuale al contratto collettivo può essere formale, quando il rinvio è alla fonte
di produzione normativa, ossia non ad un determinato contratto collettivo, ma a tutti i contratti collettivi
che si susseguono nel tempo (cosicché le parti rinviano già anche al contenuto dei periodici e successivi
rinnovi del contratto collettivo); ovvero recettizio, quando il rinvio è al contratto collettivo vigente in quel
momento, ed a quello soltanto.
Nel caso del rinvio per comportamento concludente (cd. rinvio implicito), si ritiene che, in linea di massima,
esso sia di tipo recettizio, perché le parti implicitamente esprimono la volontà di vincolarsi a quel testo
contrattuale.
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Una conclusione diversa sarebbe possibile solo se, considerando un arco di tempo molto lungo, ci si
avvedesse che le parti non iscritte alle associazioni sindacali, pur mancando nel loro contratto individuale
di lavoro un rinvio esplicito, hanno sempre applicato di fatto i contratti collettivi che si sono succeduti nel
tempo: probabilmente in una tale situazione si può ricostruire una volontà implicita di rinvio formale, cioè
di vincolarsi stabilmente alla fonte di produzione normativa. Ma è appunto una questione di
interpretazione della volontà delle parti.
Infine, se questo è vero, è da ritenere che datore di lavoro e lavoratore possano accordarsi per
l’applicazione di un contratto collettivo diverso da quello corrispondente all’attività svolta dal primo.
L’art 2070 c.c., secondo cui il datore di lavoro deve applicare il contratto corrispondente alla sua attività
e, se svolge più attività, distinti contratti qualora queste siano autonome fra loro ovvero il contratto
corrispondente alla attività principale, qualora le altre siano accessorie o complementari, dapprima
applicato acriticamente dalla giurisprudenza, è stato poi dalla stessa Corte di Cassazione dichiarato
incompatibile con il principio di libertà sindacale.
L’art. 36 Cost., 1° co., dispone: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia una esistenza libera e
dignitosa”.
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Tuttavia, già dalle prime sentenze degli anni 50, la Corte di cassazione ha inteso questa norma come
precettiva, cioè immediatamente applicabile ai rapporti interprivati. Ne consegue che il giudice potrebbe
sindacare la clausola retributiva contenuta nel contratto individuale di lavoro al fine di verificare se sia
rispettosa del precetto di cui all’art. 36 Cost. e, in caso contrario, dichiararla nulla per contrasto con la
norma imperativa (ex art. 1418 c.c.).
La giurisprudenza utilizza normalmente, come parametro di riferimento della “giusta retribuzione”,
conforme ai criteri di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost., i livelli salariali fissati dai contratti
collettivi. La retribuzione determinata dal contratto collettivo è perciò assistita, secondo l’elaborazione
giurisprudenziale, da una presunzione di conformità all’art. 36 Cost.
La giurisprudenza della Corte di cassazione sottolinea come, nell’applicazione dell’art. 36 Cost., il
riferimento alle clausole retributive del contratto collettivo sia per il giudice puramente orientativo.
Al tempo stesso, però, ritiene che esso debba fornire adeguata motivazione delle ragioni per le quali,
nello stabilire quale sia la retribuzione proporzionata e sufficiente, eventualmente si discosti dalle
previsioni dei contratti collettivi; il che attribuisce a questi ultimi, in definitiva, un certo grado di
vincolatività.
I contratti collettivi nazionali di lavoro non distinguono, nel determinare i livelli retributivi, tra le diverse
aree geografiche del Paese. Un datore di lavoro iscritto all’associazione sindacale firmataria, in qualunque
area geografica si trovi ad operare, dovrà applicarne le previsioni. Ma se il datore di lavoro non è iscritto
e, quindi, in linea teorica, è svincolato dall’osservanza del contratto collettivo (essendovi egli obbligato
solo in via indiretta, in seguito all’applicazione dell’art. 36 Cost.), si può ipotizzare che un giudice ritenga
proporzionata e sufficiente, per certe aree territoriali ad es. del Mezzogiorno, una retribuzione inferiore
a quella prevista dal contratto collettivo nazionale. In effetti, qualche decisione (pur a fronte di altre di
segno contrario) ha affermato che il giudice può tenere conto delle condizioni locali del mercato del
lavoro e del costo della vita.
Occorre ora verificare con quali concrete modalità tale norma viene applicata. Ipotizziamo che un
lavoratore ricorra in giudizio lamentando che la sua retribuzione non sarebbe proporzionata e sufficiente,
con conseguente nullità della clausola retributiva del contratto individuale (in quanto contraria all’art. 36
Cost.). Il giudice verificherà se la retribuzione è conforme a quella prevista dal contratto collettivo e, nel caso
in cui essa sia inferiore ed il giudice ritenga tale scostamento non ragionevole, dichiarerà la nullità della
clausola retributiva del contratto individuale, che sarà sostituita dalla norma legale (art. 36 Cost.), così
come specificata dalla clausola retributiva contenuta nel contratto collettivo.
L’applicazione dell’art. 36 Cost. non determina, dunque, una diretta operatività del contratto collettivo
sul contratto individuale; semplicemente, la norma costituzionale funge da norma imperativa che
(riempita di contenuto attraverso il riferimento orientativo alle tariffe fissate dai contratti collettivi)
provoca la nullità della clausola retributiva del contratto individuale e la sua sostituzione di diritto.
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La giurisprudenza fa spesso riferimento anche all’art. 2099 c.c. per sostenere questa operazione. La parte
dell’art. 2099 c.c. che ci interessa è il secondo comma: “in mancanza di norme corporative o di accordo
tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice tenuto conto del parere delle associazioni sindacali”.
I giudici ricorrono in tal modo ad un’operazione giustamente definita in dottrina barocca: richiamano l’art.
2099, 2° co. c.c., ed equiparano la nullità della clausola retributiva del contratto individuale di lavoro,
contrastante con l’art. 36 Cost., alla mancanza di clausola ex art. 2099 c.c.
Ma questa operazione della giurisprudenza è poco rigorosa, perché equipara il diverso caso di mancanza
della clausola retributiva a quello della sua nullità (x contrasto con l’art. 36 Cost.); essa è inoltre inutile,
essendo sufficiente utilizzare l’art. 36 Cost., una volta che se ne sia affermata la natura di norma
precettiva.
Resta comunque il fatto che attraverso questa importantissima operazione giurisprudenziale, che muove
dall’art. 36 Cost., si realizza, seppure indirettamente, un’estensione dell’efficacia del contratto collettivo
(altrimenti teoricamente applicabile, come si è detto, ai soli iscritti ai sindacati stipulanti).
Questa estensione concerne però solo le clausole retributive (oggetto dell’art. 36 Cost. è, infatti, solo la
retribuzione). Non si può dunque parlare di un’estensione - sia pure indiretta – della disciplina del contratto
collettivo nella sua interezza.
Non solo: sebbene con una tesi giustamente contrastata in dottrina, alcuni giudici ritengono che
unicamente la retribuzione base sia suscettibile di questa estensione, come se le ulteriori voci retributive
non rientrassero nella nozione di retribuzione proporzionata e sufficiente (ma autorevole dottrina
sostiene la tesi contraria a tale orientamento giurisprudenziale).
4.2. LE OPERAZIONI ESTENSIVE DEL LEGISLATORE
Anche il legislatore, pur non avventurandosi lungo la strada dell’attuazione dell’art. 39 Cost., ha cercato,
in alcuni casi, di estendere l’ambito di efficacia degli attuali contratti collettivi oltre il limite degli iscritti
alle associazioni sindacali stipulanti.
L’intervento più importante in questo senso è rappresentato dalla legge delega 741/1959 (legge Vigorelli,
nome del ministro dell’epoca). Attraverso questa legge il Parlamento ha delegato il Governo a fissare
minimi inderogabili di trattamento economico e normativo e, nell’emanazione delle norme, il Governo
avrebbe dovuto uniformarsi “a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, anche
intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente all’entrata in vigore della legge”.
Trattamento economico e normativo è espressione descrittiva, tratta dal linguaggio sindacale, nel quale si
distingue tra retribuzione (trattamento economico) e altre condizioni di lavoro (trattamento normativo);
essa è priva di una valenza tecnico-giuridica propria. Dal punto di vista giuridico, l’unica distinzione
rilevante è quella, già vista, tra clausole normative e clausole obbligatorie.
Dando attuazione alla delega, il Governo ha in effetti emanato i decreti delegati che fissano i minimi di
trattamento economico, recependo quanto previsto dai contratti collettivi. Il Parlamento ha poi reiterato
la delega per 1 anno e mezzo. La legge delega e la legge di proroga di efficacia della delega hanno
rappresentato una tecnica di estensione sostanziale ed indiretta dell’ambito di efficacia soggettiva dei
contratti collettivi (infatti, venendone travasato il contenuto all’interno di un decreto legislativo, essi
assumevano necessariamente efficacia erga omnes). Si è pertanto posto un problema di legittimità
costituzionale, per contrasto della legge delega 741/1959 e della successiva legge 1027/1960, con il
disposto dell’art. 39, 2°, 3°, 4° co., sul presupposto che la legge delega (e la legge di proroga della delega)
avrebbero determinato una sostanziale elusione della 2° parte dell’art. 39 Cost., attribuendo di fatto
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efficacia erga omnes ai contratti collettivi secondo modi e forme diversi da quelli prefigurati dalla
Costituzione.
La Corte costituzionale, investita della questione, ha respinto – con la sentenza 106/1962 – l’eccezione di
illegittimità costituzionale sollevata nei riguardi della legge 741/59, accogliendola invece per l’art. 2 della
legge di proroga del 1960.
La Corte ha elaborato la tesi della cd. costituzionalità provvisoria. Secondo la Consulta, il meccanismo ex
legge 741/59 può considerarsi come un meccanismo provvisorio per raggiungere lo stesso effetto che
conseguirebbe dall’attuazione dell’art. 39 della Cost., nell’attesa che ciò avvenga. Ma se il sistema da
provvisorio tende a diventare permanente allora se ne dovrebbe affermare l’incostituzionalità.
Il ragionamento sotteso a questa pronuncia della Corte costituzionale non è esente da un’imprecisione
logica, perché fa coincidere la “provvisorietà” con l’unicità della delega: non può, in altri termini,
escludersi la provvisorietà solo perché il legislatore con legge successiva ha “prorogato” la delega. In
realtà la Corte ha voluto impedire in radice la reiterazione di un meccanismo che, se lasciato operare nel
tempo, avrebbe effettivamente eluso quanto previsto dall’art. 39 Cost.
Di tutt’altro tipo è la vicenda legislativa relativa all’estensione indiretta dell’efficacia dei contratti collettivi
aziendali, conseguita mediante l’applicazione dell’art. 36 dello Statuto dei lavoratori.
Tale norma prevede che, nei provvedimenti di concessione di benefici finanziari a carico dello Stato e nei
capitolati di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, debba essere inserita una clausola
esplicita che obblighi il beneficiario o l’appaltatore ad applicare trattamenti non inferiori a quelli stabiliti
dai contratti collettivi. Di conseguenza, il beneficiario e l’appaltatore hanno l’onere di applicare “condizioni
non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi” indipendentemente dalla loro iscrizione ai sindacati.
Trattasi in definitiva di un’altra ipotesi di estensione dell’efficacia dei contratti collettivi oltre gli
appartenenti alle associazioni sindacali stipulanti. In questo caso, però, non si pone il problema di
costituzionalità: con riferimento all’art. 36 St. lav. non si può parlare di efficacia obbligatoria del contratto
collettivo, perché l’art. 36 non fonda un obbligo in capo a soggetti non iscritti alle associazioni sindacali di
applicarlo: l’applicazione di trattamenti non inferiori a quelli stabiliti dai contratti collettivi costituisce,
infatti, solamente un onere per l’imprenditore che voglia accedere a questi benefici o aggiudicarsi
l’appalto.
La tecnica di estensione de facto (indiretta) dell’efficacia del contratto collettivo è stata applicata nel
tempo anche in altri casi (es. in determinati periodi, per la fiscalizzazione degli oneri di previdenza sociale
a carico del datore di lavoro).
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L’insufficienza di questa soluzione, fondata sul solo istituto civilistico della rappresentanza, ha portato
prima la dottrina e poi la giurisprudenza a negarne la validità e a cercare di fondare comunque, con diverse
argomentazioni, l’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte del contratto individuale.
In un 1° tempo, un civilista, Francesco Santoro Passarelli ha fatto riferimento alla normativa sul mandato
conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi, ex art. 1723, 2° co., c.c. Questa dottrina si è basata
sull’irrevocabilità del mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi per argomentare
l’inderogabilità del contratto collettivo. Poiché, in base all’art. 1723 c.c., il mandato conferito anche
nell’interesse del mandatario o di terzi “non si estingue per revoca del mandante, salvo che sia
diversamente stabilito o ricorra una giusta causa di revoca”, se ne è inferita la superiorità dell’interesse
collettivo sull’interesse individuale e, dunque, l’inderogabilità de contratto collettivo da parte del
contratto individuale.
Altra dottrina (A. Cessari) ha elaborato la teoria della dismissione dei poteri negoziali: i lavoratori e i
datori di lavoro, nel momento in cui si iscrivono al sindacato, dismetterebbero il proprio potere di
regolazione autonoma del rapporto contrattuale. Ammettendo che ciò sia vero - vale a dire che l’iscrizione
al sindacato possa essere interpretata come dismissione del proprio potere di regolazione autonoma del
rapporto di lavoro - ne conseguirebbe, tuttavia, unicamente l’obbligo dei singoli lavoratori e dei singoli
datori di lavoro di mantenere ferma la disciplina posta a livello collettivo. Nel momento in cui i singoli
stipulassero un contratto individuale difforme da quanto previsto dal contratto collettivo, non si
potrebbe in alcun modo argomentare la nullità delle clausole difformi del contratto individuale; nullità
che potrebbe derivare solo dalla violazione di una norma imperativa. Quand’anche questa costruzione,
così come quella precedente, fosse fondata, ne potrebbe conseguire solo una responsabilità (di tipo
risarcitorio) nei confronti dell’associazione sindacale, per non aver tenuta ferma la disciplina collettiva,
non la nullità delle clausole individuali difformi.
Per poter argomentare l’efficacia reale del contratto collettivo sul contratto individuale (cioè appunto la
nullità delle clausole individuali difformi e l’automatica sostituzione con quelle del contratto collettivo)
occorrerebbe una norma di legge che attribuisse al contratto collettivo la stessa forza della norma
imperativa. Questa era la conclusione cui già perveniva Messina, ragionando, nel periodo pre-corporativo,
unicamente sulla base del diritto comune.
La giurisprudenza ritiene di poter rinvenire questa norma nell’art. 2077 c.c. di cui afferma la perdurante
vigenza. La disposizione, così come tutte le disposizioni del Codice civile sul contratto collettivo, disciplina
il contratto collettivo stipulato nel periodo corporativo, affermando il principio della inderogabilità in peius
del contratto collettivo ad opera del contratto individuale. Secondo la giurisprudenza, la norma è
applicabile (ed addirittura in via diretta e non analogica) anche agli odierni contratti collettivi cd. di diritto
comune, perché l’inderogabilità sarebbe una caratteristica intrinseca ad ogni contratto collettivo, senza
la quale esso perderebbe la sua tipica funzione economico-sociale di tutela del lavoratore - contraente
debole.
