Eugenio Colorni Scritti
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Scritti
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Scritti
AUTORE: Colorni, Eugenio
TRADUTTORE:
CURATORE: Cerchiai, Geri
NOTE:
DIRITTI D’AUTORE: no
INDICE DI AFFIDABILITA’: 1
0: affidabilità bassa
2
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
DIGITALIZZAZIONE:
Paolo Alberti, paoloalberti@iol.it
REVISIONE:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
IMPAGINAZIONE:
Paolo Alberti, paoloalberti@iol.it
PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
3
Indice generale
La malattia filosofica......................................................7
Inizio di autobiografia..................................................47
Giustificazione..............................................................53
Sull'Introduzione alla metafisica di Piero Martinetti....57
Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà...............66
Leibniz
e una sua recente interpretazione..................................93
Le verità eterne in Descartes e in Leibniz
Schema di un saggio...................................................105
Leibniz e il misticismo...............................................120
L'estetica di Leibniz....................................................165
Conoscenza e volontà in Leibniz................................190
Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz.........218
Progetto di una rivista di metodologia scientifica......253
Programma..................................................................259
Apologo su quattro modi di filosofare........................271
Critica filosofica e fisica teorica.................................290
Filosofia e scienza......................................................345
1. Il problema..........................................................345
2. Il concetto di esperienza (geometria e fisica).....351
3. Il concetto di realtà.............................................357
4. Il concetto di causa.............................................360
Sul concetto di esperienza..........................................365
Sull'assiomatica della teoria
della relatività.............................................................367
4
Sul concetto di «amore».............................................369
Sul complesso di Edipo..............................................377
Appunti per un articolo su «I primitivi e le categorie
dello spirito»...............................................................384
Sugli idoli della scienza fisica....................................387
Il ritorno alla natura....................................................389
La nostra immagine....................................................393
Il bisogno dell'unità....................................................400
Filosofi a congresso....................................................404
Della lettura dei filosofi..............................................408
Del finalismo nelle scienze.........................................415
Dell'antropomorfismo nelle scienze...........................429
Dello psicologismo in economia................................460
Sull'azione...................................................................492
Del successo...............................................................507
Sulla morte..................................................................514
5
Eugenio Colorni
Scritti
6
La malattia filosofica
7
«Ma questo nuovo stato non è anch'esso, in sostanza,
filosofia?»
«Il solito ritornello! Chiamatelo filosofia, se vi piace.
M'importa che è uno stato posteriore, ulteriore rispetto a
quello in cui si sono trovati coloro che sono stati
chiamati filosofi; uno stato rispetto al quale quello dei
filosofi si presenta come una malattia di cui si è guariti,
di cui si conoscono oramai le meschinità e gli
infantilismi».
8
po'. L'atmosfera in cui vive è calda, un po' sudicia.
Quello che teme di piú sono le improvvise ventate:
come quando la mamma si accorge che si è lavato
troppo poco, e lo trascina in camera da bagno, e lo
malmena con sapone, spazzole, asciugamani. Se nel
corso di un capriccio gli viene imposto di chiedere
scusa, preferisce cedere subito, che subire il martirio dei
lunghi irrigidimenti.
A scuola è uno dei primi; ma i maestri dicono che se
volesse, potrebbe fare molto di piú. Nelle discussioni è
tortuoso, piccoso: lo chiamano Don Cavillo. Anche qui
è una certa pesantezza che lo spinge a girare
continuamente intorno a posizioni assurde e
malcomode, piuttosto che compiere lo sforzo rapido e
violento di abbandonarle. Ha scarse curiosità sessuali, e
nessun vizio. Si tiene anzi lontano dai discorsi lubrichi
dei compagni. Perché? Per principio, per moralità? No:
probabilmente per non aver troppe cose da nascondere.
Egli soffre un poco di essere diverso dagli altri
bambini; di avere per esempio delle scarpe, dei calzoni
differenti dai comuni, comperati in un negozio
specializzato di oggetti razionali e igienici per
giovinetti; di non avere il permesso di comperarsi,
uscendo di scuola, i caramellati o la liquirizia; di non
poter giocare con tutti per la strada, ma solo nei viali
riservati, con compagni approvati dai genitori. Egli
vorrebbe che nessuno si accorgesse di queste
particolarità che lo rendono estraneo e un po' ridicolo ai
coetanei. Ma non gli viene mai in mente di trasgredire, o
9
di protestare, o di ribellarsi. Sente confusamente di
essere partecipe di un mondo piú alto e piú morale e piú
pulito, di cui i condiscepoli non hanno idea: il mondo di
casa, dove si parla toscano, dove si è obbligati a far la
ginnastica ogni mattina sotto gli ordini della mamma. E
vorrebbe vivere in pace, inosservato, in tutti e due i
mondi. Perciò si sforza di tenerli il piú possibile
separati; e dà a scuola alla sua parlata un accento
dialettale che sarebbe inammissibile in famiglia; e trema
ogni volta che i genitori invitano a casa i compagni, o
vanno a parlare coi maestri.
Ha una certa compiacenza per la propria persona, un
bisogno di guardarsi allo specchio, di essere elegante.
Bisogno che soddisfa furtivamente, per sfuggire alle
derisioni. È questo, lo sa, uno dei motivi per cui avrebbe
dovuto nascere femmina.
10
che hanno ragione, fin dalle prime schermaglie. Ma c'è
qualche cosa che gli impedisce di parteggiare
apertamente, completamente per loro. Come vorrebbe
che avessero torto, almeno una volta! Essi vivono in un
castello incantato, dal quale sostengono spavaldamente
tutti gli assalti. In famiglia vengono discussi, criticati,
combattuti. I loro contrasti coi genitori non
assomigliano affatto ai normali capricci o alle
scappatelle dei ragazzi. Sono battaglie combattute per
difendere un principio. I castighi sono ingiuste
sopraffazioni, il martirio subito in nome di un ideale.
Essere come loro! Pierino non ha neppure la forza di
pensarci. Togliersi dalla comoda posizione di ragazzo
«normale»; vivere perennemente con la lancia in resta!
Eppure non si sottrae al loro fascino, e vorrebbe
togliersi da quello stato di perpetua inferiorità in cui la
loro sola presenza lo relega. Nella mamma egli intuisce
un segreto e inconfessato parteggiare per loro, e un
rammarico di vederlo cosí diverso. La mamma, giusta e
severa, pura e leale, che non perde mai il proprio tempo,
che esegue nella giornata sempre di piú di quanto si era
proposta; zia preferita dai cugini, consigliera e arbitra
nei litigi familiari.
Per l'entrata al ginnasio, riceve in regalo un orologio,
accompagnato da molte prediche sulla serietà del dono,
sulle responsabilità che comporta, sul riconoscimento in
esso implicito della sua maturità. Ma fin dalla prima
sera, non può trattenersi dal frugarvi dentro con una
penna, col risultato di rovinare tutto. Disperazione,
11
orgasmo. Confessare il malanno significherebbe farsi
togliere immediatamente l'oggetto, ed essere additato al
disprezzo di tutti come indegno di portarlo. D'altra
parte, la cosa non può essere nascosta. Pierino elimina
coscienziosamente ogni traccia del suo intervento, e
presenta il guasto come se la macchina spontaneamente
avesse cessato di camminare.
Viene creduto: che sollievo! Con gioia, con
impazienza, porta l'orologio a riparare. Ma l'orologiaio
lo squadra con sospetto: «Questo meccanismo è stato
toccato con dell'inchiostro!»
Pierino nega, paonazzo: ma l'altro insiste. Che la
mamma, presente, non indaghi oltre, non si occupi di
andare in fondo alla cosa, è un miracolo.
Esce dal negozio sconvolto. L'ha scampata bella. Ma
dentro di lui si agita qualche cosa che assomiglia al
Giudizio Universale. «Ogni tua azione sarà giudicata. I
capelli della tua testa sono contati». È inutile che tu
sfugga, Pierino, che ti nasconda. I nodi vengono al
pettine. Quello che fai e che tralasci, da qualche parte
rimane scritto a lettere indelebili.
Egli non è stato mai punito per aver detto una bugia,
benché ne dica continuamente. Ma la bugia è ritenuta a
casa qualche cosa di cosí mostruoso, che non si arriva
neppure a concepire che un ragazzo per bene se ne
possa macchiare. A ciò che egli dice, viene di regola
creduto; e cosí il tormento è ancora maggiore. Una
punizione gli renderebbe quasi lecito il peccato,
permutabile, per cosí dire, con una dose di scapaccioni,
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o con un certo numero di giorni senza frutta. Cosí,
invece, il peso rimane intero sulle sue spalle, con
l'incertezza perpetua, col terrore di un crollo spaventoso,
il giorno che le cose venissero in chiaro.
Pierino ha un certo bisogno di affetto e di tenerezza,
che gli è difficile soddisfare. La mamma è contraria, per
ragioni igieniche, ai baci e alle eccessive carezze. E
nell'atmosfera familiare c'è un'aria di disprezzo e di
burbero pudore per tutto ciò che è smanceria
sentimentale. A volte gli vien fatto di domandarsi con
terrore se vuole veramente bene ai suoi genitori. Non ha
nessuno speciale motivo per lamentarsi di essi; anzi. Ma
«voler bene!» Egli sa che cosa significhi; quel desiderio
di star vicini, di abbracciare, di essere carezzati,
coccolati, lo prova sí, ne sente anzi spesso un acuto
desiderio; ma non riesce ad associarlo al pensiero della
mamma e del papà.
I giorni della morte del babbo sono stati penosissimi.
Credeva che non sarebbe stato capace di piangere;
invece, al momento, una angoscia acuta lo aveva preso.
Ma dopo! Quel continuo sentirsi osservato. Sono
abbastanza addolorato? La cattiva coscienza, ogni volta
che gli viene fatto di giocare, o ridere e schiamazzare, o
di litigarsi. La mamma non sgrida piú, ma guarda
accorata, sconsolata. Pierino ne ha un senso acuto di
insofferenza. Vi sono fatti e atteggiamenti che
colpiscono qualche cosa di profondo e inafferrabile in
lui. La mamma che piange, che fa gesti teneri e
malinconici. Pierino arrossisce, si urta, si vergogna.
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Egli è segretamente innamorato di una compagna di
scuola. Un condiscepolo ama dichiaratamente la
medesima ragazza, e si confida con lui. Egli ascolta
avidamente, e gode. Non è geloso. Non gli viene
neppure in mente che potrebbe fare altrettanto. Si sente
fatto di un'altra pasta, partecipe di un'altra moralità in
cui confessare il proprio amore sarebbe una terribile
vergogna. E la sincerità del compagno gli sembra anzi
un'inaudita, mostruosa impudicizia. Ma di sera, prima di
addormentarsi, rimugina i racconti dell'amico,
sostituendosi a lui, e fantasticando situazioni in cui è
sempre la ragazza che si apre per la prima.
Pierino ha dodici anni. Emilio, il minore dei cugini,
quattordici. La sua mania attuale è la chimica; non fa
che parlare di atomi e molecole, di acidi e di sali.
Pierino si fa istruire da lui senza passione, per ubbidire
alla mamma, che l'ha voluto.
Un giorno, i due ragazzi si azzuffano, per un motivo
qualsiasi. Pierino litiga in modo cauto e circospetto, per
paura di venir scoperto dai grandi. L'altro non ha paura
di nessuno. Urla, strepita, gli rinfaccia clamorosamente
il suo fare equivoco.
A letto senza cena, ambedue. Dormono nella
medesima camera. Emilio è tranquillo, come se nulla
fosse accaduto. Pierino è pieno di vergogna e di rancore.
Si sente ancora debitore di uno sfregio. Alza circospetto
la mano, e dà uno strattone alla coperta del cugino.
Il danno è minimo, quasi impercettibile; ma la
reazione è fulminea. Coperta, lenzuola, guanciale,
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materasso di Pierino vengono buttati per aria da una
furia vendicatrice.
Nuova baruffa, nuovo intervento dei genitori. Emilio
viene punito, perché la sua mancanza è piú
appariscente; ma i due sanno chi è il primo colpevole.
Emilio sopporta stoicamente la pena, seppellendo il
cugino sotto il suo disprezzo.
I due ragazzi sono a letto, svegli. Pierino è tormentato
da quanto è avvenuto. Il rancore si va placando. Ma egli
non ha la forza di sostenere lo stato di guerra che l'altro
sarebbe capace di prolungare per settimane. È cosí
piacevole essere in pace, giocare, ridere insieme! Già,
lui avrà sempre la peggio, non solo materialmente, ma
moralmente. Egli sente di essere costituzionalmente,
organicamente nel torto. E con costoro essere nel torto è
una tortura.
Meglio riconoscerlo. Questione di un momento.
Buttar giú la pillola: una frase.
«Emilio, dormi?»
«No».
«Facciamo la pace».
Detto. Dopo le prime parole, le altre non costano piú
nulla. Emilio rifiuta, ma è calmo, diplomatico. Pierino
diventa patetico: implora, finge di piangere. L'altro sta
pesando le condizioni che dovrà porre. Ha una regola di
onore e di moralità, alla quale non può derogare; sembra
che stia consultando il suo codice privato.
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Ecco finalmente la condizione: Pierino dovrà
stendersi a terra, e lasciare che Emilio gli prema il collo
col piede.
È troppo. La condizione è inaccettabile. Ma ormai il
ghiaccio è rotto. I due discorrono pacatamente, da buoni
amici. Pierino scongiura che gli venga risparmiata la
pena obbrobriosa. Emilio gli spiega il vantaggio morale
che gli deriverebbe dal subirla. Umiliarsi è da forti. È
degno della sua stima e della sua amicizia solo chi sia
tanto padrone di sé da subire tale onta senza batter
ciglio.
Messa sotto questa luce, la cosa diviene piú
accettabile. Dopo lunghe discussioni e patteggiamenti
(dovuti anche al fatto che i piedi di Emilio sono
piuttosto sudici) la cerimonia viene eseguita. Emilio,
entusiasta, abbraccia il cugino. Poi non vuole esser da
meno di lui, e pretende che Pierino gli calchi a sua volta
il tallone sulla cervice. E gli atti di reciproca
umiliazione non finiscono piú.
Pierino è felice, e vergognato, e sbalordito. Il cugino
maggiore lo ha ammirato. Per la prima volta lo ha
introdotto in quel mondo di cose astratte, virtú,
giustizia, onore, in cui sembra muoversi con tanta
agilità. Viverci in quel mondo! Come tutto vi è pulito,
luccicante! Egli si sente straniero, spaesato, come se si
trovasse con abiti non suoi, in un luogo che non
conosce.
Ma oramai anche quell'altro mondo, quello tiepido e
umido dei gesti sornioni, degli atti compiuti a metà, dei
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piccoli e stanchi sotterfugi, è diventato inabitabile.
Pierino si sente viscido, appiccicoso.
Lavarsi: non s'era mai accorto della gioia che dà. Fa
ora la doccia ogni mattina, lungamente,
meticolosamente. Si lava appena ha toccato un oggetto
sudicio, oppure qualche cosa che sia stata in contatto
con un oggetto sudicio. Decide di cambiar modo di dar
la mano. Non la porgerà piú inerte e molle, ma stringerà
con quanta forza ha in corpo. Qualche signora e
signorina si lamenta della sua violenza. Egli gongola.
E non dice piú bugie: neppure la piú piccola, neppure
qualche cosa che vi assomigli da lontano. Ha ormai per
le bugie quel medesimo orrore dell'impurità che lo fa
compiere esagerate e non necessarie abluzioni. Se la
sorella gli propone di rubare, come al solito, il
formaggio in cucina, ne ha degli accessi di rabbia che
conducono ad interminabili litigi.
Non ha piú niente da nascondere: ma sta diventando
iroso, sospettoso. La tensione di tutte le sue forze gli ha
fatto perdere la giocondità di una volta. Si sente oramai
piú pulito. Ma cosí debole, cosí vicino alla ricaduta!
Un giorno si parla di ipnotismo. I cugini affettano una
sprezzante tranquillità di fronte a quest'arte pericolosa.
Pierino sente con un brivido che lui sí, sarebbe facile da
ipnotizzare.
Ha molta disposizione per le lingue, e la sua
pronunzia inglese è quasi perfetta. Vorrebbe ostentare
questa abilità, ma non osa. Sente che vi è in essa
qualche cosa di debole e accomodante; un troppo facile
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adattarsi alle movenze altrui, un esser troppo poco se
stesso.
Anche i suoi cugini conoscono le lingue; ma non si
curano affatto della pronunzia. Egli se ne irrita, e
vorrebbe correggerli. Ma gli vien subito chiusa la bocca:
«Queste sono vuote esteriorità. La conoscenza delle
lingue è uno strumento di cultura, non un mezzo per far
bella figura nei salotti».
È vero. Questi dannati hanno una maniera irresistibile
di scavalcare le quisquilie, per filar dritti all'essenziale.
Ma è duro questo, per chi apprezza le quisquilie, e si
trova a suo agio sul terreno degli imponderabili. Se ti
provi, in una discussione, a difendere la sfumatura
contro l'essenziale, avrai sempre torto.
Pierino non ci si prova. E nell'udirli espettorare ad
altissima voce i versi di Shakespeare con accento
romanesco, li sente forti, e sé debole; e sente che loro
hanno conquistato la lingua, mentre lui se ne è lasciato
conquistare.
Cosí è in tutto, anche nei rapporti sociali. Il suo primo
moto è di parlare la lingua dell'interlocutore, di adattarsi
alla sua mentalità, di dargli ragione. «In chiesa coi santi
ed in taverna coi ghiottoni». La nota stonata,
l'atteggiamento eccentrico lo disturba, lo impaurisce. In
qualunque ambiente egli vada, vorrebbe dire: «Sono dei
vostri». Ma poi si arrabbia, si umilia della facilità con
cui questo gli riesce. Quando si sente comodo,
disinvolto, fra persone da cui si è assimilato il tono,
l'accento, le preferenze, si sorprende a domandarsi con
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terrore: «E se mi vedessero qui gli altri, quelli con cui
ieri mi trovavo a mio agio, parlando un linguaggio tanto
diverso?»
Ha bisogno di sentirsi in compagnia, di appartenere
alla maggioranza. Ma qualche cosa di intimo lo avverte
che la sicurezza cosí ottenuta è fittizia, e che in realtà si
trova dalla parte del piú debole. Potrà illudersi, finché
non si venga alla resa dei conti. Ma ciascuna compagnia
di cui a volta a volta si circonda non resisterebbe al
primo assalto. E per nessuna egli si sentirebbe capace di
combattere, di soffrire.
Questo è percepito, indistintamente, anche dagli altri.
Lo accolgono volentieri come un buon compagno che
non guasta il gioco. Ma sentono in lui qualche cosa di
estraneo; e lo allontanano istintivamente quando si tratta
di cose veramente intime, importanti. Egli se ne
accorge, e ne soffre; ma ne dà la colpa a se stesso. Ha
cercato la sicurezza nell'appartenere a tutti. Comincia
ora a sospettare che sarebbe meglio difeso se
appartenesse in pieno, con tutta l'anima, contro tutti, ad
una cosa sola.
Si propone programmi. Studierà a fondo la letteratura
italiana, cominciando dalle origini. Leggerà tante pagine
al giorno. Ma rimane sempre indietro sul compito
prefisso, e non arriva mai piú in là dei predanteschi.
Declama i poeti ad alta voce, nella speranza di capirli, di
gustarli di piú. Legge le liriche di Leopardi nell'ordine
come sono nel libro, con un senso di colpa ogni volta
che gli vien fatto di saltare qualche pagina. Non è una
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passione, un desiderio, un gusto che lo spinge verso la
lettura. È il bisogno di poter dire a se stesso: «La mia
cultura si è arricchita di questo autore».
A se stesso? No, all'occhio invisibile ed infallibile dei
cugini.
È un occhio spietato, che non perdona. Impossibile
ingannarlo.
Sarebbe come confessare a se stesso che tutto si
riduce a una questione di apparenza e di prestigio. Egli
ha l'esperienza delle mezze misure, delle azioni
slabbrate; contro questo appunto combatte. Per poter
dire con coscienza «ho letto questo libro», bisogna
averlo letto veramente tutto, senza saltare una riga,
facendo attenzione a ogni parola. Ad ogni istante si
ferma, con la preoccupazione, con l'incubo di essersi
distratto, di aver sorvolato su qualche cosa. Non
conosce distinzione fra libri importanti e meno
importanti. Non è capace di sfogliare. Ne viene una
lentezza di lettura che gli resterà per tutta la vita. Ogni
libro lasciato a metà è un rimorso: non potrà mai dire
onestamente di averlo letto.
Il maggiore dei cugini, per incarico della mamma, gli
ha parlato un giorno di cose sessuali: lo ha messo in
guardia contro vizi e pericoli; lo ha iniziato ad una sua
morale fra stoica e quacchera: la necessità di
moralizzare l'atto sessuale, di non compierlo mai come
sfogo di istinti, ma solo sub specie aeternitatis, con la
donna che si amerà sempre, per la procreazione dei figli.
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Pierino non fa fatica a uniformarsi, e il suo bisogno di
pulizia si trasforma in orgoglio, nel sentirsi partecipe di
una moralità superiore, di cui i compagni di scuola non
hanno neppure l'idea. La sua inerzia innata gli viene qui
in aiuto. Quanto è piú facile astenersi, che agire! Se la
virtú consiste solo nell'evitare il vizio, egli si sente
capace di sfidare chiunque.
Ha ormai quattordici anni. Quest'estate tutta la
famiglia è a rumore per la mania religiosa di Ennio, il
secondo dei cugini. È appena tornato da un viaggio di
istruzione, in cui ha visitato chiese e santuari, maestri
teologi e mistici. E la casa di campagna in cui è raccolta
la numerosa famiglia echeggia di violente discussioni.
Gli zii, buoni industriali con qualche velleità
intellettuale, imbevuti di Spencer e di Lombroso, sono
furibondi per questa offensiva contro le «piú moderne
conquiste della scienza». Ennio sembra prender gusto a
gettar pruni nei loro occhi. Difende con accanimento il
senso letterale di ogni parola dei libri sacri, ostenta di
partecipare ad ogni rito, annettendo ad esso un
significato profondo.
C'è in lui la gioia di aver capito qualche cosa che gli
altri non capiscono, scoperto un valore che essi avevano
misconosciuto. E poi, un bisogno caratteristico della sua
mentalità, di giungere subito alle ultime conseguenze;
una tendenza romantica al sacrificio, mista ad una
insopprimibile passione per lo scandalo. Non c'è pratica
superstiziosa e oscurantista, nella quale egli non accetti
di riconoscere un sublime valore trascendente,
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inaccessibile alla piatta mentalità positivistica degli zii.
Il suo argomentare, misto di formule della filosofia
idealistica e della fraseologia mistica, suona nuovo,
inaudito, irritante fra le solide mura domestiche.
Pierino ascolta senza grande interesse: quest'anno si
sente piú presentabile, munito anch'egli di una sua
attività intellettuale, col Leopardi e col dolce stil novo.
E nei cugini lo irrita di primo acchito quel perenne
partito preso contro le posizioni di riposo e le opinioni
accettate.
Una sera Ennio esce acceso ed ansimante da una
discussione; e Pierino, che ha seguito senza capir tutto,
gli domanda alcuni schiarimenti. L'altro glieli fornisce
con copia, con foga, e prende di nuovo l'abbrivio per
perorare. «Ciò che io richiedo da te è onestà con te
stesso, e coraggio di non arretrare di fronte alle
difficoltà. La via che ti offro è irta di spine. Ma la meta
è luminosa. A te la scelta».
A te la scelta! Ciò che io richiedo da te! Pierino è
fuori di sé. Non si aspettava questo. Non gli era mai
balenato di essere anche lui parte in causa, di poter
essere chiamato a prendere posizione, a partecipare in
proprio, a militare. È come se un velo si squarciasse. Il
mondo di Ennio lí a portata di mano, non piú come
oggetto di interessanti discussioni e di gustosi ripicchi,
ma come qualche cosa cui domani potresti appartenere
tutto intero, consumandoti a quella passione, bruciandoti
a quella fiamma!
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Non c'è dubbio possibile. I brevi giorni di indecisione
sono piú che altro una formalità psicologica; poi Pierino
è un adepto, entusiasta, fanatico. E dietro a lui tutti i
ragazzi della famiglia, che sono una mezza dozzina.
Ma lui è il primo, il prediletto. Ennio lo lusinga, lo
carezza, lo addita come esempio agli altri. Seguono
settimane, mesi di studio appassionato, di discussioni
feroci. Pierino è diventato un uomo di punta. Attacca,
investe, rimprovera senza riguardi. Non ha piú paura di
nulla: è ormai dalla parte del piú forte. Si sente
accompagnato, partecipe di una collettività e questo gli
dà la forza di sostenere urti, di vincere opposizioni.
A scuola fa apertamente propaganda della propria
fede, incurante delle irrisioni. Non si vergogna piú di
essere diverso dagli altri, anzi lo ostenta. Si veste male,
e abbandona ogni velleità di giovanottino elegante.
Quando una cravatta è consumata, continua a portarla
facendo il nodo dalla parte del fondo. Se questa
trascuratezza gli viene rimproverata, guarda con un tono
fra desolato e sprezzante, come dire: «Lo riconosco, è
un difetto, ma ho cose piú importanti a cui pensare».
Nella discussione è violento insieme e cavilloso. La
sua tortuosità di una volta gli serve ora per dimostrare a
qualunque costo la giustezza della sua tesi. E il fervore
polemico lo aiuta a convincersi della propria causa. Si
sente oramai piú saldo. Nessuno – pensa compiaciuto –
potrebbe dire che avrei dovuto nascere femmina.
Gli incontri coi cugini (che vivono d'inverno in
un'altra città), gli dànno ogni volta un nuovo impulso di
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idee e vigore morale. Ma, anche, gli rinnovano il senso
della propria inferiorità. Oramai sono diventati i suoi
piú intimi. Non lo disprezzano piú, lo considerano dei
loro. Ma di lí non si esce: sono essi i maestri, e lui è lo
scolaro. Vincerli in una discussione, è piú che mai
impossibile.
Ogni volta che li vede, si imbeve delle loro idee, e,
tornato a casa, lavora per impadronirsene e per
svilupparle. Quando ritorna, orgoglioso del lavoro
compiuto, e con qualche nuovo pensiero faticosamente
elaborato, li trova già mille miglia lontani, inebriati di
nuove scoperte.
C'è in loro qualche cosa che Pierino non riesce ad
afferrare, e che li fa camminare diritti e sicuri, senza
tentennamenti. Egli si sente, anche nelle minime
questioni della vita, come un guerriero inerme di fronte
a uno squadrone solidamente corazzato.
In tema di arte, per esempio, Pierino ha un certo gusto
per la poesia e per la pittura, e molta passione per la
musica. Ma come gli riesce difficile giustificare i suoi
giudizi e le sue simpatie! Le opinioni dei cugini sono
invece invulnerabili, catafratte in una coerenza che le
difende da tutte le parti. Sembra che un dispositivo
invisibile leghi ed incateni tutte le loro azioni e i loro
pensieri, in modo che ciascuno sia sostenuto da tutti gli
altri, con illimitate possibilità di abbracciarne dei nuovi.
Pierino si sente oscillante, sbalestrato. È alla ricerca
di un filo conduttore, di un criterio, di una chiave.
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Lo trova, quando legge il Breviario di Estetica di
Croce. Da quel giorno, diventa il migliore della classe in
componimento. Svolgere un tema non è piú un incubo,
ma un godimento. Basta pensarci un po', «collocare»
l'argomento nel sistema delle facoltà o delle categorie,
sviluppare l'analisi nella direzione opportuna. Pierino
gusta ora molto di piú le opere d'arte, e possiede gli
elementi che gli permettono di dare giudizi sensati, e di
sostenerli. Il mondo gli ha rivelato d'un tratto la sua
invisibile armatura.
Si sente oramai come un iniziato. Nel parlare coi
«profani» ha l'impressione di muoversi agilmente, in
una regione disseminata di frecce e di segnali indicatori
visibili solo a lui. Di fronte a chi «ha letto» si sente
partecipe di una casta di privilegiati, che hanno bisogno
di poche parole per comprendersi.
Non è piú ora aggressivo nelle polemiche. È anzi
calmo, equanime. E non si costringe piú a camminare
diritto, a testa alta. Quando si è sorretti da una solida
spina dorsale, i muscoli possono rilasciarsi.
L'Universale! Pierino ha capito che qui è il punto, la
pietra di paragone. È vero filosofo, e appartiene alla
casta degli iniziati solo chi ha capito l'Universale. Gli
altri sono volgari empirici. Capir l'Universale non è cosa
da tutti, e non è cosa che s'impari. C'è un che di diffuso
nel modo di parlare, e quasi nel volto e nel
comportamento di ognuno, che ti fa capire se egli è
capace di afferrare l'Universale, il «concetto di ogni e di
nessuna cosa». L'Universale sono i cugini, l'empirico
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sono gli zii. L'Universale è l'occhio invisibile che vede,
sono i gesti compiuti con l'assillo della totalità, i libri
letti fino all'ultima parola, il lavarsi dopo ogni contatto
impuro. L'Universale è il considerare ciascuna cosa,
ciascun atto non per sé, ma per qualche cosa che esso
rappresenta: qualche cosa di cui si ha una tremenda
paura di dimenticarsi, che si vorrebbe fosse sempre
presente, cui si preferisce incatenarsi che esserne
abbandonati.
Pierino ha capito l'Universale, e l'imperativo
categorico e l'azione fine a se stessa. Li conosceva già
da tempo, da quando aveva deciso di togliersi al suo
mondo tiepido e umidiccio, e di parteggiare per i cugini.
Ma ora vede la sua realtà organizzata, sistemata in un
edificio dove non è piú possibile ingarbugliarsi e
perdere il filo.
Oramai è deciso: studierà filosofia. Non ha letto che
qualche libro, ma la sua determinazione è incrollabile.
La filosofia è per lui la piú concreta delle scienze, quella
di cui non può piú fare a meno per vivere, che lo
accompagnerà e guiderà in ogni azione. Se qualcheduno
ride dell'astrattezza e della nebulosità dei suoi concetti,
egli si irrita. Sente che sono cose che non si possono
spiegare senza un certo pathos, e una simpatia da parte
dell'ascoltatore; cose che risiedono nell'interno, che la
meccanicità di un puro ragionamento non riesce
neppure a sfiorare. È un mondo nel quale si può entrare
solo d'un balzo: o meglio, bisogna esservi già dentro.
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Il mondo è pensiero. La natura è non-essere. La
libertà è necessità. Pierino si meraviglia dello scandalo
che suscitano queste parole nella gente comune. Esse
hanno un senso ben preciso, e non ci vuole poi molto a
capirle. Si tratta quasi sempre di un ragionamento breve
e abbastanza semplice. Bisogna riuscire a districarlo
dalle pagine spesso ridondanti del libro, e seguirlo col
desiderio di approvare: accettare il senso dato alle
parole, mettersi dal punto di vista secondo il quale i
significati vengono accostati. E poi, una volta
conquistato il punto di vista, abbracciarlo stretto,
aggrapparvisi fortemente, e da quell'altura guardare il
mondo circostante: le cose allora si presentano con un
aspetto nuovo, le vie maestre si delineano chiare, le
contraddizioni si risolvono. Una perfetta armonia si
rivela là dove sembrava regnasse il caos. Quella frase si
riempie di significato concreto, riceve insospettate
conferme. Applicarla, trarne sviluppi e corollari, diventa
facile e divertente, di fronte agli occhi stupiti dei
profani.
Egli usa oramai correntemente le parole grosse, Io,
Spirito, Pensiero. Pensiero di chi? Degli uomini,
naturalmente. Eppure, se dici «il pensiero umano»,
anziché «il Pensiero», ti sembra di aver perso tutto. Chi
parla di «facoltà della psiche umana», e non sa dire
«estrinsecazione dell'Io», ecco, costui non è, non sarà
mai filosofo. Filosofia è sentire, compenetrarsi, vivere
di una maiuscola a capo di una parola.
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C'è decisamente un tacito consenso fra i «parlatori in
maiuscola» per disprezzare chi usa i plurali collettivi.
Ma la cosa non è spiegabile con parole. Il solo porsi il
problema è segno di mentalità antifilosofica. Questo
parlare in minuscola senza dare né chiedere spiegazioni,
è il segno di riconoscimento.
Pierino non si rende ben conto della cosa, ma ne è un
po' sconcertato. Gli sembra di trovare dappertutto dei
membri della propria famiglia, gente che parla quel suo
medesimo linguaggio allusivo, in cui è contenuto tanto
di esperienza intima e personale, di lotta contro se
medesimi, di vergogna di fronte agli altri. A volte ne
prova un senso di fastidio e di pudore. Si sente liberato
da certi incubi che credeva solamente suoi, ma soffre di
vederli in qualche modo svalutati, resi banali. Inclina
spesso a credere che l'altro, quello che parla cosí, non
abbia veramente «capito».
Deve ora crearsi dei ripari. C'è quella benedetta
inerzia che bisogna vincere. I proponimenti, i
programmi, gli orari si susseguono. I libri, letti sempre
con quell'accanimento sospettoso contro se stesso; le
azioni analizzate spietatamente, nei piú reconditi
moventi. Pierino non è oramai piú capace di muoversi
senza portare un libro con sé. Anzi vari libri, in
previsione delle varie possibili disposizioni di spirito. Di
ogni azione che compie, si domanda se è morale.
È divenuto avaro del suo tempo. Ma ci sono cose che
nessuno sa: per esempio, che molte, moltissime delle
ore passate a tavolino sono perse in vuote fantasticherie.
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La sorella, che lo sospetta, non ha nessun riguardo di
disturbarlo. Egli se ne irrita contro di lei, ma anche
contro di sé. Bisogna essere puliti, puliti, puliti.
A teatro, con un compagno d'università. Dànno
un'opera moderna, che Pierino già conosce per averla
udita ripetutamente due anni prima, insieme con la
sorella e le amiche della sorella, e tutto un clan
musicale. Egli aveva partecipato apertamente a una
sorta di entusiasmo morbido e femminile che si era
acceso attorno a quest'opera. La si era suonata, cantata,
commentata in casa per settimane. Si era scritto
all'autore. La si ascoltava religiosamente, ragazzi e
signorine, addossati l'uno all'altro in un angolo del
loggione, con le lampadine puntate sullo spartito aperto.
Pierino si vergogna ora un po' di tutto questo, ed è
trepidante per l'odierno giudizio d'appello. Sono le
passioni, i sentimenti incontrollati della sua adolescenza
che passano oggi l'esame di fronte all'istanza piú ambita
e piú temuta, al giovane promettente filosofo,
beniamino dei professori, speranza della facoltà. Si
sente come uno che fa gli onori di casa a un ospite di
riguardo.
Fine del primo atto. Pierino ha riprovato in pieno il
brivido della prima volta. L'animo gli ribolle di musica.
Vorrebbe rivolgersi al collega con le parole patetiche di
allora, intramezzate da motivi cantati a mezza voce.
Non può, non osa. Cerca di tradurre i suoi sentimenti
confusi in linguaggio critico ortodosso.
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L'altro parla con indifferenza. L'opera non gli ha fatto
grande impressione. Gli è piaciuta una certa sensualità
di toni, e la violenza oratoria e moralistica dei cori.
Sensualità? Moralismo? Che non abbia letto Croce?
Se una persona di famiglia gli avesse dato un giudizio di
questo genere, l'avrebbe redarguita e annientata con
quattro stringenti argomentazioni. Ora però abbozza con
timidezza le sue risposte. L'altro si lascia vincere troppo
facilmente. Sorride con superiorità.
Un lampo. Croce sarebbe superato? Nel compagno ha
notato un certo compiacimento nell'usare i termini
proibiti, come per una libertà riacquistata. Pierino si
sente meschino, neofita. La filosofia, dunque, non è una
cosa che esiste e che basti imparare. Bisogna farla.
Disciplina, fatica, pazienza, va bene. Ma c'è quel sorriso
ironico. Tu peni e combatti per appropriarti di queste
cose, per muoverti agevolmente in quel mondo, per
adattare al tuo corpo la corazza. E quando hai imparato
a camminare sicuro, e ti sembra di poter muovere
all'assalto, il terreno ti crolla sotto i piedi, la corazza si
sfascia. Pierino prova ora una sorta di rancore misto a
trionfo per i suoi maestri cugini, per questi eroi del
desco familiare, capaci di pontificare di fronte a
un'accolta di zii autodidatti e di zie sentimentali, in
nome di una filosofia stantia. Per la prima volta si sente
a loro superiore.
All'università si dà continuamente battaglia contro
Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra
per discutere coi compagni e col professore.
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Pierino ascolta avidamente, ma non capisce nulla.
Vede che ciascuno difende una tesi, rappresenta una
parte; ma non saprebbe in alcun modo spiegare quale,
né prendere posizione. Salire anche lui su quella pedana,
gli piacerebbe tanto: ma per dir che?
Tenterà, ad ogni modo. C'è sempre stato in lui un
bisogno di confrontarsi, che lo attrae irresistibilmente
verso ogni gara.
Col tema assegnato, di fronte al foglio bianco, non sa
proprio che cosa scriverà. Le idee che ha in testa
basterebbero a riempire mezza pagina. E poi? Bisogna
parlare per tre quarti d'ora, ed è elegante, è apprezzato
farsi sorprendere dall'annunzio della fine con molte
cartelle ancora in mano.
Cominciamo a scrivere almeno queste quattro idee.
Nello scrivere, le idee si allungano. Gli addentellati,
gli sviluppi, le digressioni si moltiplicano. Le pagine si
riempiono facilmente, una dopo l'altra, il limite dei tre
quarti d'ora viene largamente superato. La scrittura si fa
sempre piú minuta. Pierino mette un'estrema cura a non
trarsi da solo in inganno. Se ha scritto venti pagine,
vuole che siano pagine sul serio, piene, fitte, senza
margini, senza a capi. C'è l'occhio invisibile che
controlla. Quando poi le venti manoscritte diventano
venticinque, trenta dattilografate, è una gioia, è un
trionfo.
Come è facile scrivere difficile! Le parole con la
maiuscola sono piú docili delle altre. Il loro stesso peso
permette di manovrarle con piú sicurezza. Pierino non
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ha piú dubbi di averle veramente capite, giacché gli
scorrono cosí lisce fra le mani. Rilegge e si immagina di
essere seduto sui banchi, come ascoltatore: non
capirebbe una parola. La prova è superata.
Non siate ora meschini. Pierino non è un imbroglione.
È profondamente convinto di quello che scrive, e quello
che scrive ha un senso. Non c'è nulla di piú lontano dai
suoi propositi, che di ingannare il prossimo. Se lo
sfiorasse il minimo dubbio su se stesso, è proprio lui il
tipo da non aver pace finché non se ne sia
completamente liberato. Lo scriver difficile gli
garantisce che i suoi pensieri sono importanti, valgono
la pena di essere scritti; lo assolve dall'onta di non
capire gli altri; gli conferma l'appartenenza di diritto a
quel mondo. È già qualche cosa l'impossessarsi di una
terminologia. Ma qui la terminologia non è solo uno
strumento: è una protezione.
Pierino legge la Critica della Ragion Pura con
l'impegno, scrupolosamente mantenuto, di non
procedere oltre senza essersi reso conto di ogni singolo
passaggio. Ma ci sono degli autori che non riesce
assolutamente a digerire: per esempio Nietzsche. L'ha
preso in mano varie volte, ma l'ha dovuto sempre
lasciare dopo le prime pagine. Nietzsche non ha
principio né fine; non fa «passaggi». Cosí slegato,
inconsistente! Un mondo inabitabile. Al principio di
ogni frammento è come se si cominciasse a leggere un
nuovo libro; non vedi un nesso col precedente. Devi
stare sempre all'erta, non mai abbandonarti
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all'automatismo del ragionamento, mai prevedere la
conclusione, mai sentirsi accompagnato, sorretto
dall'ordine, dall'armonia dell'edificio. Non puoi dare un
giudizio sul libro; devi darne a centomila, quanti sono i
pensieri che esso contiene. Pierino odia gli aforismi.
Kant è molto piú facile.
(Se penso a tutto ciò che mi distacca oggi dal mio
amico Pierino, la cosa piú sintomatica è forse questa:
che l'unico filosofo che sono oggi capace di leggere, è
Nietzsche).
Pierino non ha, e non se ne duole, le doti di fantasia e
di creatività dei suoi compagni. Pronto ad ammirarle nel
campo artistico, le considera con un certo disprezzo
quando vogliono applicarsi alla filosofia. Egli sente
nelle teorie allettanti, nelle «esigenze» formulate con
troppo calore, qualche cosa di non genuino. Indovina
troppo facilmente, sotto quei tentativi, l'uomo col suo
carattere, coi suoi nervi, coi suoi rancori. E lo irrita la
pacchianeria con la quale tutto ciò si ammanta di
filosofia. Oramai è forte abbastanza per sopportare
qualche urto, e scrolla le spalle di fronte alle accuse che
gli vengono lanciate di razionalismo, di moralismo. Ciò
che ricerca, in ogni problema, non è tanto la soluzione
(una qualsiasi soluzione) quanto la nettezza, la pulizia,
l'onestà dell'impostazione. Che non ci siano equivoci,
che sia ben chiaro ciò che si vuol dire, che si conosca il
significato delle parole. Ha un certo vezzo di prender
respiro quando la discussione s'ingarbuglia e comincia a
diventare appassionata: «Vediamo uno po'. Tu dici "la
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realtà". Che cosa intendi, di preciso, per "realtà"?»
Questa posa pacata e inesorabile fa andare in bestia
l'interlocutore.
Smontare Croce, con questo metodo, diventa un
giuoco di pazienza. Basta collaudare tutto il sistema
passo per passo, giuntura per giuntura. E il risultato è
che il sistema va in frantumi. Il circolo delle forme dello
spirito si rivela pieno di crepe e di artifici. Il
parallelismo fra arte e logica, economia ed etica si
mostra dovuto ad un estrinseco bisogno di simmetria.
Ciò che resta sono le singole scoperte e osservazioni, i
pregiudizi tolti e le distinzioni opportunamente fatte.
Pierino non si saprebbe risolvere ad abbandonare tutto
questo materiale cosí pregevole, solo perché gli si è
rivelato inconsistente l'edificio. Non c'è in lui nessuna
smania iconoclastica, nessun trionfo distruttore.
Piuttosto una certa malinconia, uno smarrimento di
dover rinunciare alla cara e sicura guida, al padre sereno
e tranquillante.
I compagni continuano ad accusarlo di essere
crociano. Egli se ne difende, ma sente che non hanno
completamente torto. È quello spirito che egli fa
giuocare contro il suo medesimo creatore, quell'ordine,
quella pazienza, quello sbrogliare le matasse, quel
«disgiunto».
Il problema che lo occupa è sempre il posto, la
collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito: il
rapporto fra arte e conoscenza, fra conoscenza e
volontà, fra economia e morale. Tenta nuove
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costruzioni, sviluppa nuovi legami. Ma non subisce
nessuna crisi, non si sente affatto sbalestrato. Egli sente
di lavorare all'interno di un mondo, per il suo
riordinamento. Le grandi linee direttrici, le possiede.