La dottrina ha sempre criticato questo orientamento, affermando che la giurisprudenza dà per scontato
quel che invece sarebbe da dimostrare: cioè la coessenzialità del requisito della inderogabilità in peius ad
ogni tipo di contratto collettivo. Si intende, neppure la dottrina dubita dell’inderogabilità del contratto
collettivo da parte del contratto individuale, e la storia dell’inderogabilità è la storia dei tentativi dottrinali
di fondarla.
Per argomentare l’efficacia reale del contratto collettivo, la dottrina attualmente si basa sul disposto
dell’art. 2113 c.c., novellato dalla legge 533/1973, che ha riformato il processo del lavoro e che stabilisce:
“Le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del
Codice di procedura civile, non sono valide”.
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Nel 1973, il legislatore mette dunque sullo stesso piano le disposizioni inderogabili della legge e quelle del
contratto collettivo: dall’art. 2113 c.c. può desumersi che le disposizioni del contratto collettivo non
dichiarate derogabili dalle parti concorrono a definire la disciplina del rapporto individuale di lavoro alla
stessa stregua delle disposizioni inderogabili di legge.
La dottrina ha dunque trovato finalmente nell’art. 2113 c.c. il fondamento dell’inderogabilità in peius (e
della derogabilità in melius) del contratto collettivo, cui la giurisprudenza, arriva per altra via, cioè
applicando l’art. 2077 c.c.
Sintesi: nella soluzione del problema del rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale,
giurisprudenza e dottrina pervengono alla medesima conclusione, pur divergendo per le argomentazioni
utilizzate per affermarla.
Una volta stabilito che, nei rapporti tra contratto collettivo - ovviamente applicabile tra le parti – e
contratto individuale, la regola è quella della derogabilità in melius e della inderogabilità in peius del
contratto collettivo, si pone il problema di stabilire, in concreto, se, in caso di disciplina difforme del
contratto individuale rispetto a quello collettivo, questa sia migliorativa ovvero peggiorativa per il
lavoratore.
Astrattamente, il raffronto potrebbe essere effettuato in 2 diversi modi: si potrebbe procedere ad un
raffronto del contenuto dei 2 contratti nella loro interezza; ovvero procedere ad un confronto analitico
clausola per clausola.
Entrambi i metodi di raffronto sono criticabili. Il 1° criterio, quello del confronto globale, è impraticabile
perché vorrebbe mettere a confronto disposizioni del tutto eterogenee e quindi incommensurabili (ad
es., misura della retribuzione e durata delle ferie).
Il 2° criterio, quello del raffronto clausola per clausola, è, a sua volta, inappagante, poiché cogliendo il fior
da fiore, cioè cumulando il meglio del contratto collettivo con il meglio del contratto individuale, finisce
per costruire un regolamento di interessi non voluto né dai contraenti collettivi né dai contraenti
individuali.
Non a caso è dunque prevalso un criterio intermedio: il raffronto va effettuato istituto per istituto. Non
si procede, dunque, ad un raffronto tra l’intero contenuto dei due contratti, né un raffronto clausola per
clausola, ma per l’insieme omogeneo di clausole che costituiscono “un istituto” (ad es. la malattia). A
cospirare a favore di questa conclusione è anche la frequente presenza, nei contratti collettivi, di clausole
di inscindibilità (le quali dichiarano inscindibili le disposizioni relative a ciascun istituto).
Col che non si sono risolti tutti i problemi perché incerti sono anche i confini di ciò che si deve intendere
per istituto. Prendiamo ad esempio la retribuzione. La struttura della retribuzione, così come viene
determinata dai contratti collettivi, è complessa, essendo essa composta da diversi elementi. Alla
retribuzione base si affiancano una serie di emolumenti e di indennità di natura retributiva, variamente
denominate (ad es. tredicesima mensilità, supplemento per lavoro festivo, indennità di turno,
supplemento per il lavoro straordinario, ecc.). Si pone, pertanto, il problema di stabilire se la retribuzione
nel suo complesso debba considerarsi come un istituto unico oppure se le singole componenti siano esse
stesse da considerarsi come istituti distinti (con la conseguenza che, se si ritenesse, ad esempio, il
compenso per lavoro straordinario come un istituto autonomo, non si potrebbe compensare l’eventuale
minor supplemento per lo straordinario previsto dal contratto individuale con altri elementi retributivi
migliorativi).
La tesi assolutamente prevalente è che la retribuzione nel suo complesso sia un istituto unico: ciò che rileva
è che la retribuzione complessivamente dovuta in base al contratto individuale non sia inferiore alla
retribuzione complessivamente prevista sulla base del contratto collettivo.
65
Il rilievo di tale orientamento è evidente rispetto al problema del cd. assorbimento dei superminimi.
Supponiamo che il contratto collettivo preveda, a fronte dello svolgimento di una determinata mansione,
una retribuzione pari a 100, mentre il contratto individuale preveda una retribuzione pari a 120. La
differenza, pari a 20, costituisce il cd. superminimo, cioè la quota della retribuzione ottenuta in sede di
negoziazione individuale, che si aggiunge a quella minima inderogabile dovuta sulla base del contratto
collettivo.
Se, a seguito del rinnovo del contratto collettivo, la retribuzione ivi prevista viene portata a 110, il
lavoratore conserverà il superminimo di 20 (con retribuzione finale pari a 130) o vi sarà un assorbimento
di tutto o parte del superminimo nella retribuzione base? La giurisprudenza tende a ritenere che la regola
sia quella dell’assorbimento: il lavoratore, a meno che non dimostri (incombendo su di lui l’onere della
prova) che quel superminimo è stato pattuito intuitu personae, per particolari meriti individuali (Cass.
491/1979, Cass. 4064/1989), conserverà così una retribuzione complessiva sempre pari a 120.
Questo orientamento della giurisprudenza è determinato dal fatto che si considera la retribuzione come
un istituto unitario, mettendo a confronto l’intero livello retributivo previsto dal contratto collettivo con
l’intero livello retributivo previsto dal contratto individuale. Se si ritenesse, al contrario, che la
retribuzione-base e il superminimo fossero istituti distinti si dovrebbe arrivare alla soluzione opposta, vale
a dire quella del cumulo e non dell’assorbimento.
6 LA SUCCESSIONE DEI CONTRATTI COLLETTIVI NEL TEMPO E IL PROBLEMA DEI DIRITTI QUESITI.
Il principio della inderogabilità in peius opera solo nei rapporti tra contratto collettivo e contratto
individuale di lavoro; esso non opera nel caso di successione di contratti collettivi nel tempo (un contratto
collettivo successivo può modificare in peius per il lavoratore il trattamento previsto dal precedente
contratto collettivo, senza che possa ostarvi il principio dei cd. diritti acquisiti). Non esiste infatti un diritto
alla intangibilità del regolamento contrattuale.
Questa conclusione risulta chiara se si considera che il contratto collettivo non si “incorpora” nel
contratto individuale. Il contratto collettivo conforma solamente dall’esterno, operando al pari di una
norma imperativa di legge, il contenuto del contratto individuale di lavoro e non si incorpora in esso, come
per un certo tempo erroneamente si era creduto. Di conseguenza è ben possibile che un contratto
collettivo modifichi peggiorativamente, per il futuro, il trattamento previsto da un contratto collettivo
precedente.
Di diritto quesito si può parlare propriamente e correttamente in un altro senso: cioè nel senso che il
contratto collettivo non può disporre dei diritti che sono già maturati e entrati nel patrimonio del lavoratore
sulla base della preesistente regolamentazione contrattuale.
Si ipotizzi che il contratto collettivo preveda una retribuzione pari a 100 e che un successivo contratto
collettivo preveda una retribuzione pari a 80. Si ponga anche l’ipotesi che questo successivo contratto
collettivo preveda la propria efficacia retroattiva (il che è perfettamente ammissibile perché l’art. 11, 2°
co., delle disposizioni preliminari del Codice civile, in base al quale “i contratti collettivi di lavoro possono
stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della
stipulazione”, concerne solo i contratti collettivi corporativi).
Il contratto collettivo peggiorativo con efficacia retroattiva incontra, appunto, il limite dei diritti quesiti
(nel caso di specie, il diritto già maturato ad una retribuzione pari a 100). Infatti, il contratto collettivo
successivo può sempre modificare in peius quello precedente, ma solo per il futuro. Il contratto collettivo
non può invece incidere sul passato o, per meglio dire, sui diritti dei lavoratori che siano già sorti e siano
già entrati nel patrimonio giuridico di questi ultimi.
66
La regola - tradizionale - della indisponibilità da parte del contratto collettivo dei diritti quesiti dei
lavoratori non discende dall’art. 2113 c.c. che si limita a disciplinare gli atti di disposizioni individuali; essa
discende sostanzialmente dall’interpretazione del contenuto mandato sindacale, poiché si ritiene che il
mandato conferito dai lavoratori al sindacato comprenda solo il potere di regolare rapporti di lavoro, non
di disporre dei diritti già entrati a far parte del patrimonio dei singoli. Una disposizione di tali diritti
necessiterebbe di un atto individuale (nei limiti dell’art. 2113 c.c.).
Nulla vieta invece al contratto collettivo di introdurre per il futuro un trattamento peggiore di quello previsto
dal precedente contratto collettivo, poiché in tal caso il lavoratore non è ancora titolare di un diritto (che
in effetti non è ancora maturato), ma di una mera aspettativa alla percezione, in futuro, di un certo
trattamento economico.
Il problema dei diritti quesiti nasce, non soltanto con riguardo ai contratti collettivi peggiorativi con
efficacia retroattiva, ma anche con riguardo ai cd. contratti collettivi transattivi. Poniamo il caso che
sorga una controversia sull’interpretazione di una clausola del contratto collettivo relativa, ad esempio,
ad un elemento della retribuzione. Le parti contrattuali che avevano stipulato il contratto collettivo su cui
è sorta la controversia possono comporla stipulando un nuovo contratto, appunto, transattivo, in cui si
prevede che i lavoratori, per il passato, abbiano diritto a percepire una determinata somma, mentre per
il futuro varrà una nuova disciplina della materia. È evidente che i contratti collettivi transattivi finiscono
per scontrarsi con il principio dei diritti quesiti, per la parte in cui vanno ad incidere su diritti già maturati
ed entrati a far parte del patrimonio dei lavoratori. Ed analogo problema sorge per i contratti collettivi
interpretativi.
7. IL CONTRETTO COLLETTIVO COME CONTRATTO CON FUNZIONE NORMATIVA.
Il contratto collettivo è un atto giuridico del tutto peculiare, che si può definire al tempo stesso contratto
ed atto normativo. Infatti, pur operando sul contratto individuale alla stregua di una norma imperativa di
legge, esso rimane pur sempre un contratto e da questa qualificazione contrattuale discende una serie di
conseguenze.
Talora si discute se esso possa essere considerato una fonte e, in caso positivo, quale tipo di fonte.
Certamente non può essere considerato una fonte di diritto obiettivo, come il contratto collettivo
corporativo, espressamente incluso nell’elenco delle fonti dall’art. 1 delle disposizioni preliminari del
Codice civile (“Sono fonti del diritto: 1. le leggi; 2. i regolamenti; 3. le norme corporative; 4. Gli usi”).
Neppure può essere considerato assurto tra le fonti del diritto in seguito al d.lgs. 40/2006, che ha
introdotto, tra i motivi di ricorso x cassazione, la violazione o la falsa applicazione dei “contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro”, estendendo così il regime già previsto x il pubblico impiego anche al
contratto collettivo nel settore privato. La norma non necessariamente implica che il contratto collettivo
sia considerato come fonte: la funzione nomofilattica della Corte di cassazione si può spiegare con la
necessità di controllare tanto l’interpretazione quanto l’applicazione di tutte le norme giuridiche
provviste di un certo grado di generalità, comprendendo in tale categoria anche le norme poste da fonti
extrastatuali.
Ad esempio, al contratto collettivo si applicano le disposizioni dettate dal c.c. per l’interpretazione dei
contratti (artt. 1362 c.c.). Prevalgono anche nella più moderna teoria della interpretazione del contratto
in generale, i criteri “oggettivi” sull’interpretazione dei contratti. Tali criteri, sono dotati di una grande
capacità di adattamento dell’atto da interpretare, essi costringono l’interprete a restare saldamente
ancorato al voluto delle parti.
Va da sé, che le clausole del contratto collettivo, non sono applicabili al di fuori dell’ambito di efficacia del
contratto collettivo per colmare eventuali lacune di un altro contratto (divieto di analogia esterna).
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Esse, poi, non possono estendersi, entro il campo di applicazione del contratto, al di là dei casi
espressamente previsti o, comunque, da ritenersi espressamente previsti sulla base dei canoni
ermeneutici di cui agli artt 1362 e ss cc (divieto di analogia interna).
Con il d.lgvo. 40/2006, che ha aggiunto l’art. 420 bis al cpc, si è estesa al settore privato una regola già
prevista per il pubblico impiego. In particolare, si è previsto che, quando per la definizione di una
controversia, sia necessario “risolvere in via pregiudiziale la questione concernente l’efficacia, la validità
o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale”, il giudice decide con
sentenza non definitiva la questione ed impartisce i provvedimenti necessari per la prosecuzione della
causa. La sentenza è impugnabile solo con ricorso per cassazione, da proporsi entro 60 gg dalla
comunicazione dell’avviso di deposito della sent del giudice di merito. L’innovazione non ha però avuto
particolare fortuna.
Ancora, poiché il contratto collettivo è un atto di autonomia privata non vale il principio iura novit curia e,
dunque, chi agisce in giudizio sulla base dello stesso ha l’onere di produrlo. Quanto meno egli ha l’onere
di allegarne l’esistenza, potendo poi il giudice svolgere una funzione di supplenza giacchè l’art 425 cpc gli
attribuisce la facoltà di richiedere alle associazioni sindacali il testo del contratto, di categoria o aziendale,
applicabile al rapporto controverso.
8. IL RAPPORTO TRA LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO
Il contratto collettivo è sottordinato rispetto alla legge: le sue clausole non possono derogare a norme
imperative di legge. Più precisamente, il contratto collettivo (come quello individuale) non può derogare
in peius alle norme imperative di legge, mentre può derogarvi in melius.
L’inderogabilità è dunque relativa, non assoluta, essendo vietate solo le deroghe peggiorative per il
lavoratore. La regola dell’inderogabilità unilaterale risponde alla stessa natura del diritto del lavoro, che
nasce come disciplina protettiva dei lavoratori. Una disposizione che deroghi in melius ad una norma
imperativa di legge non si pone perciò in contrasto con quest’ultima, giacché non fa altro che sviluppare
il programma protettivo del lavoratore contenuto nelle stesse disposizioni di legge.
Se questa è la regola generale che governa i rapporti tra legge ed autonomia collettiva, va tuttavia
osservato che essa incontra alcune eccezioni.
In certi casi, infatti, la legge ha consentito ai contratti collettivi di disporre anche in peius rispetto alla stessa
(v. da ultimo art. 8, l. 148/2011); in altri casi la legge ha previsto la sua inderogabilità assoluta, con
conseguente nullità delle clausole dei contratti collettivi derogative sia in peius sia in melius (come è
avvenuto, ad es., per quelle disposizioni che hanno posto tetti massimi alla dinamica dell’indennità di
contingenza, con il fine di contenere l’andamento del costo del lavoro e, attraverso di esso, dell’inflazione.
Negli anni 90 del secolo scorso il legislatore ha spesso consentito in ipotesi specifiche (v. ad es. art. 4, co.
11°, l. 223/1991), ai contratti collettivi di derogare a norme imperative di legge, flessibilizzandone il contenuto
(si è aperta in quel periodo la stagione della flessibilità contrattata o controllata dal sindacato); con l’art.
8, della l. 148/2011 si è attribuito ai contrati collettivi, però solo aziendali e territoriali, il potere di derogare
non solo alle disposizioni contenute nei contratti nazionali ma anche alle disposizioni imperative di legge
in una ampia serie di materie; disposizioni che così divengono semi - imperative.
A questi contratti è stata attribuita anche efficacia erga omes. L’ampiezza delle materie nell’ambito delle
quali la disciplina è derogabile dai contratti collettivi indica una chiara tendenza alla ritrazione delle norme
inderogabili, sul presupposto dell’esistenza di un doppio livello di imperatività: quello irrinunciabile,
segnato dalle norme costituzionali comunitarie ed internazionali, e quello derivante dalla legge ordinaria
su cui il legislatore può sempre incidere. E in questo caso egli l’ha fatto indirettamente, accordando tale
potere ai contratti collettivi.
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Nel caso di norma di legge che fissi tetti massimi alla contrattazione collettiva sancendo la propria
assoluta inderogabilità, si pone un problema di legittimità costituzionale, giacché il principio di libertà
sindacale, di cui al 1° co. dell’art. 39 Cost., implica, come si è visto, anche la libertà di azione sindacale, che
a sua volta implica la libertà di contrattazione.
In effetti, con riferimento alle norme introdotte in materia di indennità di contingenza, tra la fine degli
anni 70 e la metà degli anni 80, la Corte costituzionale è stata investita a più riprese della questione.
In un 1° momento, la Corte costituzionale (Corte cost. n. 141/1980) ha “eluso” il problema, limitandosi ad
osservare che, fino a quando l’art. 39 Cost. non fosse attuato, non si porrebbe nemmeno il problema del
contrasto tra attività normativa del Parlamento e attività normativa del sindacato (ma l’argomentazione
non convince, perché l’ipotizzato contrasto non riguardava la seconda parte dell’art. 39 Cost., bensì il
primo comma, che è norma immediatamente precettiva).
In una 2° sentenza (Corte cost. 34/1985) la Corte ha avuto modo di effettuare un’ulteriore precisazione:
dall’art. 39 Cost. non deriva una riserva di competenza normativa a favore delle associazioni sindacali in
materia di lavoro e, là dove interessi generali debbano essere perseguiti, il legislatore può sempre
intervenire, anche limitando l’azione contrattuale delle associazioni sindacali. È stato però lasciato in
ombra il problema dei limiti all’intervento legislativo.
Solo successivamente, nella sentenza 697/1988, la giurisprudenza ha cominciato ad affrontare anche
questo profilo, per trattarne infine in modo consapevole nella sentenza Corte cost. 124/1991 (nonostante
che la questione di legittimità costituzionale fosse stata in questo caso sollevata in relazione all’art. 36
Cost.). Sebbene riferita alle limitazioni legali del meccanismo d’indicizzazione dei salari, contenuto nel d.l.
12/1977, la decisione contiene indicazioni che vanno ben oltre la specifica questione esaminata, in
particolare il monito che interventi coercitivi da parte della legge, sotto forma di limiti massimi alla
contrattazione collettiva, sono ammissibili solo per ragioni eccezionali, o in situazioni di emergenza, e di
conseguenza devono essere di natura transitoria.
9. GLI ACCORDI DI CONCERTAZIONE ED IL CD. DIALOGO SOCIALE.
La cd. politica concertativa ha interessato il nostro diritto sindacale dagli anni 80 in poi.
Inizialmente, nell’ambito della politica dei redditi, si sono stipulati accordi tra le cd. parti sociali (cioè le
associazioni sindacali dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori) da una parte, ed il Governo, dall’altra: si
è trattato di accordi trilaterali, per i quali viene utilizzato il nome di protocolli, generalmente finalizzati,
alla definizione delle politiche dei redditi.
Il 1°, più significativo, accordo di concertazione è quello del 1983. Anche il famoso Protocollo del 1993 è un
accordo di concertazione, perché contiene, non solo una parte relativa alle RSU e agli assetti della
contrattazione collettiva, ma anche una parte che specifica gli impegni, assunti dal Governo, in materia di
politica fiscale, di politica tariffaria, etc.
Nel 1998 con il cd. Patto di Natale addirittura il metodo concertativo viene delineato come strutturale: vi
si prevede infatti che, per le materie di politica sociale che comportino un impegno a carico del bilancio
dello Stato, il Governo proceda ad un confronto preventivo con le parti sociali, stabilendo anche il termine
per la formulazione di valutazioni ed eventuali proposte collettive. Sostanzialmente tutte le decisioni che
attengono alla politica sociale dovrebbero, in base all’accordo, passare attraverso questo tavolo
concertativo.
Il Libro bianco sul mercato del lavoro del 2001 (che contiene le linee di politica del lavoro del governo
allora in carica) adotta, nei confronti della concertazione, un atteggiamento ambiguo.
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Ciò ovviamente non significa che gli accordi di concertazione, pur non ricadendo sotto la protezione
dell’art. 39 Cost., contrastino con il quadro costituzionale. Invero, taluno si è chiesto se da questi accordi
di concertazione non nasca una limitazione del potere legislativo.
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Ma l’impegno che il Governo assume è un impegno di carattere politico, a presentare disegni di legge e
ad adoperarsi affinché il Parlamento approvi provvedimenti legislativi che siano coerenti con gli accordi
presi, rimanendo in ogni caso indiscussa la sovranità del Parlamento.
Al di là della loro qualificazione rispetto al quadro costituzionale, gli accordi di concertazione pongono
problemi più specifici, inerenti al loro contenuto. Ad esempio, il protocollo del 1993 ha contenuti complessi:
v’è una parte che riguarda gli impegni del Governo e v’è un’altra parte che riguarda i profili più
squisitamente contrattuali (cioè la regolazione degli assetti che deve assumere la contrattazione
collettiva, articolata su due livelli, nazionale e aziendale).
Ci si chiede quale sia la relazione tra le diverse parti di cui si compongono questi protocolli e se l’eventuale
inadempimento, da parte del Governo, degli impegni assunti in materia di politica fiscale e di politica
sociale possa riverberarsi sulla validità della parte inerente ai profili contrattuali.
Ci si chiede insomma se le due parti siano legate da un nesso funzionale, tale per cui l’inadempimento di
una parte, quella politica, possa ripercuotersi sulla parte propriamente contrattuale.
La questione è per ora solo teorica. Secondo dottrina autorevole (G. Giugni) sarebbe da preferire la tesi
negativa.
71
In 1° luogo, vi è da superare il problema della sua applicabilità al contratto collettivo post corporativo. In
2° luogo, l’art. 2077 c.c. detta criteri per risolvere il problema del rapporto tra contratto collettivo e
contratto individuale: nel nostro caso, invece, la questione è ben diversa, concernendo il rapporto tra due
contratti pur sempre collettivi, benché stipulati a diverso livello (nazionale e aziendale).
L’orientamento si è formato negli anni 60 quando i contratti aziendali erano stipulati dalle commissioni
interne, forme di rappresentanza di tutti i lavoratori nell’azienda, elette da tutti i lavoratori, iscritti o non
iscritti al sindacato. Gli accordi interconfederali disciplinavano la costituzione ed il funzionamento delle
commissioni interne, escludendone però proprio la competenza contrattuale (v. accordi interconfederali
dell’1953 e 1966). La combinazione di questi 2 fattori (da un lato, le commissioni interne non erano
considerate organismi “sindacali” in senso proprio; dall’altro, gli accordi che le istituivano ne escludevano
la competenza contrattuale) ha fatto sì che la giurisprudenza negasse la qualificazione di contratto
collettivo agli accordi stipulati dalle commissioni interne, ritenendoli una somma di contratti individuali o
qualificandoli come “stipulazioni plurisoggettive”.
Considerando i contratti stipulati dalle commissioni interne come una somma di contratti individuali, la
giurisprudenza poteva applicare l’art. 2077 c.c., arrivando a sostenere che il contratto aziendale stipulato
dalle commissioni interne non potesse derogare in peius al contratto collettivo nazionale.
Non appena però la giurisprudenza si rese conto – in concomitanza con l’avvento delle RSA – che il
contratto aziendale era anch’esso – al pari di quello nazionale – un contratto collettivo (sia pure di ambito
di applicazione più limitato, riguardando solo i lavoratori di una determinata impresa), il ricorso all’art.
2077 c.c. si rivelò impraticabile.
Si andò pertanto alla ricerca di altri criteri.
In un primo tempo, la giurisprudenza ha utilizzato il criterio gerarchico, istituendo una sorta di gerarchia
nei rapporti tra i contratti collettivi. L’utilizzazione del criterio gerarchico ha, tuttavia, condotto la
giurisprudenza della Corte di cassazione ad adottare nello stesso anno, il 1978, due decisioni
completamente opposte. In una prima decisione, la Corte ritenne il contratto nazionale prevalente su
quello aziendale (Cass. 233/1978); nella seconda decisione, ritenne che il contratto aziendale dovesse
prevalere su quello nazionale (Cass. 2018/1978).
La 1° sentenza affermò l’esistenza di un mandato discendente, dal livello superiore della associazione
sindacale al livello inferiore, con conseguente prevalenza del contratto nazionale.
Nella seconda sentenza la Corte ricostruì invece i rapporti all’interno dell’associazione sindacale in chiave
di mandato ascendente, affermando che la contrattazione nazionale si svolgerebbe in forza di un
mandato conferito dalle strutture di livello inferiore; mandato, questo, che dovrebbe intendersi revocato
per effetto della stipulazione, a livello decentrato, di un contratto collettivo di contenuto difforme
rispetto a quello nazionale.
L’essere la giurisprudenza giunta a conclusioni opposte utilizzando il criterio gerarchico è chiaro indice
della sua inconsistenza. Così si spiega che i giudici abbiano dovuto ricercare altri e più persuasivi criteri,
finendo per attingere, come si vedrà, agli stessi criteri che generalmente si utilizzano per risolvere le
antinomie tra le norme di legge.
In primo luogo, il criterio temporale; in secondo luogo, il criterio di specialità.
Secondo un’impostazione, nella selezione della disciplina contrattuale collettiva applicabile ad un
rapporto di lavoro deve prevalere la fonte posteriore, a nulla rilevando il giudizio circa il suo maggiore o
minore favore per il lavoratore. Se è successivo il contratto nazionale, prevarrà il contratto nazionale; se
è successivo il contratto aziendale, si applicherà siffatto contratto.
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Per la verità, anche questo criterio si presta, di per sé, a critiche. Infatti, solo se il contratto aziendale
succede ad un contratto nazionale è possibile supporre una volontà dei contraenti a livello aziendale di
modificare la disciplina del contratto nazionale. Altra cosa è, invece, quando un contratto nazionale
difforme succede ad un contratto aziendale, giacché appare dubbio affermare l’esistenza di una volontà
modificativa delle disposizioni del contratto aziendale da parte dei contraenti nazionali.
Il fondamento della prevalenza della fonte normativa successiva nel tempo riposa proprio sulla volontà
del soggetto, che ha prodotto l’atto normativo successivo, di modificare o sostituire la disciplina
precedente. Ma assai difficilmente i contraenti a livello nazionale conosceranno quella particolare
regolamentazione di livello aziendale, e perciò non si potrà ravvisare una loro volontà modificativa. Per
tali ragioni, in dottrina si è osservato che il principio della posteriorità nel tempo risulta inapplicabile
quando non vi sia identità tra i soggetti stipulanti.
In dottrina, con ormai significative adesioni da parte della giurisprudenza (Cass. 4517/1986), è stata
proposta l’utilizzazione del criterio della specialità (o di “specializzazione” o di “prevalenza della fonte
più vicina al rapporto da regolare”).
In tal modo si è affermata la prevalenza della disciplina speciale rispetto alla disciplina generale e, di
conseguenza, la prevalenza in ogni caso del contratto aziendale, sia esso migliorativo o peggiorativo,
quale fonte di disciplina più vicina ai rapporti di lavoro e agli interessi che si intendono regolare.
L’importante conclusione attinta dall’evoluzione giurisprudenziale – e ciò, sia che si utilizzi il criterio della
posteriorità nel tempo, sia che si utilizzi il criterio di specialità – è che il contratto aziendale può derogare
anche in peius al contratto collettivo nazionale. Viene dunque smentita l’esistenza di un supposto
principio di favore, secondo cui - come riteneva erroneamente la giurisprudenza negli anni ’60 del secolo
scorso - dovrebbe sempre prevalere la disciplina più favorevole per il lavoratore.
Un siffatto principio di favor in realtà non esiste, se non nel caso dei rapporti tra contratto collettivo e
contratto individuale.
11. IL RILEIVO DELLE REGOLE NEGOZIALI IN ORDINE AL RIPARTO DI COMPETENZE. L’INCIDENZA
DELL’ART 8 DELLA L. N. 148 DEL 2011.
Per verità, il problema del conflitto tra contratti collettivi di diverso livello è sembrato ridimensionarsi,
soprattutto dopo la stipulazione del Protocollo del 1993. Tale accordo ha infatti inteso riordinare i rapporti
tra i diversi livelli della contrattazione collettiva, preveden do che il contratto aziendale non potesse
riguardare la stessa materia e gli stessi istituti già regolati dal contratto nazionale. In particolare, per
quanto riguarda la retribuzione, si prevedeva che il contratto aziendale disciplinasse (solo) elementi
retributivi legati alla redditività ed alla produttività dell’impresa.
L’accordo quadro del 2009 e il successivo accordo del 15 aprile 2009 a loro volta prevedono che “la
contrattazione di secondo livello si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto
collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti che non siano già
stati negoziati in altri livelli di contrattazione, secondo il principio del ne bis in idem”.
In più, gli accordi del 2009 hanno previsto che i contratti nazionali di categoria consentano ai contratti
aziendali di derogare anche in peius per i lavoratori alle proprie previsioni. E ciò soprattutto in presenza
di situazioni di crisi aziendali. L’accordo interconfederale (unitario) del 28 giugno 2011, a sua volta,
conferma che la contrattazione aziendale può svolgersi sulle materie delegate dal contratto nazionale e
che questo può consentire al primo di derogare in peius alle sue previsioni.
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Vi è, dunque, la tendenza ad un riordino del sistema di contrattazione collettiva, che potrebbe prevenire
la sovrapposizione di discipline confliggenti, eliminando alla radice il problema del potenziale conflitto tra
contratti collettivi.
A ben guardare, però, nemmeno in tal modo il problema può dirsi definitivamente, da un punto di vista
giuridico, risolto.
Nel settore del lavoro privato, le regole relative alla ripartizione delle competenze tra contratto nazionale
e contratto aziendale sono di carattere pattizio. La loro violazione non potrebbe, dunque, mai
determinare la nullità delle pattuizioni difformi, ai sensi dell’art. 1418 c.c., non possedendo né il Protocollo
del 1993, prima, né gli accordi del 2009 e del 2011, oggi, il carattere e la forza della norma imperativa di
legge.
E ciò a differenza di quanto avviene nel pubblico impiego ove, essendo il riparto di competenze tra il livello
nazionale e quello decentrato frutto di una norma imperativa di legge, il contratto aziendale che violasse
tale riparto è nullo (v. art. 40, co. 3-quinquies d.lgs. 165/2001).