A un certo punto, gli balena la possibilità che questi
elementi di cui cercava con tanto accanimento l'ordine e
la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano
vivere cosí, separati, paralleli, autonomi, senza
svilupparsi necessariamente l'uno nell'altro, senza
gerarchia e precedenze. L'idea lo entusiasma. Gli
sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi, di
essersi liberato da una esigenza superflua, di un
pregiudizio. E non pensa piú tanto a definire e a
ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere
dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà
pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo
nome che termini in -ismo. Pierino si butta sui pluralisti,
sugli individualisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach
e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz.
È diventato un uomo forte. Il suo solo aspetto solido e
sincero è fatto per destare fiducia. Amici, amiche gli
chiedono consiglio nelle loro questioni personali; cugini
minori lo consultano sulla carriera da seguire. Le
mamme lo adocchiano con interesse per le loro figliole.
Lui stesso è cosí sicuro ormai della propria solidità,
che non sente neppure il bisogno di vantarsene. Gli
piace fare il confessore: dire quelle parole autorevoli e
suadenti che pongono con disinteresse, senza ira, un
uomo di fronte alle sue responsabilità. Gode che una
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persona, per merito suo, riesca a riconoscere con
serenità il suo torto. Ha una ingenua fiducia nelle sue
qualità di psicologo. Lascia volentieri alla gente la
soddisfazione di parlare di sé, purché acconsentano a
prenderlo come guida. Si sente liberatore, benefattore,
occhio del mondo. In una situazione dove c'è da
rimproverare con comprensione, da fare altrui il regalo
di rivelargli le proprie miserie, si sente a casa sua.
Chi lo conosce a fondo non si lascia prendere nelle
sue reti. Sfugge, si dibatte, lo odia. «Sarà», dice la
sorella, «ma non m'interessi. Sei psicologo di
professione». Egli non si adonta di ciò. Sa essere nobile
e giusto anche con se stesso. Ravvisa in queste ribellioni
il segno di una propria deficienza, che cerca di
sviscerare e di correggere.
La sua sincerità rasenta a volte l'impudicizia. «La mia
vita privata», si compiace di ripetere, «è pubblica. A
chiunque è permesso di giudicarla». La confessione è
diventata per lui il surrogato dell'astensione. La
vigilanza dell'occhio implacabile si può eludere
divulgando quelle cose recondite che esso avrebbe
dovuto scoprire. Con questo artificio, si può sostenere
imperterriti il suo sguardo. Gli si è tolta la sua funzione:
anticipandola la si è svalutata.
Pierino ora ha idee piú vaste e libere sulla morale
sessuale, e non considera piú come colpe certi atti e
certi contatti che prima lo avrebbero fatto rabbrividire.
Ma non sarebbe capace di sopportarne continuamente il
peso, tenendoli nascosti. C'è in lui una fretta di
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denudarsi, come per paura di venir prevenuto da altri.
Ciò che dice di se stesso, non potrebbe sopportare che
altri lo indovinasse prima della sua confessione, o che
ne facesse oggetto di commenti in sua assenza. Si apre
con ogni amico, ma scongiura ciascuno di tenere per sé
le sue rivelazioni. Se gli capita di criticare qualcheduno,
non ha pace al pensiero che le sue parole possano venire
riferite all'interessato, e cerca con ansia l'occasione di
dirgliele lui stesso in faccia.
E di questa pavida sincerità si vanta di fronte a se
stesso, come di una virtú, di una forza.
Un poeta.
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La nota dominante è cupa. Gli occhi ti scrutano con
fastidio, con sospetto. Lo sguardo è rivolto verso
l'interno, non con serenità, ma con paura. Tu indovini un
uomo tutto occupato di sé, smarrito nei suoi tic nervosi,
e nelle sue idiosincrasie, nei suoi «complessi».
Io frequentavo il negozio, ma evitavo il padrone. Non
potevo soffrire il suo fare livido. Se gli domando un
libro, mi fa capire che lui è un poeta. Se gli parlo di
poesia, mi guarda, come dire: «Al sodo, signore! Io
vendo libri».
Ieri lo trovai piú accogliente. Mi consigliò dei libri,
mi parlò delle sue letture. Confesso che il gusto di
conversare col noto letterato prevalse sull'antipatia; e
arrischiai una domanda:
«È vero che farà un'edizione definitiva delle sue
poesie?»
«Può darsi», rispose iroso. «Ma a che serve? I
giornali non se ne occuperanno, il pubblico non
comprerà».
Il mio rancore trionfava. «Ecco non è un poeta, è un
ambizioso. Non pensa che al successo». E abbozzai un
paio di frasi convenzionali; che il successo non è la
misura del valore di un'opera, ecc.
Mi interruppe:
«Non è vero. Il poeta scrive solo per il successo. Non
mi venga a parlare di arte come espressione, come
scopo a se stessa. La facoltà di esprimersi è, si capisce,
un presupposto della poesia; ma non è la poesia. Il poeta
canta perché ha qualche cosa da dire: qualche cosa di
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diverso dagli altri, di eccezionale. Chi canterebbe la
paternità, sentimento di tutti? Io conosco un solo poeta
della paternità, e questo l'ha fatta diventare maternità,
cioè il desiderio che hanno i maschi di partorire. Ciò che
il poeta esprime sono i suoi istinti proibiti. Ciò che egli
canta sono le sue colpe. E le canta per liberarsene, per
confessarsi, per purificarsi. Se il pubblico gli volta le
spalle queste colpe gli ricascano addosso, piú
tormentose di prima».
Non crediate che il mio poeta sia pazzo. Egli parla un
gergo, il gergo della psicanalisi: scienza che vede tutto
in funzione di istinti compressi, e riaffioranti sotto
forma di nevrosi e di idiosincrasie, delle quali ci si può
liberare solo giungendo alla radice del male: cioè
sciogliendo i groppi che si sono formati nell'inconscio,
scavando nei meandri della memoria, fin che si sia
ritrovato l'impulso iniziale, e l'iniziale compressione.
Quando sento discorsi strani come questo, mi viene
un gran desiderio di comprendere. Io sono un uomo
sano. Ma sospetto sempre negli spasimi degli ammalati
qualche ricchezza che non ho. La mia salute rischia, a
volte, di diventarmi troppo semplice; di trasformarsi in
pesantezza, in banalità.
«Capisco», gli risposi, «ammetto. Accetto che si canti
per liberarsi da istinti proibiti, per placare i propri nervi.
Ma non intendo come questa purificazione possa
avvenire solo attraverso il consenso del pubblico. Non
basta averle dette, queste cose, averle messe allo
scoperto? Non basta vedere sé di fronte a se stessi,
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oggettivarsi, contemplarsi? Non è questo il supremo
godimento dell'arte, la catarsi?»
Ma le parole mi morivano sulle labbra. La nota teoria;
la cosa troppo vera; ciò che hanno detto su per giú tutti,
da Aristotele a Croce. Il mio poeta vuole di piú. Chiede
alla poesia altre liberazioni, che tocchino il fondo
segreto e inconfessabile dell'essere umano. Ed ho
pensato all'irresistibile pudore che prende ciascun uomo
«sano», o «normale», al momento di rivelare ad altri
qualche parte nascosta, quindi vera, di sé; al tremendo
sforzo di sincerità che deve costare il dir «tutto», a tutti.
Al senso insopportabile di nudità che deve provare chi
vede accogliere questo dono di sé, con distrazione, con
indifferenza.
Questo, dunque, è non la «catarsi», e non la
«rappresentazione», questo è la poesia per un vero
poeta. Mi vergognai della mia frivolezza.
Sentivo su di me il suo sguardo calmo, malevolo. Ero
oramai in suo potere. Mi dibattevo per trovare una via
accettabile alla meta che non volevo a nessun costo
abbandonare, alla conclusione cui sapevo di dover in
ogni modo giungere: che chi è artista deve scrivere in
ogni caso, con o senza il consenso del pubblico.
«Lasciamo stare la soddisfazione», ripresi. «Non si
scrive solo per averne un sollievo, per liberare se stessi.
Posto anche che il poeta debba soffrire eternamente, che
la sua poesia non gli dia alcun godimento personale;
non è un dovere, per lui, scrivere? Chi ha la possibilità
di espressione, e ha qualcosa d'importante da dire, è
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obbligato moralmente a far partecipe il pubblico della
propria ricchezza».
«Chi l'ha detto? Perché? Chi lo obbliga? Questa è
morale, è filosofia. Io non capisco la filosofia. So
parlare solo di psicologia. L'imperativo categorico non
mi dice niente. Io vedo solo le cose che esistono».
Arrossii. Cercai di riparare:
«No, non faccio filosofia. Faccio anch'io solo della
psicologia. Ma mi pare che una determinata facoltà
spirituale, anche di là da ogni dovere, implichi un
bisogno istintivo, irresistibile di esercitarla. L'organo
crea la funzione. Chi sa scrivere non può fare a meno di
scrivere; debba o non debba, soffra o goda. Il poeta è
schiavo delle sue possibilità».
Questo discorso, sí mi riusciva. Mi riscaldai. Mi
pareva di aver colpito il segno. Di essere umano e
giusto. Questa volta il poeta non avrebbe potuto dirmi di
no. Una specie di entusiasmo mi prese. Il piacere di
vincere nella discussione si univa al sentimento patetico
di combattere disinteressatamente per la salvazione di
un valore artistico, per riportare un uomo sulla via della
fiducia e del lavoro.
Parlavo. Il poeta era ammutolito. Il suo sguardo era
assente. I suoi tratti si decomponevano. Sembrava che
l'unità del suo volto si rilasciasse, che ogni ruga
cominciasse a stare da sé. Intuii che stavo perorando nel
vuoto.
Non ne ebbi rancore, ma umiliazione. Egli vive in un
carcere, sottoposto a quotidiane torture; ma non è
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disposto a uscirne se non con le proprie forze. La sua
fisionomia travagliata ha un che di sereno, di forte: la
calma di una disperazione incrollabile. Alla mia smania
di risolver problemi, di sbrigar matasse, egli oppone un
caparbio attaccamento al groviglio di delusioni e di
rancori di cui è fatta la sua potenza e la sua impotenza
poetica. Egli butta in faccia al mio bisogno di chiarezza,
il suo diritto a soffrire, a lamentarsi, ad essere infelice.
La mia salute, non me la invidia.
«Lei ha ragione», disse. «Arrivederci».
Da ieri, io amo quel poeta. Non posso staccare il
pensiero da lui.
Volevo pubblicare questa novella; ma mi sentii in
dovere di sottoporla prima all'interessato. O meglio,
colsi questa occasione per rinnovare i miei rapporti con
lui.
Me la strappò di mano, e corse nel retrobottega.
Tornò di là a poco.
«Signore, tutto quello che lei ha scritto, è falso.
Debbo pregarla di non stampare questo racconto. Non
posso impedirglielo, ma lei mi farebbe un atto da
inimico. Ne andrebbe di mezzo la mia bottega, per la
quale ho la responsabilità anche verso terzi».
Era verde. Tremava. Mi chiamava, per la prima volta,
col mio nome, ma lo storpiava, con una certa insistenza,
come per tenermi ben discosto da sé, per farmi capire:
«Sei cosí poco importante, cosí spregevole, che non mi
prendo neppure la cura di pronunciarti correttamente».
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Io avevo preveduto tutto questo, ma ne rimasi lo
stesso allibito. Mi disturbava il giovane di negozio,
testimone della scena impudica. Sentivo che il ghiaccio
si stava rompendo, che ero sul punto di diventare suo
intimo amico. Protestai debolmente, poi cedetti.
Da quel giorno la mia casa divenne una specie di
rifugio per il poeta. Veniva la domenica pomeriggio, e si
buttava su un divano, lamentandosi dei suoi mali, della
famiglia, della bottega. Io lo ascoltavo, e gli suonavo dei
dischi di Bach e di Ravel. Ma c'era qualche cosa di
sospettoso e incerto e reticente nella sua amicizia per
me; una paura di esser sfruttato: di dover dare, là dove
avrebbe voluto solo ricevere, distendersi, riposarsi.
Non aveva torto. Ci sono grandi vantaggi a prendere
come maestro, come medico, un ammalato. Ti permette
di accogliere con maggiore libertà le sue parole. Ti
toglie ogni senso di passività, di dipendenza. Ti lascia
una grande facoltà di scelta fra i suoi insegnamenti, e la
possibilità di vendicarti della tua inferiorità col
compiangerlo, col curarlo a tua volta. Ti permette di
arrabbiarti con lui senza sentirtene umiliato.
Non vi è mai capitato di dover dire a una persona una
di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha piú il
coraggio di guardarsi negli occhi? Rivelargli qualche
lato del suo carattere, di cui egli non avrebbe mai la
forza di accorgersi da solo? Voi esitate, temete le
reazioni del suo pudore, e della sua suscettibilità.
Vorreste risparmiargli la vostra presenza, nel momento
in cui egli si troverà bruscamente di fronte alla propria
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vergogna. Ebbene, se voi scegliete il partito di prenderlo
in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli
comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete
di addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo,
siete dei volgari istrioni, innamorati di voi stessi,
infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere
e di amare l'amico. Voi vorreste assestargli il colpo che
darà inizio per lui a una dolorosa lotta contro se
medesimo, e in piú avere la sua gratitudine, la sua
ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente
basso e spregevole, apparirgli voi come l'arcangelo
liberatore, il puro, il disinteressato, l'immacolato. Se vi
prende a calci, è il meno che possa fare.
Ditegli invece le medesime cose in un accesso di
rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete almeno
altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste
verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua;
dategli un appiglio per difendersi, un'occasione di
odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e
malvagio. Il vostro insegnamento allora penetrerà nel
suo cuore in modo umano, lieve, benefico. Egli sarà
libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di
stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella
sua accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di
costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il
senso del mito di Nereo, l'indovino col quale bisognava
azzuffarsi perché si decidesse a profetare?
Cosí, senza volerlo, si comportava il mio poeta con
me. Nel suo sguardo verde e assente, nella sua
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resistenza a parlar di altro che di se stesso, io avevo una
garanzia contro le troppe sollecitudini dei «salvatori di
anime». Mi era chiaro che egli vedeva piú a fondo di
me; ma la durezza rabbiosa e malata delle sue
interpretazioni mi lasciava pienamente libero di
accettarla o no. Lo ascoltavo con quella mezza
attenzione con cui un figlio affettuoso ascolta il vecchio
padre maniaco; ma con l'animo aperto, senza scudo;
pronto a lasciarmi colpire da quella freccia che avesse
colto nel segno.
Un giorno mi domandò a bruciapelo:
«È cosí sicuro, lei, di essere sano? E perché fa
filosofia?»
Da quel giorno, io non faccio piú filosofia.
Non saprei bene spiegare il perché. Non mi erano mai
mancati gli argomenti per difendere la mia professione
di fronte ai profani. Ero capace di dimostrare a chiunque
quanta filosofia implicita fosse contenuta nei suoi
giudizi quotidiani, e come non sia possibile a nessuno
fare a meno di una nozione, sia pure confusa e
imprecisa dell'Universale. Sapevo confutare le accuse di
inutilità, che la filosofia cosí spesso si tira dietro, e
mostrare quanto la scienza moderna debba a uomini
come Cartesio e Leibniz, come tutta la cultura dell'800
sia impregnata di Kant. Sapevo rinfacciare con ironia al
mio scettico interlocutore che il suo stesso assalto
contro la filosofia costituisce una presa di posizione
filosofica.
45
Tutto questo repertorio, lo conoscevo a meraviglia.
Ma, sotto quell'occhio verde, non fui capace di
sfoderarlo. Mi sentivo a disagio, nudo, indifeso. Mi ero
ricordato improvvisamente di qualcheduno, sepolto
oramai da tempo, con le sue sporcizie e le sue paure, e
l'ansia di venire scoperto. La Mamma, morta da poco. I
cugini, lontani, uno suicida..., non so dire. Tutto mi
appariva ora cosí meschino e personale, di
quell'empirico io che una volta si chiamava Pierino.
La domanda era stata diretta e precisa, non teorica.
Non «A che cosa serve la filosofia?», ma «Perché la
pratichi tu». Qui l'unità del reale, e del trascendentale, e
i rapporti fra teoria e pratica, e il concetto del concetto,
non c'entravano per niente. C'entravo io, coll'i
minuscola. Non mi restava che confessarmi, o tacere.
Tacqui, ma dovetti cambiare mestiere. E da quel
giorno mi sento piú libero, e mi sembra di capire di piú.
C'è tutta una serie di cose, di cui non ho piú paura: di
parlare per approssimazioni, di dire «gli esseri umani»,
anziché «lo Spirito». Da quel giorno non ho piú orrore
né disprezzo per le scienze naturali, e non sento piú il
bisogno di scrivere difficile. La parola «empirico» non è
piú per me un insulto. E da quel giorno non mi entra piú
in testa che cosa significhi l'Universale.
46
babbo e una mamma, e degli amici, e che ha oggi dei tic
nervosi, e si comporta in un certo modo con le donne.
Mi dica anche le cose meno piacevoli a raccontarsi,
quelle di cui si vergogna un po'. Non si trinceri dietro
l'Io trascendentale, non risponda che il suo fatto
personale non ha importanza. Lo racconti a me, per
farmi piacere. E forse, dopo si sentirà un altro: e l'essere
entrato in quel circolo magico non gli sembrerà piú una
gloria cosí grande; e l'uscirne non gli farà piú tanta
paura.
47
Inizio di autobiografia
48
E chissà che proprio questo non mi riesca meglio che
l'altro? E che io venga apprezzato non per la filosofia,
ma per queste pagine buttate giú per divertimento?
È accaduto a molti. A me, però, spiacerebbe
moltissimo. Perché il riuscire a vedere chiaro nel campo
filosofico è la piú alta speranza della mia vita. Ciascuno
desidera il successo nel centro della sua attività; e
disprezza una gloria che non si attagli alle sue abitudini.
Napoleone si sarebbe probabilmente infischiato di avere
le soddisfazioni di un Kant o di un Goethe, e viceversa.
Io m'infischierei di diventar celebre come uomo di stato,
come romanziere, come inventore, come poeta. Vorrei
diventarlo come filosofo.
Questo scrivere «voluttuariamente» mi dà però un
grande vantaggio sugli scrittori di professione. Loro
sono costretti all'ordine, all'elaborazione. Pensano una
cosa, vedono una cosa: devono farla rientrare
nell'«economia dell'opera». Non possono quasi mai
scodellare il loro pensiero cosí com'è nato. Sono
costretti a inquadrarlo in quello schema che, nonostante
tutto, s'impone sempre all'opera d'arte: il romanzo, la
poesia, il saggio, la novella, l'articolo. Il personaggio
non si può presentare cosí come è stato visto, osservato,
pensato: deve cambiar nome, deve fondersi con un altro
personaggio, servire come ingrediente; un sentimento
deve entrare nei versi.
Non venite a dire a me, che so di estetica, che questa
è appunto l'arte, questo trasformarsi dell'esperienza in
contemplazione, ecc. ecc. Lo so meglio di voi. Volevo
49
solo dire che questa trasformazione, questa
elaborazione, mi sarebbe insopportabile. È proprio essa
che presuppone l'impegno della vita, l'assoluta serietà, il
senso di costruire. Ma appunto questo toglierebbe a me
tutta la delizia del superfluo. Mi accorgo, ora, che non è
proprio possibile fare arte da dilettanti.
Perciò quello che scrivo non sarà sicuramente mai
arte: tutt'al piú sarà «umanità». Mi è venuta quest'idea
leggendo Voltaire e Diderot. Quelli sí, scrivevano
voluttuariamente, non costruivano. Scrivevano allo
sbaraglio. A leggerli, non si ha un'emozione artistica: si
ha l'ineffabile godimento di partecipare direttamente ad
una conversazione. Sono gli uomini che hanno saputo
fotografare in modo piú diretto e immediato nelle loro
opere la propria personalità umana.
Ho pensato che scrivere dev'essere stato per loro una
gioia enorme: cosí liberi, cosí privi di preoccupazioni. E
ho voluto provare anch'io.
Ho detto che non scrivo per far sapere i fatti miei.
Però scrivo i fatti miei: cose che ho viste e pensate. E mi
risparmio il proposito di dir tutto, di esser sincero come
dicono, fino alla crudeltà. Cioè, sarei disposto a farlo,
ma non m'illudo di riuscirvi.
So che è un vezzo di molti, considerare falsa ogni
autobiografia che tralasci qualche cosa. Mi sento già
ammonire: «Tutto ha importanza, anche le cose piú
insignificanti». Rispondo di no. Per voi sono importanti
(e con ragione magari) cose che per altri sono
insignificanti. Ma ciò non vuol dire che non vi siano
50
anche per voi cose insignificanti: sono magari quelle su
cui gli altri appoggiano tutta la loro attenzione.
Lasciatemi fare. Vi dirò le cose che a me, cosí come
sono fatto, sembrano importanti. Non temete, saprò
superare, se sarà necessario, anche il pudore. Ma
permettete che la scelta la faccia io. Non vi piacerà ?
Farete a meno di leggermi.
È questo, del non tralasciar nulla, un bisogno delle
epoche in cui una grande scoperta psicologica ha
rinvenuto ricchezze insospettate in regioni dell'animo
cui prima si faceva appena attenzione. Sorge allora la
febbre di scavare dappertutto, il terrore di calpestare con
piede distratto miniere d'oro. Ma non ci si accorge che
credendo di scavare dappertutto, si scava sempre nel
medesimo campo, in quello che è stato or ora additato.
«Tutto», è per noi sempre e solo ciò a cui siamo capaci
di fare attenzione: ciò che è già a priori, per noi,
importante. L'allargare questo tutto, il trovare un nuovo
campo finora non apprezzato, il far divenire importante
ciò che finora era indifferente, questo è l'opera del
genio, del creatore.
Ogni nuovo atteggiamento nell'arte o nella cultura
consiste nel rivelare all'umanità qualche cosa di cui essa
non si era finora accorta, e vincere lo sforzo ch'essa fa
per non accorgersene. Si porta improvvisamente alla
ribalta qualche cosa che gli uomini finora erano abituati
a fare o a pensare, senza badarci, oppure che
consideravano affare privato di ciascuno, questione
intima, personale. L'umanità arrossisce, si riconosce, si
51
sente in compagnia, liberata dal pudore, gode. Gode di
rompere il ghiaccio. Poi, una volta rotto, una volta
superato il pudore, insiste con voluttà sul medesimo
tema, che diviene maniera. E insiste non per spirito
d'imitazione, ma perché veramente ne ha bisogno. È un
nuovo strumento che le è stato posto in mano e che
dev'essere usato. Un nuovo campo che dev'essere
dissodato fino in fondo. Nessuno, prima del
romanticismo, avrebbe avuto il coraggio di piangere o
di urlare in pubblico. Nessuno, prima del verismo, di
scrivere «merda». Nessuno, prima di Freud, di costruire
un romanzo sulle proprie idiosincrasie. A parte,
naturalmente, i precursori. Ma non chiamatemi per
eccellenza sincero chi usa questi strumenti che un altro
gli ha posti in mano.
Sincero è solo chi ha fatto il salto per il primo;
sincero sarà chi farà il prossimo salto. Costoro sí fanno
una vera scoperta, creano qualche cosa di nuovo.
Costoro soli possono pretendere di avere detto tutto. E
anche il loro «tutto» è relativo.
Ogni cosa nuova che si dice (veramente nuova) non è
che un passo avanti nelle vie della sincerità. Perciò chi
dice: «Voglio esser sincero, voglio dir tutto» è come se
dicesse: «Voglio scoprire un nuovo mondo, voglio
essere un grand'uomo». Dir tutto significa dire qualche
cosa di piú profondo, di piú intimo, di piú nascosto, di
piú difficile e pericoloso a dirsi, che quello che si sapeva
finora.
52
Tutti riconoscono i limiti della loro intelligenza. Ma
ciascuno crede di poter essere sincero. E non sa che la
sincerità è la cosa piú difficile al mondo, e mai
completamente raggiungibile: che essere sinceri vuol
dire essere geniali e coraggiosi insieme, vuol dire essere
sempre in guardia contro se stessi; contro ogni frase
fatta o pensiero fatto; escogitare nuovi mezzi di ricerca
di sé medesimi, fiutare nuove vie. Vuol dire non
stancarsi, non rilassarsi un istante, controllare,
investigare, con la pazienza di uno scienziato, con la
fantasia di un inventore e di un artista. Chiunque è
capace di fare un inventario delle cose che ha sotto gli
occhi. E ciò può essere a volte interessante, istruttivo,
stimolante. Per chiamarlo, eminentemente, sincero,
richiedo qualche cosa di piú.
Questo della sincerità è un mio chiodo fisso. Ci
ritornerò spesso.
53
Giustificazione
54
il pubblico ama perché si sente «capito», quello che il
pubblico odia, perché si arrabbia di non capire.
Solo cosí gli piacerebbe di fare la filosofia: per
inventare, scoprire ragioni finora ignote. Non per
esprimere quello che c'è nell'aria.
Ma egli sa che un tale compito implica un lavoro
circospetto e accanito, e lunghissimi silenzi. Egli sa che
il filosofo, non può pretendere di dire qualche cosa
prima della tarda maturità.
Appunto per questo ha avuto il bisogno di scrivere
questi articoli. Egli spera che essi gli faciliteranno il
lavoro scientifico; che gli renderanno meno grave il
silenzio.
Il filosofo ha bisogno che la sua ricerca sia precisa
come e piú di quella del fisico, del biologo; ha bisogno
di controlli, di verifiche che si estendano ai campi piú
disparati. Deve conoscere dall'interno le cose piú
opposte, i mondi piú eterogenei. La sua tortura consiste
appunto in questo: nel vedere tutto questo mondo
passare sotto ai suoi occhi, immedesimarsi in esso, e
non poter parlare. È vero che ogni scienza richiede
quella che si chiama l'elaborazione del materiale. Ma
per il filosofo il materiale è la sua vita stessa, è l'insieme
dei problemi di cui egli si trova ogni giorno a soffrire
come uomo. Il silenzio gli è piú penoso.
Egli ha il continuo timore di arrivare troppo tardi, non
per gli altri, ma per sé: che il materiale nel corso delle
indagini e delle verifiche gli si dissecchi fra mano. Egli
è costretto ad un continuo lavoro su se stesso per
55
conservare vivo ciò che dovrà esaminare e descrivere. E
questo lavoro lo obbliga ad essere caldo e freddo ad un
tempo.
Molti non resistono, e si decidono ad abbandonarsi
all'onda della vita, giustificandosi con una teoria
secondo la quale la filosofia non sarebbe altro che
questo abbandono. Ma in sostanza essi hanno rinunziato
ad essere filosofi, per divenire «interpreti del loro
tempo».
I presenti scritti avrebbero lo scopo di salvare l'autore
da questo pericolo: di servirgli come punto di
riferimento per questioni e problemi e atteggiamenti che
egli spera un giorno di poter sviscerare: di permettere al
suo pensiero di cristallizzarsi con la calma intorno ad
essi, senza ansie e impazienze.
Questi scritti non vogliono essere, in nessun senso,
filosofia. In essi non si devono cercare soluzioni, teorie:
e se vi si trovassero, non dovranno essere considerate
come tali, ma solo come stimoli a pensare in una certa
direzione. L'autore ha voluto premunirsi contro la
tentazione di addentrarsi con troppo impegno negli
argomenti, di lasciarsi trascinare fin d'ora a soluzioni. E
ha scelto la forma letteraria piú effimera: la lettera, il
frammento, l'articolo.
Perciò egli è indifferente all'accusa di incoerenza. La
coerenza, il sistema, non è quello che egli qui cercava.
Ciò che egli scrive rappresenta una sua provvisoria
convinzione; la quale, appunto perché provvisoria, non
56
pretende di essere accettata o discussa. Non deve servire
che a lui stesso.
E chi sia lí pronto a domandargli perché, queste cose
cosí inutili, egli le ha pubblicate, sappia che esistono
taluni i quali scrivono non per giovare al pubblico, né
per piacergli, né per renderlo migliore o per allargare le
sue conoscenze: ma perché hanno bisogno di
comunicargli come ad un amico, i propri pensieri.
Padrone poi, il pubblico, di non ascoltarli.
57
Sull'Introduzione alla metafisica di
Piero Martinetti
65
che si trova ancora piú accentuato ne La Libertà e che
non soddisfa dal punto di vista gnoseologico.
E allora, ripetiamo, il valore del M. dovrà essere
ricercato alle basi teoriche della sua speculazione; nella
sua critica all'idealismo e in quel concetto di esperienza
pura e obbiettiva che egli sembra indicare come via di
uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova
impigliato. In questa direzione bisogna lavorare. E nel
metodo di lavoro anche e soprattutto può essere maestro
il M.; per il rigore del non parlare se non di cose
conosciute profondamente; per quello spirito di ricerca
indefessa onde non si abbraccia subito un sistema od
una terminologia per vedere tutto dietro al prisma di
essa, ma di ciascun pensiero si cerca di rendersi
partecipi e di guardarlo quasi con verginità di spirito.
Onde il sistema, se si ha la forza di costruirlo, sorge
come risultato e sintesi di una ben piú ampia e sicura
esperienza spirituale.
66
Di alcune relazioni fra conoscenza e
volontà
71
debba essere posta assolutamente dall'"Io", è l'esigenza
di ciò che si chiama – e a buon diritto – ragion pratica»5.
La ragion pratica è dunque quella che permette al
soggetto di porsi fuori di sé e di uscire dal proprio
campo: non piú qui dunque una nuova forma, piú
sviluppata e comprensiva, della conoscenza, ma una
funzione che da essa si differenzia per la sua stessa
intima costituzione. La conoscenza è facoltà di
unificazione e sintesi, onde il soggetto viene a contatto
con l'oggetto e si fa tutt'uno con esso: in cui
l'individuale si mostra universale, il contingente
necessario, il fuggevole eterno. La pratica invece, intesa
in questo senso, sarebbe forma di scissione e di
sviluppo, onde il soggetto puro, questo falso universale
astratto, si foggia il particolare a cui riferirsi e insieme
al quale compiere l'unificazione conoscitiva. Se la
conoscenza insomma è intesa come unità di due
elementi astratti prima di essa, e la pratica come
formazione di questi due astratti, le due attività sono
nettamente separate, e la pratica precede la conoscenza.
In tutto l'idealismo questa precedenza del pratico sul
teoretico, è sempre necessaria e continuamente
affermata, nonostante le apparenze; e i tentativi che si
sono fatti per eliminarla quale errore marginale che non
intacchi però i concetti generali del sistema, non sono
riusciti: quella anteriorità è la base e la giustificazione,
come dell'uscita dell'autocoscienza (che non è ancora
5 Ibid., p. 456.
72
conoscenza) dalla sua unità astratta, cosí di quella
possibilità da parte della tesi di contraddirsi in antitesi,
onde consta il concetto hegeliano di dialettica. Su di
essa si fonda insomma tutta la deduzione idealistica del
mondo e la concezione idealistica della natura. Perfino
il Gentile, in cui è essenziale il tentativo di eliminare
ogni dualismo tra intelletto e volontà, nota la stretta
connessione tra quel dualismo e il dualismo di soggetto
e oggetto6. Ma solo una diversa considerazione dei
rapporti fra soggetto e oggetto permetterebbe di
eliminare questa posizione che porta fatalmente un
arbitrario irrazionalismo nelle basi del procedere
idealistico.
73
questa pura attività di porre, di creare, di contraddirsi, di
estraniarsi, che non dà e non può dar luogo
all'universale, perché parte da un dato parziale, giunge
ad un dato parziale, e produce un dualismo di termini
astratti, bisognosi di unificazione. Questa attività può
essere chiamata in senso improprio volontà, perché ha le
caratteristiche di sforzo e urto citate da Fichte. Ma non è
universale, ripetiamo, e quindi non è vera volontà. È
bene infatti chiarire che quando si accusa l'idealismo di
anteporre la volontà alla conoscenza, si allude
naturalmente a questa volontà parziale e arbitraria, e
non alla volontà vera, cioè universale (cioè identica alla
conoscenza) che l'idealismo ammette, ma solo al
termine del processo.
E la volontà non può essere che quella, universale e
identica alla conoscenza. Queste due caratteristiche
sono anzi strettamente collegate una con l'altra e
vicendevolmente implicantisi. Nell'idealismo assoluto la
conoscenza presuppone la volontà: è facile inferire da
tale affermazione che la volontà per esso trascende la
conoscenza, giunge a posizioni cui la conoscenza pura
non potrebbe giungere. La conoscenza la supera, è vero,
e rende universale ciò che in essa era particolare: ma
appunto in questa sua particolarità sta la novità di essa
rispetto alla conoscenza. La conoscenza riunisce il
soggetto all'oggetto e toglie ogni dualismo. La volontà
introduce il dualismo e la particolarità. Posta una
duplicità di momenti nel processo del reale, è anche
necessario introdurre due attività che li rappresentino.
74
La conoscenza, cosí, supera la volontà astratta, in
quanto la universalizza. E la volontà supera, in certo
modo, la conoscenza, in quanto crea ad essa il
particolare, l'astratto da universalizzare. Ma la posizione
di una dualità astratta, prima dell'unità, è inconcepibile;
e di ciò sarà ora una riprova l'inconcepibilità di una
volontà che, in qualsiasi modo, sta di là dalla
conoscenza.
Quando si parla di determinazioni spirituali come
costitutive della realtà, si allude – ripetiamo – a forme
che abbiano quel carattere di assoluta universalità che è
raggiungibile solo col metodo che Kant ha chiamato
trascendentale. Tutto ciò che è empirico, contingente,
dovrebbe essere escluso da esse; e la sola presenza di
tali caratteristiche dovrebbe indicare che non si è
davanti alle forme che si andava cercando.
Ora, è possibile concepire una volontà come attività
universale che sia anteriore o al di là della conoscenza?
Essa non sarà che sforzo bruto, tendenza incosciente,
puro oggetto. Qualche cosa, cioè, che non può
assolutamente rientrare in quelle forme trascendentali di
cui solo si può avere nozione completa. Che se un
elemento di consapevolezza e di universalità vi si
introduca, essa non potrà non appartenerle in comune
con la conoscenza. Una volontà che sia sola volontà,
cioè passione o, come si suol dire, sentimento, non può
essere che parziale, quindi astratta, a sé stante,
inconcepibile. L'errore dell'idealismo assoluto consiste
sempre nell'equivoco di porre l'astratto prima del
75
concreto, come posizione ancora incompleta di esso.
Invece l'astratto non può essere giustificato che come
ulteriore sviluppo, elaborazione del concreto; e, anziché
criticarlo col dire che esso non è ancora giunto alla
piena verità, bisogna dire che esso non è già piú la piena
verità, e che bisogna ritornare ad essa.
76
non gli appartiene nessuna universalità, cioè nessuna
realtà vera e propria.
Il sentimento, la passione, da questo punto di vista,
non sono infatti altro che qualche cosa che lo spirito
subisce senza averne nessun controllo, e che esso non
può concepire se non come opposizione alla conoscenza
o volontà universale. Sentire, tendere, Streben,
Sehnsucht: tutte forme che scompaiono nel momento
che siano irradiate della luce della coscienza, in cui
ritornino veramente all'unità di soggetto e oggetto. E
non si dice forse che l'arte libera dalle passioni? Che la
vera volontà razionale, cioè universale, si identifica con
la necessità, cioè con qualche cosa di impersonale che
trascende completamente ogni tendere individuale, ogni
istinto particolare? L'osservazione psicologica qui
conferma il ragionamento logico: per il quale
un'universalità del sentimento è inconcepibile.
Se il vero universale, il primo, è identità e
indistinzione di soggetto e oggetto, il sentimento alogico
e irrazionale non potrà che essere, al di fuori di questa
unità, prodotto di un'ulteriore scissione, astrazione
successiva, quindi parziale: natura, errore, per dirla con
gli attualisti, quindi forma che appare come subíta, o
agente dal di fuori: contro cui l'universale crede di
combattere come contro un nemico esterno; mentre
questa lotta non è che l'eliminazione di un ulteriore
sviluppo e il ritorno alla completezza iniziale.
Sentimento, volontà pura, sforzo, non sono dunque altro
che posizioni astratte, dati subíti e incontrollabili nella
77
loro attualità e immediatezza, che divengono coscienti
solo quando siano completati.
E la loro parzialità è la parzialità del puro soggetto o
del puro oggetto. È sintomatico anzi come il sentimento
possa a volta a volta assumere ambedue queste
caratteristiche: emozione, illusione di autocoscienza,
solipsismo; e, d'altra parte, tendere, sforzo di creazione,
impulso a uscire da sé; e poi anche istinto da eliminare,
che si sente come un ostacolo frapposto dal di fuori al
procedere della ragione e del bene, tumulto che si
subisce, passione. Si può dire che il sentimento, questa
forma cosí vaga e imprecisa, passa, attraverso tutte le
gradazioni, dalla soggettività all'oggettività, senza mai
raggiungere l'unità delle due; ché se vi giungesse
cambierebbe nome e si chiamerebbe conoscenza
universale, volontà buona. E potremmo dire anche, un
po' all'ingrosso, che nel suo aspetto soggettivo esso si
presenta, in generale, come accompagnamento dell'arte,
e in quello oggettivo della volontà. All'ingrosso,
diciamo, perché esso forma sempre una specie di alone
inafferrabile dinanzi ad ogni forma di realtà, e
l'accompagna quasi come una zona oscura e confusa da
cui la realtà stessa sgorga e spicca in modo chiaro e
preciso. Ma si può dire insomma che l'alone dell'arte è
un senso violento di soggettività, di passionalità e di
partecipazione in proprio a ciò che si esprime: calore,
commozione, pienezza di cuore a cui l'arte sola darà un
78
valore compiuto e definito ed eterno8. E che l'alone, la
zona oscura da cui sorge la morale, è un complesso di
sensazioni, di sentimenti che vengono dal di fuori, o che
tendono verso il di fuori: istinti, passioni, desideri che si
sentono come subíti, come estranei al nostro vero
essere, eppure facenti parte di noi e della nostra
personalità empirica sulla quale agiscono spingendola a
sua volta ad agire, a produrre, a creare; sí che da questo
desiderio di azione e dalla scontentezza che lasciano le
forme parziali che lo determinano e che non ci
appartengono nel piú vero senso, sorge appunto
l'impulso a correggere ed a raggiungere un'azione i cui
fattori, i cui motivi non abbiano nulla di subíto, e che sia
veramente nostra e non solamente del nostro io
empirico: e questa è l'azione morale o universale, in cui
oggetto e soggetto si identificano e di cui il sentimento
non è che un precedente.
Il sentimento, insomma, sotto nessuno dei suoi vari
aspetti, può essere considerato come forma autonoma; è
un dato inafferrabile perché non completo, che suole
unirsi con le forme veramente costitutive della realtà,
cioè l'arte, la morale e anche la conoscenza piú pura e
filosofica: e non c'è pensatore che non conosca il
travaglio del pensiero che raggiunge la sua forma
originaria e si libera dalle soprastrutture: che non veda i
8 Cfr. per esempio B. Croce, L'intuizione pura e il carattere
lirico dell'arte, in Problemi di estetica, Bari 1910, pp. 1 sgg.; G.
A. Borgese, Figurazione e trasfigurazione, in «Fiera Letteraria»,
16 e 23 marzo 1926.
79
suoi errori come cecità di fronte al vero, come visione
parziale dovuta a scarso vigore intellettuale e accidia e
propensione a lasciarsi fuorviare da altre soluzioni piú
facili o piú comode: malafede insomma; e non ne abbia
rimorso come di un malo istinto.
Ora come potrebbe una forma che è per definizione
incompleta, astratta, parziale, essere anteriore a ciò da
cui è stata isolata? Come può l'errore essere anteriore
alla verità? Se l'errore (e, in questo caso, il sentimento)
deriva dal fissare per un istante un solo aspetto –
oggettivo o soggettivo – della realtà, non è possibile non
chiedersi che cosa sia la realtà a cui questo aspetto
appartiene. E sarà necessario ammettere che questa
realtà esistesse nel momento in cui quel suo aspetto è
stato isolato. Prima la realtà, dunque, poi i suoi aspetti
parziali. Prima l'unità di soggetto e oggetto, poi la pura
soggettività e la pura oggettività. Cosí il sentimento si
mostra, da questo punto di vista, posteriore a ciò che si
suole chiamare il suo superamento. E se nella comune
psicologia questo rapporto appare invertito, ciò avviene
perché la vita comune offre non piú la realtà nel suo
aspetto originario, ma una forma di essa già sviluppata,
elaborata, organizzata, su cui sono già state compiute
innumerevoli scissioni, astrazioni, manipolazioni, e in
cui appare quindi come anteriore e originario ciò che
non è se non posteriore e artefatto.
80
astrazione posteriore all'unità. La volontà, quando sia
forma universale, espressione della realtà delle cose, e
cioè morale, è identica alla conoscenza e non ha alcuna
posizione autonoma di fronte ad essa. La pretesa di
mantenere questa autonomia deriva forse ancora dalla
formulazione cartesiana di una volontà produttrice di
errore quando non sia sussunta all'attività razionale che
la moralizzi.
A questa dottrina si può infatti ricondurre forse il
concetto di un'attività che abbia le caratteristiche
generiche della volontà; di una volontà individuale,
quindi in se stessa indipendente e indifferente alla
morale, alla quale giungerebbe poi solo con l'innalzarsi
sopra la propria individualità per attingere la sfera
dell'universale9.
L'universale, in questo modo, sarebbe però in certo
senso un ulteriore sviluppo, un'aggiunta alla pura
volontà, la quale non perderebbe, anche in questa nuova
forma, le sue caratteristiche individuali, il suo aspetto di
impulso, di sentimento. Si tratterebbe sempre di una
passione; di una passione che ha per oggetto il bene
anziché l'utile; di un sentimento che non è rivolto alla
soddisfazione di una tendenza del singolo, ma
all'attuazione di uno scopo assoluto. Pur sempre
sentimento. E allora si potrebbe dire che l'attività
economica (ché tale sarebbe quella forma piú pura e
originaria della volontà) pur essendo superata dalla
81
morale, non se ne distacca: le è «concomitante»; e che
l'atto morale non può essere veramente tale, senza avere
nello stesso tempo quella spinta sentimentale, quel
calore che è proprio dell'atto pratico, individuale,
economico.
Questa dottrina, in sostanza, si riduce a far risiedere
la moralità nell'adattamento della volontà ai principi
della ragione; o, se si preferisce, nella sussunzione di
essa ad una forma di universalità che non è intrinseca
alla sua stessa costituzione. Ma si è ormai visto che una
forma di volontà che non sia universale non è
concepibile se non come sviluppo ulteriore, come
astrazione. Posto dunque che la volontà vera e propria
non può essere altro che universale, cioè morale, è
possibile concepire un universale pratico, diverso e
distinto da quello teoretico, una conoscenza universale
che non sia insieme volontà morale?