Nella materia ha notevolmente inciso però, non si sa in modo quanto consapevole, l’art 8 del d.l. 138,
convertito dalla l. n. 148 del 2011, che, oltre a sancire l’efficacia generale, ricorrendo le condizioni, dei
contratti collettivi aziendali e territoriali (c.d. contratti di prossimità), ha consentito a questi contratti di
derogare, nella disciplina dell’ampio novero di materie indicate, oltre che alle norme imperative di legge,
anche alle disposizioni dei contratti collettivi nazionali, a prescindere dalle regole poste autonomamente
dalla contrattazione collettiva in ordine alle competenze contrattuali. In sostanza, nelle materie indicate,
è sancita la prevalenza dei contratti cd. Di prossimità, con l’intento di spostare il baricentro del sistema di
contrattazione collettiva, verso la contrattazione decentrata.
74
Più complessa è invece la questione nel caso di lavoratori non iscritti al sindacato stipulante. Si potrebbe
dire, in via di prima approssimazione, che il contratto collettivo aziendale non li concerna, essendo stato
sottoscritto da un soggetto collettivo che non li rappresenta. Sennonché, questa conclusione deve essere
in parte corretta. Occorrerà, infatti, verificare se nel contratto individuale di lavoro vi è una clausola di
rinvio; essa potrebbe contenere anche un rinvio formale alla contrattazione collettiva e dunque a tutti i
contratti collettivi che si succedono nel tempo, siano essi nazionali o aziendali, migliorativi o peggiorativi.
Il meccanismo del rinvio, peraltro, può ridurre il problema del dissenso, ma non eliminarlo del tutto.
Infatti, il rinvio, anche formale e non recettizio, a nulla rileva in caso di rottura dell’unità contrattuale con
la stipulazione di accordi cd. separati. Si ipotizzi che il contratto aziendale peggiorativo non sia stipulato
da tutti i sindacati stipulanti il contratto nazionale.
In questo caso, è evidente che ai lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti il contratto aziendale lo stesso
andrà applicato; ma è altrettanto evidente che, nei confronti dei lavoratori iscritti agli altri sindacati
stipulanti il contratto nazionale, non si realizza alcuna sostituzione della disciplina prevista da
quest’ultimo con quella prevista dal contratto aziendale (che supporrebbe identità di parti stipulanti).
Nel caso di rottura dell’unità sindacale nella contrattazione collettiva, non può funzionare neppure il
meccanismo del rinvio del contratto individuale al contratto collettivo quale veicolo di estensione
dell’efficacia ai non iscritti ad alcun sindacato: infatti sarebbero contemporaneamente presenti ed
operanti due differenti regolamentazioni collettive (quella del contratto aziendale e quella del contratto
nazionale che, per non esservi identità di soggetti, non è stata sostituita dalla prima) . L’art. 8 del d. l.
138/2011, convertito nella l. 148/2011, ha ora previsto la possibilità di attribuire efficacia erga omnes ai
contratti collettivi aziendali stipulati dai sindacati “comparativamente più rappresentativi” ovvero dalle
loro rappresentanze presenti in azienda, a condizione di essere sottoscritti “sulla base di un criterio
maggioritario relativo alle predette rappresentanze”.
Sembra che il legislatore richiami i criteri previsti per l’acquisizione di efficacia erga omnes dall’accordo
interconfederale del 2011. Al di là dei problemi interpretativi che la disposizione suscita, essa ha evocato
dubbi di legittimità costituzionale, specie in relazione all’art. 39, 4° co., Cost. E ciò anche se, occorre
rammentarlo, si dubita che il meccanismo configurato dal costituente per l’attribuzione di efficacia erga
omnes concerna anche il contratto collettivo aziendale e non solo quello (nazionale) di categoria.
13. I CONTRATTI COLLETTIVI CD. GESTIONALI
Una raffinata dottrina ha evidenziato che non tutti i contratti collettivi aziendali porrebbero il problema
di ambito soggettivo di efficacia prima evidenziato (e quindi di applicazione ai lavoratori non iscritti): in
particolare esso non si pone per i contratti collettivi gestionali o di procedimentalizzazione dei poteri
imprenditoriali.
Il datore di lavoro è titolare di una serie di prerogative e di poteri unilaterali , sia come creditore delle
prestazioni lavorative, sia come titolare dell’organizzazione in cui la prestazione si inserisce. Il datore di
lavoro, ad es., in caso di crisi di mercato o di ristrutturazione dell’impresa, può sospendere i lavoratori o
ridurre unilateralmente l’orario di lavoro, richiedendo l’intervento della Cassa integrazione guadagni, che
eroga il trattamento di integrazione salariale in sostituzione della retribuzione perduta.
Si ravvisa comunemente nella normativa sulla cassa integrazione una deroga al diritto comune secondo
cui, in caso di modificazione dell’oggetto del contratto (il quantum della prestazione dovuta), sarebbe
necessario un accordo tra le parti stesse. Più precisamente, si ravvisa nella normativa sulla cassa
integrazione - a condizione che l’intervento venga disposto - l’attribuzione di un potere unilaterale, in
capo al datore di lavoro, di sospendere dal lavoro i lavoratori ovvero ridurre l’orario di lavoro, riducendo
proporzionalmente la retribuzione.
75
La legge però prevede che, prima di accedere alla Cassa integrazione, il datore di lavoro informi e consulti
le associazioni sindacali (art. 5, legge 164/1975). Nell’ambito di questa procedura di informazione e
consultazione può essere stipulato un accordo (ad es. sulla durata dell’intervento della Cassa
integrazione) che limita l’esercizio del potere unilaterale del datore di lavoro.
Per questo contratto cd. gestionale un problema di ambito soggettivo di efficacia neppure si pone: esso,
infatti, non fa che limitare un potere comunque riconosciuto dalla legge (o talora dal contratto collettivo)
al datore di lavoro, potere che si esercita erga omnes. Il contratto collettivo che limita siffatto potere
partecipa del carattere “generalizzato” del medesimo.
14. PARTE OBBLIGATORIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO. IN PARTICOLARE, LE CLAUSOLE DI TREGUA
SINDACALE
Venendo alle clausole obbligatorie del contratto collettivo, vale a dire le clausole che regolano i rapporti
reciproci tra i soggetti sindacali stipulanti e non conformano il contenuto del contratto individuale di
lavoro, possono essere prese in considerazione le cd. clausole di tregua sindacale.
Con esse, l’associazione sindacale assume l’obbligo di non proclamare o sostenere scioperi diretti ad
ottenere una modifica di quanto previsto dal contratto collettivo, fino al termine di vigenza dello stesso.
I contratti collettivi hanno normalmente un arco temporale di efficacia limitato: in proposito, l’accordo
quadro del 2009 prevede, ad esempio, che i contratti collettivi nazionali di categoria abbaiano durata
triennale, tanto per la parte economica che per quella normativa.
Nell’ordinamento italiano si tende ad escludere, che dalla semplice stipulazione del contratto collettivo
discenda, in capo ai sindacati stipulanti, un obbligo di tregua sindacale. Affinché siffatto obbligo di tregua
sia configurabile, occorrerebbe una clausola esplicita.
La prima questione che si pone è di stabilire se le clausole esplicite di tregua sindacale vincolino anche i
singoli a non scioperare, esplicando in tal modo efficacia normativa.
Secondo l’orientamento tradizionale, tali clausole hanno natura esclusivamente obbligatoria, vincolando
unicamente le associazioni sindacali a non sostenere e a non proclamare scioperi per la durata e l’oggetto
contrattualmente previsti. Se avessero natura normativa, si osserva, dovrebbero considerarsi nulle per
contrarietà con l’art. 40 cost.
Sennonché, la Cassazione, ha ammesso che queste ultime possono assumere una valenza normativa,
vincolando perciò, anche i singoli a non scioperare, senza per questo scontrarsi con l’art. 40 cost. La Cass.
ha argomentato tale conclusione distinguendo tra rinuncia al diritto di sciopero e regolamentazione
dell’esercizio del diritto, affermando che, con la clausola di tregua sindacale, più che rinunciare al
medesimo, si regolamenta, per un arco di tempo e per un oggetto definiti, l’esercizio del diritto.
La qualificazione della clausola di tregua come obbligatoria o normativa si risolve essenzialmente in un
problema di interpretazione della volontà contrattuale. Nella nostra esperienza contrattuale, le clausole di
tregua hanno assunto generalmente natura obbligatoria, ponendo obblighi unicamente in capo alle
associazioni sindacali.
Nel caso di efficacia meramente obbligatoria, non si pone alcun problema di contrasto con l’art. 40 cost.,
rimanendo intatto il diritto dei singoli lavoratori a scioperare. Questi ultimi non incorrono in alcuna
responsabilità x inadempimento nei confronti del datore di lavoro; essi incorrono in sanzioni disciplinari
interne all’associazione sindacale cui aderiscono, in base allo statuto dell’associazione medesima.
Se, al contrario, fosse il sindacato a violare l’obbligazione di tregua, in astratto ben potrebbe il datore di
lavoro agire in giudizio, per ottenere, quantomeno, il risarcimento del danno per inadempimento.
76
Resta tuttavia che i contratti collettivi hanno normalmente un termine di durata e che i contraenti possono
pure prevedere l’ultrattività. Regole generali sono state poste dal Protocollo del 1993 e dagli accordi
interconfederali del 2009. Mentre il Protocollo del 1993 prevedeva, in riferimento al contratto nazionale
di categoria, una durata di 4 anni per la parte normativa e 2 anni per la parte economica, l’accordo quadro
del 2009 e l’accordo attuativo del 15 aprile 2009 hanno previsto, per i contratti collettivi nazionali di
categoria, una durata triennale tanto per la parte economica quanto per quella normativa. Analoga durata
triennale è prevista per i contratti aziendali.
I contratti nazionali di categoria, poi, sono soliti prevedere una clausola di ultrattività. Si ritiene che, in
presenza di tale clausola, il contratto divenga a tempo indeterminato, con la conseguenza che è
consentito il recesso unilaterale con preavviso.
In virtù del principio di libertà di forma si ritiene che il contratto collettivo non debba essere stipulato in
forma scritta.
Proprio per questo i cd. usi aziendali, vale a dire i comportamenti di fatto tenuti dal datore di lavoro con
apprezzabile continuità o reiterazione nei confronti della generalità dei propri dipendenti o di categorie
di essi, vanno ad integrare il contenuto del contratto collettivo aziendale o costituiscono essi stessi un
contratto collettivo.
La 2° obiezione attiene ad un preteso contrasto con l'art. 39 Cost. (nel suo 10 co). La questione centrale è
se anche i contratti collettivi aziendali (e quelli "territoriali") rientrino nello specchio normativo del 40 co.
dell'art. 39 Cost.
Vi è un'opinione dottrinale accreditata per la quale esso concernerebbe solo il contratto nazionale di
categoria, con la conseguenza che, per il nuovo intervento legislativo, non vi sarebbero rischi di collisione
con la norma costituzionale.
Per comprendere appieno la questione della compatibilità dell'art. 8 con l'art. 39 Cost. va anche dato atto
che vi è stato chi ha fornito una lettura attualizzata dell'art. 39 Cost., in base alla quale ciò che la norma
impone al legislatore ordinario non è tanto la registrazione dei sindacati e lo specifico procedimento
descritto: il "nocciolo duro" dell'art. 39 consisterebbe nella necessità di rispetto del principio democratico,
vale a dire del principio maggioritario nella stipulazione del contratto collettivo, rilevabile attraverso la
misurazione del seguito effettivo dei sindacati.
La norma costituzionale è lì, con il suo sovraccarico regolatorio e, probabilmente, la sua vetustà, mentre
il diritto sindacale autonomo ed eteronomo avanza all'insegna della precarietà.
Ad oggi, dopo l'entrata in vigore del Jobs Act, è addirittura controverso se l'art. 8 della l. 148/2011, mai
espressamente abrogato, possa, ed in quale misura, ritenersi ancora in vigore. E ciò perché il legislatore ha
riformulato la disciplina degli istituti prima affidati alla contrattazione di prossimità, rinviando per certi
aspetti ai contratti collettivi, di qualsiasi livello, stipulati dai sindacati comparativamente più
rappresentativi.
Esempio, si pensi all'art. 19 del d.lgvo 81/2015, che, nel fissare in 36 mesi, poi portati a 24, la durata massima
dei rapporti a termine tra lo stesso datore e lo stesso lavoratore, fa salve "le diverse disposizioni dei
contratti collettivi". Si sono già profilate diverse opinioni: dalla abrogazione tacita, poiché la riforma del
2015 prevede espressamente e puntualmente nuovi spazi di modificazione della disciplina legislativa da
parte della contrattazione collettiva; alla sua sopravvivenza con un ormai limitato ambito di applicazione
(esso resterebbe in vigore negli ambiti materiali previsti nel caso in cui manchino nella nuova disciplina
legislativa espresse deleghe alla contrattazione collettiva); al suo sostanziale superamento (che è
affermazione diversa da quella della sua abrogazione tacita),
Anche solo l'insieme di tali questioni continua ad alimentare il dibattito sull'opportunità di una legge che
regoli la rappresentanza sindacale ai fini della contrattazione collettiva (e della fruizione dei diritti
sindacali).
Si fronteggiano proposte di diversa portata: da chi vorrebbe adottare una legge organica di attuazione
dell'art. 39 Cost., a chi vorrebbe regolare solo la contrattazione aziendale, a chi, infine, a dispetto dei loro
limiti strutturali già evidenziati, vorrebbe attendere gli (auspicabili) esiti di stabilizzazione derivanti dagli
accordi interconfederali degli ultimi anni. Ci si domanda se essi saranno in grado di ricreare la precondizione
che ha consentito ai gangli vitali del nostro diritto sindacale, in particolare il contratto collettivo, di
funzionare: la sostanziale unità di azione degli attori del sistema di relazioni sindacali.
78
Originariamente la disciplina dei rapporti di pubblico impiego era determinata unicamente dalla legge,
ciò in seguito all’art. 97 Cost., - in base al quale i pubblici sono organizzati secondo disposizioni di legge,
in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione - Kevin riteneva
compresa anche la disciplina dei rapporti di lavoro con il personale.
La prima legge che ha consacrato il metodo contrattuale nel pubblico impiego è stata la cd. legge quadro
93/1983. Successivamente con la cd. privatizzazione o, meglio, contrattualizzazione del rapporto del
pubblico impiego, avvenuta con il d.lgs. 29 del 1993, il legislatore ha compiutamente regolato i diversi
aspetti della contrattazione collettiva: i soggetti, la procedura, la struttura e l’efficacia del contratto
collettivo.
La regolamentazione della contrattazione collettiva nel settore del pubblico impiego è stata poi trasfusa
nel cd. Testo Unico sul pubblico impiego, approvato con il d. lgs. n. 165/2001 (v. artt. 40 - 50).
La recente legge delega 15/2009 ed il successivo d. lgs. 150/2009, (cd. decreto Brunetta) hanno
ulteriormente affinato la disciplina del T.U., in punto di contrattazione collettiva, anche se, come qualcuno
ha fatto notare in dottrina, con tale ultima riforma risulta fortemente attenuato il principio di
contrattualizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego.
Il T.U. del 2001 è stato in seguito ulteriormente modificato dal d.l. 95/2012, e dal d.l. 90/2014, convertito
nella l. 114/2014, recante "Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari", che, disciplinando tra l'altro la mobilità e il trasferimento fuori sede del
pubblico dipendente, prevede la nullità delle clausole dei contratti collettivi in contrasto con le
disposizioni di legge.
La legge delega 124/2015, (recante "Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche"), cd. riforma Madia, attuata, pur confermando nella sostanza l'assetto
previgente, appare restituire alla negoziazione collettiva uno spazio più ampio, modificando nuovamente
l'art. 2, 2 0 co., T.U., il quale ora dispone che "eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che
introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie
affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell'art. 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal
presente decreto, da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono
ulteriormente applicabili".
2. I LIVELLI, I SOGGETTI E I PROCEDIMENTI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA.
Quanto alla struttura della contrattazione collettiva, nel settore pubblico opera lo stesso modello del
settore privato. La contrattazione è su 2 livelli: nazionale e decentrato.
Il rapporto tra i diversi livelli di contrattazione e la ripartizione delle competenze sono però disciplinate
dal legislatore, che attribuisce al livello di contrattazione decentrato solo le materie ad esso demandate
dal contratto nazionale (v. ora art. 40, co. 3-quinquies del d. lgs. 165/2001).
Eventuali clausole del contratto decentrato che disciplinano materie fuori dalla competenza di questo
livello di contrattazione sono colpite da nullità (v. il già citato art. 40, co. 3-quinquies del d. lgs. n. 165/2001).
Si può sostenere che la riforma Brunetta abbia ristretto, e non poco, il campo di intervento della
contrattazione collettiva, peraltro anche su materie e istituti costituenti oggetto del rapporto di lavoro.
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Ad esempio, il nuovo art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 dispone che, in materia di sanzioni disciplinari e
valutazione delle prestazioni ai fini della determinazione del trattamento economico, la contrattazione
collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge.
La legge disciplina anche i soggetti della contrattazione collettiva nel pubblico impiego.
Sul fronte della pubblica amministrazione, il d.lgs. 29/1993 ha istituito un’agenzia, l’ARAN, persona giuridica
di diritto pubblico dotata di rappresentanza legale della medesima nella contrattazione collettiva
nazionale (di comparto). L’ARAN può altresì svolgere consulenza e assistenza alla singola pubblica
amministrazione che stipula un contratto collettivo a livello decentrato (v. art. 46 d.lgs. n. 165/2001).
Sul fronte sindacale alla contrattazione collettiva possono accedere solo i sindacati che abbiano nel
comparto o nell’area, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la media tra il dato
associativo e il dato elettorale.
Il dato associativo è espresso dalle procedure delle deroghe per il versamento dei contributi sindacali,
rispetto al totale delle deroghe rilasciate nell’ambito considerato; il dato elettorale è espresso dalla
percentuale di voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale, rispetto al totale
dei voti espressi nell’ambito considerato. Nel pubblico impiego si prevede che, in ciascuna
amministrazione, ente o struttura amministrativa, possono costituire r.s.a., ai sensi dell’art 19 st.lav., le
organizzazioni sindacali ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi.
Raggiunto l’accordo prima della sottoscrizione del contratto nazionale, l’ARAN verifica che le
organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno il
51% come media tra il dato associativo e il dato elettorale nel comparto o nell’area contrattuale, o almeno il
60% del dato elettorale nel medesimo ambito.
Quanto ai contratti collettivi integrativi, il T.U. rinvia ai soggetti definiti dai contratti collettivi nazionali.
L’accordo quadro del 7 agosto 1998, relativo alla costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie, ha
poi previsto che, nella contrattazione collettiva integrativa, i poteri e le competenze contrattuali vengano
esercitati dalle r.s.u. e dai rappresentanti dei sindacati di categoria firmatari del contratto collettivo
nazionale di comparto.
L’ovvia incidenza della contrattazione collettiva nel pubblico impiego sulla spesa pubblica, porta a
regolare previamente ed espressamente nel T.U. la provvista delle risorse finanziarie. Il Ministero del
tesoro, del Bilancio e della programmazione economica, quantifica, in coerenza con i parametri dagli
strumenti di programmazione e di bilancio, l’onere derivante dalla contrattazione collettiva nazionale a
carico del bilancio dello Stato con apposita norma da inserire nella legge finanziaria.
In presenza di parere positivo, l’ARAN trasmette la quantificazione dei costi contrattuali alla Corte dei conti,
cui spetta di certificare “l’attendibilità dei costi quantificati e la loro compatibilità con gli strumenti di
programmazione del bilancio”.
80
Non esiste invero un’affermazione esplicita in tal senso nel decreto 29/1993 e nelle sue successive
integrazioni e modificazioni. Esistono però una serie di norme che inducono a questa conclusione. Prima
fra tutte, quella che dispone che, in sede di stipulazione del contratto collettivo nazionale di comparto, le
Pubbliche Amministrazioni siano tutte necessariamente rappresentate dall’ARAN (sul versante del datore
di lavoro il contratto collettivo ha quindi sicuramente efficacia erga omnes).
Nel decreto 29/1993 v’è poi una norma (ora art. 40, 4° co., T.U. n. 165/2001) in cui esplicitamente si prevede
che “le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o
integrativi dalla data della sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza nelle forme previste dai
rispettivi ordinamenti”. Dal che si può desumere l’obbligo di applicare il contratto collettivo a tutti i
lavoratori (indipendentemente dall’iscrizione ai sindacati stipulanti). Obbligo che risulta poi ribadito
anche da un’altra disposizione (art. 45, 2° co. del Testo Unico), che impone di prevedere parità di
trattamento economico-retributivo tra tutti i dipendenti.
Sulla base dei dati normativi che precedono si può affermare che l’efficacia erga omnes del contratto
collettivo sia indubitabile. Per questo motivo, taluno ha sostenuto che il contenuto del decreto del ’93,
poi confluito nel T.U. del 2001, nella parte in cui attribuisce (o presuppone) l’efficacia erga omnes al
contratto collettivo nel settore pubblico, sarebbe incostituzionale per violazione della seconda parte
dell’art. 39 Cost. (che tipizza il meccanismo attraverso il quale può essere attribuita efficacia erga omnes
ai contratti collettivi).
La Corte costituzionale, con sentenza 309/1997, ha respinto l’eccezione di incostituzionalità,
argomentando che il decreto legislativo 29/1993 non attribuisce espressamente efficacia erga omnes al
contratto collettivo: l’efficacia erga omnes deriverebbe solo indirettamente dalle norme richiamate, in
particolare dell’obbligo imposto alle pubbliche amministrazioni di osservare gli impegni assunti con i
contratti collettivi.
Si tratta di un meccanismo che non realizzerebbe l’efficacia erga omnes di cui all’art. 39, 4° co. Cost.: infatti
“può dirsi che l’osservanza, da parte delle amministrazioni degli obblighi assunti con i contratti collettivi
rappresenta il conseguente e non irragionevole esito dell’intera procedura di contrattazione, la quale
prende le mosse dalla determinazione dei comparti e si conclude con l’autorizzazione governativa alla
sottoscrizione delle ipotesi di accordo, che, almeno sin quando verrà esercitata la delega ex lege n. 59 del
1997, interessa a sua volta molteplici profili, non solo di controllo ma anche di verifica della compatibilità
finanziaria”.
4. L’INDEROGABILITÀ DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Nel pubblico impiego, scontata l’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte del contratto
individuale, si è posto il problema se esso possa essere derogato in melius (ciò che, come si è visto,
costituisce la regola nel settore privato).
La tesi prevalente è nel senso che l’inderogabilità sia assoluta (in peius e in melius); e questo sulla base di
molteplici indici normativi.
In particolare, l’art. 45, 1° co., del d. lgs. n. 165/2001 dispone che i contratti collettivi stabiliscono il
trattamento economico fondamentale ed accessorio dei pubblici dipendenti. Dal che si dovrebbe
desumere non esservi spazio per la contrattazione individuale. Si aggiunga quanto previsto dall’art. 45, 2°
co., vale a dire che le pubbliche amministrazioni garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento
contrattuale.
Parte della dottrina ha tuttavia fatto notare che, se la norma prevede parità di trattamento contrattuale,
aggiunge “e comunque trattamenti non inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi”.
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Ai mezzi della prima specie appartengono sia il sindacato diretto della Cassazione previsto agli artt.65 TU
e 360 c.p.c., sia il subprocedimento di accertamento pregiudiziale di cui agli artt. 64 TU e 420 bis c.p.c. Ai
mezzi della seconda specie debbono invece ascriversi le norme in materia di interpretazione autentica.
1. IL DIRITTO DI SCIOPERO
Nel diritto sindacale, ha osservato Kahn-Freund (O. KahnFreund, 1954), tra i padri del diritto sindacale moderno, il
conflitto è il vero padre di tutte le cose. Lo stesso contratto collettivo nasce da un conflitto e può essere a sua volta
fonte di ulteriori conflitti (sull'interpretazione e sull'applicazione delle relative clausole). Ovviamente Kahn-Freund,
giurista tedesco ma emigrato in Inghilterra e ivi stabilitosi, visualizzava il sistema pluralistico-conflittuale
anglosassone, più che quello partecipativo-cogestivo tedesco. Un sistema tradizionalmente più simile al nostro,
anche se ora con la non irrilevante variante in Italia di un pluralismo competitivo e conflittuale tra le organizzazioni
sindacali tradizionali; e ciò mentre il sistema anglosassone è da sempre caratterizzato da un sindacalismo
(politicamente) unitario.
Nonostante l’art. 40 della Costituzione disponga che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle
leggi che lo regolano”, non esiste in Italia una disciplina generale dello sciopero (cioè del mezzo di lotta
sindacale dei lavoratori) e della serrata (tradizionalmente considerata la tipica forma di lotta sindacale dei
datori di lavoro, attuata tramite la chiusura dell’azienda ed il rifiuto delle prestazioni lavorative dei
dipendenti).
Il fatto che non esista una disciplina di carattere generale – ad esclusione del settore dei servizi pubblici
essenziali – non significa tuttavia che il vuoto normativo sia assoluto. Qualche indicazione può essere
ricavata dalla Costituzione: mentre lo sciopero è menzionato e riconosciuto come diritto, nell’art. 40,
nessun riferimento viene fatto alla serrata, con la conseguenza che essa non è qualificabile quale diritto
come lo sciopero.
Nel corso dei lavori preparatori della Cost., si era proposto di rendere lo sciopero oggetto di una formula
categorica, del tipo “è assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero” oppure “tutti i lavoratori hanno
diritto di sciopero”. Invece, ne è scaturito un testo compromissorio, ove l’accento è posto, + che sul
riconoscimento del diritto di sciopero, sul preannuncio delle leggi che ne dovrebbero regolare l’esercizio.
L’art. 40 Cost., è scomponibile in 2 proposizioni normative: lo sciopero è un diritto; il diritto di sciopero si
esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.
È utile considerare quali sono i possibili atteggiamenti che un ordinamento giuridico può assumere nei
confronti dello sciopero. Esso può essere considerato come un reato, una libertà o un diritto; dunque, può
essere vietato, permesso, protetto.
Nel periodo pre-corporativo, l’ordinamento giuridico italiano considerava lo sciopero come una libertà:
esso non era vietato dal Codice penale Zanardelli del 1889, a differenza di quanto previsto dal successivo
Codice penale Rocco del 1930.
Lo sciopero era quindi penalmente lecito. Semmai erano considerate reati le minacce o violenze
eventualmente poste in essere in occasione dello sciopero.
In un’ottica prettamente civilistica, lo sciopero – che si concretizza in un’astensione dal lavoro – sarebbe
da considerare un inadempimento contrattuale. Nello Stato liberale, lo sciopero non era considerato
illecito penalmente, ma appunto era considerato civilmente illecito (come si è detto, in quanto
inadempimento contrattuale). Tale visione, peraltro, era del tutto coerente con l’ideologia dello Stato
liberale, equidistante rispetto alle parti sociali contrapposte.
Nel periodo corporativo, si assiste ad un mutamento radicale di prospettiva, prima con l’entrata in vigore
della legge sindacale del 1926, poi con il Codice penale del 1930: lo sciopero, al pari della serrata, viene
considerato come un reato contro l’economia nazionale e, dunque, illecito non solo civilmente ma anche
penalmente.
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Il Codice penale Rocco configura, negli artt. 502 ss., diverse fattispecie – sciopero per fini contrattuali,
sciopero per fini non contrattuali o per fini politici, sciopero di coazione contro la Pubblica Autorità,
sciopero di solidarietà e di protesta – e stabilisce pene diverse, a seconda della tipologia di sciopero.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, lo sciopero viene riconosciuto come diritto. Ciò, in primo luogo,
implica che lo Stato non può reprimerlo penalmente. Non solo: la qualificazione dello sciopero come
diritto sottrae all’astensione del lavoro quel carattere di inadempimento contrattuale che altrimenti
avrebbe secondo il diritto comune delle obbligazioni e dei contratti.
2. LIMITI INTERNI E LIMITI ESTERNI DEL DIRITTO DI SCIOPERO. LA SUPPLENZA DELLA GIURISPRUDENZA.
L’art. 40 Cost. non si limita a riconoscere lo sciopero come diritto, ma, allo stesso tempo, rinvia alla legge
(ordinaria) per la fissazione dei limiti del medesimo.
L’art. 40 contiene una riserva di legge, demandando la regolamentazione del diritto di sciopero
esclusivamente a norme di legge. Tuttavia, disposizioni di carattere generale sullo sciopero non sono mai
state emanate. Solo per i servizi pubblici essenziali, e solo nel 1990, è stata dettata una disciplina specifica
(v. l. 146/1990, successivamente modificata dalla l. 83/2000).
Come aveva preconizzato un famoso giurista (P. Calamandrei), in mancanza di norme di legge, i limiti del
diritto di sciopero sono stati scritti dalla giurisprudenza, principalmente dalla Corte costituzionale.
Più precisamente, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle
norme del codice penale del 1930 che prevedevano e punivano lo sciopero come reato, in relazione all’art.
40 Cost., non ha seguito la strada della dichiarazione di illegittimità costituzionale in blocco di tutte le
disposizioni del codice penale che punivano lo sciopero come reato; ha preferito seguire una via
“gradualistica”, ritagliando in alcuni casi, all’interno delle fattispecie previste dal codice penale,
fattispecie “minori” (con sentenze interpretative di rigetto o di accoglimento parziale manipolative) in
cui la punibilità penale dello sciopero non poteva ritenersi contrastante con l’art. 40 Cost.
La Corte costituzionale, mentre ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 502 c.p., relativo allo
sciopero - e alla serrata - per fini contrattuali (vale a dire lo sciopero attraverso il quale i lavoratori
sostengono le proprie rivendicazioni economiche in vista della contrattazione collettiva), non ha
dichiarato totalmente illegittimo l’art 503 c.p., avente ad oggetto lo sciopero per fini non contrattuali,
ovvero politici. In questo caso, la Corte costituzionale ha ritenuto che debbano qualificarsi come reato lo
sciopero politico diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero quello che impedisca il libero
svolgimento dei diritti e dei poteri in cui si sostanzia la sovranità popolare. Ha dunque ritagliato, all’interno
della fattispecie “sciopero per fini non contrattuali”, una fattispecie minore in cui lo sciopero può ben
qualificarsi reato senza che insorga alcun contrasto con l’art. 40 Cost.