Non c'è atto di volontà morale che non abbia il suo
fondamento in una massima dell'agire, nel
riconoscimento della necessità dell'azione che si vuol
compiere. Diremmo anzi che la volontà stessa, in quanto
sia veramente universale, si riduce alla posizione di una
verità. L'agire in un determinato modo, quando sia un
agire morale, significa riconoscere implicitamente che
le cose sono disposte in modo tale che è necessario
trarre da esse quelle conseguenze. La volontà morale è
la volontà che si rivolge al bene: e il bene non è che
l'universale, ciò che è al di fuori di ogni parzialità e
astrazione; quel principio nella sua forma piú completa,
82
soggettiva e oggettiva insieme, che Kant ha determinato
col suo metodo trascendentale e Leibniz ha adombrato
col suo concetto di sostanza. Ora questo universale,
quando viene attuato nella pratica, non può non essere
contemporaneamente appreso dalla conoscenza. Se esso
è veramente l'unità di soggetto ed oggetto, deve
necessariamente essere cosciente e consapevole.
Attuare moralmente un determinato fine morale non è
possibile senza il riconoscimento di esso come fine
(poiché – come è noto – se questo riconoscimento
mancasse, verrebbe meno la responsabilità dell'atto, il
quale non sarebbe piú morale, ma semplicemente
dovuto al caso). Ora, che cos'è il riconoscimento di un
fine morale se non la consapevolezza che esso è
universale? e che cosa è questa consapevolezza se non
la conoscenza di quella determinata cosa come
universale? Proporsi di evitare una determinata azione
perché immorale, p. es. di non mentire, significa sapere
che la menzogna (o quella determinata menzogna) non
ha quel carattere di universalità che è richiesto alle
azioni morali. E insomma, dalla definizione stessa di
ogni azione immorale discende la conseguenza che essa
debba essere evitata. Cosí, reciprocamente, una vera
conoscenza (cioè universale), è necessariamente
identica alla morale che ne discende. E l'affermazione di
una verità ha implicito in sé il giudizio di valore
positivo rispetto ad essa, e negativo rispetto al contrario
di essa.
83
Questa identità vale per tutte le proposizioni
conoscitive e morali, anche quelle che appaiono piú
unilaterali. Dire che la terra gira intorno al sole significa
implicitamente tacciare di falsità il contrario, e stabilire
che sia dovere per chiunque voglia resistere ai
preconcetti e mirare in faccia la verità – che è il primo e
piú importante precetto morale –, di affermare e
propugnare quella proposizione, magari anche a rischio
della vita. Dire che il generale non deve abbandonare il
proprio esercito, è implicitamente riconoscere che le
relazioni e i rapporti fra generale ed esercito sono cosí
conformati che quell'abbandono si risolverebbe in un
fatto privo di vera e propria universalità. Morale e
conoscenza, insomma, quando abbiano il loro
significato piú pieno e completo, non possono esistere
indipendenti l'una dall'altra; e si identificano in una
realtà alla quale si potrà attribuire il nome che si vorrà,
ma che le comprende entrambe. Solo attraverso una
astrazione successiva potranno essere isolate e
considerate separatamente: il che può avere la sua utilità
e importanza. Ma non bisogna dimenticare il modo
come questo isolamento è avvenuto.
Ciò giustifica anche, in campo psicologico,
l'imputazione morale che viene cosí spesso attribuita
agli errori teoretici, e, d'altra parte, la pretesa di moralità
che si ha sempre verso chi cerca la verità intima delle
cose.
L'errore, infatti, non è se non una visione parziale e
astratta che si propone come completa e piena. Posto il
84
concetto della verità come assoluta completezza e unità
del dato con tutti i suoi rapporti e le sue connessioni,
l'errore non potrà essere che l'astrazione di un singolo
elemento parziale, a cui venga attribuito il valore della
totalità. Solo in questo caso si può parlare di vero e
proprio errore: poiché, quando manchi l'illusione della
totalità e cioè l'astrazione venga conosciuta come tale,
questa stessa consapevolezza suppone la conoscenza del
complesso da cui il dato parziale è stato astratto. Sapere
che esso è stato isolato ad arte da una unità precedente,
è già sapere la sua connessione con essa, e quindi
conoscerla in qualche modo: non foss'altro, sapere che
essa esiste e limitare volontariamente e coscientemente
il proprio campo, in una determinata occasione o per un
determinato scopo. L'astrazione che sa di essere tale è
un errore che si conosce come errore: e quindi contiene
la propria correzione.
Ma l'errore vero e proprio, l'errore che si pone come
verità, non ha forse già in sé un germe di malafede, di
cattiva coscienza? Non è quasi sempre una mancanza di
coraggio o di solerzia o di onestà, quella che consiglia
di non cercare in fondo alle cose la verità piena di esse e
di accontentarsi di visioni unilaterali, parziali,
arbitrarie? Una conoscenza non vera conduce, anzi è
identica ad una azione non buona: e chi di una
situazione ha conoscenza arbitraria, non potrà che agire
in essa arbitrariamente. Ora l'agire arbitrario viene
condannato come immorale; e ciò equivale dunque a
condannare come immorale anche la conoscenza che gli
85
ha dato luogo. La mancanza di chiarezza nel vedere la
realtà delle cose, nel liberarsi dalle divisioni che sulle
cose stesse si sogliono compiere, dagli schemi che ce le
rendono piú comode e maneggevoli, richiede sempre
una certa dose di buona volontà. E la ricerca della verità
è l'opera moralmente piú meritoria che possa essere
compiuta.
Ma chi non giunga nella sua ricerca alla verità pura,
chi si fermi ad uno schema, si lasci arrestare da un
preconcetto, non riesca ad eliminare una astrazione, non
ha avuto il coraggio o la pazienza o la forza di
proseguire la sua ricerca fino in fondo. E proprio su
queste doti si fonda il giudizio morale.
L'universale, o il trascendentale, o insomma la verità
(la nostra verità che è insita in potenza nella stessa
nostra conformazione e che costituisce il nostro modo
piú puro di conoscenza) è anche il nostro modo piú vero
di essere, dal quale i dati empirici e parziali in cui
viviamo sono derivati per astrazione. «Il n'y a pas
d'objections insolubles contre la vérité»10. Togliere le
astrazioni che noi stessi abbiamo compiute è in nostro
potere, è ciò che costituisce anzi il nostro massimo
merito. Non mettersi per questa strada è colpevole e
peccaminoso. Cosí l'intelligenza (la vera intelligenza
che permette di liberare dal loro involucro sempre
maggiori frammenti di verità; non quella falsa e
apparente che compie luminose e brillanti evoluzioni
86
intorno ai dati empirici e si compiace di combinarli e
giustapporli e foggiarne continuamente dei nuovi), la
vera intelligenza, acuta, scrupolosa, instancabile
indagatrice, è una forma di moralità, anzi la moralità
stessa; e, quanto piú profondamente l'uomo penetra
nell'universale, tanto piú moralmente è necessario che
agisca. Che se egli si limitasse ad una pura conoscenza,
senza completarla con l'azione, ciò significherebbe che
egli non ha compreso appieno, in tutti i suoi rapporti,
l'oggetto delle sue ricerche; o che, per lo meno, una
grande e fatale astrazione egli ha lasciato sussistere nel
suo spirito: quella fra conoscenza e volontà.
Cosí non si riesce a concepire come sia possibile
credere seriamente alla possibilità di una grande
moralità che sia priva di comprensione per le cose del
mondo, alla cosí detta sublime insipienza di alcuni santi.
Il santo, cioè l'uomo altamente morale, anzi il creatore
di una nuova e piú alta moralità, non è altro che lo
scopritore di un nuovo modo di essere, di una essenza
universale piú completa e profonda che egli mostra al
mondo con la sua azione. L'espressione, diremmo quasi,
il modo di dimostrazione è diverso. Ma, come l'attività
estetica, per esempio, non è necessariamente legata ad
una tecnica particolare, e le arti possono avere la loro
espressione in parole o suoni o colori, pur appartenendo
sempre ad uno stesso modo di atteggiarsi dello spirito,
cosí non è detto che il grande e puro uomo d'azione
(anche qui da distinguersi dall'uomo d'azione
comunemente detto, che è un raffazzonatore e non un
87
chiarificatore) differisca per l'essenza della propria
attività dal grande indagatore di veri. È diverso il
metodo di ricerca, o gli strumenti, i reattivi usati per
giungere allo scopo: ecco tutto. E la verità trovata avrà
dunque un aspetto diverso; ma ciò non le toglierà il
carattere di verità.
La vera intelligenza è dunque una forma di moralità;
e la vera moralità una forma d'intelligenza. Il che non
significa che nella considerazione morale comune
debbano essere apprezzati piú coloro che sono in
possesso di una maggiore chiaroveggenza. Molto spesso
il grado di chiaroveggenza, e quindi di moralità, deriva
da varie cause di cui non si è responsabili, o dalla
tradizione che si è ricevuta. Ciò che è altamente
apprezzabile è proprio la ricerca di aumentare questa
chiaroveggenza; e la stima morale comune si basa sul
maggiore o minore incremento dato alla propria
intelligenza o moralità. Ma in via assoluta è indubitabile
che chi sia in possesso di una visione piú chiara e
limpida e completa della vita, debba essere posto ad un
grado morale piú alto.
88
profondamente la portata, si riduce ad una negazione di
quella pretesa volontà autonoma che si è finora cercato
di confutare; e la definizione della libertà come «quello
stato in cui un essere non è impedito di realizzare le
disposizioni e le inclinazioni che ne costituiscono la
natura»11, si risolve anch'essa in quella negazione.
Anche in sede psicologica, anche nelle manifestazioni
particolari e parziali che non hanno carattere di
universalità o di moralità, questa identità ha luogo: «In
realtà tutti gli atti ed i momenti della coscienza sono, in
quanto attività, atti di volere. Coscienza e volontà sono
inseparabilmente collegate. La volontà non è una
funzione che appartenga occasionalmente alla coscienza
ed ora manchi, ora sia presente, ma è un elemento, un
aspetto integrante che entra in tutti i fatti della
coscienza. Non vi è quindi una categoria speciale di atti
coscienti che siano esclusivamente fatti della volontà: vi
sono fatti prevalentemente teoretici, che diciamo fatti di
conoscenza, e fatti prevalentemente attivi, che diciamo
fatti di volontà»12.
Le due citazioni che abbiamo fatto sono strettamente
connesse fra di loro. E la libertà non potrà essere intesa
come arbitrio di procedere per una via piuttosto che per
un'altra, forma autonoma che agisca indipendentemente
dagli altri fatti della coscienza. Ma dovrà piuttosto
essere necessariamente condotta ad un determinato fine,
89
dal riconoscimento della costituzione stessa della realtà.
Come non è possibile, per l'universale, risolversi in
parzialità – a meno di non cessare di essere se stesso –,
cosí non è concepibile che la volontà libera si rivolga a
qualche cosa che, non essendo universale, la limiti. La
libertà non può determinarsi per un limite piuttosto che
per un altro; deve necessariamente determinarsi per
l'assenza dei limiti. E si identifica in tal modo con
l'universale che è per sua natura necessario.
Cosí è mostrato dal Martinetti che quel senso di
spontaneità che accompagna ogni atto spirituale, non
deriva dalla possibilità che esso avrebbe avuto di essere
diverso, ma semplicemente dal fatto di essere atto
spirituale, al quale appartiene per natura quel carattere
di attività ed energia. Il senso di libertà è raggiunto ogni
volta che si attinga una nuova sintesi, dice il Martinetti:
e, diremmo, ogni volta che da una parzialità si torna alla
totalità.
Cosí non è da confondere questo senso di spontaneità
col senso di cui si è parlato sopra, e cui si è negato il
carattere effettivo di forma universale. Quello era, per
definizione, parziale e quindi fuori di ogni vera
determinazione della realtà cosciente; perciò non aveva
alcun carattere di libertà; era subíto come uno stimolo
esteriore, ed eliminato, placato, purificato, quando la
forma vera e propria, la realtà piena era raggiunta. Qui
invece il senso di spontaneità e di attività e di energia è
caratteristico della realtà cosciente; la quale è in se
stessa energia, attività, e insomma volontà. E questo
90
senso dell'energia, questo tendere, questo piacere
dell'atto cosciente, non è sentimento, ma – come si è
detto – libertà. Libertà che è proprio caratteristica di
ogni atto che escluda i limiti; e, come dice il Martinetti,
di ogni atto in quanto è una nuova sintesi raggiunta. Ma
se la sintesi è eliminazione delle antitesi e ritorno
all'unità al di fuori e prima della parzialità, si potrà
concludere che ogni atto che giunga, anche in un suo
solo aspetto, ad una forma completa e totale della realtà,
ogni tappa di questo grande ritorno dal particolare
astratto all'universale concreto, è un atto di libertà.
91
scissione; e cioè l'unità di soggetto e oggetto, di
conoscenza e volontà, ecc.
La critica dell'idealismo alla parzialità di ciascuna di
queste determinazioni è giustificata; ma, mentre esso la
pone come punto di arrivo, ci è sembrato che fosse piú
logico e coerente porla come punto di partenza. Punto di
partenza originario, da cui la cosiddetta realtà
quotidiana è molto lontana ed a cui bisogna ritornare
con fatica incessante. Sí che la procedura da tenersi per
giungervi, fatta di continue eliminazioni della parzialità
e del raggiungimento di unità comprensive, potrebbe
essere assomigliata a quella idealistica. Ma vi è una
grande differenza tra il concepire manifestazioni, magari
identiche, come appartenenti ad un processo di
modificazione e superamento di una realtà data, e
considerarle un ritorno ad una realtà piú pura. In ambo i
casi si tratterebbe della ricerca di unità piú piene ed
assolute; ma nell'uno esse sarebbero date come
assolutamente nuove, prodotte dallo sviluppo, dal
procedere del dato stesso; nell'altro come derivate da un
processo quasi di spoliazione di ciò che vien fornito
dalla conoscenza comune, per raggiungere il necessario
che le sottostà. In un caso, insomma, si avrebbe
dialettica, nell'altro no.
È evidente infatti che il concetto di dialettica – inteso
hegelianamente come divenire e procedere della realtà
per continue contraddizioni e raggiungimento di sempre
nuove unità – presuppone da un lato l'esistenza di organi
(per cosí dire) di queste contraddizioni; dall'altro la
92
necessità di una critica ad esse per raggiungere l'unità.
Ora l'organo della contraddizione, o della creazione
dell'oggetto, si è mostrato l'attività pratica; la quale
però, quando venga intesa come identica alla
conoscenza, non può adempiere a quell'ufficio di creare
un altro da sé. E quindi, in quanto organo di questa
contraddizione, non può essere che una pratica astratta e
contingente. D'altro canto, posta pure la contraddizione,
cioè l'antitesi, come è possibile compiere la critica dei
suoi termini che è indispensabile al raggiungimento
della sintesi, se non presupponendo la sintesi stessa?
93
piuttosto sostituisce al carattere empirico che essa aveva
prima di lui, la sua forma trascendentale.
La possibilità che l'esperienza assuma un valore
universale (e la Critica del Giudizio ne è una prova
luminosa) può suggerire il cammino a chiunque voglia
eliminare il limite noumenico, senza passare attraverso
la dialettica idealistica. E permette, una volta esclusa
l'astrazione che separa il soggetto dall'oggetto, di
superare l'altra astrazione che pone il dato come
empirico, cioè limitato nelle sue connessioni e nei suoi
rapporti, e di giungere ad un elemento primitivo
universale che sia oggettivo e soggettivo insieme. Di
questo dato la monade di Leibniz, per esempio – quando
attraverso una elaborazione gnoseologica, abbia
acquistato un carattere meno astrattamente materiale –,
può fornire un'immagine; e completarsi, a questo punto,
con la dottrina kantiana. Una realtà oggettiva e
soggettiva insieme che contenga in sé implicite tutte le
sue connessioni, non rappresenta forse il dato che
l'esperienza conoscitiva quotidiana offre? E, che cos'è
universalità se non implicazione della totalità delle
connessioni?
L'universalità della monade, intesa come realtà
cosciente, può coincidere cosí con la trascendentalità del
conoscere, inteso come conoscenza reale.
94
Leibniz
e una sua recente interpretazione
95
Comunque, questo è il metodo adottato dal Barié, il
quale ha consegnato in un grosso volume13 le
meditazioni sortegli spontanee dalla lettura dell'opera di
Leibniz. Il libro è diviso in tre parti; la prima,
introduttiva, sul pensiero preleibniziano; poi una
«ricostruzione sistematica della filosofia di Leibniz»;
infine una «logica dell'attuarsi» che l'autore presenta
come «saggio di personale dottrina», La seconda parte,
cioè, dovrebbe essere (per usare termini convenzionali)
storica, la terza teoretica. Ma non si può dire che vi sia
grande differenza d'intonazione fra le due. Nell'una
troviamo concetti leibniziani con continui riferimenti al
pensiero del Barié; nella seconda, pensieri del Barié con
continui riferimenti a Leibniz. E, per dir subito il nostro
appunto principale, avremmo preferito nella parte
storica meno Barié, nella teoretica meno Leibniz;
poiché, cosí come è congegnato il libro si adatta poco a
ciascuno dei due scopi. Il Barié ha letto Leibniz, e la
lettura gli ha suscitato molti pensieri. Li ha pubblicati
cosí come sono sorti: interessanti, spesso acuti e
profondi, ma poco limpidi ed ordinati; sí che il lettore
che vuol conoscere Leibniz non trova facilmente il fatto
suo; e chi desidera informarsi della dottrina personale
del Barié, la trova cosí complicata di riferimenti,
discussioni e polemiche, che difficilmente riesce a
farsene un'idea chiara.
96
Sono queste però osservazioni, in certo senso,
esteriori. L'essenziale del libro è un servirsi di Leibniz a
scopi postkantiani e idealistici; e un accentuare,
nell'esposizione di quella filosofia, il motivo unitario e
la concezione dell'essere come spiritualità. Questo
carattere volutamente e dichiaratamente tendenzioso
dell'esposizione esime l'autore dall'assoluta esattezza e
completezza storica, e gli permette di trascurare molti
lati dell'attività di Leibniz, e numerosi suoi scritti 14 che
interessano piú che incidentalmente il filosofo. Essi gli
avrebbero permesso di costruire un'immagine del suo
autore notevolmente diversa da quella che risulta dalle
lettere e dai saggi pubblicati nell'edizione Gerhardt, e gli
avrebbero mostrato varie insospettate radici culturali e
ideologiche dei suoi pensieri: essendo la filosofia di
Leibniz (come ogni filosofia del resto) sorta non da
alchimie concettuali, ma da una vastissima esperienza di
cultura.
14 Il Barié si è servito quasi esclusivamente dei sette volumi
delle opere filosofiche edite dal Gerhardt, e degli inediti
pubblicati dal Couturat, ma non ha usato (benché ne ricordi
l'esistenza) né i cinque monumentali volumi della nuova edizione
dell'Accademia prussiana, né i sette delle Opere matematiche
(salvo che per alcune citazioni non essenziali), né gli undici degli
scritti storico-politici editi dal Klopp, né i sette dell'edizione
Foucher de Careil (oltre ai due di lettere e frammenti inediti), né i
sei dell'edizione Dutens; senza parlare degli innumerevoli
frammenti mancanti in queste edizioni complessive e pubblicati
separatamente da vari studiosi quali il Rommell, il Mollat, il
Baruzi, il Jagodinski, ecc.
97
Cosí, se egli fosse ricorso all'intera opera di Leibniz,
anziché a una sezione sia pure importantissima di essa,
quel razionalismo gli avrebbe rivelato i suoi rapporti
molto al di là di quelli con Cartesio, Spinoza,
Malebranche, Bayle, palesando interessantissime
affinità con atteggiamenti della tarda scolastica e del
tardo rinascimento, con alcune correnti laterali della
riforma, del giusnaturalismo; con tutto quel complicato
processo di pensiero, insomma, che, accanto e in parte
al di fuori della piú rigorosa tradizione filosofica, nella
ideologia politica e religiosa, nella pubblicistica, nelle
utopie, segna una linea ininterrotta dall'umanesimo fino
all'illuminismo.
Cosí, d'altro lato, il calcolo integrale (di cui il Barié
non tratta se non per esporre la notissima controversia
col Newton sulla priorità della scoperta) avrebbe potuto
illuminargli la via che condusse Leibniz al concetto di
monade come realtà costitutiva del mondo e il passaggio
dal suo principio immateriale alla materia estesa e
consistente. Cosí gli studi di caratteristica (che egli
considera solamente in iscorcio) avrebbero potuto
interessarlo, per l'influenza decisiva da essi esercitata
sulla formulazione logica del concetto di sostanza
individuale.
Il Barié ci dà, insomma, un Leibniz ad uso esclusivo
della sua filosofia. Ma l'uso è, se non sempre legittimo,
sempre interessante. Per tutto il libro circola un
profondo spirito filosofico: poiché il Barié è uno dei
pochi in Italia che abbiano un genuino interesse
98
speculativo; e Leibniz è un filosofo che non si può
leggere senza ricevere continuamente da lui indicazioni
di nuove vie da percorrere, senza essere tentati di
tradurre in nostro linguaggio i suoi pensieri, di
proseguire a modo nostro le sue esperienze.
99
primario in quella filosofia, la quale si presenta piuttosto
coi caratteri di un netto oggettivismo e ontologismo; e la
dottrina della conoscenza ne deriva (come ben fa notare
il Barié) quasi come corollario, in occasione del
tentativo fatto da Leibniz di confutare, alla luce del
proprio sistema, l'antiinnatismo del Locke. In generale
si può dire che in tutta la filosofia leibniziana c'è una
parte che si può considerare come premessa, e varie
altre formulazioni che non sono se non sviluppi e
conseguenze.
Ora in che dobbiamo far consistere tale premessa
sistematico-ontologica? Dalla risposta a questa
domanda deriva il tono di ogni interpretazione
leibniziana.
Questa premessa consiste a nostro parere nel concetto
di sostanza, che si svolge poi in quello di monade. Da
esso derivano tutte le piú note e celebrate tesi
leibniziane, dal concetto di rappresentazione alle
«petites perceptions», all'armonia prestabilita. Ma per
intendere appieno tale concetto di sostanza, bisogna
considerarlo in tutta la sua estensione e la sua portata.
Esso presuppone tutta la teoria delle verità di ragione
e di fatto, dei rapporti fra possibile e reale, fra la
razionalità e Dio; teoria che Leibniz svolge ampiamente,
e che il Barié ignora fino al penultimo capitolo della
esposizione del suo sistema, dove se ne serve solo come
di puntello per la sua dottrina personale. La sostanza
leibniziana ha inoltre un fondamento logico che è in
istretta relazione con la Caratteristica. Essa insomma si
100
presenta come il punto di incontro e di coincidenza di
due processi di pensiero: uno ontologico, che possiamo
indicare in una parola come l'applicazione del
procedimento logico-analitico alle verità di fatto
contingenti e al rapporto causale; l'altro fisico-
metafisico, che ha il suo centro nel concetto di forza,
nella negazione della materia come estensione, nella
rappresentazione come tendenza a nuove percezioni.
Ora il Barié tiene conto solo di quest'ultimo processo;
ed è quindi condotto ad accentuare, come motivo
dominante del leibnizianismo, la spiritualizzazione e
dissoluzione del concetto di materia. D'altro lato egli
considera come appartenenti alla premessa logico-
ontologica dottrine che non ne sono che lontane
conseguenze. Egli pone al centro della sua trattazione
l'armonia prestabilita fra anima e corpo; ma non mette
abbastanza in luce (benché vi accenni a volte) che tale
teoria non è se non un caso particolare del rapporto e
dell'armonia di ciascuna sostanza con tutte le altre
sostanze, delle monadi fra di loro. Il rapporto fra anima
e corpo viene quasi a coincidere, per lui, col rapporto fra
cause finali e cause meccaniche, fra intelligibile e
sensibile; e cosí egli non fa che accostare tre concetti
solo esteriormente affini, in realtà ben diversi ed aventi
posti distinti l'uno dall'altro nella gerarchia delle idee
leibniziane. La prima e piú essenziale esigenza dalla
quale sorge l'armonia prestabilita è quella di giustificare
la coincidenza del contenuto di ogni sostanza
individuale con quello di tutte le altre (in quanto
101
ciascuna contiene in sé virtualmente il medesimo
universo) escludendo però ogni influenza (in quanto
ciascuna monade non ha finestre). Il rapporto fra anima
e corpo non è da considerarsi se non come
un'applicazione di questo principio ad un problema di
attualità in quel tempo. Corpo ed anima vengono
considerati qui come due sostanze, due monadi
corrispondenti fra loro in maniera eminente (e questa
corrispondenza darà luogo a difficoltà e incongruenze
quando poi Leibniz concepirà ciascun corpo come a sua
volta formato di monadi, e l'anima come la forma
sostanziale del corpo). Ma in ogni modo, non ci sembra
che dall'armonia prestabilita sia da svolgere come
conseguenza essenziale la concezione del duplice ordine
del reale, corporeo e spirituale. Concezione che, cosí
come la intende il Barié, è estranea al nucleo centrale
del pensiero leibniziano, derivando piuttosto da una
esteriore applicazione di suoi concetti alla soluzione di
un problema del cartesianismo e dell'occasionalismo; e
assume tutto un altro carattere quando si presenta come
duplicità dei due ordini finalistico e meccanicistico, o
delle verità di ragione e di fatto.
Su questa concezione, invece, il Barié si appoggia
anche nella sua esposizione della gnoseologia
leibniziana, nella quale si diffonde a parlare della
distinzione fra il modo di rappresentazione dell'anima e
quello del corpo; mentre il punto centrale di essa è la
implicazione di ogni rappresentazione da parte del suo
oggetto, in quanto collegata ad esso con un rapporto
102
logico-causale. Su questa connessione logico-causale
egli non si sofferma affatto, né sul concetto di monade
che ne deriva. È invece questo il perno intorno a cui gira
il sistema leibniziano; e la dissoluzione del concetto di
materia (dissoluzione che c'è in Leibniz ed è
importantissima) deriva da quel centro piuttosto che dal
rapporto corpo-spirito nell'armonia prestabilita.
La realtà ha in Leibniz questo carattere: puntuale,
attivo, svolgentesi mediante un rapporto causale che –
considerato logicamente secondo uno statico concetto
della causalità – è già analiticamente contenuto in essa.
La materia, il mondo, tutto ciò che è concreto, si risolve
e si dissolve in questo principio.
E se questo principio lo vogliamo chiamare spirito,
possiamo farlo; purché ricordiamo che spirito, per
Leibniz, è questo e non altro.
103
sua piú grande originalità e ridurlo a schemi ben noti,
per i quali, direi quasi, non era necessaria la sua
filosofia. «Spirito» significa per lui, è vero,
dissoluzione, eliminazione della materialità; non
significa però affatto alcunché di pensante. E lo stesso
concetto di rappresentazione, sul quale egli fonda la sua
dottrina della conoscenza, è cosí strettamente legato
all'universalità logico-causale della monade, da avere un
carattere essenzialmente ontologico. Il Barié nega il
concetto della non comunicazione fra le sostanze,
giudicandolo incompatibile con la potestà
rappresentativa. Ma l'originalità di Leibniz consiste
proprio in questo nuovo concetto della rappresentatività
fondato sulla universalità chiusa in sé di ciascuna
sostanza individuale. Se vogliamo intendere la
rappresentatività come pensiero, correggerla cioè in
senso idealistico, che bisogno abbiamo allora di
ricorrere a Leibniz?
L'essere di Leibniz, insomma, è qualche cosa di
assolutamente extramateriale, tale anzi che in esso la
materialità si dissolve: ma non è affatto né
autocoscienza, né pensiero. La sua differenza dal
pensiero è circa altrettanto grande che la differenza fra il
soggetto logico di una proposizione – il soggetto cioè
contrapposto al predicato –, e il soggetto pensante, l'io,
contrapposto al non io, all'oggetto. Due concetti, questi,
che hanno pochissimo in comune, fuorché il nome.
Ciò che invece ha in Leibniz carattere idealistico (o
per lo meno prelude a soluzioni idealistiche) è il
104
concetto di materia, quale si viene formando a poco a
poco come aspetto parziale o ulteriore elaborazione
(«aggregatum») dalla originaria sostanza: privo di una
sua realtà che non sia puramente apparente,
«fenomenica». Ma questo non implica che sia idealistica
l'entità spirituale che gli sta alla base. La quale entità ha
un suo valore appunto per la sua extra-soggettività, per
quel suo assurgere all'universale per via ontologica, al di
là di ogni passaggio attraverso il rapporto di soggetto-
oggetto. Proprio quello che il Barié nega, cioè la
rappresentatività intesa come propria della sostanza
universale e chiusa in se stessa, non comunicante con le
altre, ci sembra l'apporto fondamentale di Leibniz, e la
direzione nella quale, trasposta nei termini dei nostri
problemi, la sua esperienza può essere proseguita.
Fondandosi quasi esclusivamente sul superamento
della materialità, il Barié lascia completamente in ombra
l'aspetto individualistico dell'universalità della sostanza
leibniziana, e dà di questa un'interpretazione che ci
sembra troppo vicina a Spinoza: avvicina troppo, cioè,
la sostanza a Dio, perdendo anche qui un motivo
fondamentale del leibnizianismo cioè lo svolgimento
dell'universalità della sostanza da una considerazione
analitica dell'a posteriori, e trovandosi costretto a
svalutare e rifiutare quel cardine della filosofia
leibniziana che è la distinzione fra possibilità e realtà,
quindi fra verità di ragione e di fatto.
Ma l'uso che si può fare di un filosofo può andare
molto al di là della sua interpretazione; ed ogni uso è
105
legittimo, quando è presentato come tale. Il Barié ha
voluto servirsi di Leibniz come di uno stimolo al suo
pensiero personale. Questo ci sembra forse troppo
lontano da Leibniz perché il connubio possa apparire
veramente fecondo. Ma, indipendentemente da Leibniz,
in esso si trovano spunti interessantissimi. Tutto un
sistema è abbozzato nell'ultima parte del libro: un
idealismo ontologizzante che vuol negare la dialettica e
sostituire ad essa la legge di continuità. Tesi nuove,
sviluppi arditi, polemiche originali, delle quali non mi è
possibile qui rendere conto; ma che legittimano la
fiduciosa attesa per quel libro teoretico e sistematico che
il Barié speriamo ci vorrà ora preparare.
106
Le verità eterne in Descartes e in
Leibniz
Schema di un saggio
107
Il Gilson ha individuato nella teologia scolastica di
Tommaso e di Suarez l'avversario contro cui Descartes
si rivolge nell'affermare che le verità eterne sono state
create da Dio e non sono anteriori all'intelletto e alla
volontà divina. – Leibniz farà, mezzo secolo piú tardi,
proprio della riaffermazione della posizione tomistica, il
punto centrale della sua critica a Cartesio, e il suo
principale capo d'accusa contro di lui. La sua
argomentazione sembra quasi ricalcare la tesi scolastica.
Le verità eterne s'impongono alla volontà di Dio, e le
sono anteriori. La volontà di Dio non può derogare ad
esse, cosí come non può mettere in opera due realtà che
siano contraddittorie fra di loro. La volontà di Dio, pur
facendo tutt'uno col suo intelletto, ne è in qualche modo
distinta, ed è posta come conseguente ad esso. Sí che le
leggi della giustizia e della verità non sono tali perché
Dio tali le ha volute; ma anzi, Dio le ha volute tali,
appunto perché le ha conosciute come giuste e buone.
Infine, Dio ha dei motivi nel suo agire, e la sua azione è
determinata dalla rappresentazione di un fine: fine che
bisognerà ricercare nella fisica come nelle scienze
naturali, come nello studio della natura umana.
Ora, se è vero che le tesi cartesiane opposte a quelle
sopra esposte sono improntate alla mentalità mistico-
platonico-agostiniana dell'Oratorio, si avrebbe, nel
contrasto Cartesio-Leibniz, un'opposizione fra il
misticismo agostiniano e l'intellettualismo tomistico.
Che Leibniz abbia conosciuto la dottrina di Tommaso
d'Aquino sia nell'originale, sia nel rifacimento e
108
approfondimento del Suarez, sia nei manuali scolastici,
risulta chiaramente dalla sua biografia, dalla forma della
sua cultura, e dalle ripetute citazioni delle sue opere.
Resta il problema piú importante per la comprensione di
questi due pensatori, abituati ad assumere vecchie
formulazioni teologiche, ricche di lunga tradizione, a
sostegno delle loro tesi innovatrici. Perché Cartesio e
Leibniz hanno scelto queste due diverse cornici per
inquadrarvi la loro nuova visione della realtà?
Che Descartes abbia affermato l'assoluta identità, in
Dio, di conoscenza e volontà, eliminando ogni
distinzione, sia pur logica o ideale, tentando di tagliar
netto alle controversie riguardo alla preminenza dell'una
o dell'altra facoltà, è attestato dalle sue opere. È però da
vedere se egli abbia potuto eliminare effettivamente, e
non solo verbalmente, questa distinzione; o se il suo non
sia invece uno dei casi, che si riscontrano tanto spesso a
proposito di questo problema, di un'affermazione della
preminenza dell'una o dell'altra delle due facoltà,
attraverso l'affermazione della loro identità.
Il dire, infatti, che la conoscenza e la volontà non
sono se non una cosa sola, ha quasi sempre avuto, nella
storia della filosofia, un significato polemico: ha servito
a riaffermare a volta a volta, contro le tesi
intellettualistiche, l'autonomia della volontà e la sua
indipendenza da ragioni o da motivi che la determinano,
oppure, contro tesi volontaristiche e contro il libero
arbitrio di indifferenza, la necessità da parte della
volontà di avere un criterio della sua azione. L'affermata
109
identità si risolve insomma in una preminenza dell'uno o
dell'altro dei due termini. Anche Leibniz presenta la sua
opposizione intellettualistica alla tesi cartesiana e allo
«stat pro ratione voluntas» come un'unificazione
d'intelletto e volontà.
Ma una tale unificazione sarebbe solo possibile (per
limitarci a questo campo teologico) là dove fosse
eliminato il problema dell'anteriorità o meno delle idee
di ragione rispetto a Dio. Solo una filosofia che non
conosca il problema dell'inizio delle cose, del prima o
del poi, che abbia superato il concetto dell'anteriorità e
posteriorità temporale o ideale, può eliminare la
distinzione fra conoscenza e volontà.
Il Laporte, in un recente scritto (La Liberté selon
Descartes, R.M.M., 1937, pp. 114 sgg.) ha tentato di
determinare, sulla scorta dei testi, e principalmente
dell'Entretien avec Burmann, i caratteri dell'identità
cartesiana di necessità e libertà; o, che è lo stesso, l'unità
di conoscenza e volontà, di essere e volere in Dio. Ed ha
concluso attribuendo ad essa un carattere trascendente e
misterioso. Ciò significa, a mio parere, che Descartes,
posto ex professo di fronte al problema, è stato costretto
a trasportare l'unità di volontà e di intelletto in una sfera
inaccessibile alla nostra comprensione: in una sfera
nella quale non è neppure possibile dire che le verità
sono una creazione di Dio.
Che in questa sfera superiore, determinabile solo
negativamente, Descartes elimini ogni anteriorità della
volontà, è chiaro. Ma qui si vuole affermare che quando
110
egli parla di Dio, quando cioè ne vuol spiegare e
determinare e descrivere l'essenza e l'azione, egli ne
concepisce la volontà indipendente dall'intelletto. Si
vuole affermare che, non la sua concezione generica
della divinità, ma la sua tesi delle verità eterne create da
Dio, con tutte le conseguenze che ne derivano, comporta
l'indifferenza assoluta di Dio; che la volontà divina, in
quanto creatrice di queste verità, è anteriore
all'intelletto. Fuori di questa anteriorità la teoria
cartesiana non avrebbe significato; perché dire che
volontà e intelletto, nel loro rapporto con le verità
eterne, s'identificano, è come dire che il problema della
preesistenza o meno delle verità eterne non esiste. Ora
questo problema esiste in Cartesio, ed è risolto da lui in
modo univoco, non col superarne i termini in una sintesi
superiore, ma anzi portando all'estrema accentuazione
una delle due tesi a fronte. E la stessa parola «établir»
che, come nota il Gilson (Commento al Discours, p.
372), Descartes usa abitualmente «pour désigner l'acte
par lequel Dieu a imposé au monde, en le créant, les lois
stables qui le régissent» indica come egli accentui, di
questo atto, il carattere volontario.
Il contrasto fra Cartesio e Leibniz è dunque il
contrasto fra una concezione volontaristica e una
concezione intellettualistica della realtà. Concezioni
che, in ambedue i pensatori, hanno radici, oltre e piú che
nelle influenze teologiche da loro subite, nella
conformazione della loro personalità e nella loro intima
concezione della realtà spirituale. Gli storici, fondandosi
111
sulla considerazione che in essi l'impalcatura ontologica
del sistema precede idealmente e logicamente la dottrina
delle facoltà umane, hanno quasi sempre dato, nelle loro
esposizioni e nei loro commenti, la precedenza al
problema della libertà divina, e l'hanno fatto quasi
indipendente da quello della libertà umana. Ma se è vero
che la dottrina dell'uomo in Cartesio e in Leibniz, come
nei sistemi scolastici, è posteriore alla dottrina di Dio,
non è men vero che il concetto che essi si sono formati
della natura divina, e specialmente dei suoi attributi
paralleli alle facoltà umane, è strettamente connesso con
l'insieme di atteggiamenti, di esigenze psicologiche, di
esperienze spirituali che costituiscono il nucleo della
loro umanità. Ora questo nucleo, che può gettare grande
luce su tutta la metafisica dei nostri autori, si può
rintracciare, meglio che altrove, nella loro dottrina
dell'uomo, non tanto nel suo aspetto sistematico, non
tanto nel suo atteggiamento di fronte alle controversie
del tempo, quanto in quello che esso ci può far scorgere
dell'esperienza vissuta, del carattere intimo dell'autore;
intesa come antropologia, non dedotta da premesse
ontologiche e metafisiche, ma sperimentata
immediatamente alla base del proprio essere15.
Ora Descartes, qualunque sia la sua tanto discussa
posizione rispetto alla controversia molinistica-
tomistica-giansenistica, ha, alla base di tutto il suo
15 A questo accenna anche il Laporte, op, cit., p. 142. Ma egli
intende poi la libertà umana come un riflesso di quella divina.
Mentre qui si vuol accentuare la relazione inversa.
112
pensare, un'intuizione immediata e diretta
dell'autonomia della volontà come facoltà di scelta, di
assenso, di attenzione, di sospensione di giudizio, come
«puissance positive de se déterminer». La IVme
Méditation e tutti i testi in cui egli accentua l'unione di
libertà e necessità, sono tentativi di organizzare questa
intuizione fondamentale e non mai smentita del suo
spirito entro i termini di un coerente sistema teologico.
Ed anche in esse, come il Laporte ha chiaramente
dimostrato, la volontà conserva la sua autonomia, col
non esser legata oltre l'istante medesimo dell'atto, col
poter accordare o negare l'attenzione, col porre
«l'indépendance que nous expérimentons et sentons en
nous» su di un altro piano che la «dépendance qui est
d'autre nature, selon laquelle toutes choses sont sujettes
à Dieu» (a Elisabetta, 3, IX, 1645).
In Leibniz, invece, la volontà è sempre, in modo
univoco, concepita come una naturale conseguenza
della conoscenza. Dai progetti di Caratteristica al
Systema theologicum, dalle lettere al landgravio di Assia
ai Nouveaux Essais, dai frammenti sui mistici alla
Teodicea, la volontà leibniziana è sempre una facoltà
non autonoma: non esiste se non come un aspetto, un
prolungamento necessario della percezione. La
conoscenza è di per sé concepita come attiva, tendente
alla realizzazione; e non vi è scelta, o assenso, o
sospensione di giudizio, che sia determinata da una
forza a sé stante di decisione, e che non sia invece la
risultante di una combinazione di percezioni.
113
Che queste due antitetiche visioni della realtà
spirituale debbano aver influito sulla concezione dei
rapporti fra conoscenza e volontà in Dio, è evidente. E
con questo non si vogliono negare le influenze
teologiche; ma solo affermare che questo ordine di
simpatie e questa mentalità complessiva hanno
determinato i due pensatori a credere piuttosto alle une
che alle altre.
Abbiamo dunque di fronte: in Descartes, un sistema
di verità necessarie per l'uomo, ma contingenti per Dio,
poste, istituite, create da un atto libero della volontà
divina. In Leibniz, un sistema di verità necessarie,
eterne, alle quali Dio stesso deve sottostare; una facoltà
di scelta in Dio nell'ambito di queste verità, che è però a
sua volta determinata dal principio del migliore. In
Leibniz i due ordini delle verità matematiche e delle
cause finali, ambedue imposti dall'intelletto di Dio alla
sua volontà. In Cartesio il solo ordine delle verità
matematiche, e queste contingenti rispetto alla volontà
di Dio. Che cosa significa ciò?
Il Gouhier (La pensée religieuse de Descartes) ha
messo bene in luce come la tesi agostiniana della
indipendenza di Dio dalle verità eterne, costituisca in
Descartes un'esigenza del suo razionalismo, e gli
permetta quell'agnosticismo teologico che è alla base
della sua concezione geometrica della realtà; ma ha
notato altresí come essa sia, d'altra parte, nell'organismo
del suo pensiero, qualche cosa di molto piú profondo
che un espediente per proseguire piú tranquillo i suoi
114
studi. Essa è un aspetto di quella mentalità complessiva
che gli fa porre un distacco nettissimo fra ragione e
fede, che lo conduce a scorgere nell'ampiezza della
volontà rispetto all'intelletto, l'origine dell'errore. Al di
là dei limiti della ragione, Descartes intravede un
mondo vastissimo, illimitato, incontrollato e
incontrollabile dalla nostra matematica ragione: il
mondo della fede, della grazia, dell'infinito, del libero
arbitrio divino; – e, al limite inferiore, del particolare,
del contingente, dell'accidentale. Mondo nel quale
domina incontrastata la volontà. Ma questa
impostazione tipicamente mistica, inquadra una filosofia
rigidamente razionalistica.
Nel 1625 era uscito a Parigi il De jure belli ac pacis
di Grozio, con l'audace affermazione che il diritto
naturale avrebbe validità, «etiamsi daremus, quod sine
summo scelere dari nequit, non esse Deum» (Proleg., n.
11, cfr. lib. I, cap. 1, § 10). Nella lettera da Amsterdam
al padre Mersenne del 30/V/1630, Cartesio confuta
questa tesi, usando quasi le medesime parole16. Ma
questo fatto, e la costante opposizione all'ateismo, non
possono far dimenticare che la via scelta da Descartes
conduce ad un'altra forma di naturalismo e di
libertinismo, che avrà il suo estremo rappresentante nel
16 «Il ne faut donc pas dire que si Deus non esset, nihilominus
istae veritates essent verae». Mi limito ad accostare i fatti, non
avendo ancora controllato la tesi che ne deriverebbe: cioè che
l'«avversario di Descartes» a questo proposito non sia Tommaso,
ma Grozio e i libertini.
115
Bayle: la via che era stata tentata con cosí tragico esito
dal Bruno e dal Galilei; la via della distinzione della
fede dalla ragione, destinata a liberare il campo della
ragione da ogni intralcio dogmatico. Cartesio riesce a
dare a questa concezione un suo assetto sistematico, a
presentarla come una tesi teologica avente diritto di
cittadinanza accanto alle altre: trova nella coscienza
profonda che egli ha dell'autonomia e dell'indifferenza
della volontà e nella rinascita agostiniana che egli nota
intorno a sé i motivi per dimostrarla e per sostenerla.