In definitiva, la Corte costituzionale ha sostanzialmente riscritto i limiti del diritto di sciopero nel momento
in cui è stata chiamata a valutare la legittimità costituzionale delle norme del Codice penale del 1930 che
puniscono lo sciopero come reato.
Oltre però alla Corte costituzionale, anche la Corte di cassazione ha individuato limiti al diritto di sciopero.
In particolare, essa è stata chiamata a giudicare delle forme cd. anomale di sciopero, quelle cioè che non
si traducono in una semplice e totale astensione dal lavoro dei lavoratori. La Corte di cassazione è partita
dal presupposto che ciò che la Costituzione riconosce come diritto, dunque lecito sia sul piano civile, sia
sul piano penale, è lo sciopero, con la conseguenza che tutto quello che non rientra nella nozione di
sciopero non gode della tutela di cui all’art. 40 Cost.
84
La Corte ha così dato nel corso del tempo diverse definizioni di sciopero. In un primo tempo, la Cassazione
ha adottato una definizione piuttosto restrittiva: è sciopero l’astensione concertata, contestuale e
continuativa, di tutti i lavoratori dell’impresa. In virtù di tale definizione né lo sciopero cd. a singhiozzo
(brevi periodi di astensione dal lavoro intervallati da brevi periodi di svolgimento dell’attività lavorativa),
né quello cd. a scacchiera (l’astensione dal lavoro è effettuata in tempi diversi da differenti gruppi di
lavoratori, che svolgono attività interdipendenti nell’organizzazione produttiva) potevano essere
considerati sciopero.
Con il passare del tempo, la definizione è diventata più ampia. Accogliendo le critiche provenienti dalla
dottrina, i giudici di legittimità hanno riconosciuto che l’interprete non deve fornire una definizione
aprioristica, costruita a tavolino, di sciopero. In mancanza di una definizione legislativa, deve attribuirsi
alla parola “sciopero” il significato che essa ha “nel comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale”.
E per la Cassazione con la parola “sciopero”, nel nostro contesto sociale, suole intendersi nulla più che
“un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità dei lavoratori, per il raggiungimento di un
fine comune” (Cass. 711/1980).
In tal modo, la Corte costituzionale e la Corte di cassazione hanno elaborato la cd. teoria dei limiti interni
e dei limiti esterni del diritto di sciopero.
I limiti interni sono quelli che derivano dalla stessa nozione di sciopero.
Nel momento in cui la Cassazione adotta una nozione ampia di sciopero, è chiaro che i limiti interni
diventano meno consistenti. Essi, tuttavia, continuano a sussistere: finché si definisce lo sciopero come
astensione collettiva dal lavoro, è evidente che tutte le forme di lotta sindacale che non si riducono ad
una semplice astensione non possono essere qualificate come tale (ad es., lo sciopero cd. pignolo, cioè
l’osservanza pedante dei regolamenti). Ciò vuol dire non che esse devono essere necessariamente
considerate illecite, ma che devono essere valutate alla stregua delle comuni norme civilistiche e
penalistiche (al di fuori, dunque, dell’ombrello protettivo dell’art. 40 Cost.).
Sono limiti esterni quelli che derivano dal necessario contemperamento del diritto di sciopero con altri
diritti costituzionalmente garantiti, che sono da considerare sovra-ordinati o almeno pariordinati rispetto
al diritto di sciopero e che quindi non possono essere compromessi dall’esercizio dello stesso.
Il problema è di stabilire, quali diritti sono sovra-ordinati o almeno para-ordinati e quali sono sottoordinati.
Per alcuni di essi, come il diritto alla vita, o all’integrità fisica, non vi sono dubbi: essi sono certamente
sovraordinati rispetto al diritto di sciopero. Più dubbia è la posizione di altri diritti, che trovano un
riconoscimento diretto o indiretto nella Costituzione, rispetto al diritto di sciopero.
Per quanto riguarda il diritto di iniziativa economica privata, di cui all’art. 41 Cost., si è argomentato
giustamente che, se questo fosse uno dei diritti pari-ordinati rispetto al diritto di sciopero, allora non si
dovrebbe mai ammettere la legittimità dello stesso, dato che esso è finalizzato ad arrecare un danno
all’impresa e dunque all’iniziativa economica privata.
La giurisprudenza ha ritenuto che anche l’art. 41 Cost. deve entrare in gioco per il contemperamento dei
diritti e degli interessi; ma ciò che deve essere salvaguardata non è la produzione dell’impresa, bensì la
capacità produttiva della stessa (l’iniziativa economica privata nella sua accezione dinamica). Uno
sciopero che danneggi gli impianti industriali fino a farli diventare inservibili, compromettendo l’iniziativa
economica privata nel suo nucleo essenziale è da considerare illegittimo. Uno sciopero che, invece,
comprometta la produttività dell’impresa, senza compromettere l’impresa come organizzazione
istituzionale, deve considerarsi legittimo (Cass. 711/1980).
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La teoria dei limiti esterni del diritto di sciopero, elaborata dalla Corte costituzionale, ha costituito poi
un’indicazione per il legislatore ordinario nel momento in cui ha deciso di legiferare nel settore dei servizi
pubblici essenziali con la l. n. 146/1990, successivamente modificata dalla l. n. 83/2000.
Ci si può chiedere per quale motivo il legislatore non sia intervenuto con una legge di portata generale e
si sia giunti fino al 1990 per legiferare in un settore nevralgico come quello dei servizi pubblici essenziali.
Il diritto di sciopero viene comunemente definito come diritto individuale ad esercizio collettivo, per il
quale non è necessaria la proclamazione da parte di un’associazione sindacale stabile. La proclamazione
da parte del sindacato è solamente un atto interno, un invito rivolto ai lavoratori a scioperare, ma non è
un requisito di legittimità dello sciopero.
Con l’espressione “ad esercizio collettivo” si vuole affermare che, alla base dello sciopero, vi deve essere
un interesse collettivo, al cui soddisfacimento è finalizzata l’astensione dei lavoratori.
Se lo sciopero viene proclamato da un sindacato, si ritiene per definizione sussistente un interesse
collettivo, perché il sindacato è, per sua stessa natura, l’ente esponenziale dell’interesse collettivo.
Se lo sciopero non viene proclamato da un’associazione sindacale, bisognerà verificare, di volta in volta,
se sussiste o meno l’interesse collettivo (se dieci lavoratori, ad esempio, si astengono per sostenere
rivendicazioni attinenti alle proprie condizioni di lavoro si è senz’altro in presenza di uno sciopero).
L’adesione anche di un solo lavoratore ad uno sciopero proclamato da un sindacato configura uno sciopero,
perché sussiste l’interesse collettivo. Se invece, in mancanza di proclamazione da parte di un sindacato,
una pluralità di lavoratori si astiene dal lavoro bisognerà verificare di volta in volta la sussistenza di un
interesse comune-collettivo.
Recentemente è stata riproposto di qualificare lo sciopero come diritto collettivo (anche se ad esercizio
individuale).
Sotto altro profilo, la titolarità del diritto di sciopero spetta ai lavoratori subordinati e parasubordinati
(vale a dire i lavoratori autonomi che svolgono una prestazione coordinata, continuativa e
prevalentemente personale a favore del committente). La legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali, disciplina anche l’astensione dei lavoratori autonomi tout court (ad es. degli avvocati), sebbene
in tal caso non si possa parlare propriamente di sciopero, ma di astensione dalle prestazioni che
troverebbe tutela costituzionale nell’art. 18 Cost., sul diritto di associazione (Corte cost. 114/1994; Corte
cost. 171/1996).
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Parte della dottrina ha contestato tale qualificazione, sostenendo che il diritto di sciopero sarebbe un
diritto della personalità. In realtà, non vi è contraddizione tra la configurazione del diritto di sciopero come
diritto potestativo e la sua configurazione come diritto della personalità: la qualificazione come diritto
della personalità attiene alla finalità del riconoscimento del diritto di sciopero, mentre la qualificazione
come diritto potestativo attiene alla sua struttura, vale a dire al suo modo di operare all’interno del
rapporto obbligatorio con il datore di lavoro.
5. I MODI ATTUATIVI
2 sono i problemi principali che la giurisprudenza ha dovuto affrontare, stante la mancanza di una
definizione esplicita di sciopero nel testo dell’art. 40 Cost. L’uno è relativo alle modalità attuative dello
sciopero; l’altro è relativo alle finalità in vista delle quali lo sciopero viene attuato.
Per quanto attiene alle modalità, la giurisprudenza ha dovuto affrontare il problema della legittimità dello
sciopero articolato (sciopero a singhiozzo e sciopero a scacchiera;).
In una prima fase, la giurisprudenza - definendo lo sciopero come un’astensione dal lavoro contestuale e
continuativa - ha ritenuto che le forme di lotta sindacale sopra descritte non costituissero esercizio dello
sciopero. E ciò anche perché esse avrebbero recato un danno ingiusto alla controparte: un danno - la
disorganizzazione dell’attività produttiva - sproporzionato rispetto a quello ricevuto dai lavoratori a
seguito dello sciopero, vale a dire la perdita della retribuzione. A sostegno della tesi si invocavano altresì
gli obblighi di correttezza e buona fede.
A seguito delle critiche avanzate dalla dottrina, (sia perché la giurisprudenza assumeva una nozione
aprioristica, costruita a tavolino, di sciopero; sia perché nessuna norma indicava quale dovesse essere la
misura del danno “giusto” arrecata da uno sciopero, sia perché gli obblighi di correttezza e buona fede
assistono l’esecuzione della prestazione lavorativa quando lo sciopero determina la sospensione del
relativo obbligo) la Cassazione, già dalla fine degli anni 70, mutò indirizzo. E con la storica sentenza 711/1980
consacrò la legittimità dello sciopero articolato.
A partire dalla fondamentale decisione del 1980, l’accento si è così spostato sull’individuazione dei confini
dell’obbligo retributivo gravante sul datore di lavoro per le prestazioni offerte o rese, in caso di sciopero
a singhiozzo, negli intervalli lavorati e, in caso di sciopero a scacchiera, dai lavoratori attualmente non
scioperanti. Naturalmente lo stesso problema si pone per uno sciopero parziale nei confronti dei
lavoratori che non vi aderiscono.
A questo proposito, l’alternativa di fondo è se assuma rilievo la non proficuità della prestazione offerta o
resa secondo lo standard normale, ovvero la sua assoluta non proficuità (id est inutilizzabilità). È infatti
scontato che il lavoratore sia tenuto a fornire, non semplici energie, ma “prestazioni lavorative utili”. A
chi ha sostenuto la 1° tesi, è stato obiettato che essa finisce per accollare al prestatore di lavoro il compito
di effettuare non una prestazione che sia utile in sé, bensì una prestazione che realizzi l’utilità economica
finale cui è preposta l’organizzazione produttiva. In sostanza l’utilità del risultato - che costituisce indice
esatto adempimento - andrebbe misurata in relazione non al risultato finale cui l’imprenditore tende,
bensì alla natura della singola prestazione.
Pertanto, al lavoratore nulla spetterebbe solo quando la prestazione sia scesa al di sotto di quel livello di
normalità tecnica, mancando la quale essa viene a perdere la sua identità originaria.
Questa pare la conclusione raggiunta dalla giurisprudenza più recente, allorché per escludere l’obbligo
retributivo richiama la nozione della impossibilità e non di semplice difficultas di utilizzazione della
prestazione, anche se nei casi concreti gli indici della ricorrenza dell’impossibilità non sempre sono
individuati con rigore.
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Non sempre uno sciopero viene proclamato al fine di fare pressione sui datori di lavoro o sulle relative
associazioni sindacali in funzione della stipulazione o del rinnovo del contratto collettivo.
Frequentemente sono attuate forme di sciopero rivolte contro la pubblica autorità, al fine di ottenere
od escludere l’adozione di un determinato provvedimento (ad es. la modifica della legislazione vigente).
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme del Codice
penale del 1930, ha senz’altro, e senza esitazione, dichiarato incostituzionale l’art. 502 c.p., relativo allo
sciopero per fini contrattuali; successivamente in una serie di pronunce ha definito i limiti dello sciopero
per fini non contrattuali o di coazione alla pubblica autorità (artt. 503 – 504 c.p.).
Si tratta dello sciopero comunemente definito come politico, vale a dire quello che, pur avendo come
soggetto passivo il datore di lavoro, è in realtà diretto ad esercitare una pressione su una pubblica autorità
(parlamento, governo ecc.) per propiziare o scongiurare l’adozione di un determinato provvedimento.
Tracciando una sintesi del contenuto di queste sentenze, si può affermare che la Corte costituzionale ha
ritagliato tre aree all’interno dello sciopero in senso lato politico.
In certi casi, lo sciopero indirizzato nei confronti della pubblica autorità deve essere ancora oggi
considerato un reato: si tratta dello sciopero diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale e dello
sciopero diretto a limitare e ad impedire l’esercizio di quelle prerogative in cui si sostanzia la sovranità
popolare (ad es. lo sciopero diretto ad impedire il diritto di voto ovvero a limitare o impedire la regolare
attività del Parlamento) (Corte cost. 27 dicembre 1974, n. 290); in altri casi, lo sciopero politico deve essere
considerato un diritto (e quindi non sanzionabile penalmente e nemmeno civilmente); in altri casi ancora
deve essere considerato una mera libertà.
Lo sciopero di imposizione economico-politica vale a dire lo sciopero diretto ad ottenere o scongiurare un
provvedimento che incide sulle condizioni dei lavoratori, costituisce un’astensione pienamente
riconducibile alla nozione di sciopero di cui all’art. 40 (quindi costituisce esercizio di un diritto). Deve
considerarsi tale, ad esempio, lo sciopero contro la riforma dell’art. 18 St. lav., o per la riforma delle
pensioni o per una diversa politica fiscale (Corte cost. 123/1962).
Lo sciopero politico in senso stretto, che si indirizza contro la pubblica autorità, con contenuti afferenti a
temi di politica generale, per lo più di politica estera, che non hanno attinenza con le condizioni lavorative
in quanto tali (ad es. sciopero contro l’intervento militare in Afghanistan) costituisce esercizio di una
semplice libertà (Corte cost. 290/1974).
Questo assetto derivante dalla giurisprudenza costituzionale, che pareva oramai cristallizzato, è stato
peraltro messo di recente in discussione da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità (Cass
16515/2004) che ha affermato che anche lo sciopero politico tout court dovrebbe essere considerato
come un diritto e non una semplice libertà.
7. LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI.
Verso la fine degli anni 70, in connessione con la cd. terziarizzazione del conflitto, l’atteggiamento delle
associazioni sindacali nei confronti della regolamentazione dello sciopero muta: il conflitto sociale, infatti,
interessa sempre meno l’industria e sempre più il settore dei servizi pubblici, i cui utenti sono innanzitutto
lavoratori subordinati. Lo sciopero dei trasporti ad esempio danneggia, probabilmente più di tutti, i
lavoratori subordinati pendolari.
In connessione con lo spostamento dell’interesse nei confronti del settore terziario, muta quindi la
sensibilità delle associazioni sindacali in merito all’ipotesi di una regolamentazione dello sciopero.
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Inizialmente i sindacati scommettono sulla autoregolamentazione, cioè su una disciplina elaborata dallo
stesso sindacato, che limita volontariamente il ricorso allo sciopero e ne regola le modalità di esercizio.
Nasce così nel 1983 il primo codice sindacale di autoregolamentazione nel settore dei trasporti, adottato
da Cgil, Cisl e Uil.
La debolezza dell’autoregolamentazione si manifesta tuttavia nell’apparato sanzionatorio. Le previsioni
di un codice di autoregolamentazione sono in tutto assimilabili alle disposizioni statutarie e, pertanto, non
possono riguardare i lavoratori non iscritti al sindacato.
Inoltre, anche per i lavoratori iscritti, la violazione del codice può comportare esclusivamente
l’applicazione delle sanzioni disciplinari previste dallo statuto dell’associazione sindacale per i soci che
non ne osservano le regole. Ma l’associazione sindacale difficilmente arriva ad applicare sanzioni
disciplinari interne che potrebbero condurre alla perdita dell’iscritto.
Constatata la debolezza della strada dell’autoregolamentazione, le associazioni sindacali hanno
consentito, ed addirittura promosso, una regolamentazione dello sciopero nei pubblici servizi del settore.
CGIL, CISL, e UIL, verso la fine degli anni 80, hanno dato incarico ad un gruppo di giuristi di elaborare un
progetto per una regolamentazione legislativa dello sciopero nei pubblici servizi; e alcune idee di questo
progetto sono state recepite e tradotte infine nella l. 146/1990.
Sotto questo profilo la l. 146/1990 è definibile come una legge contrattata.
Nel settore dei servizi pubblici, la complessità è accentuata dalla forte frammentazione sindacale, con
conseguente moltiplicazione dei conflitti, giacché i sindacati utilizzano lo strumento dello sciopero per
acquisire visibilità; il che non avviene nel settore industriale anche per la meno accentuata
frammentazione sindacale.
l'amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed
a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione; i servizi di protezione
ambientale e di vigilanza sui beni culturali;
b. per quanto concerne la tutela della libertà di circolazione: i trasporti pubblici urbani ed extraurbani
autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e quelli marittimi limitatamente al collegamento con le isole;
c. per quanto concerne l'assistenza e la previdenza sociale, nonché gli emolumenti retributivi o comunque quanto
economicamente necessario al soddisfacimento delle necessità della vita attinenti a diritti della persona
costituzionalmente garantiti: i servizi di erogazione dei relativi importi anche effettuati a mezzo del servizio
bancario;
d. per quanto riguarda l'istruzione: l'istruzione pubblica, con particolare riferimento all'esigenza di assicurare la
continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli
scrutini finali e degli esami, e l'istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di
istruzione;
e. per quanto riguarda la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e l'informazione radiotelevisiva
pubblica”.
Non è opportuno soffermarsi analiticamente sull’elenco dei servizi che sono indicati nel co. 2 dell’art. 1.
L’aspetto più problematico concerne la natura tassativa o esemplificativa di tale elencazione. La tesi
prevalente, anzi ormai unanime, è quella secondo la quale l’elencazione è esemplificativa e non tassativa.
Se la definizione non fosse esemplificativa non si capirebbe, infatti, il significato della definizione di
servizio pubblico contenuta nel 1° co. dell’art. 1. Ricordiamo che il 1° comma dà una definizione, non
strutturale, ma solo teleologica (sono servizi pubblici quelli diretti al soddisfacimento dei diritti della
persona costituzionalmente tutelati). Se il comma 2° volesse dare una elencazione tassativa, non avrebbe
senso la definizione teleologica di cui al comma 1°.
Inoltre, negli ordinamenti nei quali v’è una regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali,
con relativa elencazione dei servizi, si prevede qualche meccanismo, di tipo amministrativo, per
aggiornare siffatta elencazione. Poiché nella legge 146/1990 questo meccanismo non è previsto, è del
tutto logico ritenere che l’elenco non sia tassativo ma, appunto, solo esemplificativo. Occorre infine
sottolineare come la nozione di servizio pubblico essenziale non sia immutabile dipendendo anche
dall’evoluzione e dall’organizzazione della società (il trasporto aereo, ad es., 40 anni fa non poteva essere
considerato servizio pubblico essenziale).
Di qui l’opportunità di una definizione aperta, solo teleologicamente orientata, di servizi pubblici essenziali.
Il servizio pubblico (come stabilisce il 1° co.: “indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di
lavoro…”) può essere gestito anche da un’impresa privata. Il servizio è infatti pubblico in quanto diretto
al pubblico, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro: ad esempio, l’attività
di una clinica privata costituisce senz’altro servizio pubblico essenziale poiché vi viene tutelato il diritto
alla salute e alla vita.
In conclusione, si può dire che servizio pubblico essenziale è il servizio diretto a garantire i diritti della
persona costituzionalmente tutelati indicati nel 1° co. dell’art. 1 della l. n. 146/1990, con la precisazione per
cui l’elencazione dei diritti tutelati indicati nel 1° comma è tassativa, mentre quella dei servizi al 2° comma è
solo esemplificativa.
90
La l. 146/1990 fissa direttamente pochi principi sostanziali demandando la fissazione delle regole a fonti
secondarie, segnatamente ai contratti collettivi (oltre che ai codici di autoregolamentazione).
Gli obblighi principali fissati dall’art. 2 della legge sono di dare un preavviso dello sciopero e di garantire le
prestazioni indispensabili.
a) Innanzitutto, deve essere dato un preavviso, non inferiore ai 10 giorni da parte dei soggetti sindacali
che proclamano lo sciopero. La finalità del preavviso è soprattutto di consentire alle aziende o gli enti
erogatori dei servizi pubblici di adottare le misure necessarie per assicurare le prestazioni indispensabili e
effettuare le necessarie comunicazioni ed informazioni agli utenti.
b) Occorre poi che siano garantite le prestazioni indispensabili. La legge definisce le prestazioni
indispensabili come quelle necessarie per garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui
al co. 1° dell’art. 1. Va infatti sottolineato che, all’interno di un servizio pubblico, non tutte le prestazioni rese
dai lavoratori sono indispensabili ai fini del soddisfacimento dei diritti della persona costituzionalmente
garantiti; tant’è vero che qualcuno, giustamente, ha detto che il concetto centrale nell’ambito di
applicazione della legge non è tanto quello di servizio pubblico quanto quello di prestazione
indispensabile.
La distinzione tra servizio pubblico e prestazione indispensabile, fatta propria dal legislatore del 1990, era
stata peraltro già formulata dalla Corte costituzionale. Ed in effetti l’elaborazione della giurisprudenza
costituzionale in materia di sciopero è stata molto importante, perché ha delineato le linee interpretative
per il legislatore ordinario.
La Corte costituzionale era stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale degli artt. 330, 333
del c.p. (ora abrogati dalla legge 146/1990) che prevedevano e punivano l’abbandono dei pubblici servizi
come reato. E la Corte aveva ritenuto che potesse considerarsi reato non qualsiasi abbandono di pubblici
servizi, uffici o lavori, ma solo quello che comprometta “funzioni e servizi pubblici essenziali, aventi
carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costituzione” (Corte cost. 31/1969).
La Corte aveva poi affermato che all’interno di quello che può definirsi servizio pubblico essenziale (ad
esempio, il servizio reso da un ospedale), non tutti gli scioperi dovessero essere considerati reato, ma
solo quelli che non assicurassero le prestazioni indispensabili (nel caso, ad esempio, di uno sciopero degli
infermieri in un ospedale psichiatrico, la Corte ha ritenuto che tale sciopero non fosse illecito penalmente,
perché nel caso era rispettato il rapporto tra numero degli infermieri e ricoverati, previsti dalla normativa
in materia di sanità. Secondo la Corte costituzionale, una volta assicurato tale rapporto, lo sciopero è
legittimo: Corte cost. 222/1976).
Il concetto di prestazione indispensabile, che qualcuno chiama impropriamente “servizio minimo”,
deriva proprio dall’idea della Corte costituzionale secondo la quale, all’interno del servizio pubblico, non
tutte le prestazioni debbono ritenersi indispensabili per la garanzia dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati.
Una volta chiarito che la l. 146/1990, all’art. 2, impone, oltre all’obbligo del preavviso, anche la garanzia
delle prestazioni indispensabili, ci si chiede come esse vadano determinate.
Ovviamente non era pensabile che il legislatore fissasse analiticamente le prestazioni indispensabili per
ciascun singolo servizio pubblico: esso rinvia dunque a “fonti secondarie”, segnatamente ai contratti
collettivi, in coerenza con la natura di “legge contrattata” del provvedimento.
La prestazione indispensabile è, quindi, concretamente determinata dai contratti collettivi, di qualsiasi
livello: si può trattare di un contratto nazionale o di un contratto aziendale.
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Può configurarsi un obbligo a trattare per raggiungere l’accordo sulle prestazioni indispensabili previsto nella
legge; il che però non significa certo che si sia in presenza di un obbligo a contrarre, essendo ovviamente
possibile che le parti non riescano a concludere un accordo per la determinazione delle prestazioni
indispensabili.
In caso di mancato accordo, nella versione originaria della legge, si determinava una situazione di vuoto
normativo che finiva per essere colmato, ancora una volta, dai giudici. È pur vero che, già nella legge n.
146 del 1990, era stata prevista l’istituzione di una “Commissione di garanzia dell’attuazione della legge
sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali” (composta da 9 membri nominati dal Presidente della
Repubblica, tra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali);
tuttavia, al fine di garantire l’applicazione della legge, la Commissione non aveva alcun potere normativo,
non potendo sostituirsi al mancato accordo tra le parti, a meno che non fossero entrambe a richiedere
alla medesima l’emissione di un lodo per la fissazione delle prestazioni indispensabili. In base al testo
originario della l. n. 146/1990, cioè, la Commissione aveva solo compiti di proposta, di stimolo e di verifica
della congruità degli accordi raggiunti, ma non aveva il potere di sostituirsi al mancato accordo tra le parti.
Il vuoto è stato colmato con la legge 83/2000 attraverso il conferimento alla Commissione di garanzia,
non solo del potere di valutare la congruità degli accordi raggiunti in relazione agli obiettivi che si prefigge
la legge, ma anche del potere di sostituirsi al mancato accordo tra le parti, adottando quella che l’art. 13
della l. 146/1990, denomina regolamentazione provvisoria.
Insomma, la Commissione di garanzia, per indurre le parti a raggiungere un accordo, fa una propria
proposta di regolamentazione. Se le parti collettive non raggiungono l’accordo, adotta una
regolamentazione provvisoria.
La l. 83/2000 ha poi introdotto ulteriori obblighi che possono essere considerati collaterali rispetto ai due
obblighi fondamentali del preavviso e dell’erogazione delle prestazioni indispensabili. In particolare,
devono essere previste (nei contratti o negli accordi collettivi che fissano le prestazioni indispensabili)
procedure di raffreddamento e di conciliazione, obbligatorie per entrambe le parti, da esperirsi prima
della proclamazione dello sciopero. Se le parti non intendono avvalersi delle procedure di raffreddamento
e di conciliazione contenute negli accordi o nei contratti collettivi, è previsto un tentativo di conciliazione
presso la Prefettura o il Comune, nel caso di scioperi nei servizi pubblici di rilievo locale, o presso la
competente struttura del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, nel caso di scioperi di rilievo
nazionale.
Con la l. 83/2000 è stata poi introdotta la regola della rarefazione o dell’intervallo minimo. Per effetto di
tale regola, gli accordi devono altresì indicare intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno
sciopero e la proclamazione di quello successivo, quando ciò sia necessario ad evitare che, per effetto di
scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidano sullo stesso servizio finale
o sullo stesso bacino d’utenza, sia oggettivamente compromessa la continuità dei servizi pubblici di cui
all’art. 1.
La regola legale è espressa come intervallo minimo oggettivo, riguardando scioperi proclamati in
successione da soggetti sindacali diversi, ma essa si ritiene applicabile anche nel caso in cui lo sciopero sia
proclamato dallo stesso sindacato.
La finalità dell’intervallo minimo è quella di garantire una certa rarefazione. Si tratta sostanzialmente di un
rimedio per far fronte al problema dell’estrema frammentazione sindacale presente nel settore dei servizi
pubblici. Infatti, nel caso in cui le organizzazioni sindacali siano, come in certi settori dei servizi pubblici,
trenta o quaranta, se ogni sindacato ogni giorno potesse proclamare uno sciopero si verificherebbero
situazioni assai problematiche.
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L’applicazione della regola dell’intervallo minimo non è agevole, perché ogni sindacato per poter
proclamare uno sciopero deve essere a conoscenza degli altri scioperi precedentemente proclamati, anche a
livello locale. In alternativa, il problema della frammentazione sindacale poteva essere risolto o
ammettendo solo gli scioperi approvati con referendum tra i lavoratori (prevedendo cioè un referendum
come condizione di legittimità dello sciopero, per cui solo quello sciopero che abbia il consenso della
maggioranza dei lavoratori può essere ammesso), oppure legittimando solo gli scioperi proclamati dai
sindacati che abbiano un minimo di rappresentatività.
Il referendum, tuttavia, oltre al problema di carattere politico-sindacale, pone anche quello della
identificazione dei soggetti che devono essere chiamati a votare in ordine alla effettuazione o meno dello
sciopero (si tratta sempre del problema della categoria).
10. L’APPARATO SANZIONATORIO.
L’apparato sanzionatorio si articola in una serie di previsioni che concernono non solo i singoli lavoratori
e le associazioni sindacali, ma anche i dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche e i legali
rappresentanti delle imprese e degli enti che erogano i servizi pubblici.
Dunque, sanzioni civili ed amministrative in conformità con la precisa scelta legislativa di escludere la
sanzione penale: ed invero proprio la l. 146/1990 ha abrogato gli artt. 330 e 333 c.p. (si discute, peraltro,
sul campo di applicazione del sopravvissuto reato di interruzione di pubblici uffici o servizi previsto
dall’art. 340 c.p.).
La violazione delle regole contenute nei commi 1°, 2° e 3° dell’art. 2, l. 146/1990, comporta per i lavoratori
l’adozione di sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità dell’infrazione, con esclusione delle misure
estintive del rapporto di lavoro (licenziamento). Possono dunque essere adottate le sanzioni del
rimprovero, della multa (una trattenuta sulla retribuzione pari ad un massimo di 4 ore), ovvero della
sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a 10 giorni.
Il profilo particolarmente interessante riguarda la circostanza per cui le sanzioni sono adottate dal datore
di lavoro, benché le regole violate non siano poste nel suo interesse, bensì nell’interesse di terzi (ossia gli
utenti del servizio). Si tratta di una situazione anomala, tanto che in passato ci si era chiesti per quale
motivo il datore di lavoro avrebbe dovuto essere obbligato ad applicare le sanzioni disciplinari se le regole
della legge n. 146/1990 sono poste a difesa dell’interesse pubblico.
Sul punto è intervenuta la legge 83/2000, secondo cui compete alla Commissione di garanzia valutare il
comportamento dei soggetti collettivi che hanno proclamato lo sciopero e, ove essa rilevi violazioni della
legge, prescrivere l’adozione di sanzioni disciplinari al datore di lavoro (art. 13). Se i datori di lavoro non
adottano le sanzioni disciplinari, sono assoggettati a loro volta a sanzioni (art. 4).