Essa non è piú un espediente per liberarsi da obbiezioni
fastidiose. Diviene un pilastro della sua metafisica.
Ma, appunto per la serietà con cui viene concepita,
per la sua intima connessione con l'insieme del sistema,
la tesi della dipendenza delle verità eterne dal volere di
Dio, e quelle che ad essa si legano, dell'impenetrabilità
dei fini divini, dell'incommensurabilità fra ragione e
fede, fra natura e grazia, fra finito e infinito, danno un
carattere particolare a tutto il razionalismo cartesiano.
Se è vero che il tutto è maggiore della parte solo
perché Dio ha voluto cosí, e non lo sarebbe se Dio
avesse disposto diversamente, allora la legge razionale e
matematica assume un carattere di limitazione, di
relatività. Ciò non significa che Cartesio sia un
precursore di Kant. Resta fermo che egli crede
all'assoluta realtà delle idee eterne, delle leggi
matematiche; crede anzi di aver trovato in esse e solo in
esse la chiave infallibile del reale. Ma questa assoluta
certezza, questa obbiettività ha valore all'interno di un
116
sistema le cui leggi sono necessarie alla natura delle
cose e dell'uomo perché Dio, per un atto di arbitrio, ha
voluto le cose e l'uomo costituiti in questo modo, mentre
avrebbe potuto volere altrimenti. E ciò non solo per
quanto riguarda il criterio del buono e del vero, ma
anche il criterio del necessario. L'infinità dei mondi
possibili è un concetto che non esiste in Cartesio nel
senso leibniziano di una possibilità di scelta del «fatto»
nell'ambito delle verità eterne. Poste una volta queste
verità, il fatto ne discende per una catena infallibile di
deduzioni. Ma esiste un campo della possibilità, al di là
della possibilità tomistica e leibniziana. Una possibilità
piú vasta, nell'ambito della quale il mondo delle nostre
verità eterne, del principio di non-contradizione, del
triangolo la somma dei cui angoli è uguale a due retti, è
uno degli infiniti contingenti. È la coscienza di questa
possibilità che fa sí che Cartesio condanni
l'antropomorfismo e il geocentrismo della scolastica, e
che lo fa pensare, pur con assoluto agnosticismo,
all'eventualità di mondi completamente diversi dal
nostro, la cui struttura non possiamo neppure concepire
(Adam-Tannery, B, 168). Questa coscienza pone
all'assoluta e matematica certezza con cui egli fissa le
sue proposizioni di fisica, di metafisica, di morale, una
riserva iniziale: tutto ciò è valido e necessario in un
sistema in cui vigano quelle che noi conosciamo come
verità eterne. Questa riserva inquadra l'agnosticismo
teologico di Cartesio, e colora forse di una luce speciale
il suo fondare la validità delle idee chiare e distinte
117
sull'argomento, che Dio non è «trompeur»17. Comunque,
è una riserva che rimane sempre nello sfondo e non
assume mai un'accentuazione spiccata nel razionalismo
cartesiano. Ma è quella, forse, che dà a Cartesio la forza
e la sicurezza del «suo cominciare da capo», la baldanza
del suo costruire a priori. La volontaria limitazione del
campo della ricerca gli dà la garanzia di poter procedere
diritto sul terreno scelto. Egli non pretenderà di
risolvere se non i problemi dei quali abbia la chiave in
mano, e in quanto la abbia. Ma in quelli, sa di poter
procedere senza tentennamenti. Non pretende alla
totalità delle cose: ma nel suo campo ristretto, vuol
essere padrone.
Cartesio è un uomo che, tracciati i limiti alla ragione,
ha escogitato, entro di essi, un modo di procedere
infallibile e sicuro. E il suo accento è posto sulla
seconda parte di questo programma. Per accentuare la
prima, e fare perno su di essa, bisognerà che venga
Kant.
17 «Si cette croyance est si ferme que nous ne puissions
jamais avoir aucune raison de douter de ce que nous croyons de la
sorte, il n'y a rien à rechercher davantage, nous avons touchant
cela toute la certitude qui se peut raisonnablement souhaiter. Car
que nous importe si peut-être quelqu'un feint que cela même de la
vérité duquel nous sommes fortement persuadés parait faux aux
yeux de Dieu ou des anges, et que partant, absolument parlant, il
est faux? Qu'avons nous à faire de nous mettre en peine de cette
fausseté absolue, puisque nous ne la croyons point du tout, et que
nous n'en avons pas même le moindre soupçon?» (Rép. aux. 2 es
Objections).
118
La tesi di Leibniz riveste – piú di quanto non sembri
– di forma tomistica un contenuto naturalistico,
groziano. Questa interpretazione è filologicamente
sostenibile. I giovanili scritti giuridici e i frammenti
recentemente pubblicati, mostrano come Leibniz avesse
fin dalla primissima gioventú studiato profondamente
l'opera di Grozio, e come la teoria della validità delle
verità eterne indipendentemente da Dio, avesse fatto sul
suo animo grande impressione. Il problema
evidentemente travaglia la mente del giovane studioso;
e la tesi groziana, discussa con varie incertezze in
campo giuridico, si fa luce piú chiaramente in campo
metafisico. Già L'Ars Combinatoria, del 1666, parla di
«propositiones quae sunt aeternae veritatis, seu non
arbitrio Dei sed sua natura constant» (§ 83); e una
lettera al giurista Wedderkopf è ancora piú esplicita:
«Quae ergo – scrive Leibniz – ultima ratio voluntatis
divinae? Intellectus divinus... Quae ergo intellectus
divini? Harmonia rerum. Quae harmoniae rerum? Nihil.
Per exemplum quod ea ratio est 2 ad 4 quae 4 ad 8, eius
reddi ratio nulla potest, ne ex voluntate quidem divina.
Pendet hoc ex ipsa Essentia seu Idea rerum» (Edizione
dell'Accademia di Berlino, II, I, 117).
Il tomismo a volte verrà ad attenuare la tesi qui cosí
crudamente esposta; le darà un assetto teologico, la
renderà presentabile in una controversia. Ma il nucleo
dell'opposizione leibniziana a Cartesio rimane questo; e
il suo significato è il medesimo che quello della tesi di
Grozio. Leibniz vuol dare alla legge naturale la
119
medesima autonomia che Grozio aveva dato al diritto
naturale. Le verità eterne sono indipendenti da Dio, il
quale non può agire se non in conformità di esse. Quel
matematismo, che Cartesio aveva concepito come un
«sistema», un «ordine» creato da Dio, entro il quale
tutto è perfettamente calcolabile, ma che non esclude, al
di fuori di sé, altre realtà con esso incommensurabili,
assume qui un carattere di assolutezza, di inflessibilità.
La legge diviene l'armatura di ogni realtà, umana od
extraumana: e Dio non ne è che l'esecutore.
Ma appunto questa sua totalitarietà impone alla legge
naturale di articolarsi in forme nuove, piú vaste che il
matematismo deduttivo, il quale si mostra incapace di
abbracciare tutta la realtà. Cartesio attinge, dal suo
agnosticismo riguardo all'ambito della volontà, la
modestia e la forza di procedere senza tentennamenti nel
campo della ragione. Leibniz, che non conosce nulla al
di sopra della ragione, deve dare ad essa un'ampiezza
che le permetta di accogliere tutto ciò che trascende la
pura matematica. Il suo principio del «migliore», la sua
ragion sufficiente, la sua armonia, hanno questo
significato: sono la ricerca di una nuova legge della
realtà, di una nuova chiave dei misteri dell'universo.
Perciò il suo finalismo ha qualche cosa di piú dinamico
che il finalismo scolastico: non è una giustificazione del
reale, ma piuttosto l'esigenza di una giustificazione. È il
senso che questa giustificazione non può fondarsi sulle
pure leggi a priori dell'identità e della non
contraddizione, né su analogie antropomorfiche, ma su
120
una ricerca concreta, aderente al reale, animata dalla
certezza che non c'è fatto che non s'inquadri in un
ordine, in una legge.
Ogni volta che l'uomo si accorge di aver usato
indebitamente e confusamente gli strumenti che ha in
mano per la spiegazione e la conquista del mondo, gli
restano due vie: o rivolgersi verso se stesso, raffinare gli
strumenti, restringerne l'uso al terreno cui si attagliano,
e dissodare fin in fondo questo campo limitato. Oppure
rivolgersi verso il mondo, accettarlo nella sua varietà,
esaminare i campi finora mal coltivati, e forgiarsi nuovi
strumenti di lavoro adatti ad essi. Tali fondamentali
atteggiamenti sono rappresentati, in un momento della
storia del pensiero, da Descartes e da Leibniz. E la
controversia sulle verità eterne non è che l'espressione
teologica di queste due diverse visioni della realtà.
121
Leibniz e il misticismo
122
razionale, alla ragion pratica o alla teoretica, alla
volontà o alla conoscenza.
Cartesio, il filosofo razionalista per eccellenza, era di
mentalità tipicamente anti-intellettualistica. Non si può,
ci sembra, far risalire alla sola influenza intellettuale dei
mistici dell'Oratorio il senso costante che egli ha di un
ambito della volontà piú vasto che quello della
conoscenza: di un mondo della fede, o della grazia,
completamente indipendente da quello della ragione; di
un arbitrio divino che determina esso stesso, di là da
ogni motivo, le verità eterne. Ciò deve corrispondere a
qualche cosa di piú profondo e radicato nel suo
carattere, a un sistema di preferenze di cui l'«uomo», in
lui, non aveva la possibilità di liberarsi. Egli riuscirà
anzi a far sí che questo suo intimo bisogno si faccia
sentire il meno possibile nella sua filosofia. Lo
relegherà ai margini, in modo che il geometrismo della
costruzione non ne venga in alcun modo turbato. Pur
tuttavia questa cornice illumina di una luce particolare il
quadro razionalistico del sistema.
Leibniz è invece, nel fondo del suo carattere,
l'intellettualista piú puro, l'anti-mistico per eccellenza.
Benché i problemi religiosi costituiscano uno dei suoi
interessi preponderanti, non è possibile parlare di una
religiosità leibniziana. C'è in lui lo spirito del ricercatore
scientifico applicato all'oggetto della teologia; ma gli
manca ogni istinto, ogni sensibilità, ogni aderenza
all'irrazionale. Ogni volta che egli parla di Dio, specie
nelle esposizioni panoramiche del suo sistema, si tratta
123
sempre di uno slancio rivolto all'armonia dell'universo,
alla legge insita nelle cose, alla organizzazione del
cosmo; legge, armonia, organizzazione cui lo spirito
umano si adegua sentendole come proprie, riconoscendo
in esse la presenza di quella «ragione» che permette di
abbracciare in un insieme logico, causale, finalistico, la
totalità del mondo18. Ma non si è mai in presenza di
quella immediatezza irriflessa, di quella spontaneità
intuitiva che caratterizza l'esperienza del mistico.
Ogni atteggiamento tipicamente religioso ha
necessariamente alla sua base una psicologia
irrazionalistica, fondata sulla preminenza di facoltà non
logiche e non empiriche (volontà, intuizione, ecc.), sulla
conoscenza riflessa.
L'atteggiamento di Leibniz riguardo ai rapporti fra
conoscenza e volontà, la sua presa di posizione di fronte
ai problemi psicologici dell'irrazionale e dell'istinto, la
sua tendenza a negare l'autonomia delle varie facoltà
spirituali per ricondurle alla fondamentale forma del
contatto conoscitivo con la realtà ci mostreranno le
profonde radici della sua areligiosità. Ma ci
indicheranno anche la base di tendenze psicologiche e la
forma mentis dalla quale è sorta la costruzione del suo
sistema; ci permetteranno cioè di approfondire il tono di
questo razionalismo.
124
Non troveremo qui (fuorché nel problema
dell'essenza della volontà, che ha correlati direttamente
metafisici) teorie definite. Leibniz non fu se non
occasionalmente un indagatore dello spirito umano. Ciò
che egli dice a questo proposito ha carattere sporadico,
non risponde a un vero ordine concettuale. Piú che di un
insieme di dottrine, si tratta di generici atteggiamenti
mentali. Interessanti però, perché in essi potremo
scorgere il profondo motivo e l'origine di varie celebri
formulazioni metafisiche e ontologiche; se è vero che
ogni oggettivismo, a partire da quello di Platone, ha la
sua base in una determinata concezione dello spirito
umano, i cui termini vengono proiettati nell'assoluto. Il
che naturalmente non ci dà il diritto di spostare la base
della impostazione ontologica, ma non ci esime d'altro
lato dallo studiare queste radici gnoseologiche o
psicologiche o antropologiche, come uno degli elementi
integranti del processo formativo del sistema. Lo studio
di questo substrato in Leibniz ci darà la chiave di molti
aspetti fondamentali del suo ontologismo e della
differenza di questo dagli altri sistemi razionalistici del
suo tempo.
Il Baruzi, che ha il merito di aver scoperto e messo in
luce tutto un aspetto ignorato del pensiero religioso
leibniziano, e non ha trascurato alcun elemento che
potesse salvare la religiosità del suo autore, usa
continuamente, a proposito di essa, la parola
«misticismo». Ma è costretto sempre ad aggiungervi
l'aggettivo «razionale», che neutralizza completamente
125
il termine. Se vogliamo chiamare mistica ogni
esplosione di entusiasmo per il proprio argomento, e il
compiacersi di visioni panoramiche del regno di Dio,
inteso come il regno dell'ordine, dell'armonia, con le sue
leggi stabili e razionali, potremo parlare anche di una
mistica della ragione; ma la parola avrà assunto un
valore metaforico, e non significherà piú nulla di
preciso.
Il Baruzi dimostra, in base a documenti inediti, che
Leibniz si trovò spesso di fronte ai problemi del
misticismo. Ma fu con tale lontananza e, diremmo, con
tale incomprensione, che questi testi sono anzi i migliori
documenti del suo intellettualismo razionale e religioso.
Egli ha letto sí molte opere mistiche; ma sempre col fare
distratto e frettoloso dell'erudito che vuol essere
informato di tutto. Su S. Teresa si ferma per notare che
vi ha trovato un pensiero conforme alla sua filosofia19.
Ad essa e a S. Caterina da Genova perdona «alcune
credulità che si notano nelle loro opere», portato come è
ad «attaccarsi nelle cose a ciò che vi è in esse da lodare,
senza quasi fare attenzione a ciò che vi si può
biasimare»20. Di Valentino Weigel, fin nell'Ars
Combinatoria, ricorda come «nimis entusiastice» egli
sostenga «beatitudinem hominis esse Deificationem»21.
Di Jacob Böhme e di Poiret dice che, pur apprezzandoli,
non ha tempo di studiarli, per la loro ermeticità; «et
19 Baruzi, Leibniz, 326.
20 Ibid., 338.
21 Ars Combinatoria, prob. III, N. 11.
126
j'avance bien mieux par mes propres méditations, qui
viennent de cette même divine source de lumière qui les
peut avoir éclairés puisqu'il est sûr que Dieu et la
lumière se trouvent en nous»22.
Non si potrebbe con un po' di fantasia scorgere in
queste parole una punta di ironia, e magari il fastidio per
l'invadenza del corrispondente, che possiamo
immaginare troppo assiduo a consigliargli letture
mistiche?
Sarebbe d'altronde imprudente, di fronte a un uomo
cosí curioso, a un lettore cosí formidabile, basarsi sui
libri da lui letti e sui problemi di cui si è interessato, per
stabilire dirette influenze di autori e di dottrine sul suo
pensiero. L'attenzione di Leibniz per gli atteggiamenti
mentali altrui è sempre molto esteriore. Egli cerca, nei
libri, notizie, informazioni: non comunioni spirituali.
Raramente egli entra nei motivi interni, nella struttura
costruttiva di un sistema o di una posizione spirituale.
Di fronte ad una teoria filosofica, si ferma alle
formulazioni finali, confrontandole con le sue, notando
qui la concordanza, là il distacco. Le sue polemiche, i
suoi commenti hanno sempre questo carattere. Ci
aiutano a comprendere meglio il suo pensiero, ma non ci
avvicinano di un passo allo scrittore con cui egli discute.
Egli prende a partito per centinaia di pagine, il pensiero
del Bayle o del Locke; non una volta si sforza di entrare
nel mondo del suo autore, di comprendere il significato,
127
la posizione di quelle teorie in un sistema mentale. Si
limita a procedere capitolo per capitolo, contrapponendo
tesi a tesi, interloquendo là dove trova, fra le proprie
idee, formulazioni che gli sembrano migliori di quelle
dell'altro. Chi legge ha l'impressione di essere di fronte
a due uomini che parlano lingue diverse, e che credono
di intendersi, interpretando i suoni emessi dall'altro
secondo le analogie della propria favella.
Cosí egli si comporta sempre, con tutti: di fronte ai
dogmi ufficiali della chiesa e alle teorie dei mistici. Non
fa mai una critica fondamentale al punto di vista
secondo il quale un libro è scritto; ma generalmente vi
nota (quando il libro lo soddisfa) «plusieurs bonnes
choses»23. E buone cose sono per lui i pensieri che trova
corrispondenti ai suoi, o che, in qualche modo, si
possono interpretare come tali. Ha sempre un grande
desiderio di consentire, di profittare e non di criticare 24,
di dar ragione al suo interlocutore. E per far questo, si
cura meno di ciò che questi ha veramente voluto dire,
che di trovare un artificio che permetta di rendere
accettabile la sua dottrina. Si trova cosí in pace con tutti.
«Après avoir assez medité sur l'ancien et sur le nouveau
j'ay trouvé que la pluspart des doctrines reçues peuvent
souffrir un bon sens»25. Di fronte a una dottrina mistica
sull'amore di Dio, vi trova «quelque chose de joli»; e,
prosegue, «on la peut rendre bonne», interpretando i
23 G. III, 133.
24 G. III, 133, 384.
25 Nouv. Ess., II, c. 2, §§ 21-22.
128
termini di quell'autore in modo conforme alle proprie
definizioni26.
Ho preso un paio di esempi fra mille. Ma questi
esempi sono numerosissimi a proposito dei mistici. Non
si può attribuire a Leibniz l'opinione di tutti gli autori
coi quali egli pretende di accordarsi. Il suo pensiero
subisce infiniti contatti; si esplica, si formula in mille
diverse occasioni, che è indispensabile conoscere per
comprenderlo: ma non si può dire che si modifichi sotto
determinate influenze. Tutte le fondamentali direttive
sono già chiare fin nella prima gioventú. Le letture, le
discussioni, non saranno che stimoli a proseguire una
costruzione già abbozzata.
Il Baruzi chiama «una psicologia del misticismo»27
ciò che Leibniz ha scritto sulle visioni della signorina di
Assenburg. Ma la lettura dei testi dimostra chiaramente
che non si tratta affatto di una particolare attenzione che
egli presti al contenuto di quelle visioni o al loro valore
religioso, e neppure di un interesse che egli abbia per un
nuovo modo, intuitivo, irrazionale, estatico, di giungere
alla apprensione della realtà; ma semplicemente della
normale curiosità dello scienziato per un fenomeno
strano, inusitato, uscente dalle leggi naturali
conosciute28. Egli non ne nega a priori la eventuale
26 G. III, 384-85; cfr. Théod., §§ 20, 372.
27 Leibniz, 326, L. et l'org., 501 sgg.
28 Klopp, VII, 139-68, Rommel, II, 342-43, 357, 369, e una
lettera al König del 1692, citata in Bodemann, Briefw., n. 490.
Baruzi, Leibniz, 329-30.
129
miracolosità, come riconosce sempre la possibilità di
una deroga da parte di Dio alla legge naturale, ai fini di
un ordine superiore; ma cerca il piú possibile di
ricondurre il fenomeno alla normalità della natura.
La cosa aveva destato scalpore a corte, e suscitava
discussioni fra chi accusava la visionaria di eresia, e chi
la venerava come una profetessa. Alla duchessa Sofia di
Hannover, che gli chiede il suo parere, Leibniz risponde
con un leggero tono di superiorità scherzosa. Non
bisogna prendere la cosa alla leggera, come ha fatto il
Molanus, egli dice. «Quand on rencontre de telles
personnes, bien loin de les gourmander et de vouloir les
faire changer, il faut plustost les conserver dans cette
belle assiette d'esprit, comme on garde une rareté ou une
pièce de cabinet»29. «Le meilleur est de laisser faire ces
bonnes gens là, tant qu'il ne se meslent de rien qui
puisse estre de consequence»; poiché le sette e le eresie
prendono forza dall'opposizione che loro si fa, come una
fiamma che si riaccende a forza di agitarla. «De peur
qu'on manque d'hérétiques, Messieurs les Théologiens
font quelques fois tout ce qu'ils peuvent pour en trouver
et pour les immortaliser... Souvent un homme obtient
l'honneur d'estre hérésiarque sans le savoir»30. E quanto
al fenomeno di cui si tratta, egli inclina a ritenerlo un
esempio di suggestione.
130
Vale la pena di soffermarsi su questo brano di
psicologia fisiopatologica31. I sogni, spiega Leibniz alla
duchessa, si distinguono dalle vere percezioni, per due
versi: primo, per la mancanza di connessione e
continuità, «car ceux qui veillent sont dans un monde
commun, au lieu que ceux qui songent, ont chacun un
monde particulier»; secondo, per la minore vivezza e
distinzione. Ma persone dalla forte immaginazione
possono avere apparizioni cosí vive, che sembrino loro
verità. «C'est pourquoi les jeunes personnes élevées
dans les cloistres oú elles entendent de vieilles
historiettes de miracles et de spectres, si elles ont la
phantaisie fort agissante, sont sujettes à avoir de telles
visions, parce que leur teste en est remplie».
La prova ne è che queste visioni «se rapportent
d'ordinaire au naturel des personnes», cioè alle loro
inclinazioni e alla loro mentalità. Il che avviene anche
per i veri profeti, «car Dieu s'est accommodé à leur
genie». Cosí Ezechiele vede tutto in funzione di
architettura, Osea e Amos di agricoltura, Daniele di
politica. Leibniz non esita a paragonare alle loro, le
visioni della signorina di Assenburg32; e questo non per
convalidare la soprannaturalità di queste, ma piuttosto
131
per affermare la naturalità di quelle. Con ciò non
intende menomare la santità dell'una o degli altri: «Car
pourquoy ne l'appelleray-je pas une grâce? Cela ne luy
fait que du bien, elle en est joyeuse, elle conçoit là
dessus les plus beaux sentiments du monde... Il ne faut
s'imaginer que toutes les grâces de Dieu doivent estre
miraculeuses». Soprannaturali si devono intendere solo
le profezie vere e proprie, sui particolari, sul dettaglio di
avvenimenti futuri, che implicano la conoscenza di tutti
i rapporti causali, quali non li può avere uno spirito
finito; soprannaturale sarebbe, se la signorina veramente
desse giuste risposte, come veniva riferito, a lettere
presentatele chiuse; ma di ciò Leibniz dubita; e lo
attribuisce piuttosto al caso, o alla genericità delle
parole di cui essa si serve33.
La madre della fanciulla la aveva consacrata a Gesú
Cristo, prima ancora che essa venisse alla luce. Ciò
spiega tutto. Un'impressione ricevuta nell'infanzia può
creare un disturbo nervoso per tutta la vita. Un tale si
sviene alla vista di uno spillo, un altro ha una
idiosincrasia per le cavallette. Ora, «il est vray que
l'amour de Dieu a un objet spirituel et ne sauroit venir
des images de la phantaisie, mais l'humanité de Jesus
Christ, les phrases de l'Écriture et les manières qui
accompagnent ordinairement la devotion, peuvent
laisser des traces dans le cerveau»34.
33 Rommel, II, 343, Klopp, VII, 146, 156, Bodemann, Briefw.,
n. 490.
34 24 Klopp, VII, 156-57. Vedi anche in Klopp, VIII, 22-24 la
132
Questo è un parlare da medico, da scienziato; non è
un parlare da mistico35.
Leibniz aveva in gioventú a Norimberga partecipato
attivamente alle ricerche alchimistiche dei Rosacroce.
L'alchimia continuerà ad essere una fra le sue piú
importanti occupazioni: ma egli insisterà sempre nel
volerla considerare come una vera scienza solida,
sperimentale, liberandola da tutto il suo
accompagnamento magico e mistico. «Da anni», egli
scrive al padre Kochanski, «mi tengo a contatto con
questi conoscitori degli arcani della natura, con questi
"adepti"; ma non ne ho ancora cavato un vero costrutto.
E quanto piú mi addentro in questi studi, tanto piú
divento scettico e guardingo». «Cum certis rationibus,
quantum ego intelligo, ad haec magnalia aditus non
detur». Ma se questa arte sublime non conducesse se
non alla fabbricazione dell'oro, porterebbe piú danno
che vantaggio, per il deprezzamento che ne seguirebbe
di questo metallo, il che sconvolgerebbe tutti i
commerci. Se invece riuscisse a scoprire la panacea,
sarebbe da apprezzare piú di ogni altra cosa; ma c'è qui
da temere che ciò che si racconta non risponda a verità.
«Itaque vereor, ne dum magna et admiranda quaerimus,
certiora et magis profutura negligamus». Quanto meglio
spiegazione naturale del fenomeno del «legno della Santa Croce».
35 Di visionari e mistici parla, sempre con riserve e grande
scetticismo e ironia, tutto il cap. XIX, l. IV dei Nuovi saggi. Cfr.
anche le osservazioni alla Lettera sull'entusiasmo dello
Shaftesbury (G. III, 407 sgg.).
133
farebbero questi illustri uomini, a occuparsi di
medicina! A due signori che si spacciavano per fratelli
di Rosacroce, egli non presta fiducia: «nam scire quae
remotis locis fiant, invisibilem sese atque
invulnerabilem reddere haud dubie nugacia vel potius
irrisoria sunt»36.
Lo stesso alchimista-cabalista-astrologo-teosofo
«entusiasta» Francesco Mercurio Van Helmont, per cui
Leibniz ha stima e simpatia, e dal quale, secondo lo
Stein, egli ha tratto il termine «monade» 37, è a volte
oggetto della sua ironia. Ne descrive con curiosità il
modo di vestire e di parlare38, ne cita a volte le teorie piú
fantastiche39 Il Van Helmont scriveva sulla
36 Stein, 329-30. Cfr. anche Baruzi, Trois dialogues mystiques
inédits de Leibniz, in «Revue de Mét. et de Mor.», 1905, p. 18:
«Si j'avais des panacées et des teintures, que ie n'ay point, je ne
les compterais pour rien au prix de cette medecine universelle des
ames [cioè l'applicazione regolare alla conoscenza]... Et moy qui
croy que les choses ordinaires comme le feu et l'eau sont les plus
efficaces, je m'imagine que ce qu'il y a d'extraordinairement utile
ne consiste que dans l'usage et dans l'application. Voyez moy les
éléments des géomètres. Y a-t-il rien de plus simple... Cependant
leur seul arrangement a produit tant de vérités surprenantes...
Vous autres messieurs ne voulez que des nouveautés éclatantes,
signa et prodigia».
37 Stein, 208 sgg. Cfr. alcune lettere della loro corrispondenza,
ibid., 331 sgg. ed un giudizio su di lui in G. III, 427.
38 Klopp, VIII, 8, Dutens, VI, 170, Rommel, I, 276.
39 «M. Mercurius van Helmont croyait que l'ame de Jesus
Christ étoit celle d'Adam, et que l'Adam nouveau reparant ce que
le premier avait gasté c'étoit le même personnage qui satisfaisait à
134
metempsicosi, sulla vita futura, sull'inferno e sul
paradiso, sulla sostanza spirituale di tutte le cose.
Leibniz cerca pazientemente anche qui l'occasione di
approvare, anziché di respingere. Insiste su quei punti
che possono in qualche modo essere dimostrati
razionalmente, o interpretati in modo conforme alla sua
filosofia. Solidarizza con lui nella critica al gassendismo
e al cartesianismo, accetta nelle conclusioni il concetto
della sostanza indistruggibile40. Ma quando Van
Helmont va nell'arbitrario, nell'irrazionale; quando vuol
entrare nei dettagli della vita dell'altro mondo, o
indovinare il pensiero; quando vuole che tutto sia
composto di acqua e di fuoco, intesi come principi
spirituali; quando entra in elucubrazioni su Adamo ed
Eva e il Messia e il millenarismo, ecc., «quant à tout
cela», dice Leibniz, «je me dispenserai d'y entrer». Si
contenta di sapere che tutto è cosí ben ordinato, da non
potersi rappresentare nulla di migliore. «Mais si M. Van
Helmont nous en peut apprendre d'avantage, nous en
serons ravis»41. Anche quando accetta e concorda, sa
che la concordanza è tutta esteriore, che riguarda le
formulazioni finali, alle quali egli cerca di «donner un
135
bon sens»42, ma che il metodo usato per raggiungerle, il
mondo che esse racchiudono, è tutto diverso dal suo.
«M. Helmont... convient avec moy, quoyque je ne
puisse comprendre ses arguments et ses preuves»43.
L'alchimia non deve avere, per Leibniz, nulla di
mistico e di irrazionale44. Il suo concetto della
animazione universale attraverso le infinite monadi non
ha nulla a che fare (come vedremo meglio) con
l'animazione che alchimisti ed «adepti» e mistici
scorgevano e cercavano nel mondo minerale. Varrebbe
la pena – egli dice nella Protogea – confrontare e notare
la simiglianza fra i prodotti di laboratorio e le sostanze
naturali, fra le cose «note» e le «fatte». L'autore
supremo delle cose ama la costanza, «et magnum est ad
res noscendas vel unam producendi rationem obtinuisse:
quemadmodum Geometrae ex uno modo describendi
figuram omnes ejus proprietates derivant... Neque enim
aliud est natura quam ars quaedam magna». E se è
dubbio che l'alchimia possa produrre ex novo sostanze
semplici, bisogna riconoscere che altrettanto difficile è
vedere questa produzione nella natura: «Plerumque
enim [natura] dudum alibi conceptos foetus colligit
tantum detegitque». Non bisogna credere alle favole che
136
gli uomini raccontano sulla nascita dell'oro e alle loro
fantasie sugli homunculi e i monaci plutonii e la virgula
divina45. L'alchimia è ridotta ai suoi limiti naturali di
composizione e scomposizione di sostanze; ed è intuito,
anche nel campo naturale, il concetto che la natura
stessa non opera nulla al di là di queste modificazioni
interne, e non ha nelle sue operazioni nulla di
miracoloso né di eccezionale; che nella materia bruta
non vi è creazione ex novo, ma solo spostamento di
aggregazioni. Che insomma nulla si crea e nulla si
distrugge.
137
di invocare, presso gli amici sicuri, indulgenza verso
questa gente che non fa male a nessuno46.
La controversia sul quietismo lo interessa ancor
prima di divenire celebre47, e gli suggerisce interessanti
formulazioni sull'essenza della religiosità. Il problema
posto toccava proprio il fondo della questione. La
46 Tre gradazioni: 1° col nipote Löffler, indignazione contro
gli zelanti dell'ortodossia e perorazione per la libertà di pensiero:
«Non video quorsum tantae de Pietistis concertationes pertineant;
faciat quisque quod suum est et potius mores suos emendet quam
alienos carpat. Malim ego quoque hominem pium quam doctum,
sed malim tamen pietatem cum doctrina quam zelum scientiae
expertem. In censuris nos temperantes esse decet... Quanto
quisque prudentior est, eo minus tricas amat, et quanto quisque
pietati magis studet eo magis a reprehensionibus non necessariis
abhorret» (citato in Bodemann, Briefw., n. 571). 2° coll'amica e
protettrice duchessa Sofia, benevola intercessione per un
perseguitato: «Je souhaiterais que tout le monde fust à son aise, et
je ne voudrais pas non plus qu'on tourmentast ceux qu'on appelle
Chiliastes... La confession d'Augsbourg semble n'estre que contre
les millenaires turbateurs du repos publique. Mais l'horreur de
ceux qui attendent en patience le Royaume de Jesus Christ en
terre, me parait très innocente» (Klopp, VII, 149, cfr. Rommel, II,
459). 3° col Bossuet, allora in piena polemica col Fénelon: «Le
soin de réprimer les abus des mystiques a esté digne de vous. La
matière est de saison, et la maladie, régnante: une pretendue secte
de piétistes donne presque autant d'exercice à nos théologiens que
les quietistes en donnent aux vostres. Il est vray qu'il faut prendre
garde de ne pas toucher à la véritable dévotion en arrachant
l'yvraye. Mais il y a des excès si grands qu'on ne sçaurait les
dissimuler. Tel paroist ce qu'on dit de vostre madame Guyon» (F.
d. C. II, 194). Per il pietismo e per lo Spener, Leibniz mostra
138
quiete, l'abbandono, il disinteresse propugnati dai
quietisti, dal Molinos al Fénelon, presentano
all'indagatore della natura delle facoltà spirituali,
sviluppi fondamentali riguardo alla natura della volontà.
È questa liberazione dal principio di causalità, dal
motivo dell'interesse, questa negazione di ogni azione
legata in qualsiasi modo ad una utilità, che condurrà,
attraverso l'imperativo categorico kantiano,
all'annullamento schopenhaueriano della volontà nel suo
rapporto col principium individuationis48. La psicologia
della contemplazione e del contatto immediato, diretto
con Dio, caratteristica di ogni misticismo, viene qui
svolta essenzialmente dal punto di vista della negazione
della volontà. «On ne passe insensiblement de la
méditation, ou l'on fait les actes méthodiques et
discoursifs, à la contemplation dont les actes sont
simples et directes, qu'à mesure qu'on passe de l'amour
interessé au désinteressé»49.
Soppressione della personalità, che assume nel
Molinos il carattere dell'assoluto annientamento di ogni
139
volontà individuale, della inattività e passività50.
L'irrazionalità della contemplazione non viene affatto
descritta come illuminazione o intuizione, o visione, o
insomma come una speciale forma di conoscenza,
diversa o superiore a quella razionale. Anzi la sua
superiorità mistica consiste proprio e solo nella sua
50 Molinos, Guida spirituale, Venezia 1685 (la prima edizione
è del 1675), Proemio, § 5. «L'anima, a cui è stato tolto il discorso,
non deve violentarsi, né cercare per forza notizia piú chiara, o
particolare, ma bensí senza appoggi di consolazioni, o motivi
sensibili, con povertà di spirito, e spogliata di tutto quel che il suo
appetito naturale le chiede; star quieta, ferma e costante,
lasciando operare il Signore, benché si veda sola, arida, e piena di
tenebre: che se bene le parerà otiosità, è solo della sua sensibile, e
materiale attività, non di quella di Dio, il quale sta operando in
essa la vera scienza». § 17: «Quando l'anima giunge a questo
stato deve tutta ritirarsi dentro se stessa nel suo puro, e profondo
centro; dove sta l'imagine di Dio, ivi l'attentione amorosa, il
silenzio, le dimenticanze di tutte le cose, l'applicazione della
volontà con perfetta rassegnazione, ascoltando e parlando con
Dio da solo a solo, e in guisa tale, come se nel mondo non vi fusse
altro fuor di essi due». Il corsivo è nostro. È questa la frase che
Leibniz ha trovato anche in santa Teresa e che lo richiama alle
proprie concezioni (Baruzi, Leibniz, 326, Discours de
Métaphysique, § 32). Ma la concordanza non è che di parole. Qui
si tratta di un processo psicologico in cui l'anima individuale,
estraniandosi dal mondo, si pone a diretto ed estatico contatto con
Dio. In Leibniz si tratta del concetto di sostanza individuale che
comprende in sé tutto il passato e l'avvenire e l'intero universo,
cui nulla può considerarsi estraneo. I due concetti, si può dire,
sono opposti. Nei mistici, il mondo viene negato dall'anima che si
avvicina a Dio; in Leibniz è affermato e compreso in sé dalla
140
inferiorità razionale. «Sappi dunque che il camino delle
tenebre è... il piú perfetto, e sicuro, e 'l piú dritto; perché
in esse colloca il Signore il suo trono et posuit tenebras
latibulum suum. Per esse cresce, e s'ingrandisce il lume
soprannaturale che Dio infonde nell'anima. In mezzo ad
esse si genera la sapienza, e l'amor forte... Hor vedi se
devono stimarsi, e abbracciarsi le tenebre? Quel che
devi fare in mezzo di esse è credere, che stai avanti al
Signore, e nella sua presenza, ma devi farlo con
un'attenzione soave e quieta. Non voler saper nulla, né
cercar delicatezze, tenerezze, o sensibili divotismi, né
altro voler fare, che il divino bene placito, perché
altrimenti, non farai in tutta la tua vita altro che circoli,
e non darai un passo nella perfetione»51
Tenebre, conoscenza oscura e confusa, inattività.
Negazione quindi di ogni atto e di ogni esercizio che
rappresenti uno sforzo diretto al raggiungimento della
contemplazione; anche la mortificazione, anche la lotta
contro le tentazioni è biasimevole. «Non giungerai a
sostanza.
51 Molinos, op. cit., libro I, §§ 40-41. Cfr. Proemio, § 7:
«Diranno che la volontà non amerà ma starà otiosa se l'intelletto
non intende con distinzione e chiarezza; essendo fermo principio,
che non si può amare, se non quel che si conosce. A questo si
risponde che quantunque l'intelletto non conosce distintamente,
per discorso, imagini e considerazioni, intende non di meno e
conosce per la fede oscura, generale e confusa; la cui cognitione
benché tanto indistinta, e generale, come chi è soprannaturale, ha
piú chiara, e perfetta cognitione di Dio, che qualunque notitia
possibile, e particolare, che possa in questa vita formarsi».
141
questo stato per quanto ti affatichi, con gli esercitii
esteriori di mortificazione... e rassegnatione... Quel che
tu hai da fare è, non far niente per sola elettione
propria... Quello che importa è preparare il tuo cuore in
guisa di carta bianca, dove la divina sapienza possa
formare i caratteri a suo gusto»52.
Il Santo Uffizio condannò il Molinos, considerando
che si era ritrattato solennemente, alla pena della
prigione a vita anziché al rogo53. Ed è evidente che la
Chiesa doveva considerare come pericolosissima eresia
questa dottrina che elimina ogni atto positivo della
religione, e la minaccia quindi nella sua essenza di
organizzazione sociale e politica, con controllo e potestà
sopra i singoli fedeli. Questo atteggiamento di difesa
dell'organizzazione e del culto positivo è quello assunto
nella controversia dal Bossuet. Le sue istruzioni Sur les
états d'oraison indicano, quali elementi per riconoscere
l'eresia molinista54, l'esclusione della contemplazione
dell'umanità di Cristo, il non domandar nulla a Dio,
neppure la remissione dei propri peccati, la soppressione
142
degli atti, la negazione della mortificazione, la lode data
solo alle orazioni straordinarie. Bossuet entra in campo
per la regolarità, la normalità, la socialità della vita
religiosa; combatte ogni innovazione che tenda a farne
qualche cosa di eccezionale, di irraggiungibile alle forze
del credente medio.
Il Fénelon, arcivescovo e prelato di corte, si rende
conto di queste esigenze; oscilla fra il principio mistico,
cui è attaccato, e la necessità ecclesiastica, che sente
inevitabile. Cerca moderazioni, compromessi, tenta di
lasciare una parte, sia pure secondaria, alla meditazione,
che il Molinos aveva completamente soppressa,
corregge la dottrina della totale passività55. Ne esce
quella teoria dell'amore disinteressato, nella quale egli
raggiunge grandi finezze psicologiche. «On ne veut rien
pour soi; mais on veut tout pour Dieu: on ne veut rien
pour être parfait ni bienheureux, pour son propre intérêt;
mais on veut toute perfection et toute béatitude, autant
qu'il plait à Dieu de nous faire vouloir ces choses» 56. La
volontà non viene negata in quanto tale57, ma solo in
quanto abbia una qualsiasi relazione col nostro bene
143
personale. Neppure la propria salvazione deve essere
desiderata di per sé, ma solo accettata e voluta come
facente parte della volontà di Dio58. Su questo punto
precipuamente si imposterà la lotta col Bossuet, secondo
il quale la remissione dei propri peccati deve essere
richiesta esplicitamente da ciascun fedele.
Tale, in breve, il problema del quietismo: e bastano
forse questi accenni per mostrare quanto esso sia
lontano dagli interessi e dal clima intellettuale in cui si
muove Leibniz. Egli se ne occupa, tratto da quella sua
naturale curiosità che non gli permette, in presenza di
qualsiasi problema, di lasciarne intentata la soluzione.
Egli non ha la preoccupazione di disciplina ecclesiastica
del Bossuet, e può entrare nel fondo teoretico e morale
della questione mistica. Il suo generale senso di
tolleranza per le sette, non gli impedisce di mostrare il
suo assoluto distacco e la sua incomprensione per queste
dottrine59. «Le moyen d'estre sans action, sans pensée et
58 Ibid., art. V, Faux: «Tout désir, même le plus désintéressé,
est imparfait. La perfection consiste à ne vouloir plus rien, à ne
désirer plus non seulement les dons de Dieu, mais encore Dieu
même, et à le laisser faire en nous ce qui lui plait» (questa è la
dottrina che il Fénelon rifiuta).
59 Rommel, II, 136, 194, G. II, 573-74. Forse, anzi è proprio
la sua assoluta incompatibilità coi mistici che gli permette di
prenderne piú apertamente le difese quando sono minacciati di
repressione. Egli è certo di non poter essere accusato di affinità
con essi, mentre non si sente altrettanto sicuro riguardo al
naturalismo e al socinianismo. Comunque si irrita spesso, pur
riconoscendogli alcuni vantaggi, di questo modo fantastico e
144
sans volonté?... Il faudrait prendre de l'Opium, ou boire
un bon Rausch, pour parvenir à une telle quiétude ou
inaction, qui n'est autre chose qu'une stupidité
convenable aux brutes... Quoy qu'on dise, il est
impossible qu'une substance cesse d'agir». La vera
quiete, che si trova «dans la Sainte Écriture, dans les
Pères et dans la raison», è il silenzio dei sensi «afin de
mieux écouter la voix de Dieu, c'est à dire la lumière
intérieure des vérités éternelles». In questo senso
Leibniz crede si debba interpretare la «Gelassenheit», la
rassegnazione o annientamento di cui parlano i saggi
145
mistici come Tauler, Ruysbroeck, Weigel60. Egli non
riesce neppure a concepire una contemplazione,
un'attività di apprensione o di contatto coll'assoluto, che
non sia riflessa e razionale. «Cette contemplation élevée
ne sçaurait estre autre chose à mon avis qu'un regard
bien clair de l'Estre infiniment parfait. Mais a moins
d'une grâce surnaturelle extraordinaire et d'un
ravissement semblable à celui de St. Paul – que Dieu ne
donne pas à tous les Fidèles et qui n'est pas necessaire à
la véritable piété61 – je crois que cette profonde
contemplation est elle même le resultat d'une véritable
méditation... Il n'y a que les premiers principes ou
axiomes dont on puisse connoistre la Vérité par une
simple vue, sans aucune méditation»62. E insomma,
conoscere è sempre conoscere razionalmente63.