Per contro nei confronti delle organizzazioni dei lavoratori che proclamano uno sciopero, o ad esso
aderiscono, in violazione delle disposizioni di cui all’art. 2 , sono previste, vuoi sanzioni di ordine
patrimoniale (sospensione dei permessi sindacali retribuiti ovvero dei contributi sindacali comunque
trattenuti dalle retribuzioni dei lavoratori per un ammontare economico complessivo oggi non inferiore
a € 5.000 e non superiore a € 50.000), vuoi la sanzione dell’esclusione dalle trattative per la stipulazione
dei contratti collettivi, in quanto vi partecipino, per un periodo di 2 mesi dalla cessazione del
comportamento.
Si tratta di sanzione ipotizzabile solo per il settore del pubblico impiego, ove è disciplinato il procedimento
di contrattazione collettiva e si configura in capo ai sindacati legittimati a stipulare contratti un vero e
proprio diritto di trattare.
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Nel caso di impossibilità di applicare le suddette sanzioni poiché le organizzazioni sindacali non fruiscono
dei citati benefici di ordine patrimoniale o non partecipano alle trattative, la Commissione di garanzia
delibera in via sostitutiva una sanzione amministrativa pecuniaria a carico di coloro che rispondono
legalmente per l’organizzazione sindacale responsabile, pari all’importo di cui sopra (cfr. art. 4, 4° bis co.).
Infine, anche in capo ai dirigenti delle amministrazioni e ai legali rappresentanti delle imprese che violano
gli obblighi posti a loro carico (dalla garanzia delle prestazioni indispensabili, ai diversi obblighi di
informazione vuoi all’utenza, vuoi alla Commissione di garanzia) si configura l’applicazione, da parte della
Commissione, di una sanzione amministrativa pecuniaria per un ammontare, oggi, da € 5.000 a € 50.000
(art. 4).
Il legislatore, con l’estensione del campo soggettivo della legge 146/1990. Ha adattato l’apparato
sanzionatorio ideato per il lavoro subordinato al lavoro autonomo. Sempre alla medesima sanzione
pecuniaria, oggi tra un minimo di 2500 euro a un max di 50000, sono soggetti le associazioni e gli
organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti ed imprenditori, sia pure in solido con i
singoli lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori che abbiano partecipato alla astensione
dalle prestazioni, nel caso di violazione dei codici di autoregolamentazione o della regolazione provvisoria
della Commissione di garanza e in ogni altro caso di violazione delle procedure di erogazione delle
prestazioni indispensabili.
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Attesa la grande varietà delle modalità in cui possono venire compromessi i diritti della persona, l’art 8
della l. 146/1990 non prefigura il contenuto della ordinanza di precettazione. Notevole ruolo è attribuito
anche in questo caso, alla Commissione di garanzia, dalla quale solo può provenire l’iniziativa per
l’attivazione della procedura e che comunque ove vi sia un caso di necessità e urgenza deve essere
preventivamente avvisata.
L’aspetto di maggiore rilievo concerne i presupposti in presenza dei quali può essere emanata l’ordinanza
di precettazione. Si ritiene che non ogni violazione della disposizione della l. 146/1990 ne costituisca il
presupposto, ma, appunto, solo il fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente dei diritti della
persona costituzionalmente tutelati.
L’inosservanza da parte dei singoli prestatori di lavoro, professionisti o piccoli imprenditori, delle
disposizioni contenute nell’ordinanza comporta l’applicazione della sanzione amministrativa per ogni
giorno di mancata ottemperanza, da un minimo di euro 500 ad un massimo di euro 1000.
Per contro, le organizzazioni dei lavoratori, le associazioni e gli organismi di rappresentanza dei lavoratori
autonomi, professionisti o piccoli imprenditori che non ottemperano all’ordinanza di cui all’art. 8 sono
puntiti con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2.500 a euro 50.000. per ogni giorno di mancata
ottemperanza, a seconda della consistenza economica dell’organizzazione della gravità e delle
conseguenze dell’infrazione.
Le sanzioni sono erogate dalla stessa autorità che ha emanato l’ordinanza e sono applicate con
ordinanza-ingiunzione della Direzione territoriale del lavoro.
La serrata consiste nella chiusura dell’azienda, con il conseguente rifiuto delle prestazioni offerte dai
lavoratori. Essa è considerata la tradizionale forma di “lotta sindacale” dei datori di lavoro.
La serrata può essere totale o parziale, a seconda che l’attività lavorativa venga sospesa totalmente o
solo in parte.
Da un punto di vista soggettivo, la serrata può essere individuale o collettiva: è individuale se è ad
iniziativa di un solo datore di lavoro; è collettiva se attuata da più datori di lavoro concordemente e
contestualmente per un fine comune.
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La serrata è per sua natura uno strumento di sospensione dell’attività lavorativa di tipo temporaneo; in
caso contrario, si ricadrebbe nella diversa fattispecie della cessazione della attività dell’impresa.
Rispetto alle modalità attuative, la serrata si distingue in offensiva e difensiva: si definisce offensiva
quando è diretta a sostenere una rivendicazione del datore di lavoro; è difensiva quando il datore reagisce
ad una iniziativa dei sindacati dei lavoratori (un esempio rilevante di serrata difensiva è la cd. serrata di
ritorsione; mentre un esempio di serrata di carattere offensivo, è la serrata di solidarietà).
Così come lo sciopero, anche la serrata può essere diretta nei confronti delle controparti contrattuali o nei
confronti della pubblica autorità ed avere dunque un fine politico (si pensi alla serrata di protesta dei
piccoli esercenti).
La serrata per fini contrattuali è quella che si rivolge alla controparte contrattuale, lavoratori e sindacati
dei lavoratori, per fini attinenti alla disciplina del contratto di lavoro.
La Corte costituzionale, nella sent. del 1960, ha affermato che l’art. 502 c.p. si inserisce nella logica del
periodo corporativo, nel contesto del quale tanto lo sciopero quanto la serrata venivano considerati reati.
Ma, poiché l’ordinamento corporativo è venuto meno e l’attuale ordinamento si fonda su principi diversi,
improntati alla libertà sindacale, i divieti penali di sciopero e serrata non si giustificano.
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Essi potevano avere un senso nell’ordinamento corporativo ove non v’era un libero confronto tra le parti
sociali, datori di lavoro e sindacati dei lavoratori. Ora, caduto l’ordinamento corporativo e tutto il sistema
su cui esso si basava, devono ritenersi caduti anche i divieti penali tanto di sciopero, quanto di serrata.
La Corte utilizza non solo un argomento di carattere storico, ma argomenta anche ex art. 39 Cost., “il
quale, esprimendo un indirizzo nettamente democratico, dichiara il principio della libertà sindacale”;
dunque “la posizione che, rispetto allo sciopero e alla serrata è venuta a determinarsi nell’ambito del
sistema di libertà sancita dagli art. 39 e 40 è…questa: che lo sciopero è riconosciuto costituzionalmente
come un diritto, destinato però secondo il preciso dettato dell’art. 40, ad essere regolato dalla legge; e
che la serrata, priva di un tal riconoscimento, ma in pari tempo anche della qualificazione giuridico-penale
a suo tempo posta dall’ordinamento corporativo, si presenta attualmente come un atto penalmente non
vietato o penalmente lecito”.
In una 2° decisione, la 141/1967, la Corte cost. è stata chiamata a pronunciarsi sull’art. 505 c.p. relativo allo
sciopero e alla serrata per protesta. Nella fattispecie si trattava di un’impresa che aveva interrotto
l’attività lavorativa per protestare per una disciplina fiscale troppo onerosa.
La Corte ha ritenuto che, quando la serrata sia attuata per ragioni estranee alla disciplina del rapporto di
lavoro, essa non è coperta dalla libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost., in quanto l’imprenditore non agisce
come datore di lavoro, bensì come libero soggetto economico.
“Non pertinente anzitutto è il richiamo all’art. 35 Cost., il quale “tutela il lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni”. È evidente che “il soggetto di tale previsione costituzionale è il lavoratore e non già il datore
di lavoro, la cui libertà di iniziativa e di azione trova garanzia, su altro piano e con ben diverso regime,
nell’art. 41 Cost., il quale, come innanzi si è detto, non viene qui in discussione”.
Quanto all’art. 39 Cost., la Corte ritiene che “non vi sia dubbio che la libertà di organizzazione sindacale
debba trovare il necessario suo corollario nella libertà di azione sindacale, giacché ove quest’ultima fosse
rinnegata anche la prima finirebbe col ridursi ad un principio privo di contenuto e di significato. Tuttavia,
proprio l’intima connessione fra l’una e l’altra sta a dimostrare che l’azione sindacale deve essere definita
nei termini che alla sua funzione sono coessenziali e che vanno precisati nel quadro del rapporto fra datori
di lavoro e lavoratori: con la conseguenza che ad essa ed alla sua tutela costituzionale appaiono estranei
tutti quei comportamenti che non si collochino nell’ambito di quei rapporti. Non può perciò accogliersi
l’opinione del giudice a quo, secondo la quale la serrata dovrebbe essere lecita “ogni volta sia diretta al
conseguimento di un fine economico connesso con l’attività aziendale”.
Vero è che nella sent. 123/1962 la Corte aveva ritenuto che il diritto di sciopero fosse legittimamente
esercitabile in funzione di tutte le rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che
trovano disciplina nelle norme racchiuse sotto il titolo terzo della parte prima della Costituzione. Ma è da
considerare che ciò trova fondamento nella circostanza che le varie provvidenze ivi previste ineriscano
tutte alla qualifica del soggetto come lavoratore, laddove “il fine economico connesso con l’attività
aziendale” va collegato all’interesse del soggetto considerato come imprenditore: in funzione, cioè, di
un’attività che non rientra nella garanzia offerta dall’art. 39 Cost”.
Qualcuno ha sottolineato in dottrina che una soluzione così rigida è destinata a scontare una sua implicita
contraddizione. Una volta individuata nell’art. 39 Cost., la tutela di “una libertà di azione sindacale”,
relativa così allo sciopero come alla serrata, e nell’art. 40 Cost. l’elevazione di simile tutela a diritto
limitatamente allo sciopero; una volta posta una premessa siffatta, risulta difficile concludere per una
libertà di serrata limitata solo a quella a fine contrattuale e non estesa almeno anche a quella a fine di
solidarietà e di protesta.
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Sembra tanto più difficile, via via che la stessa Corte, amplia l’ambito del diritto di sciopero, considerando
garantito dall’art. 40 Cost. pure lo sciopero d’imposizione politico-economica (sent. 123/1962).
Altri hanno sottolineato che la Corte costituzionale, interpretando l’art. 505 c.p. in senso restrittivo, vale
a dire nel senso che esuli dal suo campo di applicazione la serrata attuata per protesta contro fatti che al
rapporto di lavoro “si riferiscano”, lascia aperto uno spiraglio per ritenere penalmente lecita quella
serrata che, pur non essendo dettata da fini contrattuali, attenga comunque alla disciplina del rapporto
di lavoro. Se il Parlamento stesse per emanare una legge in materia di lavoro, avversata dai datori di
lavoro, l’eventuale serrata sarebbe attuata per fini non contrattuali, ma pur sempre attinenti alla disciplina
del rapporto di lavoro; essa, pertanto dovrebbe essere ritenuta penalmente lecita.
Con la sent. 222/1975, la Corte si è pronunciata sull’art. 506 c.p., che puniva come reato la serrata di
esercenti di aziende industriali e commerciali senza lavoratori alle loro dipendenze (la serrata di protesta dei
piccoli esercenti).
La Corte ne ha affermato l’illegittimità costituzionale, in quanto i piccoli commercianti o i piccoli esercenti,
ove siano privi di dipendenti, sono da considerare alla stregua di lavoratori, ancorché autonomi. Se la
serrata è la sospensione dell’attività lavorativa con impossibilità per i dipendenti di prestare lavoro
subordinato, quando i dipendenti non vi siano, la chiusura dell’azienda è da assimilare nella sostanza ad
uno sciopero (ex art. 40 Cost.). Anzi, la Corte arriva a definire impropria la qualificazione della astensione
dal lavoro di questi soggetti come serrata, la cui “forma di autotutela, strutturata dallo stesso codice sul
modello di quella dei lavoratori dipendenti; non può non essere compresa in quel più ampio concetto di
sciopero che ha trovato modo di esprimersi nell’attuale mondo del lavoro”. Perciò la Corte dichiara
l’incostituzionalità dell’art. 506 c.p. per contrasto con l’art. 40 Cost. proprio in quanto la serrata di piccoli
esercenti va considerata come se fosse uno sciopero.
14.2 …E DAL PUNTO DI VISTA CIVILE
Se la serrata, almeno x fini contrattuali, non è da considerare un diritto ma una semplice libertà, ciò
significa che essa deve essere valutata alla luce del diritto comune delle obbligazioni.
Il rifiuto del datore di lavoro di ricevere le prestazioni lavorative, in cui si sostanzia la serrata, integra,
secondo la tesi più accreditata, un’ipotesi di mora credendi di cui all’art. 1206 cc: essa comporta la
persistenza del debito retributivo in capo al datore di lavoro, sia pure secondo qualcuno a titolo di
risarcimento del danno ex art. 1207, da parametrarsi alla integrale retribuzione, in base all’art. 6 del r.d.
1825/1924 (legge sull’impiego privato). Secondo altri, l’obbligo di pagare la retribuzione troverebbe
fondamento nell’art. 1207 cc; altri ancora hanno fatto perno sullo stesso principio di corrispettività,
svalutandosi, per le peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro, la stessa necessità dell’intimazione a
ricevere ai fini della produzione degli effetti della mora.
In ogni caso, l’unico limite della mora del creditore, e dunque della persistenza del debito retributivo, è
l’impossibilità della prestazione dovuta dalla controparte. L’impostazione tradizionale assume una nozione
stretta di impossibilità (impossibilità oggettiva ed assoluta).
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Alla luce dei principi suindicati va valutata la liceità della cd. serrata di ritorsione. Essa è un tipo di serrata
difensiva, vale a dire attuata dal datore di lavoro per contenere gli effetti dannosi dello sciopero.
La serrata di ritorsione è finalizzata ad impedire gli effetti dannosi di uno sciopero articolato che, per le
sue caratteristiche, risulta particolarmente incisivo sull’organizzazione aziendale. È comune la valutazione
- a prescindere dalla valutazione in termini di liceità o di illiceità della forma di lotta - che la reazione del
datore di lavoro, consistente nella chiusura temporanea dell’azienda o di parte di essa, colpirebbe
indiscriminatamente tanto i lavoratori che avevano intenzione di aderire all’agitazione - senza peraltro avere
la certezza della concreta effettuazione della medesima - quanto quelli ad essa estranei; e ciò sulla base
dell’affermazione di una sorta di responsabilità collettiva dei lavoratori, in contrasto col fatto che
l’ordinamento ha escluso l’esistenza di un diritto di serrata nel conflitto collettivo.
Anche la serrata di ritorsione va valutata alla stregua del diritto comune delle obbligazioni, con la
conseguenza che essa sarebbe da considerare lecita solo nel caso di una obiettiva impossibilità, quale esito
delle forme cd. anomale di sciopero, della gestione della impresa. È emersa, peraltro, in dottrina,
l’opinione in base alla quale, nel caso in cui lo sciopero, per le sue modalità attuative, esponga a rischio
qualche valore o bene preminente - quale la vita o l’integrità psico-fisica delle persone, nonché l’impresa
come organizzazione istituzionale - sarebbe consentita al datore di lavoro, a stregua di buona fede, la
chiusura o l’interruzione dell’attività aziendale, sulla base della semplice situazione di pericolo.
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