146
La questione si allarga e diviene fondamentale. Il
quietismo, come ogni misticismo, presuppone una
anteriorità del pratico sul teoretico. Ragione e fede,
meditazione e contemplazione, conoscenza e amore,
«geometria» e «finezza», si risolvono nel contrasto fra
queste due facoltà; e la prevalenza dell'una o dell'altra
decide del carattere filosofico – cioè razionale, mediato,
discorsivo –, oppure mistico – cioè immediato e
irrazionale –, di un pensiero. La mistica, che parte
sempre dalla negazione della razionalità, risolve questa
sua negazione nella affermazione dell'amore, della carità
che preparano e conducono alla intuizione, all'estasi e al
contatto diretto con la divinità. La passività totale del
Molinos, è uno stato che si raggiunge attraverso un atto
(sia pur negativo), arazionale e prerazionale, della
volontà. Ogni volontà che discenda come conseguenza
da una precedente conoscenza non dà luogo alla mistica,
ma alla responsabile e controllata sicurezza della morale
consapevole.
In Leibniz, ora, l'anteriorità della conoscenza sulla
volontà è un principio continuamente affermato. È su
questo che si fonda il rapporto fra Dio e le verità di
ragione, e il carattere fondamentale del suo
147
obbiettivismo, opposto a quello di Cartesio che si basa
su di un atto di arbitrio da parte della divinità. È questa
insieme una necessità metafisica e una convinzione
psicologica, che dà un'impronta fondamentale al suo
pensiero64.
La formulazione del Discours de Métaphysique è
decisiva65; e ogni volta che Leibniz si trova di fronte a
teorie mistiche, in cui si parli di amore, di carità come
punto di partenza anteriore alla ragione, o di forme
irrazionali di apprensione del divino, piú che non
approvare, egli non comprende, non entra nello spirito
della cosa. «Pourquoy appeler lumière ce qui ne fait rien
voir?»66. A volte egli interpreta quegli atteggiamenti in
64 «Je ne suis pas dans son sentiment [del Thomasius]
lorsqu'il fait l'amour anterieur à la lumière. Nous ne pouvons être
unis à Dieu que passivement à son égard; car nous ne saurions
agir sur lui et nous devons recevoir son action en nous, pour agir
par après conformément à son esprit, tant sur nous que sur les
autres choses. Ainsi la lumière est notre passion, l'amour est le
plaisir qui en resulte, et qui consiste dans une action sur nous
mêmes, dont provient un effort d'agir encore sur les autres choses,
pour contribuer au bien, autant qu'il dépend de nous» (Baruzi,
Leibniz, 329).
65 «Ou sera donc sa justice [di Dio] et sa sagesse, s'il ne reste
qu'un certain pouvoir despotique, si la volonté tient lieu de raison,
et si selon la définition des tyrans, ce qui plaist au plus puissant
est juste par là même? Outre qu'il semble que toute volonté
suppose quelque raison de vouloir et que cette raison est
naturellement antérieure à la volonté» (Discours de
Métaphysique, § 2).
66 Nouveaux Essais, 1. IV, c. 19.
148
modo che sembrino conformi alla sua filosofia; e con
questo li trasforma, capovolgendone il carattere; a volte
adibisce alla soluzione di quei problemi, concetti ripresi
da altri settori del suo pensiero, e che rimangono astratti
e inorganici nella nuova funzione. Anziché divenire egli
mistico, fa divenire leibniziano e razionalista il
misticismo. Le note al Giornale di William Penn
pubblicate dal Baruzi67 sono interessantissime al
riguardo. «J'approuve même qu'il y ait des personnes
qui prennent des biais extraordinaires pour tirer les
autres de leur assoupissement. C'est pour cela qu'il leur
faut pardonner certaines pratiques affectées et qui
paraissent bizarres. Le monde est adonné à la
bagatelle». Ma questi metodi dovrebbero sempre essere
uniti ad una dottrina «chiara e luminosa». «Les idées
que Jesus Christ nous donne de Dieu sont grandes, mais
en même temps elles sont claires». E quando Cristo ci
raccomanda di amare Dio e il nostro prossimo, «il
comprend en même temps et la théorie et la pratique». Il
nostro secolo dovrebbe applicare all'idea di Dio le
«nouvelles lumières» e le meravigliose scoperte naturali
di cui è pieno. «L'amour est fondé sur la connaissance
de la beauté de l'objet aimé»; e tanto piú si è capaci di
amare Dio, quanto piú si conosce la natura e «les vérités
solides des sciences réelles». Coloro che cercano di
allontanare gli uomini da questa, reale scienza «sous
prétexte de certaines lumières dont il se vantent, et qui
149
ne consistent que dans l'imagination émue, font quitter
le solide pour des chimères, et flattent notre
négligence». Se la conoscenza della grandezza di Dio
consiste nella contemplazione dell'ordine meraviglioso
della natura, l'amore di Dio consisterà nella
partecipazione a queste perfezioni divine, e «tout le
véritable bonheur ne consiste uniquement que dans un
progrès perpétuel de joies provenantes de l'amour
céleste ou de la contemplation des véritables beautés de
la nature divine». È questa felicità, «qui nait de la
connaissance de la divine et éternelle vérité», che fa sí
che noi ci stacchiamo dalla vanità del mondo. Tutto ciò
che su questa ascesi e distacco dicono «les Weigeliens,
Böhmistes, Trembleurs, Quiétistes, Labadistes et autres
personnes semblables» è vero solo in quanto si riduce
«à préferer le bien général et les plus grandes
expressions des perfections divines à toutes le
considerations des choses du monde. S'il y a quelque
autre chose, c'est caprice ou chimère»68.
150
Raramente Leibniz si è espresso con tanta nettezza e
calore su questi problemi. L'amore è una conseguenza
diretta della conoscenza, è connaturato con essa, si
amplia, si estende con l'estendersi di essa.
Il Von der wahren theologia mystica69 che è quasi una
traduzione in termini mistici della dottrina della
monade, conferma questo concetto: caratteristica della
creatura è la sua partecipazione al non essere; ma in
ogni individuo c'è una infinità, una immagine
dell'onniscenza e dell'onnipotenza di Dio. «Gott ist mir
näher angehörig als der Leib»70. E la negazione di se
stessi, la crocefissione del Vecchio Adamo, è l'odio del
non-essere e l'affermazione dell'essere in noi stessi, cioè
l'affermazione di Dio. Ama Dio chi antepone la luce
interna all'immagine dei sensi, o il proprio essere al non-
essere. Chi si limita a temere Dio, ama sé e il proprio
non-essere piú che Dio. Ma «der Glaube ohne Licht
wecket keine Liebe... Christi lehre ist Geist und
Wahrheit; aber viele machen daraus Fleisch und
Schatten. Den meisten Menschen ist es Kein Ernst. Sie
haben die Wahrheit nicht gekostet, und stecken in einem
unheimlichen Unglauben».
151
sull'armonia delle cose71, e la partecipazione ad essa. La
rassegnazione al male è il riconoscimento che questa
armonia ha leggi piú vaste di quelle che noi possiamo
conoscere, che il male, insomma, non è che apparenza
dovuta alla nostra vista parziale72. La carità è il nostro
contributo a questa armonia, in quanto anche noi siamo
una parte di essa73. La preghiera non è che «élévation de
l'âme à Dieu, c'est à dire une recherche perpétuelle des
raisons solides de ce qui nous fait paroistre Dieu grand
et aimable»74.
152
Il nostro dovere a questo proposito è di perfezionare
il nostro spirito e di allargare la nostra conoscenza. I
migliori e i piú beati nella vita futura sono i piú
sapienti75. Questa generale illuminazione si raggiunge
con quei mezzi che Leibniz non si stanca di propugnare
e di escogitare, incontrando però dovunque malavoglia e
incomprensione76: organizzazione delle scienze,
d'une pieté reconnue. F. d. C. II, 535 In altri punti intende la
preghiera come vera e propria richiesta alla divinità; e allora la
sua preoccupazione è di giustificarla di fronte al fatto che tutto è
preordinato. Cfr. Théod., §§ 54, 310, append. I (G. VI, 433-34
445), Klopp, X, 43, Gerhardt, Briefwechsel mit Mathematikern,
483.
75 «Lorsque on connait la nature, on est pour ainsi dire du
conseil de Dieu» (Baruzi, Leibniz, 352). «Nous devons tâchcr de
nous perfectionner autant que nous le pouvons, et surtout l'esprit
qui est proprement ce qu'on appelle nous; et comme la perfection
de l'esprit consiste dans la connaissance des vérités et dans
l'exercice des vertues, nous devons être persuadés que ceux qui
auront eu dans cette vie plus d'entrées dans les vérités éternelles
et des connaissances plus liquides et plus claires de la perfection
de Dieu et qui l'auront par conséquent aimé davantage... seront
susceptibles d'un plus grand bonheur dans l'autre vie» (Baruzi,
Trois Dialogues, cit., pp. 36-37). È notevole che questo dialogo è
anteriore al 1679, dunque precedente anche al Discours de
Métaphysique. Del resto il concetto dell'armonia universale e
della Teodicea è già presente nella primissima giovinezza di
Leibniz. Cfr. anche Baruzi, Leibniz, 342, 345.
76 «J'ai fait mille fois des propositions de cette nature. Mais
j'ai trouvé ordinairement que les personnes qui voulaient passer
pour les plus pieuses n'étaient que glace, quand il s'agissait
véritablement de bien faire, se contentant de s'évaporer en belles
153
strumenti di cultura77. L'amore di Dio è conoscenza di
Dio78; e la pietra di paragone dell'amore di Dio è quella
che ci ha dato Giovanni: «L'ardeur pour procurer le
Bien en géneral»79.
L'amore di Dio è insomma per Leibniz un «amor Dei
intellectualis»80. La sua posizione è nettamente,
rigidamente intellettualistica. Ma il suo intellettualismo
morale si differenzia da quello di Spinoza per il
154
medesimo verso onde si differenziano i loro due
razionalismi. In entrambi la perfezione consiste
nell'identificazione dell'intelletto (e quindi della
volontà) con la ragione che è la regola dell'universo. Ma
in Leibniz questa ragione, questa regola, non è analitico-
matematica, ma sintetico-armonica; non è la deduzione
dei principi, ma l'ordinamento dei fatti. Il paragone che
egli usa piú volentieri è quello dell'edificio ben
costruito, dello stato ben ordinato. L'argomento di cui
egli si serve, è quello offertogli dalla scienza
contemporanea e dal microscopio recentemente
inventato, dell'ordine e dell'omogeneità dell'universo
nell'infinitamente piccolo come nell'infinitamente
grande81. Anche Pascal aveva avuto una simile visione
dell'armonia dell'universo, nel suo pensiero sui Due
infiniti che Leibniz copiò e commentò con entusiasmo82.
Ma Pascal ne aveva derivato l'incommensurabilità dello
155
spirito umano con le leggi di questa immensa totalità,
l'inferiorità della ragione, la sua necessità di affidarsi al
trascendente83. Leibniz ne deriva la celebrazione dello
spirito umano inteso come monade, la sua affinità con
Dio, la sua facoltà di rappresentare l'universo84.
156
bisogna, partendo dal particolare, contribuire a formare.
Il compito essenziale è: organizzazione85.
L'ideale è anche qui, come per lo stoicismo, l'ideale
del sapiente che segue la ragione e la natura. Ma la
ragione e la natura non sono piú qualche cosa che egli
deve trovare entro se medesimo, alle radici del proprio
essere. Egli le deve cercare intorno a sé, nel grande
sistema di cui fa parte e cui collabora. Il suo carattere
non è piú quello dell'uomo che basta a se stesso, solo
con la sua coscienza in mezzo all'imperversare degli
eventi86; ma quello dell'individuo sociale, rivolto, per
mille tendenze, verso l'esterno; attivo nella repubblica
85 Cfr. p. es. il Grundriss eines Bedenckens von Aufrichtung
einer Societät in Deutschland (AK. IV. I, 530 sgg., e Klopp I, 111
sgg.) in cui il compito dell'organizzazione delle scienze è fatto
derivare dalla conoscenza della natura divina e della armonia del
cosmo. «Bestehet nun darin Amor dei super omnia, Contritio,
Beatitudo aeterna, dass man die schönheit Gottes und Universal-
Harmoni, jeder nach seines verstandes fähigkeit fasse und
wiederumb auf andere reflectiere, und dann auch nach proportion
seines vermögens deren hervorleuchtung in Menschen und
anderen Creaturen befördere und vermehre» (§ 10; e passim. Cfr.
Disc. de Mét., § 4, Baruzi, Trois dialogues, cit., 26 sgg., G. VII,
92 sgg., ecc.).
86 Leibniz accusa la morale cartesiana di essere stoico-
epicurea; e si oppone a «cette tranquillité de l'ame ou indolence
que les Stoiciens et les Épicuriens cherchaient et recomandaient
également sous des noms différents... Il me semble que cet Art de
la patience dans laquelle il [Descartes] fait consister l'art de vivre,
n'est pas encor le tout» (G. IV, 298). Cfr. anche Nouv. Ess., IV, 8,
§ 9.
157
delle lettere e delle scienze; insufficiente a se stesso, e
avente valore solo in una collettività di sforzi
completantisi a vicenda87, e tendenti, per una infinità di
vie diverse, alla medesima visione conoscitiva, al
medesimo fine morale. In un dialogo anteriore al 1679,
Leibniz combatte lo scetticismo e il proposito di ritirarsi
dalla vita di ricerche scientifiche, con la considerazione
«qu'il y a un grand monarque de l'univers, qui prend tout
ce qu'on fait pour le public comme fait à luy-même»88.
Le influenze delle dottrine giusnaturalistiche, e
specialmente di Grozio, sulla concezione morale
leibniziana, sono evidenti. Quando, nei Nuovi saggi,
egli cerca di caratterizzare l'istinto morale onde l'uomo è
portato in modo intuitivo e irriflesso, per una percezione
confusa, a quegli atti che la ragione gli indicherà poi
come buoni e giusti, egli trova in primo luogo un istinto
di società, «une affection et douceur pour ceux de leur
espèce», che è comune anche agli animali, che negli
uomini si chiama filantropia, e si sviluppa poi
nell'amore fra uomo e donna, fra genitori e figli, «et
87 «So sollen wir... gedencken, dass kein mensch sich selbst
allein bestehen könne, und uns betrachten nicht allein als ein theil
von alle dem das erschaffen ist, sondern auch insonderheit
desjenigen so diesen erdboden angehört, nähmlich der Politic,
gesellschaft, und geschlecht, deren wir durch behausung,
verwandschafft oder andere gemeinschafft verbunden» (Initia et
Specimina Scientiae Novae Generalis, G. VII, 93).
88 Baruzi, Trois dialogues, cit., 30. Cfr. anche la bella
descrizione della vera pietà e della vera felicità nella prefazione
alla Teodicea, G. VI, 27-28.
158
autres inclinations semblables qui font ce droit naturel
ou cette image de droit plustost, que selon les
jurisconsultes Romains la Nature a enseigné aux
animaux». E nell'uomo particolarmente «il se trouve un
certain soin de la dignité, de la convenance», del
pudore; una cura della propria reputazione, il timore
dell'avvenire e di una potenza suprema: virtú, in
sostanza, sociali ed esplicantisi nella collettività. «Il y a
de la réalité en tout cela, mais dans le fonds ces
impressions naturelles... ne sont que des aides à la
raison et des indices du conseil de la nature» 89. La
regola del non fare agli altri ciò che non vorremmo
fosse fatto a noi, si trasforma nel metodo del giudicare
tutte le cose dal punto di vista degli altri90; metodo che
egli raccomanda altrove come il piú adatto a risolvere le
controversie e a vincere nelle lotte politiche e militari 91.
Come si è già osservato, la morale non è che il culmine
159
di una scala di rapporti sociali-giuridici, che si iniziano
con l'utilità personale.
Socialità, organizzazione, collaborazione. Scompare
la figura del mistico ispirato o del saggio solitario, per
lasciare il posto allo scienziato mondano, vivente e
operante nella vita sociale, nelle corti, nelle università;
creante a se stesso, insieme agli strumenti per aumentare
le proprie facoltà sensibili, per moltiplicare la forza
delle proprie braccia, per diffondere il proprio pensiero,
anche queste nuove macchine umane che sono le
istituzioni culturali, le accademie, le società, le
biblioteche, nelle quali le forze di ciascuno vengono a
collegarsi con quelle di tutti, in disciplinata
collaborazione e senza spreco di energie92. «Quid ergo
cetera moramur?... Tantum virtuti, h.e. intellectus
voluntatisque perfectioni, qua licet, studeamus et
subinde operam demus, ut bona, quae largitus est nobis
Deus – omnibus autem magna largitus est – in ceteros
diffundamus!»93.
Ciò spiega il tono socievole e cortigiano della morale
positiva di Leibniz, le sue frequenti raccomandazioni di
usare riservatezza, cortesia, di non urtare gli uomini e
160
specialmente i potenti, di vivere in buona armonia con
tutti, di curare la propria reputazione. Il saggio che egli
vagheggia è «humanus, affabilis, officiosus», «hold und
leut-selig, also dass jedermann gern mit ihm umbgehen
und das vertrauen zu ihm fassen möge, dass er in allen
aufrichtig verfahre... Erweist er sich gegen iedermann
annehmlich oder lieblich in reden, entfernet von allen
zorn, unwahrheit oder andern affecten. Ist er diensthaft
gegen alle so sein verlangen, willig in dero anliegen,
und emsig was er erkennet andern zu ihren
verrichtungen nöthig ihnen an die Hand zu geben»94.
La vita ossequiosa del secolo trova in lui, forse piú
che in ogni altro, una giustificazione profonda. La
società non è piú solo un ente col quale si devono fare i
conti per aver la vita tranquilla: è divenuta lo strumento
di ogni ricerca, di ogni progresso intellettuale e
culturale. Separarsi da essa aveva significato, per un
uomo come Spinoza, la conquista della indipendenza
interiore necessaria al pensiero filosofico a prezzo della
semplice rinunzia ad alcuni comodi della vita. Per
Leibniz significherebbe la rinunzia al pensiero stesso e
ad ogni attività scientifica; sarebbe la sua morte come
pensatore e come studioso.
La concezione obbiettiva, naturalistica della ragione
intesa come armonia universale, sposta il centro del
94 G. VII, 104. Cfr. specialmente, nella raccolta: Initia et
Specimina ecc., i frammenti Von der Tugend (G. VII, 92 sgg.),
Von der Nützbarkeit der Lebens Regel (G. VII, 100 sgg.) e quello
contrassegnato dalla lettera I (G. VII, 111 sgg.).
161
problema morale dalla coscienza razionale
dell'individuo all'organizzazione collettiva della società.
La precettistica morale di Leibniz corrisponde a questa
mentalità. Le virtú stoiche dell'impassibilità,
dell'imperturbabilità di fronte alla sventura, fanno
ancora parte del suo ideale morale. Non sono però piú
fondate sulla indifferenza riguardo al mondo esteriore e
sullo sforzo di mantenere la sfera dei propri interessi
completamente indipendente da esso; ma anzi, sul
desiderio di penetrare sempre piú a fondo nelle leggi
della natura95. L'amore per gli altri, si è già visto, è la
162
molla della giustizia, e l'amore di Dio la sua forma
suprema. Ma poiché giovare a Dio in senso proprio non
possiamo, «facimus tamen aliquid simile, cum
voluntatem ejus animo praesumptam adimplere
conamur»96. L'uomo deve cercare, attraverso i mezzi di
conoscenza in suo possesso, di scoprire la volontà
«presuntiva o antecedente» di Dio; ed agire in
conseguenza di essa, senza lamentarsi se l'evento gli dia
torto e gli mostri che egli aveva errato nella valutazione.
Poiché l'evento ha sempre ragione; e quanto avviene,
non può non avvenire secondo un ordine perfetto e
insuperabile97. «Tout homme sage doit estre content non
seulement par necessité et comme ayant patience par
96 Mollat, 37.
97 «Est autem praesumpta Dei voluntas, ut quisque ea agat
quibus videtur se ipsum et, quae sunt circa se ipsum, maxime
perficere posse. Itaque debemus pro viribus et modulo nostro in
emendandis nostris rebus ac publico bono procurando niti, licet
non semper successus faveat. Quo destituente nec tristari nec
taedio obrepente desistere lassarive oportet, quoniam Dei solius
est tempora nosse et quibus optime exitus reperietur. Itaque ubi
nostrum officium fecerimus, contenti simus circa præterita, in
quibus Dei voluntas jam eventis cognita est, quam optima autem
reddere conemur futura, de quibus nondum quicquam nobis
declaravit Deus et nostre industriæ locum reliquit. Et sane pro
certo habendum est omnia tam perfecte a Deo fieri in mundo, qui
et mala in majus bonum convertit, ut meliora et singulis hoc
cognoscentibus atque adeo Deum amantibus et gubernatione ejus
contentis utiliora ne optari quidem possent ab intelligente»
(Mollat, 38-39). Cfr. Disc. de Mét., § 4, Monad., § 90, Syst.
Theol., 6-8, Théod., § 58.
163
force; mais avec plaisir, et par une manière de
satisfaction extrème... Car, quand Dieu nous admettra à
ses secrets un peu plus que jusqu'ici, alors parmy les
autres surprises, il y aura encor celle de voir les
inventions merveilleuses dont il s'est servi pour nous
rendre heureux au delà de ce que nous aurions été
capables de concevoir»98.
La tranquillità del sapiente non deriva dal disinteresse
o dalla superiorità rispetto agli eventi, ma dalla certezza
che la loro perfezione è assoluta e che il male è
apparente. La ricerca del bene e del compito morale si
svolge col medesimo procedimento delle scienze fisiche
e naturali: fondandosi sulle leggi conosciute e sulle
esperienze fatte, costruendo, in base a queste, nuove
leggi che permettano di abbracciare in un insieme i
fenomeni dell'avvenire e di mettersi da quel punto di
vista universale dal quale ogni particolare appare
inquadrato nel tutto99. E come nella ricerca naturale, una
98 Baruzi, Trois dialogues, cit., 35-36.
99 «Komt es also endtlich alles auf diese zwey grosse Reguln
an... Erstlich dass wir alle bereits vergangene oder geschehene
Dinge sollen vor guth und wohlgethan halten, als ob wir es
schohn aus dem rechten gesichtpunct sehen köndten: vors andere,
dass wir alle künftige oder noch ungeschehene Dinge so viel an
uns und nach unsern besten begriff sollen guth und wohl zu
machen suchen, und uns dadurch so viel immer müglich näher zu
dem rechten Schau-punct sezen, deren jenes uns bereits alle vor
iezo mügliche vergnügung gibt, dieses uns den weg zu künfftiger
weit mehrer glückseligkeit und freude bahnet» (Initia et
Specimina, G. VII, 122).
164
discordanza fra la nostra legge e la realtà ci spinge a
mutare punto di vista e a correggere la nostra nozione,
ma non mai a lamentarci della natura perché non segua
il sistema da noi costruito; cosí, nel campo morale, il
cadere di un evento contro le nostre previsioni o
disposizioni pratiche, non potrà mai condurci a
imprecare contro il destino, ma solo a riconoscere un
errore nel punto di vista in base al quale abbiamo
precedentemente agito100.
Non dunque una affermazione della ragione in noi
contro la natura; ma l'affermazione della ragione nella
natura; e in noi, in quanto e fin quando ci adeguiamo a
questa realtà oggettiva101. I germi di soggettivismo e di
gnoseologismo che si trovano nella tradizione stoico-
umanistica vanno persi nel naturalismo obiettivo di
Leibniz. E la morale cessa di essere l'adeguazione
dell'uomo al suo io piú profondo e razionale, e diviene
adeguazione ad una razionalità ontologica.
165
In questa adeguazione, l'uomo trova, oltre alla
elevazione del suo spirito, anche il suo personale
interesse. La considerazione dell'individuo non come il
soggetto della morale, ma come un oggetto e un
frammento nella totalità complessiva, lega la sua sorte,
per cosí dire, a quella del tutto; e poiché l'armonia
dell'universo è la migliore immaginabile, ed è derivata
da un allargamento totalitario delle leggi del singolo, in
essa ciascun individuo sarà sistemato nel modo piú
confacente alle sue necessità102. Leibniz pone
esplicitamente questa coincidenza come un esempio di
quella legge dell'armonia e del finalismo non riducibile
alla necessità logica né alla determinazione causale,
onde Dio ha fatto bello e proporzionato, oltre che
razionale, il mondo103. Il male, anche qui, non deriva che
dalla visione parziale, e si mostra come bene, utilità,
102 «Weil dann der Nuzen des ganzen dem Nuzen des theils
vorzuziehen, so wird uns nur eine lust sein allen, keinen
ausgenommen, zu dienen. Uberdiess wo wir dem Verstand nach
alles einrichten wollen, werden wir befinden, dass auch unser
eignes Nuz dabey» (ibid., G. VII, 93).
103 «Je puis encor nier la conséquence dans l'argument, qui
porte que si la volonté n'est mue que par la representation du bien
et du mal, il ne depend pas de nous d'être heureux. La
conséquence seroit bonne, s'il n'y avait pas un Dieu, si tout étoit
gouverné par des causes brutes: mais Dieu fait que pour être
heureux, il suffit d'être vertueux. Ainsi, si l'Ame suit la raison et
les ordres que Dieu lui a donnée, la voilà seure de son bonheur,
quoy qu'on ne la puisse point tromper assez dans certe vie»
(Remarques sur le livre de King, § 18, G. VI, 420).
166
piacere, non appena lo sguardo si allarghi alla totalità.
«Tout bien moral devient physique, ou comme parloient
les anciens, tout honneste est utile»104.
Una distinzione fra utilità e moralità è concepibile
solo in una concezione dualistica, che ponga un distacco
fra esteriore e interiore, fra razionalità e contingenza, o
che almeno teorizzi due separate, indipendenti facoltà
dello spirito. Non è possibile nel monismo leibniziano,
in cui il contingente è il punto di partenza di un
cammino ininterrotto che conduce all'universale.
L'interiore acquista valore nella sua assoluta
adeguazione alla realtà oggettiva, la volontà è una
necessaria conseguenza della conoscenza. Il bene non è
per Leibniz se non il massimo di utilità complessiva
possibile, cosí come la ragione è il massimo possibile di
proporzione e di armonia.
167
L'estetica di Leibniz
105 Nouv. Ess., II, 21, § 37. Cfr. G. VII, 97. La sigla G.
rimanda all'edizione Gerhardt, C. agli inediti pubblicati dal
Couturat, F. d. C. all'edizione Foucher de Careil, D. all'edizione
Dutens, AK. all'edizione dell'Accademia di Berlino.
106 Mollat, 61.
168
ragionamento. È il senso delle proporzioni,
dell'equilibrio, che rappresenta nell'uomo quel
sentimento fondamentale onde è in lui, come in un
microcosmo, l'ordine stesso dell'universo. Ragione
intesa come armonia e bellezza, che si mostra poi
rispondente a un ordine logicamente perfetto, a un
mondo di equilibri e di contrappesi esattissimi e
matematicamente calcolabili; ma che a tutta prima si
presenta nel suo aspetto piacevole e bello.
È qui il fondamento dell'estetica leibniziana; estetica
che si deve ricostruire faticosamente attraverso pochi
frammenti, i quali d'altronde non testimoniano né
un'attenzione molto viva, né un gusto molto vigile nel
campo artistico. Leibniz non si distacca dal formalismo
classico razionalista proprio del suo tempo107; e non
107 Ecco una delle sue rare osservazioni critiche: «Le Père
Spee n'avoit aucune idée de la perfection de la poésie Allemande
et apparemment n'avoit point oui parler de l'incomparable Opiz, à
qui nous la devons. Aussi trouve-t-on qu'encor à present les
catholiques Romains nés dans cette religion ne sçavent presque
point ce que c'est qu'un bon vers Allemand, de sorte qu'on peut
dire qu'ils se sont aussi peu reformés à l'égard de nostre poésie,
qu'en matière de culte» (lettera alla Duchessa Sofia, G. VII, 550).
Altrove (polemica col Clarke, G. VII, 417) egli si lamenta delle
«chimères» che si introducono nel mondo poetico: «On s'est lassé
des Romans raisonnables tels que la Clélie Françoise ou
l'Aramène Allemande, et on est revenu depuis quelque temps aux
Contes des Fées».
169
esita a volte ad attribuire all'arte una posizione in
sott'ordine rispetto alla scienza della natura108.
L'arte viene considerata da lui, fin dai primissimi anni
– molto prima che appaia nella sua mente il concetto
delle percezioni confuse –, non nel suo aspetto
psicologico, ma dal punto di vista obbiettivo; viene
identificata col bello. Bello è l'ordine dell'universo, e
tutto ciò che, con la sua simmetria e la sua proporzione,
dia un'immagine di questo ordine. L'animo, per sua
natura, si sente attirato verso questa armonia e spinto da
essa all'amore109. E questo è il gusto, il piacere che ci
170
attira verso le opere d'arte, come verso ogni cosa nella
quale riscontriamo ordine e perfezione. «Est autem
voluptas, nihil aliud quam sensus crescentis
perfectionis. Dei autem perfectio in nos transfunditur
intelligendo atque amando»110. «C'est ainsi que la
contemplation des belles choses est agréable par elle
même, et qu'un tableau de Raphäel touche celuy qui le
regarde avec des yeux éclairés, quoiqu'il n'en tire aucun
profit»111.
Il piacere dato dall'opera d'arte è il piacere
dell'armonia in sé, o meglio, di ciò che porta nella sua
conformazione alcunché di armonico: «Die Lust ist die
empfindung einer Vollkommenheit oder vortreflichkeit,
es sey an uns, oder an etwas anders, denn die
Vollkommenheit auch fremder Dinge ist angenehm, als
verstand tapferheit und sonderlich schöhnheit eines
andern Menschen, auch wohl eines thieres, ja gar eines
leblosen geschöpfes, gemähldes oder kunstwercks.
Denn das Bild solcher fremden Vollkommenheit in uns
eingedrückt, macht dass auch etwas davon in uns selbst
gepflanzet und erwecket wird, wie dann kein Zweifel,
dass wer viel mit treflichen Leuten und Sachen umgeht,
auch davon vortreflicher werde»112.
171
Leibniz cerca di rendersi conto razionalmente del
perché di questo piacere procurato dalla bellezza
oggettiva: e lo trova nella regolarità matematica, nella
esatta proporzionalità di cui essa è costituita. Gliene dà
un esempio tipico la musica, «exercitium arithmeticae
occultum nescientis se numerare animi»; la musica, con
la proporzionalità delle sue vibrazioni negli accordi113.
Ma anche il godimento delle altre arti consiste in
qualche cosa di analogo. I versi non sono in sostanza se
non un alternarsi di sillabe lunghe e corte, e combaciare
di rime, «welche gleichsam eine stille Musik in sich
halten»; la cadenza delle danze e simili movimenti
l'harmonie nous enchantent, la peinture et la musique en sont des
échantillons; Dieu est tout ordre, il garde tousjours la justesse des
proportions, il fait l'harmonie universelle: toute la beauté est un
épanchement de ses rayons».
113 Ibid., 86-70. Cfr. Baruzi, Leibniz et l'org., 441-43, e
Principes de la Nature et de la Grâce, G. VI, 605-6: «La musique
nous charme, quoique sa beauté ne consiste que dans les
convenances des nombres et dans le compte dont nous ne nous
apercevons pas, et que l'âme ne laisse pas de faire, des battemens
ou vibrations des corps sonnans, qui se rencontrent par certains
intervalles. Les plaisirs que la vue trouve dans les proportions,
sont de la même nature, et ceux que causent les autres sens,
reviendront à quelque chose de semblable quoyque nous ne
puissions pas l'expliquer si distinctement». Cfr. Initia et
Specimina, cit., G. VII, 122: «Und gleichwie fast nichts den
Menschlichen Sinnen angenehmer als die Einstimmung der
Musik, so ist nichts dem verstand angenehmer als die wunderbare
einstimmung der Natur, davon die Musik nur ein vorschmack und
eine kleine Probe».
172
«haben ihre Annehmlichkeit von der ordnung, denn alle
ordnung komt dem gemüth zu hülffe». E i piaceri del
tatto, del gusto, dell'odorato sono della medesima
natura114. I romanzi sono come una rappresentazione in
compendio dell'ordine dell'universo, con la sua
apparente intricatezza, che si risolve in fondo in
mirabile armonia; sí che non si deve «prendre le roman
par la queue et prétendre d'en déchiffrer l'intrigue dès le
premier livre, au lieu que la beauté d'un roman est
d'autant plus grande qu'il sort plus d'ordre en fin d'une
plus grande confusion apparente. Et ce serait même une
faute dans la composition, si le lecteur en pouvait
deviner trop tôt l'issue. Or ce qui n'est que curiosité et
beauté dans les romans qui imitent, pour ainsi dire, la
création, est encore utilité et sagesse dans ce grand et
vrai poème, c'est à dire mot à mot ouvrage, de
l'univers»115.
Ora questa perfezione da cui si genera la bellezza è
una «Erhoehung des wesens» e si manifesta in una
grande libertà e forza, «wie dann alles wesen in einer
gewissen krafft bestehet, und ie grösser die krafft, ie
höher und freyer ist das wesen». Quanto piú grande è la
forza, tanto piú si trova in essa la molteplicità nell'unità,
«indem Eines viele ausser sich regiret und in sich
vorbildet. Nun die einigkeit in der vielheit ist nichts
anders als die uebereinstimmung, und weil eines zu
173
diesem näher stimmet als zu jenem, so flisset daraus die
ordnung, von welcher alle schöhnheit hehrkomt, und die
Schönheit erwecket liebe. Daraus siehet man nun, wie
Glückseeligkeit, Lust, Liebe, Vollkommenheit, Wesen,
Krafft, freyheit, übereinstimmung, ordnung und
schöhnheit an einander verbunden»116.
Formulazione importantissima, non solo per la
comprensione del concetto leibniziano dell'arte, ma
anche per il suo concetto dell'armonia universale. La
determinazione della perfezione come il grado di realtà
e di forza raggiunto da ciascuna cosa117 e di questa realtà
come molteplicità nell'unità, richiama immediatamente
al concetto di monade118.
Ma queste teorie sono molto anteriori al periodo in
cui Leibniz, concepita la sostanza individuale come
unità contenente in sé implicitamente tutto l'universo, e
fattane una realtà metafisica, caratterizza questa unione
di individuale e universale come percezione e appetito,
identificando cosí la monade con lo spirito. I frammenti
sulla scienza generale, in cui i concetti esposti vengono
continuamente ripetuti, si aggirano sugli anni 1676-80;
174
sono anteriori cioè al Discours de Métaphysique, e
contemporanei ai primi studi intorno alla natura della
forza119. E del 1671, cioè anteriore al viaggio a Parigi, è
il memoriale per la costituzione di una società
scientifica in Germania, in cui il concetto della
riflessione dell'armonia universale nello spirito umano
come concentrazione della molteplicità nell'unità, è
chiarissimamente formulato120.
Dio ha creato le creature affinché esse siano come
uno specchio in cui l'infinita armonia si moltiplichi
infinitamente «massen auch die vollkommen gemachte
erkändtnüss und liebe Gottes zu seiner Zeit in der
visione beatifica oder unersinnlichen freude, die die
bespiegelung und auf gewisse masse concentrirung der
Unendtlichen Schönheit in einen kleinen Punct unser
Seelen mit sich bringen wird, bestehen muss. Wie denn
dessen die Brennspiegel oder Brenngläser ein natürlich
vorbild seyn»121. Lo spirito umano è un luogo nel quale
si raccoglie l'immagine dell'armonia universale, in modo
concentrato, come in una lente. E questa riflessione si
manifesta sempre con un senso di piacere che si
caratterizza come «bellezza».
175
Prima di dare a questi concetti un valore troppo
strettamente psicologico e di interpretarli alla luce dello
sviluppo della nozione dell'io, e dell'autonomia della
facoltà artistica122, vediamo il loro posto nell'insieme
della concezione leibniziana del mondo.
Queste formulazioni hanno un carattere
obbiettivistico. Il piacere della bellezza è dato ogni volta
dalla percezione dell'ordine, dell'armonia: percezione
che l'intelletto può poi controllare, confermare
razionalmente, misurare, contare; ma che
immediatamente si presenta al nostro istinto come
alcunché d'intuitivo123. La perfezione dell'universo, cioè,
può essere appresa da noi, oltre che nel modo razionale,
122 Cosí il Cassirer, Leibniz' System in seinen wissens.
Grundlagen, Marburg 1902, 464-65: «Der Begriff des Ich, an
dessen Ausgestaltung die gesammte Monadenlehre arbeitet,
erhält hier eine neue Bedeutung, in der er sich wahrhaft
vollendet... Die Einheit, die allein als wahrhafter und
erschöpfender Ausdruck des Gegenstandes gelten kann, ist die
Einheit des Ich, die der extensiven Vielheit der Dinge qualitativ
unvergleichlich gegenübersteht».
123 «Man mercktet nicht allezeit, worinn die Vollkommenheit
der angenehmen dinge beruhe, oder zu was für einer
Vollkommenheit sie in uns dienen: unterdessen wird es doch von
unserm gemüth, obschohn nicht von unserm Verstand,
empfunden. Man sagt ins gemein: es ist, ich weiss nicht was, so
mir an der sach gefället, das nennt man Sympathi; aber die der
dingen ursachen forschen, finden den grund zum öfftern, und
begreiffen, dass etwas darunter stecke, so uns zwar unvermercket,
doch wahrhafftig zu statten komt» (Initia et Specimina, G. VII,
86).
176
anche in un modo immediato e complessivo124. E di
questa percezione sono quasi immagini gli oggetti che,
con la loro bellezza finita, risvegliano in noi l'idea
dell'assoluto e ci spingono all'amore125.
È questa la concezione della bellezza e dell'amore del
Fedro e del Convito. L'accento non è posto sulla facoltà
umana che qui viene esercitata, ma sull'oggetto cui si
rivolge, e che provoca in essa questi effetti126.
124 «Pulchritudo alicuius virginis, exempli gratia, ut
cognoscatur, non sufficit contemplare ejus digitum, nec omnes
ejus articulos ad poros usque et crines contemplari necesse est,
sed ictu quasi oculi tota obeunda est. Ita Dei opus aliquod
contueri non sufficit, nec omnia ejus opera perlustrasse necesse,
aut possibile est, sed sufficit ideam quandam in universum sibi de
eo solidam formasse» (Dutens, I, 28-29).
125 «La marque de l'amour de Dieu est quand on se porte au
bien général avec une ardeur suprême et par un pur mouvement
du plaisir qu'on y trouve, sans autre intérest, comme vous vous
plairez à un beau visage, à ouïr un concert bien formé, à voir un
meschant et insolent rebuté, et un misérable innocent relevé,
quoyque vous n'y ayez point d'intérest» (Dialogue entre un habile
politique, ecc. F. d. C., II, 592). Nella Teodicea (§ 73), paragona
alla musica e all'architettura la giustizia vendicativa, che «est
tousjours fondée dans un rapport de convenance, qui contente non
seulement l'offensé, mais encor les Sages qui la voyent, comme
une belle musique ou bien une bonne architecture contente les
esprits bien faits».
126 «Die Schönheit der Natur ist so gross und deren
betrachtung hat eine solche süssigkeit, auch das liecht und die
guthe regung so daraus entstehen, haben so herrlichen Nutzen
bereits in diesem leben, dass wer sie gekostet, alle andern
ergözlichkeiten gering dagegen achtet» (Initia et Specimina, G.
177
Il concetto di perfezione come bellezza serve molto
piú a caratterizzare il tono dell'armonia leibniziana, che
a chiarire il fondo della sua gnoseologia e della sua
concezione delle facoltà spirituali.
L'armonia matematica e finalistica mostra qui un
nuovo carattere, una nuova radice: la bellezza. Già si era
visto come la matematica applicata al mondo del «fatto»
non fosse piú logica deduttiva, ma fondata sulla
proporzione, sull'ordine, sull'equilibrio. Qui questi
concetti mostrano il loro legame con nozioni di carattere
estetico. La bellezza, vista razionalmente, si rivelerà
sempre nella sua struttura come proporzione
matematica; l'ordine matematico, visto nel suo insieme,
susciterà sempre il sentimento della bellezza. Si
potrebbe dire che si tratti di due aspetti diversi, di due
punti di vista sulla medesima realtà: l'uno analitico,
discorsivo, l'altro sintetico, panoramico. La concezione
leibniziana del mondo, in tutte le sue manifestazioni, è
legata ad ambedue questi aspetti.
Abbiamo già osservato il carattere a posteriori di
questo razionalismo, l'abbiamo messo in relazione con
l'opera sintetico-razionale compiuta dal Newton nel
campo fisico. Queste nuove determinazioni lo collocano
in posizione speciale di fronte a tutto il matematismo
del suo secolo. Sia Descartes e Spinoza, sia Galilei e
Newton avevano compiuto l'ipostasi della ragione logica
e matematica, considerandola come la legge suprema
VII, 89).
178
del reale. Leibniz si pone anch'egli su questa base
ontologica: anch'egli fa di un atteggiamento dello spirito
una legge obbiettiva. Ma la matematica non gli basta.
La sua visione, che spazia al di là del campo logico e
del campo fisico, che abbraccia il mondo della natura e
il mondo dell'uomo nelle loro forme piú incontrollabili,
piú difficilmente riducibili al calcolo – nell'alchimia,
nella geologia, nella medicina, nella storia, nel diritto,
nella linguistica – ha bisogno di un'altra legge, piú
mobile, piú vitale, capace di raccogliere in unità questa
infinita e multiforme molteplicità. Il finalismo
contrapposto al meccanismo, il carattere giuridico e
architettonico dell'ordine universale, sono tutti sforzi in
questa direzione, tentativi di formulare questa legge. Il
concetto di bellezza e l'analogia con la musica e con le
arti è un altro aspetto di questa esigenza.
La forma spirituale di cui Leibniz compie l'ipostasi
per farne una legge obbiettiva del reale non è piú solo la
logica e matematica ragione; è anche l'istinto
imponderabile delle proporzioni dell'equilibrio,
dell'armonia, quel senso vitale ed entusiastico
dell'organicità del cosmo che vive nel Rinascimento e
nella visione unitaria di un Bruno e di un Comenio.
Questo senso, in Leibniz, non si trasforma, come nei
grandi fondatori del razionalismo, nella ragione
matematica, ma si concilia con essa. L'esattezza logica è
l'ideale cui esso tende, la forma in cui si risolve quando
sia scrutato con occhio analitico. La perfezione estetica
combacia con la perfezione matematica cosí come il
179
finalismo combacia con il meccanismo. La bellezza
suprema del cosmo consiste nella sua razionalità.
Questa visione sintetica il 700 poi farà sua; non
derivandola da Leibniz, ch'esso non ha conosciuto sotto
questo aspetto, ma svolgendola dalle medesime
esperienze e dalle medesime influenze culturali:
dall'unione cioè dello spirito del Rinascimento con
quello del razionalismo. È questa, in sostanza, la visione
dello Shaftesbury, il suo concepire l'esperienza estetica
come un entrare nell'intimo ordine della natura, e
scoprirne gli «interior numbers». È questa la concezione
del Diderot, dell'arte e della bellezza come ciò che segue
con piú aderenza le funzioni e le leggi della natura 127. È
questa forse la Zweckmässigkeit kantiana, e l'unione di
giudizio estetico e giudizio teologico. È questo il bello
oggettivo che il Goethe fa consistere nella
manifestazione libera della legge nelle sue essenziali
determinazioni128.
Ma l'estetica del 700, gli «Svizzeri» e il Baumgarten
che conobbero Leibniz attraverso la sistematica delle
forme conoscitive data dal Wolff, cercarono in lui
principalmente gli accenni ad una facoltà artistica
autonoma. E la trovarono in quella rappresentazione
180
sensitiva, chiara ma confusa129 di cui Leibniz parla nel
De cognitione veritate et ideis del 1684, e nella quale
non si può «notas ad rem ab aliis discernendam
sufficientes separatim enumerare, licet res illa tales
notas atque requisita revera habeat, in quae notio ejus
resolvi possit»; come nel caso in cui si riconoscono
sapori, odori, colori, «sed simplici sensuum testimonio,
non vero notis enuntiabilibus»; o come quando
«videmus pictores aliosque artifices probe cognoscere,
quid recte, quid vitiose factum sit, at judicii sui rationem
reddere saepe non posse, et quaerenti dicere, se in re
quae displicet desiderare nescio quid»130.
Questo «non so che» ritorna spesso negli scritti di
Leibniz per indicare il senso estetico della perfezione
anteriore alla conoscenza vera e propria, e, in generale,
181
tutto ciò che vi è di intuitivo, di immediato, di irriflesso
nell'apprensione del reale131.
Nei Nuovi saggi gli servirà come una prova
dell'esistenza delle «piccole percezioni», cioè di una
sfera confusa alla periferia della nostra conoscenza, che
abbraccia la totalità delle cose, e che diviene
consapevole nella misura in cui diviene distinta, cioè
razionale132.
Le piccole percezioni sono comunemente considerate
come l'introduzione del subcosciente nel campo della
conoscenza. E certo, al principio leibniziano della
continuità e al suo «natura non facit saltus» si confà
molto meglio questa forma inferiore passante
insensibilmente dal confuso al distinto, che la
teorizzazione di una facoltà intuitiva autonoma, propria
131 «Es hat auch die güthige Natur oder vielmehr der grund-
güthige Gott in uns nicht weniger als in andre thiere eine gewisse
verborgene Krafft oder instinct geleget, so uns anstatt der vernufft
in sinnlichen dingen auch vor der erfahrung einiger massen zum
leitstern dienet. Es muss aber solcher instinct von dem verstande
regieret und sonderlich mässigkeit dabey gehalten werden»
(Initia et Specimina Scientiae Novae Generalis, G. VII, 113). Cfr.
Disc. de Mét., § 24.
132 «Ces petites perceptionnes sont donc de plus grande
efficace par leur suites qu'on ne le pense. Ce sont elles qui
forment ce je ne sais quoi, ces goûts, ces images des qualités des
sens, claires dans l'assemblage, mais confuses dans les parties,
ces impressions que les corps environnants font sur nous, et qui
enveloppent l'infini, cette liaison que chaque être a avec tout le
reste de l'univers» (Nouv. Ess., Pref.).
182
di un determinato atteggiamento spirituale, con sue
specifiche e irriducibili caratteristiche. Le percezioni
confuse non sono proprie solo dell'arte133; esse si
riferiscono ad altri fenomeni, come quelli del sogno,
della memoria; a fatti morali e conoscitivi134. L'arte non
è che uno dei tanti esempi usati per spiegarne la
costituzione. In Leibniz, dunque, l'intuizione artistica è
considerata come una forma inferiore di conoscenza
(come sarà poi nel Baumgarten). Ma non è affatto
preminente in lui la preoccupazione, che si nota invece
in quest'ultimo, di trovare una particolare forma di
conoscenza che sia specifica e propria dell'arte. C'è fra i
due come un'inversione dell'interesse e dello scopo della
teorizzazione: per Baumgarten le percezioni confuse
133 Nel capitolo dei Nouveaux Essais sulle «Idées claires et
obscures, distinctes et confuses» (l. II, c. 29) in cui porta vari
esempi di percezioni confuse, l'arte non è affatto nominata. Solo
vi si propugna una riforma della lingua, che abolisca le metafore
e i modi eleganti di dire, tolga indeterminazione al linguaggio,
dando a ciascuna parola un preciso significato.
134 Cfr. Nouv. Ess., l. I, c. 2, dove del precetto morale «qu'il
faut suivre la joye et éviter la tristesse» è detto «que ce n'est pas
une verité, qui soit connue purement de raison, puisqu'elle est
fondé sur l'experience interne, ou sur des connoissances confuses;
car on ne sait pas ce que c'est que la joye et la tristesse... Elle n'est
pas connue par la raison, mais pour ainsi dire par un instinct». Piú
in là parla dell'«instinct qui porte l'homme à aimer l'homme» e
estende la nozione di istinto anche alle «vérités de théorie, et tels
sont les principes internes des sciences et du raisonnement,
lorsque sans en connaitre la raison, nous les employons par un
instinct naturel».
183
servono a spiegare il fatto artistico; per Leibniz il fatto
artistico serve a spiegare la costituzione delle percezioni
confuse.
Pur tuttavia troviamo a volte Leibniz in presenza di
questo «non so che», che non è teorizzabile appunto
perché per definizione è confuso, e ogni
approfondimento del suo contenuto lo dissolverebbe in
percezione distinta, in conoscenza razionale. Egli non
può fare a meno di riconoscerne il valore, proprio in
quanto confuso e arazionale.
Il problema cominciava a presentarsi alla scienza e
alla letteratura del tempo. In una lettera alla regina Sofia
Carlotta di Prussia, Leibniz critica il libro del Bouhours
– uno dei primi appunto che indagò il gusto come
facoltà autonoma dello spirito – per la sua critica troppo
minuta alle opere d'arte: «à mon avis, quand il ne s'agit
que de plaire, c'est assez qu'on soit frappé et même
trompé agréablement, je pardonne à ce qui me charme
du premier coup quelque faute mediocre que j'y pourrois
découvrir à force de réflexions. Ceux qui ont l'esprit si
pénétrant qu'ils remarquent d'abord les defauts cachés,
ont le malheur de perdre les agréments des choses» 135. E
184
ancora nei Nuovi Saggi ripete, contro il medesimo,
l'accenno alla ragione quasi nemica della bellezza e al
genio intuitivo come qualche cosa che sfugge alla
considerazione razionale136. Nei Préceptes pour avancer
les sciences, del 1686137, parlando delle scienze
subalterne alla geometria e all'aritmetica, nelle quali
basta applicare alcune leggi matematiche «pour inventer
de soy même les règles principales de ces sciences», cita
fra queste la musica, scienza tutta fondata su «quelques
experiences fondamentales des consonances et
dissonances» e in cui «tout le reste des préceptes
généraux dépend des nombres». «On peut monstrer à un
homme qui ne sçait point de musique le moyen de
composer sans fautes...» Poi subito però, quasi colpito
dalla evidente unilateralità della sua affermazione, egli
si trova costretto dall'argomento stesso a correggere ed a
limitare. Le regole e i numeri non bastano; ci vuol altro:
«Comme pour faire un bel Epigramme, il ne suffit pas
de sçavoir la Grammaire et la Prosodie... de même en
musique il faut un exercice et même un genie et une
stilistica.
136 «Il faut que des pensées spirituelles ayent quelque
fondement au moins apparent dans la raison; mai il ne faut point
les éplucher avec trop de scrupule, comme il ne faut point
regarder un tableau de trop près» (Nouv. Ess., 1. II, c. 11).
137 La datazione proviene dal catalogo manoscritto della
Commissione leibniziana. Il saggio è pubblicato in G. VII, 157
sgg. e la parte che qui si espone è a pp. 170 sgg.
185
imagination vive d'oreilles à un homme qui veut reussir
en composition».
Sembra di essere qui al centro del problema del genio
intuitivo e irrazionale, e della sua autonomia. Leibniz
stesso si trova un po' confuso, quasi giocato dal suo
medesimo argomento138. Egli interpreta questo elemento
immediato e irriflesso che non può far a meno di
scorgere nella musica e nelle altre arti come una
abitudine, derivata da una forma mentis creatasi a poco
a poco attraverso la lettura dei poeti, o con l'osservare
«dans les compositions des habiles gens mille et mille
belles cadences et pour ainsi dire phrases de musique».
Anche in coloro che sono «naturellement musiciens» o
poeti, e «qu'un peu d'aide et de lecture fait faire des
merveilles», tutto si risolve in imitazione, pratica: «Car
il y a des choses, sur tout celles qui dépendent des sens,
oú on reussira plustost et mieux en se laissant aller
machinalement à l'imitation et à la practique, qu'en
demeurant dans la sécheresse des préceptes... Il faut que
notre imagination même ait prise une habitude, apres
quoy on luy peut donner la liberté de prendre son vol
sans consulter la raison, par une manière
d'Enthousiasme. Elle ne manque pas de reussir à mesure
186
du génie et de l'expérience de la personne, et nous
expérimentons même quelquesfois dans les songes que
nous formons des images qu'on aurait eu de la peine à
trouver en veillant».
Anche il genio, dunque, viene chiamato in causa; e si
parla di un lavoro quasi sotterraneo e subcosciente139.
«Mais il faut que la raison examine par après et qu'elle
corrige et polisse l'ouvrage de l'imagination».
Leibniz si sente ora obbligato a dare spiegazioni su
questa pratica, questo genio, questa immaginazione che
minaccia di scompaginare tutta la sua «arte d'inventare»,
basata su pochi dati fondamentali e sulle leggi
matematiche della combinazione. Vi sono dunque cose
che dipendono «plustost d'un jeu de l'imagination et
d'une impression machinale que de la raison». Ve ne
sono altre, invece, nelle quali «l'on peut reussir par la
seule raison aidée de quelques expériences ou
observations». Nelle prime, come bisogna comportarsi?
Se in esse la risoluzione deve essere presa
immediatamente, «les préceptes joints à la méthode ne
suffiront pas, au moins dans l'estat oú l'art d'inventer se
trouve présentement, car j'avoue que si elle estoit
187
perfectionnée comme il faut et comme elle le pourroit
estre, qu'on pourroit souvent pénétrer d'une veue d'esprit
aisée ce qui a besoin maintenant de beaucoup de temps
et d'application». E occorrerà dunque «qu'on aye une
force de genie extraordinaire oú qu'on aye une longue
practique qui nous fait venir dans l'esprit machinalement
et par habitude, ce qu'il faudroit chercher par la raison».
Ecco dunque quello che può eventualmente sostituire
la ragione: o l'abitudine e la pratica, o il «genio»; facoltà
non ben determinata, ma che sembra si debba intendere
come una razionalità eminentemente sviluppata e
capace di rapide sintesi140. Ma la ragione è sempre lo
140 «On voit d'excellents génies qui réussissent au premier
coup d'essay dans la profession, oú il se mettent et qui font honte
aux vieux practiciens par la force de leur jugement naturel. Mais
cela n'est pas ordinaire» (G. VII, 171). «Tout sentiment est la
perception d'une vérité, et... le sentiment naturel l'est d'une vérité
innée, mais bien souvent confuse, comme le sont les expériences
des sens externes: ainsi on peut distinguer les vérités innées
d'avec la lumière naturelle (qui ne contient que de distinctement
connoissable) comme le genre doit estre distingué de son espèce,
puisque les vérités innées comprennent tant les instincts que la
lumière naturelle» (Nouv. Ess., l. I, c. 2, § 9). Nella Addition à
l'explication du Système Nouveau, Leibniz pone su di un
medesimo piano (cioè su quello delle percezioni confuse)
l'istinto, la passione e l'abitudine: «L'instinc estant pour ainsi dire
une passion durable et née avec nous, et la passion estant comme
un instinct passager et survenu; à quoy on pourroit joindre
l'accostumance qui tient le milieu entre ces deux sortes
d'inclinations, estant plus durable que la passion, mais non pas
née avec nous comme l'instinct» (G. IV, 576-77). Anche nella
188
strumento piú sicuro, e quello a cui in ultima analisi
tutto si riduce. La sua apparente inferiorità di fronte alla
«pratica» deriva solo dal fatto ch'essa spesso non è ben
usata né ben organizzata141.
189
luogo, l'entusiasmo con cui si esprimono. Esse
possiedono un alone di sentimento che manca invece a
volte alla fredda ragione, sí che ne riesce piú difficile e
meno piacevole la realizzazione. In Leibniz è sempre
presente la preoccupazione di dare una certa appetibilità
alla razionalità e alla moralità, di conciliarle, anziché
opporle, col piacere, con la felicità, con l'utilità. Il
carattere estetico della sua armonia universale gli offre
uno strumento a questo scopo, tanto da fargli a volte
concepire l'arte quasi come ancella della morale143. Ma
non è tanto questo il suo assunto quanto un tentativo di
mostrare piú chiaramente la bellezza e l'armonia della
ragione; di rendere cioè gli uomini entusiasti e
appassionati di essa, cosí come lo sono dell'arte.
«Sapientis erit semel in universum sibi imprimere
pulchritudinem futurae vitae, id est, Dei, in quo consistit
et amor Dei, seu harmoniae rerum»144. «Ciceron dit bien
quelque part, que si nos jeux pouvoient voir la beauté de
la vertu, nous l'aimerions avec ardeur»145. E il pensiero
di questa suprema bellezza può aiutare gli uomini a
sopportare le pene e anche il martirio; al quale scopo
190
non nuocerà neppure al sapiente «pöematibus et
allegoriis, et fabulis et adumbrationibus et
variegationibus uti. Quia ad rem per se optimam omnia
media recta sunt»146.
Non si tratta qui, come potrebbe apparire, di una
spinta al ben agire mediante la rappresentazione di beni
futuri, cioè di un rendere utilitaria la morale. È invece
un renderla piacevole, entusiastica, appassionata. «Haec
porro imaginatio cum assensu conjuncta, quod in fide
divus Thomas piani affectionem vocat, amorem Dei
super omnia, et contritionem et proinde certam salutem
continet. Fit autem fortis imaginatio aut picturis, aut
sonis... Nec dubito posse hominem cantibus in furorem
agi, sopiri, excitari, irritari ad risum, ad fletum, ad omne
affectuum genus commoveri». Onde i poeti dovrebbero
prendere a oggetto delle loro opere argomenti morali,
anziché i vizi e gli amori degli uomini, e dovrebbero
dipingere «vitae aeternae pulchritudinem» e «horribiles
scelerum poenas». Sarà benemerito della repubblica
cristiana «qui effecerit, ut summa sit jucunditas in
pietate»147. Lo scopo dell'educazione in generale, è
«qu'on doit être porté à trouver du plaisir dans l'exercice
de la vertu et du dégoût et de la répugnance dans
l'exercice du vice»148.
191
L'arte, dunque, esprime la bellezza e l'armonia del
creato in forma intuitiva, oscura, non ancora distinta e
razionale; ma la esprime con calore e commozione, e
con un movimento degli affetti che rende la visione non
solo vera, ma piacevole, e che spinge ad agire, cioè a
farsi partecipi e cooperatori di questa armonia149.
Il piacere dato dall'opera d'arte è per Leibniz
assolutamente della medesima natura che il piacere
dell'amicizia, dell'amore: in questi ci rallegra la
perfezione o felicità di esseri animati, in quella la
perfezione di cose inanimate150. E il piacere dell'arte è
192
anche della medesima natura che il piacere suscitato
dalla conoscenza perfetta e adeguata e da ogni aumento
o perfezionamento o elevazione dell'essere151. È, in
sostanza, l'entusiasmo e la soddisfazione dello spirito
che agisce, in ogni sua forma, cioè si adegua alla
perfezione oggettiva del mondo, acquistando esso stesso
perfezione.
151 «Nun ist vor fest zu setzen dass alle neue erkäntniss sey
ein wachstum unser vollkommenheit und daher sind die deutliche
Empfindungen so und was neues lehren, allezeit mit Lust
verknupfet; es ist auch solche Lust in so weit sicher, dass wir
allezeit selbst ausrechnen können, wie weit uns dienlich ihr
nachzuhengen. Es werden auch durch die übung eines deutlichen
begriffs die Kräffte des gemüths ohnfehlbar vermehret wenn man
damit ordentlich und also ohne mühseligkeit und vergebenes
suchen verfähret, also das diese Lust die sicherste unter allen»
(Initia et Spec. Sc. N. Gen., G. VII, 113).
193
Conoscenza e volontà in Leibniz
194
In Spinoza permane la realtà, la positività degli affetti
come qualche cosa che la mente deve guardarsi
dall'ignorare e trascurare, ma anzi cercare con occhio
chiaro di comprendere153. Ma la passione viene già
concepita come basata su una tendenza alla perfezione,
e la ragione è già qualche cosa che ha in sé la facoltà di
suscitare passioni. Rimane però sempre a sé stante,
operante sulle passioni, regolatrice di esse, non
connaturata con esse.
Leibniz prosegue l'unificazione. Egli non ha una
propria teoria delle passioni, intese come autonome e
derivanti da un proprio principio, sia esso l'istinto di
conservazione o altro. Egli non ammette una volontà a
sé stante, di fronte all'intelletto. Il corpo come alcunché
di contrapposto allo spirito è un principio ch'egli scalza,
disgregando il concetto stesso di materialità,
riducendolo alla medesima sostanza che lo spirito. Lo
195
reintrodurrà poi come uno sviluppo del concetto di
monade, accettando il problema dell'occasionalismo154.
Ma la sua mentalità originaria non conosce dualismi di
corpo e spirito, di conoscenza e volontà, di ragione e
passioni. Anche in questo, il suo interesse primo è
schiettamente ontologico, non gnoseologico o
psicologico. Tutto l'essere, e anche l'uomo con le sue
attività, deve organizzarsi nel sistema della legge
razionale ed armonica. Conoscenza è ragionamento e
organizzazione dell'esperienza in sistema; morale è in
sostanza la stessa cosa che la conoscenza: è agire nel
campo di questa organizzazione, adoperarsi al progresso
della conoscenza e al «bene generale».
La lotta della ragione contro le passioni si trova anche
in Leibniz. Ma le passioni non sono piú la realtà
positiva dell'uomo animale contro cui l'uomo razionale
196
deve affermarsi; sono invece la limitazione della ragione
stessa, che appunto in quanto tale si presenta come
passività: sono, in sostanza, una imperfezione della
conoscenza155, e fanno, per cosí dire, parte della
conoscenza stessa, imputabili a difettosità di essa156.
Anche considerate come fenomeni animali, come
movimenti del sangue, la loro essenza viene
caratterizzata dalla misura onde esse, limitano,
ingannano lo spirito157. E non è piú il corpo che ingenera
197
nello spirito rappresentazioni imperfette, ma sono le
stesse rappresentazioni imperfette che, in ragione della
loro imperfezione, vengono definite come «corpo» 158.
La lotta fra spirito e corpo, fra ragione e passioni, si
risolve dunque in una lotta fra percezioni distinte e
percezioni confuse159. E non è una lotta che si combatta
uns offt betrogen, wie freundlich er sich gegen uns stelle, also
scheint auch kein sicher mittel gegen die passionen zu seyn als
dass man, in dem wir solche Geblüthsbewegung bey uns
befiehlen, uns ermahnen und wieder erinnern, das alles was sich
der Einbildung vorstellet nur dahin gerichtet, dem object der
passion grosses ansehen machen und hinwegen die ursachen so
ihn zuwiederverdunckeln möge» (Initia et Spec. Sc. N. Gen., G.
VII, 92-93. Cfr. 94).
158 «On a raison d'appeler perturbations avec les anciens, ou
passions ce qui consiste dans les pensées confuses, oú il y a de
l'involontaire et de l'inconnu; et c'est ce que dans le langage
commun, on n'attribue pas mal au combat du corps et de l'esprit,
puisque nos pensées confuses representent le corps ou la chair et
font nostre imperfection» (polemica col Bayle, G. IV, 565). Cfr.
Lettera al Coste, 1707, G. III, 403: «Nous sommes toujours dans
une parfaite spontanéité, et ce qu'on attribue aux impressions des
choses externes ne vient que des perceptions confuses en nous qui
y repondent»; Nouv. Ess., l. II, c. 21, § 72; «Il n'y a de l'Action
dans les veritables Substances que lorsque leur perception (car
j'en donne à toutes) se developpe et devient plus distinte, comme
il n'y a de passion que lorsqu'elle devient plus confuse; en sort
que dans les Substances, capables de plaisir et de douleur, toute
action est un acheminement au plaisir, et toute passions à la
douleur». Cfr. Théod., § 66.
159 «Les idées et veritées innées ne sauroient estre effacées,
mais elles sont obscurcies dans tous les hommes... par leur
198
con un semplice atto di volontà, ma con un
approfondimento della conoscenza: «En travaillant aussi
sur soy, il faut faire comme en travaillant sur autre
chose: il faut connoistre la constitution et les qualités de
son objet et y accommoder ces operations. Ce n'est donc
pas en un moment, et par un simple acte de la volonté,
qu'on se corrige et qu'on acquiert une meilleure
volonté»160.
Anche qui, dunque, come in Spinoza, la conoscenza
adeguata libera dalle passioni. Ma il tono diverso delle
due concezioni è dato dalla generale impostazione dei
due sistemi. In Leibniz è sempre viva la concretezza
della conoscenza, che parte dal particolare, e la cui
adeguatezza consiste nell'ampiezza della rete dei
collegamenti che riesce a stendere intorno ad esso. Il
punto d'arrivo non è la semplice razionalità matematica,
ma una armonia e coerenza piú complessa, che bisogna
con accortezza e pazienza perseguire e ricercare. Fra
conoscenza confusa e distinta, quindi tra passione e
ragione, non c'è distacco netto, ma continuità. Se il
pendant vers les besoins du corps, et souvent encor plus par les
mauvaises coustumes survenues. Ces caracteres de lumiere
interne seroient toujours éclatants dans l'entendement et
donneroient de la chaleur dans la volonté, si les perceptions
confuses des sens ne s'emparoient de nostre attention. C'est le
combat dont la Sainte Ecriture ne parle pas moins que la
Philosophie ancienne et moderne» (Nouv. Ess., l. I, c. II, § 20).
Cfr. Théod., §§ 289, 310.
160 Théod., § 328.
199
piacere della passione è dato dalla percezione di una
certa perfezione, la ragione persegue una perfezione piú
vasta che darà un piacere molto superiore. Fra passione
e ragione corre il medesimo rapporto che corre fra
parzialità e totalità161. Infatti, se la passione è il piacere
dato da una conoscenza inadeguata, anche la
conoscenza adeguata non è priva di emotività, anzi è
accompagnata da una gioia corrispondente alla sua
perfezione. Lo sforzo di Hobbes e di Spinoza di saldare
l'unità del mondo morale, col principio che una passione
si vince mediante un'altra passione, con attribuire gioia
alla mente che contempla sé e la sua potenza162, è
portato a compimento da Leibniz. Per lui ciò che vince
le passioni è la passionalità della ragione stessa.
L'affettività non è una caratteristica esclusiva
dell'irrazionale, ma qualche cosa cui deve partecipare
anche la ragione. Il sentimento non si dissolve alla luce
della conoscenza, ma si potenzia e si innalza con essa.
La ragione non è fredda, impassibile, imperturbabile. La
161 «La volonté tend au bien en general; elle doit aller vers la
perfection qui nous convient, et la supreme perfection est en
Dieu. Tous les plaisirs ont en eux mêmes quelque sentiment de
perfection; mais lorsqu'on se borne aux plaisirs des sens ou à
d'autres au prejudice de plus grand biens, comme de la santé, de
la vertu, de l'union avec Dieu, de la felicité, c'est dans cette
privation d'une tendance ulterieure que le defaut consiste. En
general la perfection est positive, c'est une réalité absolue, le
defaut est privatif, il vient de la limitation et tend à des privations
nouvelles» (Théod., § 33).
162 Ethica, pars III, prop. LIII.
200
vittoria contro le passioni è la vittoria di un sentimento
piú ampio e universale contro un sentimento che, per la
sua limitazione e parzialità, dovrà condurre
all'infelicità163. Uno dei segni di riconoscimento della
vera ragione è la gioia piú grande, piú sicura, piú
durevole che essa procura a chi l'abbia raggiunta164. E vi
è un grande piacere nello stesso superamento delle
passioni; piú grande anzi, quanto piú forti sono le
passioni da combattere165.
Il contatto con lo stoicismo è dunque qui solo
esteriore166: la ragione e la natura di Leibniz sono
163 «Wenn die wohllust des leibes durch kranckheiten und der
Ruhm durch unglücksfälle abgehet, da höret der selbstbetrug auf,
und sie finden sich unglücklich» (Initia et Spec. Sc. N. Gen., G.
VI, 88).
164 «Denn diess ist eins der ewigen gesetze der Natur, dass
wir der Vollkommenheit der dinge und darauss entstehenden lust
nach mass unser erkentnis, guther neigung und vorgesetzten
beytrags geniessen werden» (Initia et Spec. Sc. N. Gen., G. VII,
89).
165 «Je schwerer unsre affecten zu überwinden, je grösser die
wollust... damit dass gemüth überschüttet wird... also je mehr
arbeit, je grösser lohn. Denn sich seiner kräffter versichert
wissen, bringt dem gemüth ein grosses wohlgefallen, und daher
entstehende freude» (ibid., G. VII, 98). Cfr. 95 e Théod., § 329.
Per questa precettistica della morale e psicologia delle passioni e
della virtú, cfr. in generale tutti i frammenti raccolti sotto il titolo
Initia et Specimina Scientiae Novae Generalis.
166 Vedi l'invettiva contro gli stoici nel frammento giovanile
Juris et aequi elementa (AK. VI, I, e Mollat, 28, 9): «Interroga
stoicos illos, illos aërios, nubivolos, µετεωρολόγους, voluptatis
201
qualche cosa di ben diverso dalla ragione e dalla natura
della tradizione stoica del rinascimento e del
razionalismo.
Ma non si deve neppure interpretare la sua morale
come un edonismo. Il piacere, la felicità, non è ciò che
viene ricercato di per sé: è una naturale conseguenza,
connaturata con l'essenza stessa della ragione,
concomitante sempre al suo raggiungimento. La ragione
non è uno strumento per conseguire la felicità, né d'altra
parte la felicità è un semplice mezzo per rendere
appetibile la ragione. Piacere è, come sappiamo, il senso
della perfezione. E la perfezione del pensiero è «ut
repraesentatio sit exacta vel, quod item est, ut cogitatio
sit distincta, ut sit valide activa, i.e. ut voluntas recta
ratione quesita sit firma, denique ut repraesentatio sit
ample diffusa h. e. ut multa simul uno mentis ictu
comprehendamus»167.
Piacere e verità e bene, utilità e ragione e moralità
sono oramai uniti in un unico atto spirituale, in modo
che chi tende all'una cosa non può a meno di tendere
anche all'altra. La tendenza al bene, alla perfezione,
all'armonia, alla completezza, non è se non la tendenza a
ciò che, ampliando il nostro spirito, lo conduce alla piú
perfetta felicità. La perfezione di ciascuno, cioè la sua
simulatos hostes rationis veros. Circumspice, rimare actus eorum
motusve! Senties nec digitum ciere posse, quin mendacium
impingant inani suae philosophiae. Honestas ipsa nil nisi
jucunditas animi est».
167 Mollat, 5.
202
felicità, combacia con l'armonia universale. E volontà
buona non è se non la conoscenza di questa armonia:
conoscenza attiva, appassionata, operante, che tende alla
realizzazione di ciò che apprende.
Leibniz cerca a volte di teorizzare ciò che vi è di
specificamente attivo nella realtà spirituale: la tendenza,
lo sforzo, il desiderio che è la molla immediata
dell'agire, quel senso di mancanza che spinge a
muoversi e che viene soddisfatto solo ad azione
compiuta; quell'elemento che è come la forma di ogni
azione in quanto tale, indipendentemente dal suo
contenuto e dal suo fine. «La Volition est l'effort ou la
tendance (conatus) vers ce qu'on trouve bon et contre ce
qu'on trouve mauvais, en sorte que cette tendance
resulte immediatement de la perception qu'on en a. Et le
corollaire de cette definition est cet Axiome celebre: que
du vouloir et pouvoir joints ensemble, suit l'action,
puisque de toute tendance suit l'action lorsqu'elle n'est
point empechée»168.
Agire è realizzare una conoscenza; ma ogni
conoscenza, in quanto porta a conseguenze e «viene
agita», si esplica come sentimento. Chi agisce prova
sempre un qualche piacere ad agire cosí, e non c'è
azione che, in quanto tale, non soddisfi un desiderio. Fra
il razionalismo cartesiano, che pone la ragione maestra e
168 Nouv. Ess., l. II, c. 21, § 4. Cfr. Mollat, 4: «Cogitatio est
activa quaedam repraesentatio... Activam volo. Nam ex omni
cogitatione sua natura statim sequitur conatus agendi seu voluntas
quaedam».
203
regolatrice delle passioni, e il sensismo del '700, che fa
delle passioni il primo ed unico fattore della volizione,
sta questa teoria leibniziana della conoscenza razionale
sí, ma appunto in quanto tale attiva e passionale169.
Le acutissime osservazioni dei Nuovi saggi sono
fondamentali a questo proposito. Ivi la teoria delle
piccole percezioni (dipendente direttamente dal concetto
di monade) dà nuovi sviluppi al fondamentale concetto
leibniziano dei rapporti fra conoscenza e volontà, quale
si trova in tutto il corso del suo pensiero, e gli permette
di fondare su salde basi quella continuità ininterrotta e
passaggio graduale dalle passioni alla moralità ch'è nella
tendenza di tutto il secolo170. La percezione è
considerata in sé come attiva, come dotata di una sua
propria influenza sul sentimento, come prolungantesi in
azione. Il caso, proposto dal Locke, del «video meliora
proboque, deteriora sequor», cioè che la volontà non
segua ciò che riconosce come il vero bene, ma solo il
piú prossimo desiderio, viene risolto col mostrare che in
tal caso la nozione del bene non è una vera conoscenza,
ma una conoscenza solo nominale, astratta, priva di vero
e proprio contenuto: ché la vera e piena conoscenza
contiene in sé anche la determinazione della volontà171.
204
Le percezioni confuse permettono di spiegare, come nel
caso dell'arte, il fatto dell'istinto e di una coscienza
morale innata in forma non razionale, senza dover
ricorrere ad una facoltà pratica autonoma diversa dalla
ragione. Si tratta sempre di conoscenza, ma di
conoscenza non distinta, che solo sviluppandosi può
giungere alla dimostrazione e alla definizione172.
Le percezioni confuse spiegano anche quello stato
della «inquietudine», che è la molla e l'«aiguillon du
desir»173; ed in generale esse danno modo a Leibniz di
addentrarsi in tutti gli stati intermedi della prerazionalità
205
e della volontà precosciente. Gli permettono cioè di
evitare ogni distacco, ogni dualità nel mondo psichico,
di considerare ogni atto spirituale come un tutto
complessivo e inscindibile, teoretico e pratico insieme,
caratterizzato nella scala dei valori dal suo grado di
chiarezza e di distinzione.
Ciò cui l'uomo tende inizialmente, istintivamente, è il
proprio bene e il proprio piacere: «Suivre la joye et
eviter la tristesse»174. Ma il piacere non è se non la
percezione dell'ordine, dell'armonia, della perfezione in
un determinato campo175. La volontà è la tendenza alla
realizzazione di quest'ordine. Ogni azione, dunque,
tende sempre a un bene. L'errore, il male, il peccato,
consistono nel preporre una perfezione parziale ad una
perfezione piú vasta176; o, ch'è lo stesso, un piacere
presente e momentaneo ad un piacere futuro piú stabile
e duraturo177. Significano cioè «qu'on n'a pas bien lu ces
206
caracteres de la nature gravés dans nos ames, mais
qualques fois assez enveloppés par nos desordres»178.
Si mostra qui un nuovo aspetto della differenza che
Leibniz pone tra i due attributi cartesiani della chiarezza
e della distinzione. Distinzione indica evidenza
razionale, definibilità, dimostrabilità. Chiarezza indica
evidenza pratica e sentimentale, il presentarsi con
vivezza e violenza allo spirito, il suscitare desideri e
passioni. L'uno rappresenta il momento conoscitivo,
l'altro il momento volitivo in quel tutto teoretico-pratico
che è la percezione.
Le idee chiare ma confuse sono quelle tendenze
istintive che, per mancanza di coscienza e razionalità e
per la visione di perfezioni solo parziali, conducono a
piaceri momentanei e privi di controllata coscienza; le
idee distinte ma oscure sono invece quelle che, pur
pienamente dimostrate ed esatte, rimangono lettera
morta per mancanza di partecipazione sentimentale e di
quella pienezza spirituale che le svolge immediatamente
in azione179. E per questo appunto è bene «qu'on rendre
178 Nouv. Ess., l. I, c. 2, § 12.
179 «Ce combat [entre la chair et l'esprit] n'est autre chose que
l'opposition des differentes tendences, qui naissent des pensées
confuses et des distinctes. Les pensées confuses souvent se font
sentir clairement, mais nos pensées distinctes ne sont claires
ordinairement qu'en puissance: elles pourroient l'estre, si nous
voulions nous donner l'application de penetrer le sens des mots ou
caracteres, mais ne le faisant point, ou par negligence, ou à cause
de la brieveté du temps, on opposes des paroles nues ou du moins
des images trop foibles à des sentiments vifs» (Nouv. Ess., l. II, c.
207
les vrais biens et les vrais maux autant sensibles qu'il se
peut»180. Il concetto di monade come percezione e
appetito trova qui la esplicazione psicologica; e viene a
coincidere con l'unione di conoscenza e volontà181.
Ciascuna volizione è la risultante del concorso e del
conflitto di varie percezioni182. È qualche cosa di piú
complesso e completo di quanto non possa apparire
dalla semplice direzione che in essa viene presa. In essa
entra tutto l'insieme delle percezioni che costituiscono la
personalità di ciascun individuo; ed essa sarà tanto piú
morale, quanto piú vasto è questo insieme, quanto piú
cioè esso rispecchia l'armonia dell'universo183.
L'immoralità è un errore nel calcolo dei contrappesi che
costituiscono l'equilibrio di questa armonia, uno sbaglio
che si può correggere con un criterio piú rigoroso e una
208
piú esatta conoscenza degli elementi che entrano in
giuoco184.
Tale, un aspetto della dottrina leibniziana della
volontà nella sua forma piú matura, sviluppata e
ampliata attraverso le formulazioni resegli possibili
dalle nozioni di monade, di piccole percezioni, del
subcosciente nella vita spirituale. Ma queste idee
inquadrano nell'insieme del sistema compiuto una
nozione ch'è presente fin nella prima giovinezza di
Leibniz, anche indipendentemente dalle particolari
teorie che costituiscono il suo specifico sistema
filosofico185. Essa è essenzialmente una tendenza e una
184 «Mais on y neglige plusieurs chefs, soit en ne s'avisant pas
d'y penser, soit en passant legerment là dessus; et on ne donne
point à chacun sa juste valeur, semblable à ce teneur de livres de
compte qui avoit soin de bien calculer les colonnes de chaque
page, mais qui calculoit très mal les sommes particulieres de
chaque ligne ou poste avant que de les mettre dans la colonne...
Ainsi il nous faudroit encore l'ars de s'aviser et celuy d'estimer les
probabilités et de plus la connoissance de la valeur des biens et
des maux, pour bien employer l'art des consequences... Enfin il
faut une ferme et constante resolution pour executer ce qui a esté
conclu, et des adresses, des methodes, des loix particulieres et des
habitudes toutes formées pour la maintenir dans la suite» (Nouv.
Ess., l. II, c. 21, § 67).
185 «La verité est, que l'Ame, ou la Substance qui pense,
entend les raisons, et sent les inclinations, et se determine selon la
prevalence des representations qui modifient sa force active, pour
specifier l'action. Je n'ay point besoin d'employer icy mon
systeme de l'Harmonie préetablie... Car ce que je viens de dire
suffit pour resoudre l'objection» (Remarques sur le livre de King,
209
necessità della sua personalità in generale. Gli scritti
giuridici in cui egli cerca di conciliare l'utilitarismo con
la moralità, lo avevano condotto a quella definizione
dell'amore come il piacere proprio trovato nella
perfezione altrui, ch'egli non dimenticherà per tutto il
corso del suo pensiero e sarà sempre lieto di poter
ricordare ed applicare186. Definizione che sembra a tutta
prima null'altro che un'acuta trovata, estranea
all'organismo del pensiero leibniziano, e che è sorta
come una ricerca particolare, a proposito di uno
specifico problema187; ma che assume un piú vasto
significato e una precisa funzione quando lo si metta in
relazione con i concetti sopra esposti sulla natura della
volontà.
L'unione dell'utilità con la moralità si allarga: diviene
uno dei tipici esempi di definizione di concetti, di cui
210
Leibniz si serve per la costruzione della sua
Caratteristica; viene usata per teorizzare quella
piacevolezza e sentimentalità, ch'egli si sforza sempre di
attribuire alla morale, e per risolvere i problemi sorti a
questo proposito nella discussione dei mistici. «Justitia
est charitas sapientis. Charitas est benevolentia
generalis. Benevolentia est habitus amoris. Amare
aliquem est eius felicitate delectari. Sapientia est
scientia felicitatis. Felicitas est laetitia durabilis. Laetitia
est status voluptatum, in quo sensus voluptatis tantus
est, ut sensus doloris prae eo non sit notabilis. Voluptas
seu Delectatio est sensus perfectionis, id est sensus
cujusdam rei quae juvat seu quae potentiam aliquam
adjuvat. Perficitur cujus potentia augetur seu juvatur» 188.
Questa catena di definizioni, costruita secondo il
metodo della scomposizione dei concetti per giungere
agli elementi semplici, pone alla sua base l'idea della
perfezione come grado elevato dell'essere, e l'idea del
piacere come il senso della perfezione189. Il supremo
amore è quello rivolto all'essere perfetto, cioè a Dio, e
alla suprema perfezione, cioè all'armonia delle cose; e
consiste appunto nel collocare la propria felicità nella
211
felicità divina190. La sua essenza è l'essenza stessa della
virtú191, la quale si identifica col piacere, inteso però non
come il piacere dei sensi – che può condurre anche alla
infelicità, «gleich wie eine wohlschmeckende speise
ungesund seyn kann» – ma come «die lust, so die Seele
an sich selbst nach dem verstand empfindet». Ne segue
«dass nichts mehr zur glückseeligkeit diene, als die
erleuchtung des Verstandes, und übung des Willes
allezeit nach dem verstande zu würcken». Tale felicità
consiste in «empfindung einer lust an ihm selbst und an
seinen gemüthskräfften, wenn man in sich eine starcke
neigung und fertigkeit zum guthen und zur wahrheit
fühlet»192.
Questa identificazione di felicità, sapienza e virtú193 è
per Leibniz, alla base del diritto naturale, e di quella
morale che è insita nell'uomo anche indipendentemente
212
dalla considerazione della divinità194; e gli dà modo di
risolvere il problema mistico disinteressato, intorno al
quale si accanivano a proposito della controversia sul
quietismo, in Francia il Bossuet e il Fénelon, in
Inghilterra lo Sherlock e il Norris. È possibile una
volontà che non voglia nulla per sé, il cui principio
stesso sia antiutilitario, che neghi come peccato ogni
riferimento alla propria persona, che non operi in base
ad alcun motivo contingente e avente riferimento al
soggetto che agisce?
Leibniz insiste sul fatto che questa discussione si è
svolta senza che si fosse presa cura di definire i termini
sui quali si discuteva. Se l'amore è il piacere preso dalla
felicità altrui195, è perfettamente ammissibile un amore
194 «Nos affections naturelles font notre contentement: et plus
on est dans le naturel, plus on est porté à trouver son plaisir dans
le bien d'autrui, ce qui est le fondement de la bienveuillance
universelle, de la charité, de la justice... Ou peut dire qu'il y a un
certain degré de bonne morale independamment de la divinité,
mais que la considération de la providence de Dieu et de
l'immortalité de l'ame, porte la morale à son comble, et fait que
chez le sage les qualités morales sont tout à fait realisées, et
l'honnete identifié avec l'utile, sans qu'il y ait exception ny
echappatoire» (Osservaz. allo Shaftesbury, G. III, 428-29).
195 Confronta questa definizione dell'amore con quella di
Cartesio e di Spinoza, per vedere come in Leibniz si conchiuda il
processo di saldatura delle passioni con la ragione nella
continuità dell'attività spirituale: «L'amour est une émotion de
l'âme causée par le mouvement des esprits, qui l'incite à se
joindre de volonté aux objets qui paroissent lui être convenables»
(Les passions de l'âme, parte II, art. 79). «Amor nihil aliud est,
213
assolutamente puro, cioè rivolto esclusivamente al bene
altrui, e che pure non sia se non una ricerca del bene o
del piacere della persona che ama196. Le due tesi opposte
volevano l'una annullare la personalità individuale e
ogni volontà rivolta al proprio bene; l'altra appoggiare la
morale sociale-religiosa sulla coscienza che ha ogni
quam laetitia concomitante idea causae externae» (Ethica, pars
III, prop. XIII, Scholium).
196 «Lorsqu'on aime sincerement une personne, on n'y
cherche, pas son propre profit ny un plaisir detaché de celuy de la
personne aimée, mais on cherche son plaisir dans le contentement
et dans la felicité de cette personne. Et si cette felicité ne plaisoit
pas en elle même, mais seulement à cause d'un avantage qui en
resulte pour nous, ce ne seroit plus un amour sincere et pur. Il faut
donc qu'on trouve immediatement du plaisir dans cette felicité et
qu'on trouve de la douleur dans le malheur de la personne aimée.
Car tout ce qui fait du plaisir immediatement par lui même, est
aussi desiré pour luy même, comme faisant (au moins en partie)
le but de nos vues, et comme une chose qui entre dans nostre
propre felicité et nous donne de la satisfaction. Cela sert à
concilier deux verités qui paroissent incompatibles; car nous
faisons tout pour nostre bien, et il est impossible que nous ayons
d'autres sentiments, quoyque nous en puissions dire. Cependant
nous n'aimons point encor tout à fait purement, quand nous ne
cherchons pas le bien de l'objet aimé pour luy même, mais à
cause d'un avantage qui nous en provient. Mais il est visible par
la notion de l'amour que nous venons de donner, comment nous
cherchons en même temps nostre bien pour nous et le bien de
l'objet aimé pour luy même; lorsque le bien de cet objet est
immediatement, dernierement (ultimato) et par luy même nostre
but, nostre plaisir et nostre bien, comme il arrive à l'egard de
toutes les choses qu'on souhaite parcequ'elles nous plaisent par
214
individuo del suo interesse personale alla realizzazione
del regno di Dio. Con la tesi di Leibniz l'amore
disinteressato ha, appunto in quanto tale, una sua
appetibilità; e porta, per il solo essere soddisfatto, ad un
piacere da parte della persona che ama: «Licet non
praemiis poenisque moveantur, felicitate tamen velut
necessario virtutis corollario fruuntur, immo virtus
sapientis cum summam animi voluptatem pariat, ipsa
praemium sibi est197.
Leibniz riintroduce qui, con lo Spee198 e contro
Cartesio199, la distinzione fra l'amore200 che ha in vista
solo il piacere derivato dalla perfezione altrui, chiamato
«amore di benevolenza», e quello fondato «dans
elles mêmes, et sont par consequent bonnes de soy, quand on
n'auroit aucun egard aux consequences; ce sont des fins et non
pas des moyens. Or l'amour divin est infiniment au dessus des
amours des creatures... Ces considerations font voir en quoy
consiste le veritable desinteressement du pur amour qui ne
sçauroit estre detaché de nostre propre contentement et felicité...
puisque nostre felicité renferme essentiellement la connoissance
de la felicité de Dieu et des perfections divines, c'est à dire
l'amour de Dieu» (al Nicaise, 1697, G. II, 577-78). Cfr. anche G.
I, 357-58, G. III, 207, 382 sgg., 425, G. VI, 416, 605-6, F. d. C. I,
143, II, 195, Mollat, 36 sgg., Baruzi, Leibniz, 340-41, 345, D. II,
I, 224-25, Syst. Theol., 66. Su tutto questo argomento cfr.
Couturat nota X.
197 Mollat, 89.
198 Klopp, VIII, 76 ss., Théod., § 96.
199 Cfr. Les Passions de l'âme, parte II, art. 81.
200 Al Coste, 1706, G. III, 385, e alla duchessa Sofia, G. VII,
546 sgg.; Nouv. Ess., l. II, c. 20, §§ 4-5.
215
l'esperance de quelques autres plaisirs que Dieu ou
quelque ami nous peut donner», detto «amore di
concupiscenza». Distingue cosí nettamente la sua
dottrina da un qualsiasi, anche larvato e raffinato
utilitarismo201. Ma ciò che è qui in lui caratteristico è
l'accompagnamento di utilità ch'egli vuol vedere in ogni
azione, la piú disinteressata come la piú interessata, la
piú buona come la piú cattiva. Accompagnamento di
carattere diverso da quello che si è visto202 della
coincidenza dell'utile con l'onesto nell'ordine e
nell'armonia universale. Qui la coincidenza ha carattere
psicologico, si verifica nel processo intimo della
volizione.
Il fatto stesso di volere, fa sí che si abbia una
soddisfazione dalla volontà realizzata, cioè dall'azione
compiuta, qualunque sia questa azione. Ogni volizione,
oltre al suo contenuto, al suo specifico fine, che può
essere utilitario o morale, particolare (o meglio,
leibnizianamente parziale), o universale, ha, per cosí
dire, una forma, inerente alla sua stessa essenza di
volizione: il fatto stesso cioè di essere voluta, di
implicare una tendenza, uno sforzo di realizzazione. Il
201 «Lors memes qu'on fonde l'amour de Dieu sur ses bien-
faits, considérés d'une maniere qui ne marque pas en même temps
ses perfections, c'est un amour d'un degré inferieur, utile sans
doute et louable, mais qui ne laisse pas d'estre interessé, et n'a pas
toutes les conditions du pur amour divin» (al Nicaise, G. II, 579).
Cfr. 587.
202 Cfr. sopra.
216
giungere dell'azione al suo fine, sia esso pure contro
l'individuale interesse della persona che agisce, provoca
di per sé gioia e piacere. Questo vuol Leibniz significare
quando dice che ogni azione tende al piacere, cioè ad
una qualche perfezione: «Conatus agendi oritur
tendendo ad perfectionem, cujus sensus delectatio est;
neque aliter actio vel voluntas constat. Et ad male
consulta etiam quadam boni seu perfectionis specie
percepta movemur, etsi scopo excidamus, aut exiguum
bonum male petitum jactura majoris luamus; neque
impulsui a bono suo nisi cum natura sua renuntiare
quisquam ultra verba potest»203.
Frasi che richiamano il Gorgia, il Menone, la
Repubblica204. Viene affermata la natura teoretica
dell'errore pratico, cioè ridotta la virtú ad un fatto di
conoscenza. Ciascun uomo, in ciascuna azione, tende ad
217
un suo bene, ad una sua perfezione, ad una sua
felicità205.
Pecca chi sbaglia nella nozione della perfezione e
della felicità, e scambia la vera, cioè l'universale, con
una parziale e falsa. Nei Nuovi saggi, Leibniz distingue
i «Piaceri» parziali, dalla «felicità» che rappresenta un
piacere durevole e che può crescere all'infinito, «car
nous ne savons pas jusqu'oú nos connoissances et nos
organes peuvent estre portés dans toute cette eternité qui
nous attend... Le bonheur est donc pour ainsi dire un
chemin par des plaisirs; et le plaisir n'est qu'un pas et un
avancement vers le bonheur... On peut manquer le vray
chemin, en voulant suivre le plus court, comme la pierre
allant droit, peut rencontrer trop tôt des obstacles, qui
l'empechent d'avancer assés, vers le centre de la terre.
Ce qui fait connoistre, que c'est la raison et la volonté
qui nous menent vers le bonheur, mais que le sentiment
et l'appetit ne nous portent que vers le plaisir»206. Su
questa base è fondata la negazione dei piaceri sensibili e
la lotta contro le passioni.
Con questi concetti la dottrina dell'accompagnamento
utilitario di ogni azione morale viene condotta a
conseguenze decisive. Si fa consistere l'essenza
dell'azione stessa nella tendenza al piacere, ma non ci si
avvicina per questo all'epicureismo. La differenziazione
205 «Voluntatis objectum esse bonum apparens, et nihil a
nobis appeti nisi sub ratione boni apparentis, dogma est
vetustissimum communissimumque» (C. 25).
206 Nouv. Ess., l. II, c. 21, § 42.
218
morale è spostata al campo della conoscenza: è fatta
dipendere da ciò che ciascun uomo considera come
piacere. L'azione, la volizione in quanto tale, ha perso
ogni autonomia: è divenuta in certo senso meccanica.
La volontà tende necessariamente, automaticamente, là
dove conduce la rappresentazione del piacere e
dell'armonia207. Non può rivolgersi ad altro, per la sua
medesima essenza: non sarebbe altrimenti vera e propria
volontà, cioè, per definizione, tendenza alla perfezione.
Volontà e piacere non sono dunque scindibili perché
sono la medesima cosa: e non è possibile attribuire alla
semplice volontà una negazione, e neppure un
superamento di sé medesima in quanto tendente al
piacere.
Ma questo superamento che la volontà non può
compiere, lo può compiere l'intelletto. È l'intelletto che
percepisce la perfezione in un senso piú o meno vasto,
che può limitarsi ad intenderla come piacere
momentaneo del proprio io sensibile o allargarla a tutto
l'universo. L'intelletto giunge ad una visione
complessiva ed obiettiva della realtà, in cui la singola
persona non è che un particolare nel complesso, un
oggetto fra gli oggetti. Agire in base a questa visione
dell'intelletto è superare la propria persona, essere puri,
disinteressati. Ma questo agire sarà sempre legato al
207 «Der Will ist nichts anders als ein verständiger trieb»
(Initia et Sp. Sc. N. Gen., G. VII, 112). Cfr. C. 331, § 34, ecc.
219
soggetto che agisce, in quanto soddisfa la sua tendenza,
realizza la sua perfezione, raggiunge la sua felicità.
In questa sintesi di universale e individuale,
l'intelletto rappresenta l'universale, la volontà
l'individuale. E proprio queste formulazioni,
appartenenti piú alla mentalità complessiva di Leibniz,
che all'organismo tecnico del suo sistema, mostrano
come quella sintesi costituisca, oltre che il risultato
ultimo della sua costruzione filosofica, anche una
esigenza prima e basilare e sempre ritornante del suo
pensiero. Moralità è attuazione e collaborazione
all'ordine assoluto e oggettivo dell'universo. In essa
l'individuo scompare, si annulla; la sua particolarità, il
suo bene, il suo male, perdono rilievo nell'insieme dei
supremi equilibri. Ma il piacere che essa procura è
qualche cosa di personale, di legato all'individuo, di
inscindibile da esso. Indica che questa universale
armonia nel mondo umano è sempre voluta e realizzata
da uno, cosí come nella morale la realtà è percepita da
un singolo punto di vista.
La valutazione morale è qui posta su una base
completamente diversa da quella di Fénelon e dei
mistici. Lí si tratta di una volontà autonoma,
indipendente, libera, di fronte a una realtà divina
oggettiva e conosciuta. E il criterio della moralità
dipende dall'azione liberamente scelta, dal modo di
comportarsi della volontà rispetto a questa realtà; azione
che può giungere fino all'annientamento della volontà
medesima. In Leibniz la volontà, avendo perso ogni
220
rilievo, non rientra piú affatto nella valutazione morale.
Essa condurrà sempre, per la sua stessa natura, a ciò che
l'intelletto si rappresenta come perfezione, cioè come
piacere. Non la mia volontà, dunque, mi condurrà alla
salvazione o alla dannazione, ma la costituzione, la
conformazione del mio intelletto; non la mia azione, ma
la stessa natura della mia personalità, dalla quale
discende necessariamente il mio modo di
comportarmi208. La bontà, la giustizia non è un ideale al
quale l'uomo buono deve adeguarsi come ad un
modello, ma è la sua natura stessa, dalla quale egli non
può staccarsi senza cessare di essere quello che è209. E,
208 «Je pense qu'on est plus louable quand on doit l'action à
ses bonnes qualités, et plus coupable à mesure qu'on y a été
disposé par ses qualités mauvaises. Vouloir estimer les actions
sans peser les qualités dont elles naissent, c'est parler en l'air, et
mettre un je ne say quoy imaginaire à la place des causes. Aussi,
si ce hasard ou ce je ne say quoy etoit la cause de nos actions, à
l'exclusion de nos qualités naturelles ou acquises, de nos
inclinations, de nos habitudes, il n'y auroit point moyen de se
promettre quelque chose de la resolution d'autruy, puisqu'il n'y
auroit pas moyen de fixer un indefini, et de juger à quelle rade
sera jetté le vaisseau de la volonté par la tempête incertaine d'une
extravagante indifference» (Remarques sur le livre de King, § 19,
G. VI, 221). Cfr. Théod., §§ 371, 410.
209 «Ex sola definitione viri boni omnes ejus [Juris
prudentiae] propositiones demonstrari possunt» (Mollat, 1). Cfr.
p. 8: «Manifestum est, quod viro bono possibile, impossibile,
necessarium est, si nomen suum tueri velit, id justum sive licitum,
injustum ac denique debitum esse»; e in Théod., § 191, il
medesimo concetto, riferito alla divinità: «Ce pretendu fatum, qui
221
posto che le azioni conducono sempre, necessariamente,
al soddisfacimento di un desiderio, si viene stimati piú o
meno secondo che i propri desideri tendono al bene
universale o al proprio utile particolare210.
222
Libero arbitrio e grazia nel pensiero
di Leibniz
223
spinoziana, fondata sull'attribuzione della realtà alla sola
ragione matematico-deduttiva. La libertà spinoziana
consiste nell'adeguazione alla legge necessaria della
ragione, la cui essenza stessa è il bene e la cui negazione
è la schiavitú. Leibniz conosce un mondo contingente,
di cui la ragione costituisce la cornice, ma non la legge
intima e la causa. Conoscenza è anche e principalmente
conoscenza di fatto, apprensione di dati, contatto con
realtà empiriche. La necessità attribuita all'atto del
volere non è piú la necessità dell'adeguazione all'ordine
immancabile delle cose; ma è determinata
psicologicamente nel particolare. Se in Spinoza la
necessità-libertà è un dato costitutivo della realtà
metafisica, per Leibniz essa è anzitutto un elemento
della conformazione spirituale dell'uomo: e il suo
aspetto metafisico deriverà direttamente da questo suo
iniziale aspetto psicologico.
Necessità, dunque, non piú dovuta al rigore logico
onde è costituito il concetto del bene, identificantesi con
la razionalità del reale ed escludente da sé il male in
quanto sua negazione o limitazione, ma alla non
autonomia del fatto volitivo preso a sé ed alla sua
identificazione con la conoscenza. Leibniz si oppone
sempre a quella che egli chiama la necessità cieca e
bruta degli stoici, di Spinoza e di Hobbes212 e introduce,
appunto per distinguersi da essa, quella distinzione fra
212 Théod., §§ 72, 172 sgg., 372; Remarques sur le livre de
King, § 13; Causa Dei, § 22; frammento sulle Deux sectes des
naturalistes, G. VII, 333 sgg., ecc.
224
certezza metafisica e morale – o ragione necessitante ed
inclinante – di cui vedremo meglio in seguito il
significato, e che è il diretto correlato della distinzione
fra verità di ragione e di fatto, fra legge della non
contraddizione e legge del «migliore», fra matematismo
e finalismo. La sua negazione del libero arbitrio
d'indifferenza si riferisce sempre alla sfera del fatto, alla
scelta del contingente nell'ambito dei possibili. Questa
scelta non avviene mai per un atto arbitrario
indipendente da motivi. La volontà che sceglie è sempre
fondata su una ragione213; e questa ragione non può
essere data che da una conoscenza, magari oscura,
magari insensibile.
E se è cosí, non è piú possibile parlare di un libero
arbitrio d'indifferenza, neppure nel campo del
contingente214. La volontà non è libera in quanto non è
autonoma. La sua determinazione, analoga alla
225
determinazione causale del mondo fisico215, si
differenzia da questa in quanto le cause che in essa
agiscono sono i motivi dettati dalla conoscenza216. Essa
è dunque sempre legata a questi motivi.
Leibniz nega recisamente, contro Cartesio, che la
causa dei nostri errori sia l'intrusione della volontà (cioè
215 «Comme les philosophes modernes ont reformé les
sentimens de l'Ecole en montrant... qu'un corps ne sauroit être mis
en mouvement que par le mouvement d'un autre qui le pousse: de
même il faut juger que nos Ames... ne sauroient être mues que
par quelque raison du bien ou du mal; lors même que la
connaissance distincte n'en sauroit être demelée, à cause d'un
concours d'une infinité de petites perceptions qui nous rendent
quelques fois joyeux, chagrins, et differemment disposés, et nous
font plus gouter une chose que l'autre sans qu'on puisse dire
pourquoy». Cfr. Remarques sur le livre de King, § 3, G. VI, 401-
2; Polemica col Clarke, G. VII, 389: «Les Raisons font dans
l'esprit du sage, et les Motifs dans quelque esprit que ce soit, ce
qui répond à l'effect que les poids font dans une balance».
216 «A proprement parler, les motifs n'agissent point sur
l'esprit comme les poids sur la balance; mais c'est plustost l'esprit
qui agit en vertu des motifs, qui sont ses dispositions à agir. Ainsi
vouloir... que l'esprit prefere quelques fois les motifs foibles aux
plus forts, et même l'indifferent aux motifs, c'est separer l'esprit
des motifs comme s'ils etoient hors de luy, comme le poids est
distingué de la balance; et comme si dans l'esprit il y avoit
d'autres dispositions pour agir que les motifs, en vertu desquels
l'esprit rejetteroit ou accepteroit les motifs. Au lieu que dans la
verité les motifs comprennent toutes les dispositions que l'esprit
peut avoir pour agir volontairement, car ils ne comprennent pas
seulement les raisons, mais encore les inclinations qui viennent
des passions ou d'autres impressions precedentes» (cfr. Polemica
226
di una facoltà autonoma capace di assentire e negare
senza ragione) nel campo della conoscenza217. Ciò che
erra non è la volontà, ma la conoscenza, per limitazione
e imperfezione sua, per difetto di attenzione e di
memoria, per le sue percezioni confuse o passioni218: e il
rimedio è la lentezza e la circospezione nel
procedimento conoscitivo, il tener conto di tutti i dati, il
ripetere gli esperimenti, dividere i ragionamenti, ecc.219.
Il criterio della libertà non si può dunque applicare alla
227
volontà in quanto tale, ma solo alla conoscenza da cui
essa deriva, intendendo come tanto piú libera la
conoscenza, quanto piú è perfetta.
Leibniz chiama a volte tout court «volontà» la
tendenza al bene o alla perfezione in generale 220; e a
volte l'azione determinata da un motivo cosciente,
contrapponendola all'appetizione, o tendenza, o istinto,
che è propria anche delle percezioni confuse221. Col
definire quindi la volontà come la spontaneità della
ragione, in cui cioè l'impulso connaturato ad ogni
percezione (spontaneità) si applica ad una conoscenza
razionale, egli può identificare la volontà con la libertà,
intendendo però per volontà non una semplice e
autonoma facoltà di agire indipendentemente da motivi,
ma l'insieme dei motivi razionali e dell'azione che ne
deriva. «Quaerere, utrum in nostra voluntate sit libertas,
idem est ac quaerere utrum in nostra voluntate sit
voluntas. Liberum et voluntarium idem significant. Est
220 «La volonté consiste dans l'inclination à faire quelque
chose à proportion du bien qu'elle renferme» (Théod., § 22, cfr.
33). Cfr. Causa Dei, § 18, G. VI, 441: «Omnis quidem Voluntas
bonum habet pro objecto, saltem apparens, at divina Voluntas non
nisi bonum simul et verum».
221 «Il y a encor des efforts qui resultent des perceptions
insensibles, dont on ne s'apperçoit pas, que j'aime mieux appeller
appetitions que volitions (quoyqu'il y ait aussi des appetitions
apperceptibles, car on n'appelle actions volontaires que celles
dont on peut s'appercevoir et sur lesquelles nostre reflexion peut
tomber lorsqu'elles suivent de la consideration du bien et du mal»
(Nouv. Ess., l. II, c. 21, § 5).
228
enim liberum idem quod spontaneum cum ratione, et
velle est ob rationem intellectu perceptam ad agendum
ferri: quanto autem purior ratio est minusque impetus
bruti et confusae perceptionis admistum habet, eo
liberior actio est»222. «Summa hominis perfectio non
magis est quod libere, quam quod cum ratione agit; aut
potius idem est utrumque»223.
Vi sono quattro modi d'intendere la libertà: 1° come
contingenza, opposta alla necessità; e in questo senso è
libero tutto ciò che è contingente (il cui contrario, cioè,
non implica contraddizione). 2° come spontaneità,
opposta alla coazione. È libero o spontaneo l'atto di
volontà che deriva direttamente dalla rappresentazione,
senza l'influenza di cause esteriori che lo modifichino224.
229
3° come perfezione, opposta alla schiavitú, alla
limitazione, alla parzialità; e in questo senso si è piú
liberi quanto piú si è perfetti, cioè determinati al bene
(tesi antimolinista agostiniana)225. 4° libertà
d'indifferenza, cioè facoltà di determinarsi senza alcun
motivo: e questa forma di libertà non esiste226. «On peut
mêmes dire, que les substances sont d'autant plus libres
qu'elles sont eloignées de l'indifference et determinées
225 «Plus on est parfait, plus on est determiné au bien, et aussi
plus libre en mème temps. Car on a une faculté et connoissance
d'autant plus étendues, et une volonté d'autant plus resserrée dans
les bornes de la parfaite raison» (al Bayle, G. III, 59).
226 Le mot de libre est equivoque. Si on l'oppose au
necessaire, il n'est autre chose que ce qui est contingent, pourveu
qu'il se fasse en suite de la deliberation. Si on l'oppose à la
contrainte, libre est ce qui est une suite de la nature de la chose,
autant qu'elle enferme une puissance, et en ce sens on est d'autant
plus libre qu'on est plus determiné de soy même, à bien faire. Je
tiens que Dieu et nous sommes libres suo quisque modo, de
toutes ces deux façons; entierement suivant la premiere, et à
mesure de nostre perfection suivant la seconde; mais nous ne
saurions estre libres ny aucune autre substance, de la maniere que
quelques Philosophes s'imaginent, comme s'il estoit possible de
se determiner lorsque tout est egal» (Cfr. al Burnett, 1695, G. III,
168). Cfr. al Coste, 1707, G. III, 400 sgg., Théod., § 288, G. VI,
441, e Nouv. Ess., l. II, c. 21, § 8, in cui sono inoltre numerate
altre forme di libertà: la libertà di diritto (giuridica) e la libertà di
fare (cioè l'essere o non essere impedito esteriormente
nell'esecuzione delle proprie azioni), ecc. Ivi egli elimina però
queste e altre nozioni meccaniche della libertà, specificando che
il problema non riguarda «des actions exterieures, mais l'acte
même de vouloir» (§ 11, cfr. § 21 e passim).
230
par elles mêmes. Et qu'elles approchent d'autant plus de
la perfection divine qu'elles ont moins besoin d'estre
determinées par dehors. Car Dieu estant la substance la
plus libre et la plus parfaite, est aussi le plus determiné
par luy même à faire le plus parfait. Mais plus on est
ignorant et impuissant, plus on est indifferent. De sorte
que le Rien qui est le plus imparfait et le plus eloigné de
Dieu, est aussi le plus indifferent et le moins determiné.
Or autant que nous avons des lumières et agissons
suivant la raison, autant serons nous determinés par les
perfections de nostre propre nature, et par consequent
nous serons d'autant plus libres que nous serons moins
embarrassées du choix... Contentons nous donc d'une
liberté souhaittable et approchante de celle de Dieu qui
nous rend les plus disposés à bien choisir et à bien faire,
et ne pretendons pas la liberté dommageable, pour ne
dire chimerique d'estre dans l'incertitude et dans une
embarras perpetuel, comme cet Ane de Buridan fameux
dans les écoles»227.
La libertà, dunque, si trova, qui come in Spinoza,
nella natura dell'uomo in quanto ragionevole, cioè
rispondente alla ragione assoluta che costituisce il suo
essere piú profondo e piú vero: non si trova nella
volontà, come una facoltà di scelta. La volontà non può
volere se non ciò che viene rappresentato dall'intelletto:
«Et si nous ne remarquons pas tousjours la raison qui
227 Initia et Spec. Sc. N. G., G. VII, 110-11. Cfr. Nouv. Ess., l.
II, c. 21, § 15, Théod., §§ 191, 327, Remarques sur le livre de
King, § 26, Rommel, I, 286-87.
231
nous determine ou plustost par la quelle nous nous
determinons, c'est que nous sommes aussi peu capables
de nous appercevoir de tout le jeu de nostre esprit et de
ses pensées, le plus souvent imperceptibles et confuses,
que nous sommes de demêler toutes les machines que la
nature fait jouer dans le corps»228.
Leibniz sembra a volte riintrodurre il distacco tra
conoscenza e volontà, e un arbitrio d'indifferenza,
quando esamina il fatto psicologico della sospensione
del volere, cioè di un'interruzione per la quale una
conoscenza non si prolunga immediatamente nell'azione
che ne dovrebbe derivare. Ma questo fenomeno si
riduce sempre o alla sordità e mollezza della percezione,
cioè a una sua imperfezione onde troppo debole è la
spinta all'agire che ne deriva; oppure all'intromissione di
nuovi pensieri, di nuove percezioni in un processo di
deliberazione già iniziato229. Onde, a rigore, il lungo e
232
interrotto cammino dallo spirito al cuore non è che il
difficile cammino della ragione (o percezione distinta)
la quale deve farsi strada framezzo le percezioni confuse
(o passioni), che le contrastano il terreno e la
sopraffanno, a volte, con la loro maggior violenza e
«chiarezza», proprio sul punto di raggiungere la meta.
Ciò che si oppone al compimento di una deliberazione
non è la volontà che si rifiuta, ma un nuovo pensiero che
si inframmette: «Ils disent qu'après avoir tout connu et
tout consideré, il est encor dans leur pouvoir de vouloir,
non pas seulement ce qui plaisit le plus, mais encor tout
le contraire, seulement pour monstrer leur liberté. Mais
il faut considerer qu'encor ce caprice ou entêtement ou
du moins cette raison qui les empeche de suivre les
autres raisons, entre dans la balance, et leur fait plaire ce
qui ne leur plairoit pas sans cela, de sorte que le choix
est tousjours determiné par la perception»230.
La sospensione della scelta non ha dunque nulla a che
fare con il libero arbitrio. Essa deriva dalla imperfezione
dello spirito umano, dal disordine delle sue percezioni.
In uno spirito perfetto essa non si verifica. «Car de
pouvoir se tromper et s'egarer, est un desavantage; et
d'avoir un empire sur les passions, est un avantage à la
verité, mais qui presuppose une imperfection, savoir la
passion même, dont Dieu est incapable»231. Dio, o il
saggio perfetto, non ha percezioni confuse, non ha
230 Nouv. Ess., l. II, c. 21, § 25. Cfr. §§ 27, 47, Théod., 326,
Remarques sur le livre de King, § 25.
231 Théod, § 337. Cfr. §§ 289, 319.
233
passioni, non ha oscillazioni che lo rendano
indeterminato: «Il ne sauroit ignorer, il ne sauroit
douter, il ne sauroit suspendre son jugement; sa volonté
est tousjours arrestée, et elle ne le sauroit être que par le
meilleur... le sage agit tousjours par principes; il agit
tousjours par regles, et jamais par exceptions»232. In lui
non si verifica l'intromissione di considerazioni parziali,
individuali. «Et l'on preferera tousjours le naturel de
Caton, dont Vellejus disoit qu'il luy etoit impossible de
faire une action malhonnête, à celuy d'un homme qui
sera capable de balancer»233.
Questa necessità non è dunque la necessità del volere,
ma la necessità dell'intelletto dal quale il volere
discende per sua natura stessa. Influire sulla volontà
presa a sé, «voler volere», cioè determinare le proprie
volizioni, non è possibile, se non intendendo che una
nostra deliberazione attuale determini le nostre
percezioni future, col dirigere la nostra attenzione su
certe rappresentazioni piuttosto che su certe altre 234. E in
232 Théod., § 337.
233 Théod., § 318. Cfr. 228, Polemica col Clarke, G. VII, 390,
G. VI, 385, ecc.
234 «Nous ne voulons point vouloir, mais nous voulons faire...
cependant... par des actions volontaires nous contribuons souvent
indirectement à d'autres actions volontaires et... on peut pourtant
faire ensorte par avance, qu'on juge ou veuille avec le temps ce
qu'on souhaiteroit de pouvoir vouloir ou juger aujourdhuy. On
s'attache aux personnes, aux lectures...» (Nouv. Ess., l. II, c. 21, §
23). Cfr. § 25, l. VI, c. 720, § 16, Théod., §§ 51, 64, 301, 327,
404, Remarques sur le livre de King, § 24.
234
tal modo si può modificare il proprio carattere, crearsi
delle abitudini235. Ma si tratta evidentemente sempre qui
di un'influenza sulle percezioni, e non sulle volizioni236 e
inoltre mi sembra chiaro che queste percezioni
influenzate non si possano considerare vere e proprie
forme autonome di conoscenza ma solo prolungamenti
dell'atto spirituale che le ha determinate.
Le nostre volizioni non dipendono dalla volontà, ma
dall'intelletto; e Leibniz nega, contro Cartesio, e col
Bayle, che l'esperienza interna ci garantisca l'autonomia
della volontà, e la libertà237. L'intelletto stesso dipende
dalle percezioni che ha, e non può darsi quelle che
vuole238. Esso stesso è legato all'ordine causale
dell'universo, non meno che il corpo; e non agisce se
non in base a ragioni. Sí che parlare di un'azione senza
motivo, sarebbe il medesimo assurdo che introdurre,
235 Nouv. Ess., l. II, c. 21, §§ 47, 48, 49, Théod, § 327.
236 «Les hommes choisissent les obiects par la volonté, mais
ils ne choisissent point leur volontés presentes: elles viennent des
raisons et des dispositions. Il est vray cependant, qu'on se peut
chercher de nouvelles raisons et se donner avec le temps de
nouvelles dispositions» (Remarques sur l'ouvrage de Hobbes, G.
VI, 391-92).
237 Théod., §§ 50, 293, 295, 299, Disc. de la conf. § 69,
Remarques sur le livre de King, § 23.
238 «Nous ne formons pas nos idées, parce que nous le
voulons; elles se forment en nous, elles se forment par nous, non
pas en consequence de nostre volonté, mais suivant nostre nature
et celle des choses» (Théod., § 403). «On ne peut pas même juger
ce qu'on veut» (Nouv. Ess., l. III, c. 21, § 23).
235
come faceva Epicuro, un clinamen che rompa la
determinazione degli atomi239. Il processo della
deliberazione, da cui deriva l'azione è paragonabile al
gioco di una bilancia «ou les raisons et les inclinations
tiennent lieu de poids»240. E il caso in cui l'intelletto si
trova in una indifferenza di equilibrio, senza una ragione
che lo porti a scegliere un partito piuttosto che l'altro, è
escluso esplicitamente. Posto che ciascuna percezione è
la risultante di un'infinità di cause che si estendono a
tutto l'universo, affinché la conoscenza oscilli fra due
partiti che si bilancino perfettamente, bisognerebbe che
fosse possibile dividere l'universo in due parti
assolutamente identiche: il che contraddirebbe alla sua
infinità241. È questo il fondamento del principio degli
indiscernibili.
236
L'applicazione di queste teorie al problema teologico
della grazia è una conferma del carattere
intellettualistico della morale leibniziana e della sua
lontananza da ogni atteggiamento irrazionalistico.
Anche qui egli non entra nell'interno del problema. Col
voler conciliare cattolici e protestanti, gesuiti e
giansenisti, e col ripetere che non si tratta se non di una
questione di parole, Leibniz rimane estraneo al profondo
significato della controversia.
Ci limitiamo sempre all'aspetto psicologico della
questione. La distinzione dei vari tipi di grazia
(sufficiente, efficace, interna, esterna) rappresenta il
tentativo di conciliare la ragione con la rivelazione e coi
vari dogmi. Ma si riferisce sempre al mondo oggettivo,
non al soggettivo; indica cioè in quale misura Dio abbia
provveduto, per realizzare l'armonia universale, alla
salvazione degli uomini; e come egli possa permettere il
male, conciliare la prescienza con la libertà, ecc. Rientra
cioè nel campo della organizzazione nel migliore dei
mondi possibili, della teodicea242. Ma che cosa significhi
242 «Nostrae etiam bonae qualitates (sive fidem cum nostris,
sive opera cum Pontificiis intelligas) non sunt meritoriae, sed
conditiones quibus alligare salutem Deo gratiose placuit.
Verumenimvero videtur aliqua superesse difficultas circa arcanam
dispensationem mediorum salutis, qua fit ut alii per varias vitae
occasiones disponantur ac suaviter seu salva libertate perducantur
ad conditionem obtinendam, alii secus. Hic ergo redeundum est
haud dubie ad βάϑος Pauli, altitudinem scilicet divitiarum et
sapientiae divinae, non quasi Deus alios ad fidem
poenitentiamque finalem perducere statuat, alios secus, decreto
237
la grazia per l'uomo, come agisca sul suo animo, come
influisca sulla volontà; quella trasformazione, quel
capovolgimento, quella inversione di valori onde Paolo
ed Agostino ne hanno fatto il centro della vita religiosa
ad esclusione di ogni altro elemento piú razionale e piú
umano: di tutto ciò non vi è traccia in Leibniz. Egli è
completamente sordo a questo ordine di pensieri. Per lui
la grazia è la disposizione dell'intelletto dell'uomo a
conoscere e a godere della bontà di Dio (cioè
dell'armonia delle cose) e ad agire in conseguenza,
senza lasciarsi turbare il giudizio da passioni o da
visioni confuse e parziali243. Non è nulla di
soprannaturale e soprarazionale; è la ragione stessa nella
sua purezza e nella sua armonicità, in quanto viene
concessa o meno da Dio secondo l'ordine
imperscrutabile dei supremi equilibri. Non è una forza
che trascini di là da ogni pensiero o convinzione
238
intellettuale: è invece appunto il pensiero e la
convinzione intellettuale, e lo sforzo di conoscere la
realtà244.
Grazia sufficiente (conseguenza della «volontà
antecedente» di Dio) è la possibilità che è in tutti di
salvarsi. Grazia efficace («Volontà conseguente» di Dio)
è ciò che fa sí che effettivamente alcuni si salvano, altri
no245. E l'uomo toccato dalla grazia, «ad agnitionem
244 «Il ne s'attribuait rien qui fût au-dessus du vulgaire, que la
seule application: Car, dit-il, les hommes ne different que par là:
c'est en quoy consiste principalement la grace qui les distingue,
puisqu'on peut dire que la nature les a tous également favorisés.
Car Dieu donne l'attention à ceux qu'il veut retirer de la
corruption publique: il ne leur faut ny des révélations ny des
miracles: il n'est pas nécessaire même qu'ils ayent des
connaissances plus relevées que le commun, ny de la nature, ny
de Dieu; car les semences des plus importantes vérités sont dans
l'ame du moindre paysan: qu'il faut seulement les ramasser et les
cultiver avec soin». Cfr. Baruzi, Trois dialogues, 17.
245 «Dieu, et tout autre Sage bienfaisant, est incliné à tout
bien qui est faisable, et... cette inclination est proportionnée à
l'excellence de ce bien; et cela... par une Volonté Antecedente,
comme on l'appelle, mais qui n'a pas tousjours son entier effect:
parceque ce Sage doit avoir encor beaucoup d'autres inclinations.
Ainsi c'est le resultat de toutes les inclinations ensemble, qui fait
sa volonté pleine et decretoire... On peut donc fort bien dire avec
les anciens, que Dieu veut sauver tous les hommes suivant sa
volonté antecedente, et non pas suivant sa volonté consequente,
qui ne manque jamais d'avoir son effect». Cfr. Théod., § 80. Vedi
la traduzione di questi concetti nei termini teologici di grazia
sufficiente e grazia efficace, in Syst. Theol., 42 sgg., Théod., §§
134, 282. Cfr. anche Schrecker, 9, 70 sgg.
239
suae miseriae attentionemque animi et firmum
propositum scrutandae ac sequendae veritatis salutaris
excitatus, et missis aut posthabitis aliis cogitationibus et
affectibus, ac mundi carnisque documentis, totus in
salutis curam incumbens, ex naturali lumine
animadvertit quae sit lex voluntasque Dei»246. Si
comporta cioè come il sapiente, e agisce in base a
motivi che la grazia gli permette di vedere: «La grace ne
fait que donner des impressions qui contribuent à faire
vouloir par des motifs convenables, tel que seroit une
attention, un dic cur hic, un plaisir prevenant. Et l'on
voit clairement que cela ne donne aucune atteinte à la
liberté, non plus que pourroit faire un ami, qui conseille
et qui fournit des motifs»247. Anche intendendo la grazia
come qualche cosa di superiore al semplice intelletto
naturale, come una conoscenza straordinaria248, essa ha
sempre un carattere conoscitivo, è un «lume» che viene
offerto alla mente dell'uomo per guidare le sue azioni.
246 Syst. Theol., 50.
247 Théod., 298. Cfr. Baruzi, Trois dialogues, 19. «Pianese:
Dieu donne sa grace à qui il veut. Eremite: Ouy sans doute, et à
ceux qui la veuillent. P: Le vouloir même est une grace de Dieu.
E: mais le vouloir ne consistant que dans une forte résolution de
s'appliquer à ce qui regarde son salut, il est inutile de chercher la
source de la volonté. Car que peut-on souhaiter d'avantage de
Dieu et de la nature? Ne suffit-il pas de n'avoir besoin que de
volonté ou d'attention pour etre ou heureux ou inexcusable?»
248 «Gratia haec sufficiens est vel ordinaria, per verbum et
sacramenta, vel extraordinaria, Deo relinquenda, quali erga
Paulum est usus» (Causa Dei, § 110, G. VI, 455).
240
La grazia consiste in un'apertura di intelletto, o nel
fatto di essere posti in determinate condizioni che
conducano ad agir bene. Questo doppio carattere appare
attraverso la distinzione di grazia interna ed esterna. La
prima consiste in «mentis illuminatione et voluntatis
directione; utraque perficitur attentione animi ad sua
officia, quae maximum est divinae gratiae donum». La
seconda è costituita dalle «circumstantiae, quae...
consistunt... in sorte nascendi, educatione,
conversatione, casibus vitae, quibus fit ut alii aliis agant,
feliciores reddantur, non tantum in rebus humanis, sed
etiam in spiritualibus atque divinis»249.
Sviluppo della mente, direzione della volontà,
circostanze favorevoli: ecco gli strumenti, ecco la
fenomenologia della grazia in Leibniz. Grazia che non
si impone dunque affatto come una necessità
soprannaturale, ma come un ordine naturale, in cui,
come in tutte le cose naturali, la determinazione non
esclude la contingenza e la libertà250.
249 G. III, 37. Cfr. anche Théod., § 283: «Il ne paroit point
necessaire... que tous ceux qui sont sauvés, le soyent tousjours
par une grace efficace par elle même, independamment des
circonstances». Cfr. §§ 99, 105, 286, G. VI, 385, e lettera a
Schmidt, 1698: «Opus est tum gratia interna, tum gratia, ut sic
dicam, externa, id est, occasionibus et circumstantiis, quibus
mentes hominum ad bona vel mala, salvo licet libero arbitrio,
plurimum inclinantur». F. d. C. II, 203.
250 «Itaque nec peccatum originale, nec aliae nostrae pravae
dispositiones faciunt, ut necessarius sit peccandi actus, etsi tanta
sit nostra ad peccandum inclinato... Vicissim nec gratia Dei
241
La grazia che salva, in sostanza, non è altro che
l'insieme delle disposizioni interne ed esterne che
condurranno l'uomo alla sua salvazione. È il fatto della
salvazione stessa, visto nella totalità dei suoi rapporti,
attraverso le sue premesse, i suoi mezzi, i suoi
strumenti251. Il concetto della salvazione non derivata
dal libero arbitrio di ciascun uomo ma dall'ordine
imperscrutabile voluto da Dio potrebbe far pensare a un
agostinismo leibniziano, e a un suo contatto col
giansenismo. Ma le due concezioni sono profondamente
diverse252. La dipendenza e non autonomia della volontà
ha in Leibniz carattere intellettualistico, non mistico, e
si avvicina piuttosto alla dottrina di Tommaso d'Aquino.
Egli si oppone nettamente all'arbitrio di indifferenza dei
molinisti253, ma non per questo è vicino a Giansenio o ad
242
Arnauld. La grazia per lui non influisce sulla volontà in
modo irresistibile, indipendentemente dalla conoscenza,
anzi influisce sulla volontà proprio in quanto questa
dipende dalla conoscenza. E non in modo irresistibile;
bensí con quella forma d'indeterminazione che è propria
della casualità nel campo del contingente: che inclina,
cioè, ma non necessita; che è certa, ma non esclude la
possibilità di essere altrimenti254.
Leibniz parla spesso con simpatia dei giansenisti; ha
ammirazione e rispetto per la austerità di vita e la
profondità di coscienza religiosa di Arnauld e dei suoi
seguaci, per i quali parteggia apertamente contro i
gesuiti – come sempre parteggia, quando le circostanze
gli permettono di farlo senza pericolo, per le vittime
dell'intolleranza religiosa. – Nel giansenismo egli vede a
243
volte uno dei movimenti attraverso il quale si potrebbe
compiere quella riforma interna della chiesa che
favorirebbe l'unione con i protestanti255.
Ma nella questione della grazia egli si differenzia
nettamente da essi. Fra gesuiti e giansenisti, fra cattolici
e protestanti, egli vuol assumere una posizione
conciliatrice, intermedia, che egli chiama esplicitamente
tomista256, tendendo a ridurre l'importanza della
discussione. E mentre ai primi rimprovera l'autonomia
della volontà e il libero arbitrio d'indifferenza, dei
secondi non accetta l'arbitrarietà dell'azione di Dio, il
suo salvare o dannare senza motivi. La teoria
dell'inclinazione senza necessità gli sembra poter
255 «L'Eglise a deux grandes obligations à Monsieur Arnauld
et à ses amis, l'une d'avoir establi excellement ce grand principe
de la necessité de l'amour de Dieu sur toutes choses, l'autre
d'avoir travaillé avec succés contre les corrupteurs de la Morale
Chretienne; j'espere que d'autres suivront ses traces et qu'on
arrivera un jour à la Reforme de tant d'abus assez publiés, que le
Concile de Trente même semble desapprouver» (al Landgravio di
Assia, Rommel, I, 365). Cfr. anche ibid., I, 373, II passim; F. d.
C., I, 260 sgg.; Stein, 318. Contro la morale dei gesuiti, e la
pratica della riserva mentale, vedi le prudenti osservazioni in
Rommel, I, 280 sgg.; 306-7, II, 110, 141-42, 177 sgg., 224. Cfr.
anche G. III, 211, e, contro la casuistica dei gesuiti, Trois
dialogues, 26. Dei gesuiti però egli apprezza la tolleranza
dogmatica contro il rigorismo dei giansenisti.
256 «Pour moy je tiens qu'on ne sçauroit donner tort en tout,
ny à St. Augustin, ny à Molina, et qu'il y a quelques fois un
milieu à prendre. Ce sentiment des Thomistes me paroist assez
raissonnable» (Rommel, II, 411). Cfr. G. III, 58.
244
risolvere la controversia257; e gli permette di concepire
una possibilità di resistenza da parte dell'uomo ai lumi e
alle circostanze offertegli dalla grazia; possibilità che
conserva la sua responsabilità nella salvazione e nella
dannazione. La distinzione fra conversio e perseveratio
serve a questo scopo. La perseveratio, che ammette una
257 «J'avoue que les disputes sur la Grace ne sont pas de cette
importance et que peu de gens y entrent, et peut estre qu'il y a
quelque chose à dire de part et d'autre; les uns [i gesuiti] rendent
l'homme trop independant, et les autres [i giansenisti] donnent de
Dieu une idée, qui n'est pas assez conforme à sa bonté; mais
comme ils desavouent ces consequences, on peut pardonner aux
uns et aux autres les erreurs de pure speculation» (al Landgravio
di Assia, Rommel, II, 305). Cfr. II, 317. Importantissima egli
ritiene invece la discussione fra giansenisti e gesuiti sull'amore di
Dio, che riguarda «l'essenza della morale e della pietà»; mentre
l'altra sarebbe questione di pura speculazione (ibid., II, 367). Cfr.
Schrecker, 95, 40, 66, Théod., pref. (G. VI, 46). Cfr. anche la
lettera al Pellisson del 27 VII 1692 (F. d. C., I, 306-7): «J'avoue
qu'il y a certaines choses dans la théologie de M. Arnauld que je
ne sçaurois gouster. Il est vray que je suis du sentiment de saint
Augustin, de saint Thomas et de leurs sectateurs à l'egard de la
predetermination. Cependant... j'ay été longtemps en doute s'il y
avait moyen de sauver la contingence et d'éviter la necessité...
mais enfin... j'ay vu comment ces raisons inclinent sans
necessité... Mais, à l'egard de la grace et de quelques autres
matières, M. Arnauld et ses amis ont quelques sentimens un peu
durs dont je ne voy pas assez de preuves, et les opinions des
jésuites ne sont pas toujours si blasmables que ces Messieurs le
disent». Cfr. anche le chiare esposizioni della questione in
Théod., §§ 39 sgg., 76 sgg., 280-81, 366; F. d. C. II, XLIV, 203,
etc.
245
certa cooperazione dell'uomo alla grazia, può mancare;
e la sua presenza od assenza decide dell'elezione o
meno258. Cosí Leibniz può parlare di una grazia offerta
da Dio e rifiutata dall'uomo259, e può affermare che in
nessuno vi è la certezza assoluta dell'elezione, in quanto
ciascuno deve dubitare fino all'ultimo della propria
246
perseveranza260. La grazia, da questo punto di vista,
diviene null'altro che uno degli elementi determinanti la
personalità dell'uomo, elemento che può essere anche
limitato o sopraffatto da altri.
L'unione indissolubile di conoscenza e volontà rende
a Leibniz impossibile di concepire una fede
indipendente dalle opere, cosí come gli è impossibile
concepire un amore di Dio che non sia insieme
conoscenza di Dio. Amore, conoscenza, carità sono la
medesima cosa, diversi aspetti di un indistinguibile atto
spirituale. Fra cattolici e protestanti, anche qui, egli non
vede alcun dissidio insanabile. E, come egli non accetta
una «giustificazione» in cui la fede sia puro atto
intellettuale senza conseguenze pratiche, cosí non può
ammettere che per essa basti l'atto esteriore, non
accompagnato da una profonda trasformazione
interna261. Il suo spirito positivo non può ammettere
247
salvazioni miracolose di cui non si vede il segno nella
volontà dell'uomo; che non siano anzi determinate da
questa volontà262. Gli è inconcepibile una fede che salvi
indipendentemente dalle opere, che conduca in cielo il
dissoluto e intemperante, che danni all'inferno il saggio
248
e il pio263. E questo non perché le opere decidano, ma
perché la fede determina una situazione psicologica cui
le opere corrispondenti non possono non seguire. La
discussione intorno alla giustificazione è per lui oziosa.
È assurdo, egli dice, voler stabilire una lotta di
prerogative tra la fede e la carità. «Quemadmodum enim
certum est fidem sine caritate esse mortuam, ita quoque
constat caritatem sine fide (dilectionem sine cognitione)
esse nullam: et proinde fides est caritatis requisitum,
caritas fidei complementum»264. La carità non è che la
conseguenza pratica di ciò che attraverso la fede è stato
conosciuto. La fede è un determinato atto di
conoscenza, la carità è l'azione che ne risulta. La causa
delle controversie deriva dal concepire le due cose come
separate. E quando si dice che la fede giustifica, si
intende la fede con le sue conseguenze, la fede «vive ou
249
formée», fatta volontà; che è poi null'altro che la
carità265.
A volte però Leibniz non può a meno di riconoscere
che questo suo ridurre le forme tipiche dell'irrazionale
religioso (grazia, fede) a puri fenomeni della
conoscenza intellettuale o empirica, costituisce un
fraintendimento dei problemi religiosi stessi. Egli
riconosce che la fede, come viene generalmente intesa, è
qualche cosa di diverso dalla normale conoscenza, e
che, se essa non è pura volontà, alla volontà si avvicina
per il suo carattere immediato, intuitivo,
266
indimostrabile . Egli è costretto ad ammettere, dopo
aver lungamente dissertato sulla necessità di «motivi di
credibilità» che giustifichino l'autorità della Scrittura di
fronte al tribunale della ragione, che tuttavia «la Foy
Divine elle même, quand elle est allumée dans l'ame, est
quelque chose de plus qu'une opinion, et ne depend pas
265 Syst. Theol., 58, Klopp, VIII, 82, 72: «Les protestans
mettent encor la foy dans la volonté, et par consequent ils luy
attribuent des effects que l'auteur [il padre Spee] icy n'attribue
qu'à la dilection».
266 «Equidem fatendum est secundum receptas quoque
notiones fidem sive assensum, de voluntate aliqua ratione
participare... et videmus saepe homines aliquid pro vero habere,
etiam si rationem sententiae suae reddere non possint, imo nullam
unquam habuerint... ita ut revera assensus rationibus destitutus
consistat in eo mentis statu quo fit ut qui eum habent, perinde
affecti, atque ad agendum patiendumque compositi sunt, ac illi
qui rationum sibi sunt conscii, imo aliquando efficacius». Syst.
Theol., 58, 60.
250
des occasions ou des motifs qui l'ont fait naitre; elle va
au delà de l'entendement, et s'empare de la volonté et du
coeur, pour nous faire agir avec chaleur et avec plaisir,
comme la loy de Dieu le commande, sans qu'on ait plus
besoin de penser aux raisons»267. E altrove oppone alla
fede fondata sui motivi di credibilità, la «grace interne
du S. Esprit» che «y supplée immediatement d'une
maniere surnaturelle, et c'est ce qui fait ce que les
Theologiens appellent proprement une foy divine. Il est
vray que Dieu ne la donne jamais que lorsque ce qu'il
fait croire est fondé en raison; autrement il detruiroit les
moyens de connoistre la verité, et ouvriroit la porte à
l'Enthousiasme»; e spiega questa grazia interna e fede
divina come una forma immediata e istintiva di
conoscenza268.
Sono concessioni ch'egli ogni tanto butta là, senza
quasi mai fermarsi a darne una spiegazione269. Egli
riavvicina questi fenomeni a quelli del gusto, dell'arte
251
(cioè delle percezioni confuse)270, e spiega questi fatti
con la maggior chiarezza e forza di assenso con cui
s'impongono certe impressioni incontrollate, rispetto
alla sordità della ragione271. Argomenti che già
conosciamo e che si adattano però meglio a fenomeni
che Leibniz può agevolmente considerare come
prerazionali e inferiori alla ragione, che alla
giustificazione di attività soprarazionali.
Questi concetti sono anche quelli che gli permettono
di ammettere, in via subordinata, la possibilità di
salvazione dei semplici, privi di intelligenza272.
252
Comunque egli ripugna profondamente da ogni
preminenza o primato della fede intuitiva e
irrazionale273; e, anche nei rari casi in cui l'ammette, la
concilia, la sottomette alla fede positiva, controllata sui
fatti e sui documenti274.
Ess., l. II, c. 21, § 68; cfr. l. VI, c. 18, § 1, c. 20, § 1. Non si tratta
qui, come potrebbe apparire, di un distacco fra conoscenza e
volontà. Si tratta sempre di una differenziazione nell'interno
stesso dell'atto conoscitivo-attivo, in cui l'un momento o l'altro
possono essere a volta a volta accentuati. Cfr. Syst. Theol., 62,
dove, dopo aver definito la fede irrazionale come «assensus
practicus», insiste però nel distinguerla dalla pratica propriamente
detta: «omnino a spe et caritate ac fiducia filiali distingui potest,
quibus generalia nobis singulatim applicamus». Nel frammento
De Justitia (Mollat, 35 sgg.) considera come giusto anche chi, pur
senza essere sapiente, sia «promptus obtemperare sapienti»; e
altrove pone la religione come un surrogato della sapienza, che
«aliquid honestati [cioè al secondo grado della giustizia]
superaddit» (Mollat, 89); cfr. Disc. de la conf., § 40.
273 Del «certum quia impossibile» di Tertulliano, e del motto
che in fatto di fede bisogna cavarsi gli occhi per veder chiaro egli
dice: «Ces saillies font tort à la religion, qui doit estre raisonnable
et fondée en raison» (alla regina Sofia Carlotta, G. VI, 524). Cfr.
anche Disc. de la conf., § 50.
274 «Ceux qui se fondent sur cette lumière, ne peuvent
demander d'autre examen à ceux qui se fondent sur une lumière
contraire, que celuy de la propre conscience d'un chacun; sçavoir
s'il dit vray et s'il sent effectivement la lumière dont il se vante.
Mais, comme cette lumière intérieure prétendue est sujette à
caution, et que l'examen de conscience sur ce sujet est assez
difficile, je voudrois que M. Pellisson eust traité exactement ce
253
Concludendo la grazia, questo fatto che Leibniz
considera appartenente alla realtà del mondo e
inquadrantesi nelle sue leggi a noi imperscrutabili, ma
non di meno reali e assolute, non produce sull'animo
dell'uomo nulla che si differenzi, se non per il grado,
dalla normale attività conoscitivo-volitiva. Leibniz
accetta anche qui d'introdurre l'opera soprannaturale di
Dio, a patto di ridurre questa ad un'estensione indefinita
della legge naturale. I suoi sporadici contatti con
l'irrazionale non fanno che rinsaldare l'unità della realtà
spirituale umana, come egli la concepisce: un atto
intellettuale e morale insieme, una partecipazione,
un'adeguazione alla realtà. Atto che ha, nella sua
tendenza alla perfezione e all'armonia, nel piacere che
l'accompagna, nello sforzo di realizzazione che lo
conclude, le sue fondamentali esplicazioni. Atto che
riunisce in sé, e permette di giustificare, attraverso la
254
sua intima complessità e le sue infinite gradazioni, ogni
fenomeno psichico, in modo che nulla gli sfugga, nulla
gli si possa opporre in un dualismo di termini.
L'istinto, la passione, l'utilità (o il piacere), il gusto (o
l'arte), il volere (o l'arbitrio), la grazia, la fede,
rappresentano la scala dal basso all'alto delle attività
che a volta a volta si presentano come opposte alla
ragione. Inferiori ad essa, da eliminarsi come ostacoli al
suo procedere; parallele, e arrogantisi il diritto alla vita
accanto ad esse: o superiori trascendenti i suoi limiti,
rivelanti un mondo che ad essa è negato. E questa
opposizione si presenta a Leibniz, spesso come una
polemica contro dottrine e scuole del tempo: quietismo,
cartesianismo, molinismo, giansenismo, misticismo.
Ma tutte queste contrapposizioni di facoltà spirituali,
tutte queste «trascendenze» rispetto alla ragione, egli le
può eliminare appunto perché la sua ragione è piú
mobile, piú articolata che la ragione matematica del
cartesianismo. Egli applica all'ordine spirituale quella
continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere
da ogni legge ad una legge piú vasta, che egli crede di
scorgere come l'essenza piú profonda del mondo
naturale. Che questa stessa continuità e questo
allargarsi sia, piú che una legge della natura, un'esigenza
dello spirito nella considerazione della natura stessa,
egli non sospetta. O meglio, egli non fa distinzione fra
l'una e l'altra cosa e considera spirito e natura come parti
omogenee della realtà obiettiva. Cosí, anche la
conclusione di questo capitolo sulle facoltà dello spirito
255
sarà che non esiste in Leibniz una vera e propria
gnoseologia. L'atto spirituale non è né una elaborazione
e modificazione del reale, né un'apprensione e
rispecchiamento di esso. È un elemento integrale del
reale stesso. La rappresentazione attribuita alla monade
non è, come vedremo meglio in seguito, che un indice
della totalità dell'universo, contenuto in essa.
E questa realtà che è l'atto spirituale, procede, come
le leggi della natura, per sintesi sempre piú vaste, per
armonie sempre piú universali. Il passaggio continuo
fra le passioni e la ragione è reso possibile da questo
procedere indefinito, onde la perfezione
precedentemente raggiunta viene rifiutata come
parziale: e alla passione viene dato cosí un carattere
positivo, di tendenza ad una perfezione unilaterale, pur
negandole una posizione a sé stante. D'altra parte la
complessità unitaria dell'atto spirituale, la organicità
onde esso comprende in sé la totalità degli aspetti e
delle funzioni dello spirito, permette di considerare
come momenti di esso tutte le forme che si era tentato di
costituire come autonome. Leibniz dà con questo un
colpo decisivo alla psicologia delle «facoltà» dello
spirito, intese come enti a sé, che agiscono in modo
indipendente275. L'armonia e la bellezza, che
275 «Quand elles [les facultés de l'âme] seroient des Estres
réels et distincts, elles ne sauroient passer pour des Agens réels,
qu'en parlant abusivement. Ce ne sont pas les facultés ou qualités,
qui agissent, mais les Substances par les facultés» (Nouv. Ess., l.
II, c. 21, § 6).
256
costituiscono il carattere della perfezione, gli danno
modo di considerare il piacere come un
accompagnamento necessario di ogni atto spirituale, e di
saldare cosí fortemente ad ogni forma di razionalità o di
morale, quella utilità che ad esso sembrava opporsi in
modo inconciliabile. Il gioco rispettivo e la maggiore o
minore accentuazione dei caratteri di chiarezza e
distinzione, oscurità e confusione, servono a spiegare
tutti gli apparenti distacchi fra conoscenza e volere, ed
ad eliminare ogni autonomia della volontà; cosí come
servono, insieme al concetto di abitudine, a dar ragione
di tutte le forme intuitive, immediate, irrazionali, di
contatto con la realtà; dall'istinto al gusto sensoriale od
artistico, all'ispirazione, alla fede.
L'umanesimo, il rinascimento, la riforma avevano
lavorato a stabilire le «autonomie» nel mondo spirituale:
autonomie dell'arte, della politica (cioè dal fatto
economico), dell'esperienza religiosa, e bastanti a se
stesse, indipendenti dagli altri aspetti dello spirito.
Il '600, col suo razionalismo e col suo spirito
costruttivo, unitario, ha capovolto il problema. E
Leibniz può a buon diritto sostituire alla parola
autonomia, la parola Organismo. La sua antropologia,
oltre e prima che la sua metafisica, lo porta a concepire
un uomo unitario, composto di una sola sostanza
spirituale, con la volontà legata alla conoscenza, con la
conoscenza fatta di percezioni che tendono a sempre
maggiore totalità; un atto spirituale unico, con tutte le
infinite gradazioni fra i due termini ideali dell'assoluta
257
razionalità, che si identifica con Dio; una razionalità
attiva, appassionata, piena del piacere della perfezione
raggiunta, della tendenza ad una nuova perfezione; un
criterio morale basato sull'essenza di ciascun individuo
nelle determinazioni della sua personalità.
258
Progetto di una rivista di metodologia
scientifica
Carattere generale.
259
(1) Studiare in qual misura lo sviluppo delle teorie e
delle scoperte scientifiche influisca sulla formazione dei
concetti e problemi filosofici (per esempio: spazio,
tempo, causalità, uguaglianza, oggetto, individuo, ecc.
per le scienze fisiche; vita, volontà, io, colpa, per le
scienze psicologiche e biologiche).
(2) Mostrare come un'analisi accurata dei principî
fondamentali delle varie scienze, nella quale vengano
messe a profitto tutte le conquiste del pensiero
filosofico, possa essere utile alle scienze stesse e
contribuire al loro progresso.
260
L'illusione realistica nella fisica.
Geometria ed esperienza.
Sull'assiomatica dei principî della meccanica.
Sull'assiomatica della teoria della relatività.
Sull'assiomatica della meccanica quantistica.
Fisica puntuale e fisica di campo.
Sul concetto di istinto.
Stato attuale della polemica fra meccanicismo e
vitalismo.
È possibile costruire un'economica indipendente da
premesse psicologiche?
(b) Profili dei principali pensatori contemporanei: sia
scienziati i quali siano stati guidati nelle loro ricerche da
considerazioni di carattere metodologico, sia interpreti
in sede filosofica delle dottrine scientifiche:
Hieisenberg
Bohr
De Broglie
Eddington
Dirac
Hilbert
Weyl
Bachelard
Gonseth
Reichenbach
Cassirer
Destouches
La scuola di Vienna
261
Jung
Adler
Durkheim
Lévy-Bruhl
Frazer
Von Mises
Hayek
Robbins
262
(d) Saggi su filosofi e scienziati classici: Galilei,
Descartes, Leibniz, Newton, Maupertuis, Hamilton,
Laplace, ecc., sempre dal punto di vista della
metodologia scientifica.
263
lettore sia informato di tutto quanto viene pubblicato in
Italia e all'estero sugli argomenti di cui tratta la rivista, e
possa rendersi chiaro conto del contenuto di ciascuna
opera, e del posto che essa occupa negli studi attuali.
Seguono gli abbozzi di alcuni degli articoli della
prima e della seconda parte.
264
Programma
265
maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal
buco).
Il filosofo invece, cosa fa? Egli non ha avuto la
fortuna o l'abilità di aprire una porta, ma anche lui è
preso dall'ossessione di aprirla con la chiave dello
scienziato o con un'altra di sua fattura. La sua
ossessione è forse meno pericolosa che quella dello
scienziato, ma piú intensa. Per lo scienziato essa è
accessoria, sopraggiunta. Il massimo sforzo è già
compiuto nel trovare la chiave. Il tentativo di
allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo,
invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza
accorto per avvedersi che il correre da una porta all'altra
con la medesima chiave si risolve in un danno e in un
disordine. Egli vuol soddisfare alla sua esigenza in un
modo sistematico, che non lasci residui. La sua
ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile,
aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che
cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo
uso e consumo, simile il piú possibile a quello vero, in
cui tutte le serrature siano apribili con una sola chiave o
con le varie chiavi che ha a disposizione. Là si
rinchiude, là gli sembra di vivere tranquillo. Ma il
palazzo è di cartapesta, non di mattoni veri. In poco
tempo crolla, si disfa. Le camere sono identiche a quelle
dell'altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non
dà all'uomo maggior ricchezza o maggior potenza. A
volte avviene che nel lavoro di costruire al filosofo
venga fatto di trovare una chiave nuova, che gli altri
266
uomini possono usare nelle varie serrature. In questo
caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa
invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue
intenzioni non doveva essere che un dettaglio del grande
edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo
nessuno ci crede piú, nessuno può piú abitarvi dentro.
Lo si considera come un bel rudere, come l'interessante
documento di un'epoca; lo si apprezza per un certo
impulso che indirettamente, nei suoi contorni, ha dato
alle lotte e alle ricerche dell'umanità. Gli storici, gli
esegeti, cominciano a smontarlo per vedere se, non
potendosene piú servire in blocco, non si trovi del
buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a
distinguere «ciò che è vivo e ciò che è morto» e a
manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni
pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di
regola apprezzato dai posteri per motivi che egli non
avrebbe immaginato, e che sono estranei alle sue
intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto
il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene
considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme.
Vediamo gli uomini piú intelligenti dell'umanità dirigere
tutti i loro sforzi per raggiungere mete che andranno poi
completamente perdute; e siamo costretti a racimolare
con fatica alcuni residui del loro lavoro.
Nella scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo
per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono
piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta
la potenza dell'umanità è stata infinitamente aumentata.
267
Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento,
per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a
costruire chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di
cartapesta. Ma nessuna porta dell'edificio vero si è
aperta ai loro sforzi. Da Galileo a Bacone in poi, alcune
sembrano cedere. Quella del meccanicismo fisico si è
addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse!
Quale sarà per esse la chiave giusta? L'abbiamo già in
mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire
alla continua tentazione di usare per ogni porta quella
che ha fatto una volta buona prova, col rischio di
rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire
bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito
di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettervi un
certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e
raggiungere risultati il piú possibile concreti. Dovrebbe
anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè
i criteri di ricerca, i metodi ermeneutici coi quali noi
affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai
nostri usi. Criteri che – oramai ciò è chiaro a tutti –
trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta
che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere
afferrato.
Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente
condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto
l'insieme delle forme, delle categorie, dei criteri
associativi e interpretativi, senza dei quali non ci è
possibile di tentare o di percepire alcunché. Criteri che
noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza
268
poter mai uscire dal campo di una attività del soggetto,
costitutiva della realtà stessa. Noi non possediamo, allo
stato attuale delle nostre conoscenze, alcun mezzo per
eliminare il polo soggettivo della nostra nozione della
realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a
ritenere che la nozione di una realtà oggettiva da noi
indipendente sia un'ipostasi della nostra mente dovuta
ad un nostro fondamentale bisogno di contrapporre
alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di
polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un
passivo ed un attivo. (Vedi Fichte, Trascendenza
interna). Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né il
soggetto né l'oggetto, ma alcunché nella costituzione del
quale l'uomo con i suoi criteri e le sue categorie, ha una
gran parte; e che noi, per comodità di studio,
consideriamo per un istante come dato di fronte a noi,
coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi
qualche cosa cui partecipiamo noi stessi.
Ora questo «qualche cosa» gli uomini si sforzano di
manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua
costituzione, di prevedere il suo divenire, di costruire in
base alle previsioni. A seconda che si accentui il
carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo
considerano un «penetrare nelle leggi della natura»
oppure un «estrarre dalla natura un certo numero di
elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio»; un
«cedere alla natura» o un «farle violenza». E si
chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa
distinzione riguarda il significato metafisico dell'attività
269
umana, non la sua conformazione, i suoi procedimenti,
il suo fine: che è ciò che c'interessa qui di indagare per
raggiungere risultati utili. Lo scienziato non conosce
concretamente un problema del carattere pratico o
teoretico della sua attività. Egli non si domanda mai,
seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia «il
bisogno di sapere» inteso come fine a se stesso o la
speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla
sua scoperta. Egli si dedicherà, secondo le sue attitudini,
ad un campo piú vicino alla ricerca pura o piú vicino
alle applicazioni. Ma, nella sua mente, ricerca e
applicazione costituiscono un tutto unico di cui solo per
comodità di studio e per la necessità della divisione del
lavoro egli scinde a volta a volta le parti. La scoperta si
considera come la naturale, evidente premessa
dell'invenzione; l'invenzione come la conseguenza della
scoperta. L'antitesi positivismo-pragmatismo non ha
senso per lo scienziato, e non modifica in nulla il suo
agire.
Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che
egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi
costituenti alcune «forme» o «categorie» che
provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà, e
gliela rendono comprensibile e afferrabile. Di queste
forme o categorie egli ne considera alcune come
appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di
fuori di sé.
Quali sono? Sono quelle cui egli si sente
necessariamente legato, di cui non può in alcun modo
270
fare a meno, senza le quali gli sarebbe assolutamente
impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencate
alcune: Spazio, tempo, causalità, numero, ecc. Egli ha
riconosciuto sí che esse vengono imposte alle cose dallo
spirito dell'uomo; ma col dare ad esse un carattere
necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini sulla
impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini
comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e
accontentandosi del fatto che di queste categorie non si
può fare a meno, le attribuiscono senz'altro alla realtà.
Ma l'osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive;
e la curiosità di vedere al di là del «velo di Maja» delle
categorie si è fatta sempre piú intensa. Si può dire che il
pensiero filosofico scientifico si sia scisso a questo
proposito in due opposte direzioni, a seconda che
l'ammonimento di Kant sia stato seguito o no.
(1) Fra quelli che l'hanno seguito,
(a) gli scienziati hanno continuato a considerare le
categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito
sulla base di queste categorie; contentandosi a volte di
mantenere nello sfondo l'ombra di un inconoscibile
(Spencer, positivisti); oppure di acquistare coscienza
della relatività dei loro sforzi; limitando il compito della
scienza alla costruzione di ipotesi semplici e
maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su questa via essi
hanno continuato ad ottenere un buon numero di
successi, proseguendo quell'indagine e quello
sfruttamento della natura che era cominciato con Galilei
e Newton e che consisteva nell'uso sistematico di quelle
271
categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche
tempo l'impressione che il campo stia per esaurirsi e che
non restino da fare in questa direzione se non scoperte
particolari, di importanza ristretta.
(b) I filosofi, invece, insofferenti di qualsiasi
dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l'unità
del reale, preferirono eliminare la tentazione della «cosa
in sé» col negarne addirittura l'esistenza; ed attribuire
realtà assoluta al pensiero nella sua formazione
universale. In tal modo essi soddisfecero
contemporaneamente all'esigenza kantiana di non uscire
dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente
filosofico di risolvere senza residui il problema della
realtà; incuranti d'altronde che questo loro sistema li
conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile
che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno
di completezza.
(2) Coloro, invece, che «hanno disubbidito»,
sembrano a tutta prima disprezzare l'ammonimento di
Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono
essi suoi figli molto piú che gli ubbidienti. Quel limite,
quella barriera appunto, li ha eccitati ad andare al di là:
ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi.
Cominciamo questa volta dai filosofi.
(a) Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli
sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le
categorie delle quali Kant gli ha indicato cosí
chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le
illusioni della metafisica e della teologia – cioè i
272
tentativi di affermare la realtà assoluta con gli strumenti
della ragione – ed è alla continua ricerca di un altro
strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo.
Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola,
l'irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli
attribuisce tutte le possibilità che mancano alle categorie
della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte
le porte del palazzo.
Ma che garanzie gli dà la nuova chiave?
Semplicemente di non esser la vecchia. Ogni
interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove non
consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica
contro l'impotenza della ragione. Polemica spesso acuta
e giusta, ma che non costituisce un motivo bastante per
accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione
non è.
Le esplosioni di entusiasmo, invece, sono a volte piú
interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare,
sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di
queste attività irrazionali; di conoscere un po' meglio
quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato
però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se
non scarsissimi risultati è che tali attività sono sempre
state descritte appunto col presupposto e con l'esigenza
di attribuire ad esse un valore assoluto, molto superiore
a quello della ragione. Preconcetto il quale ha
naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito
qualsiasi seria indagine sull'uso che di questi
atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui
273
la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di
rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti
ha impedito di compiere qualsiasi vero progresso. E le
interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono
successe l'una all'altra senza condurre l'umanità ad
alcuna conquista stabile. È questo un fenomeno che si
ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze
della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività
irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire,
quanto la nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è
venuta raccogliendo, è, se non ordinata, pure imponente:
e dà l'impressione di una grande miniera inesplorata, in
cui il materiale prezioso è misto con le scorie.
Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di
sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo
della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato
a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla
scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui
applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che
conosciamo. Kant, infine, ne ha tracciato i limiti,
segnando insieme (forse un po' in anticipo) l'esaurirsi
della miniera dalla quale esso traeva ricchezza. Il campo
dell'irrazionale probabilmente comprende regioni
infinitamente piú vaste che quelle della ragione,
contenenti materiali del carattere piú eterogeneo, atto
agli usi piú disparati. Il fatto solo che siamo abituati a
classificarlo secondo la rubrica negativa del «non
rientrare nella ragione» ci mostra lo stato disordinato
delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo
274
mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con
mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od
avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto
con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati cosí
ottenuti ci possano servire come criterio per risolvere
qualche problema, come chiave per aprire qualche
porta: ecco il compito che si impone oggi alla nostra
indagine. Va da sé che i metodi da usarsi non saranno i
medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che
l'ordine ottenuto non rassomiglierà neppure da lontano a
quello che noi conosciamo nel campo logico-
matematico. La parola stessa «ordine» non vuole avere
qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere
al mondo stesso dell'irrazionale per trovare in esso quei
punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e
offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata.
Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e
indicazioni. La riuscita di questo lavoro dipenderà dalla
fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità
di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi,
senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e
ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il risultato
massimo sarà di mettere l'umanità in possesso di una o
piú nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale
o, se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanza
che si offrano al nostro uso e ci permettano di soddisfare
alcuni nostri bisogni.
(b) Lo scienziato che dalla messa a punto kantiana ha
ricevuto l'impulso di andare al di là delle categorie, non
275
s'indugia però nella ricerca dell'irrazionale, che non
offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua
mentalità è ancora imperniata completamente sul
razionalismo logico-matematico che ha permesso ai
secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive
la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol
compiere, non è un superamento di principio,
trasportandosi d'un salto in un mondo completamente
diverso, ma graduale, a volta a volta seguendo le
esperienze che non sono giustificabili mediante le leggi
finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la
realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro
il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile
apprendere ed organizzare il reale secondo categorie che
siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli
è molto meno realista che il filosofo idealista o mistico
o che lo scienziato positivista. E in questo senso si può
quasi dire che egli porti una conferma sperimentale se
non alla necessità a priori delle categorie kantiane,
almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo
scienziato di regola non ha letto Kant. Ma l'atmosfera
diffusa del kantismo e la nozione stessa...
276
Apologo su quattro modi di filosofare
277
riceverlo; e questo è il segno della vostra superiorità. Io
non ne seppi nulla da mio padre né egli dal suo; eppure
non ci venne mai in mente di uscire dal palazzo. Non
pensavamo neppure che fosse possibile, né mai
sospettammo che il mondo non si esaurisse fra le mura
di esso. Di queste mura quasi non ci accorgevamo, né
dei vetri alle finestre che modificano e deformano le
immagini della strada. La strada che si stende a perdita
d'occhio davanti a noi, cercavamo di scrutarla nei suoi
minimi particolari, con lenti e cannocchiali; ma non
pensavamo che potesse, con una svolta, sottrarsi
completamente al nostro sguardo. La nostra ignoranza,
insomma, ci faceva contenti; e lo spazio racchiuso fra
queste mura ci sembrava infinito.
«Volete ora rimproverarmi di avervi mostrato che non
è cosí? Di avervi aperto gli occhi, sottratto ad una
illusione? Volete lamentarvi che l'infinito vi si è rivelato
angusto, che il mondo vi si è mutato in una prigione?
«Fatelo, se volete. Io non mi posso pentire di avervi
comunicato quanto ho scoperto con assidua meditazione
e indagine instancabile. La nostalgia per la felicità del
semplice è sempre vile e ipocrita; comunque, non
conduce mai a nulla. E di ciò che sapete non potrete
ormai piú dimenticarvi.
«Sareste però ingiusti, se mi accusaste di avere
ristretto il vostro campo d'azione. L'ho allargato, anzi. Il
palazzo non è forse a vostra disposizione, oggi come
una volta? Le sue risorse non sono ancora inesauribili?
E la maggiore conoscenza non vi permette di usarne in
278
modo piú completo? Io non vi ho tolto nulla di quanto
avevate. Non vi ho messo delle catene; vi ho solo
rivelato l'esistenza di quelle che già avete. Mi chiedete
ora di liberarvene. È chiedere troppo.
«Come potrei liberarvi? Io stesso non sono libero, e la
mia azione è racchiusa nei vostri medesimi limiti. Per
giungere alla mia scoperta non mi è stato concesso di
uscire dalle nostre mura. Ciò che io vi dico non è il
frutto di un miracolo che mi abbia permesso di vedere
dal di fuori la nostra dimora, e me ne abbia quindi
rivelato i limiti. È dovuto piuttosto a una analisi attenta
e spregiudicata compiuta dall'interno, sui muri, sulle
porte, sulle finestre, sulla disposizione delle camere, sul
colore e l'illuminazione delle pareti. La mia scoperta
non ha nulla di soprannaturale, né di misterioso.
Ciascuno di voi la può rifare per conto proprio, solo che
segua la via da me indicata, e si ponga
nell'atteggiamento nel quale io mi sono posto. Oso anzi
dire che nessuno di voi potrà oramai esimersi dal
percorrere quella via e dal giungere alle mie medesime
conclusioni. Ma vedete anche voi che essa non conduce
alla porta d'uscita. Dimostra anzi, piuttosto, che
un'uscita non c'è, e chi la cerca non fa che girare
affannosamente in tondo, ritrovandosi poi sempre al
punto di partenza.
«Siate dunque uomini, e rinunciate a queste ricerche
assurde. Se non vi posso dare la libertà, vi offro però
qualche cosa che le somiglia: l'accettazione cosciente,
virile, del vostro stato. Non ci sarà per voi modo
279
migliore per rendervi degni della maggiore età. Le cose
da fare sono molte. La casa, benché chiusa, è di
estensione immensa e voi non avrete mai finito di
conoscerla, di ordinarla, di lavorarvi dentro. Non
perdetevi dunque in futili smanie e in vuote nostalgie.
Guardatevi intorno, e lavorate».
Disse, e spirò. Molto lo piansero i figli e gli
tributarono grandi onori, come all'emancipatore della
conoscenza e al pioniere di una nuova cultura. E
veramente tutto testimoniava la grandezza della sua
scoperta. Tornati alle proprie occupazioni, essi
passavano di meraviglia in meraviglia. Sembrava loro di
avere occhi nuovi, di vedere cose rimaste nascoste fino
allora. Il palazzo, nel quale si erano sempre aggirati, un
po' a caso, confusi dalla sua vastità, si presentava ormai
semplice ed armonico nella sua struttura. La conoscenza
dei suoi limiti permetteva di abbracciarlo interamente
con lo sguardo, di percorrerne con ordine le camere e le
sale. Molti oggetti nella nuova prospettiva acquistavano
improvvisamente un significato ed un uso. I figli ebbero
un po' l'impressione di essere divenuti piú ricchi, o
meglio di aver acquistato un senso che permetteva di
godere per la prima volta le proprie ricchezze.
Ma le porte sprangate, ma le finestre chiuse, erano là,
ben visibili ormai, a ricordare ad ogni istante
l'avvertimento del padre. E quella vista, e quel ricordo,
davano innegabilmente un tono di malinconia ad ogni
godimento. Cercavano continuamente di distogliere la
mente da quel pensiero, ma i fatti stessi ve li
280
riconducevano. Provavano a ripetersi le argomentazioni
del padre e dichiararsi soddisfatti, e dimostrare a se
stessi l'inutilità di ogni sforzo per uscire: sempre l'assillo
del mondo di fuori, dell'inafferrabile realtà che essi
scorgevano attraverso i vetri delle finestre, e di cui
percepivano i suoni dall'esterno, li tormentava.
Cominciavano a discutere fra di loro, a irritarsi, a
litigare. Chi proponeva di disubbidire al padre, chi
cercava artificiosamente di confutare, di distruggere la
sua scoperta. Col passare del tempo, la faccenda anziché
attenuarsi si faceva piú acuta, e minacciava di portare
per sempre la discordia in famiglia. Ciascuno dei figli si
era creato uno stile, un atteggiamento, un
comportamento, col quale tentava di liquidare dentro di
sé la questione. E ad esso adattava le sue azioni e l'uso
che faceva della casa. Ancora oggi stanno discutendo,
contendendosi accanitamente varie camere, la
disposizione dei mobili e degli arredi. Vogliamo perciò
descriverli per vedere se non sia possibile metterli
d'accordo ad uno ad uno. Cominciamo dal piú vecchio.
281
pronte. A lui ci si rivolgeva quando si aveva bisogno di
accomodare qualche danno o di migliorare qualche
impianto. Con l'andar del tempo aveva tanto lavorato e
armeggiato che la casa si era trasformata sotto le sue
mani; egli l'aveva fornita di tanti dispositivi pratici ed
utili e la vita in essa aveva enormemente acquistato in
varietà ed intensità.
Di questo i fratelli ed il padre stesso gli dovevano
gratitudine, benché non tutti amassero il suo fare
asciutto e disadorno, la sua indifferenza e il malcelato
disprezzo per tutto ciò che non fosse tangibile e
costruibile, quel suo aggirarsi sempre indaffarato e
sporco, con uno strumento in mano, incapace di sedersi
tranquillamente a mensa, di partecipare a una pacata
conversazione, di ascoltare una melodia. Lo accusavano
sottovoce di grettezza e piccineria, di incapacità alle
visioni generali. Sottovoce, però, perché tutti avevano
bisogno di lui e nessuno si sarebbe sentito di rinunziare
alle comodità di cui aveva rifornito la casa.
Egli dal canto suo poco si curava di queste critiche
subdole, limitandosi a sorridere quando i raffinati e
pretenziosi fratelli si trovavano nell'impaccio per
qualche banale motivo. Capo di famiglia egli si sentiva,
benché a volte venisse trattato come il servitore di tutti.
Per lui le parole del padre sul letto di morte furono
qualche cosa di inaudito e incomprensibile. Abituato a
vivere nella casa, e a conoscerla intimamente nei suoi
minimi particolari, l'idea che essa non racchiudesse tutta
la realtà, che la propria opera non si fosse svolta se non
282
nel campo dell'apparenza, e non avesse nessun contatto
col mondo vero, tutto questo gli sembrava impossibile e
mostruoso. In fin dei conti, egli non riusciva neppure a
rendersi ben conto di cosa ciò significasse: e il suo
primo moto fu di scrollare le spalle.
«Sono fantasie di un vecchio», diceva, «castelli in
aria costruiti da una mente stanca dal gran pensare. Se è
vero che noi viviamo in una casa chiusa e limitata,
perché nostro padre non ci ha fatto vedere il mondo di
fuori? Io sono abituato a credere solo ai miei occhi e
alle mie mani. Che ci sia ancora da scoprire molto e
molto da lavorare sono d'accordo. Ma che tutto il nostro
scoprire e lavorare sia, in certo senso, vano, che esso
serva solo per noi e perda ogni valore fuori da queste
mura; questo proprio non lo posso credere».
E non ci credette, infatti, e continuò a lavorare come
se il padre non avesse parlato. Ma nel corso del lavoro
le parole del vecchio gli risuonavano sempre confuse
all'orecchio e lo portavano, suo malgrado, verso i luoghi
dai quali i limiti del palazzo e il suo distacco dal mondo
esterno si potevano piú facilmente scorgere. Immersosi
nell'opera per scordare l'ammonimento paterno, vi
urtava contro nei punti piú impensati. Ciò lo irritava, lo
paralizzava e gli toglieva la fiducia nel suo lavoro. Era
poi diventato irritabile e sospettoso verso i fratelli, i
quali si prevalevano della nuova scoperta per svalutare
la sua attività.
«Ebbene», diceva, «e se anche fosse? Se fosse vero
che questa casa nella quale viviamo è separata dal
283
mondo da una barriera insormontabile; se fosse vero che
l'oggetto delle mie ricerche e delle mie costruzioni non è
la realtà, ma solo qualche cosa di apparente, filtrato
attraverso i vetri delle finestre; se anche cosí fosse, forse
che il valore della mia opera ne verrebbe diminuito?
forse essa sarebbe meno utile per questo? Che io
indaghi, che io operi sulla realtà o su un'apparenza, non
è forse in fin dei conti la stessa cosa, quando i miei
ordini servono, le mie costruzioni portano comodità e
benessere? Padroni voi, se volete, di rinunciarvi per il
solo fatto che non si tratta della vera e propria realtà. Io,
per me, continuerò a lavorare come ho sempre fatto e
come se lavorassi sulla realtà. Non sento il bisogno di
cambiar nulla ai miei metodi: né quel come se che sono
disposto a mettere, per farvi piacere, davanti ai miei
risultati, diminuisce in nulla, mi pare, il loro valore».
Cosí diceva; e gli sembrava, per un momento, di
essersi liberato dall'angoscia. Ma lo diceva con una
segreta amarezza. E quel come se non cambiava forse
nulla ai suoi risultati, ma gli toglieva ogni voglia di
lavorare. Si accorgeva anche lui, ormai, della piccolezza
della casa, e il pensiero dell'infinito campo sconosciuto
che si stendeva al di fuori, gli faceva sembrar meschino
questo suo affannarsi dentro le mura. Gli sembrava che
lí dentro non ci fosse piú niente da cercare; che il
materiale fosse ormai esaurito. A volte veniva preso
dalla frenesia di uscire, e si scagliava violentemente
contro i vetri delle finestre cercando d'infrangerli con i
suoi strumenti piú pesanti. Restava ogni volta piú
284
debole e scornato, e si vergognava a lungo della ridicola
figura fatta. Si sentiva vecchio, oramai, e pensava con
nostalgia ai bei tempi della beata ingenuità, quando ad
ogni passo credeva di aver carpito un segreto alla
natura, e si era quasi convinto di far concorrenza a Dio.
Stava a lungo seduto malinconicamente davanti alla
finestra, fantasticando sul mondo di fuori e scuotendo
tristemente la testa. Qualcuno, una volta, lo vide
piangere.
285
portici. Amava dare ordini e giudizi, nei quali sopperiva
alla mancanza di competenza sui particolari, con
l'inquadrare il tutto in una visione generale e
complessiva; si arrogava cosí il diritto di parlare su
qualsiasi argomento e nessuno era capace di chiudergli
la bocca.
Ma nonostante questi aspetti poco simpatici del suo
carattere, non si poteva negare che egli fosse l'unico a
conoscere profondamente la casa, nel suo disegno, nella
sua struttura, nella disposizione dei locali. Egli fu il
solo, in fin dei conti, a capire subito la portata e il
significato dell'ammonimento paterno, e s'incaricò, fin
da principio, di illustrarlo ai fratelli. Si attagliava, del
resto, quell'ammonimento, molto bene al suo carattere
poco curioso e amante dei luoghi rinchiusi. Non durò
fatica ad adattarvisi, né mai provò un vero desiderio di
uscire sulla strada per vedere come fosse fatta. Ciò che
egli sentiva di fronte alla proibizione paterna, non era il
bisogno di gustare il frutto proibito, ma piuttosto un
senso di dignità offesa per aver dovuto sopportare un
divieto, un sentimento per la diminutio capitis che ne
derivava. Era abituato a considerare la propria casa
come tutto l'universo, e sé come il centro di essa. Ora
mal si acconciava a pensare che essa racchiudesse un
piccolo spazio limitato, di là dal quale ci potessero
essere strade e campi inaccessibili, e infine altre case,
altrettanto belle e adorne come la sua.
Restò per un certo tempo cupo e pensieroso. Poi, un
bel giorno, corse alle finestre, abbassò le imposte e
286
annunciò trionfante ai fratelli: «La strada non esiste.
Essa è un semplice miraggio della nostra vista. Nostro
padre, buon'anima, ha compiuto uno sforzo prodigioso
per scoprire che viviamo in una casa, e per determinarne
i limiti. Ma proprio questo sforzo gli ha impedito di
compiere l'ultimo passo che restava da fare: di
accorgersi che dietro a quei limiti non c'è niente. È
inutile che voi facciate quella faccia incredula, che mi
spingiate verso la finestra, che mi mostriate la strada col
suo traffico incessante, i campi con le loro messi, il
cielo, il sole; chi vi dice che tutte queste cose non siano
dipinte dietro i vetri? Li avete mai aperti, voi? Li
potreste mai aprire? Per poter parlare di una strada
esistente veramente fuori della nostra casa,
bisognerebbe poter spalancare le finestre. Ma questo
non lo potremo mai fare, né lo ha mai fatto nostro padre.
Quando egli dunque ha parlato di una strada reale, è
andato piú in là di quanto avrebbe dovuto; e anziché
proibirci di andar fuori, avrebbe dovuto avvertirci che
un difuori non c'è».
I fratelli lo guardavano attoniti, e ridevano un po'
sotto i baffi. Egli si irritava e li accusava di scarso senso
speculativo. «Ebbene», diceva taluno, «allora la
scoperta di nostro padre è stata vana. Allora è vero
quello che credevamo prima, che la nostra casa
veramente è tutto il mondo, e il mondo si esaurisce in
essa?»
«La scoperta di nostro padre non è stata vana», egli
rispondeva. «Prima di lui non ci accorgevamo neppure
287
di abitare in una casa; ora lo sappiamo. I muri e le
finestre, la differenza essenziale fra la casa e la strada
sono stati scoperti da lui, e costituiscono la sua gloria
imperitura. Ma il suo errore è consistito nel credere che
la casa fosse l'apparenza e la strada la realtà. È invece
vero il contrario. La vera realtà è la Casa, che d'ora in
poi scriveremo con l'iniziale maiuscola. Fuori di essa
non c'è niente, in essa tutto si esaurisce, essa è infinita.
Anziché perdervi in vane fantasticherie sul mondo di
fuori, e stare in adorazione dello spettacolo che vedete
dalle finestre, adorate piuttosto la Casa che è vostra e
insieme di tutti. Voi la potete modificare, se volete; essa
è anzi in perpetuo divenire per l'opera vostra e per il
vostro lavoro; è sempre nuova ai vostri occhi. Vedete, io
vi ho restituito la dignità e l'onore, vi ho finalmente
liberato dalle catene di cui il padre vi aveva reso edotti».
Ma i fratelli poco si curavano di questa liberazione
che non mutava nulla al loro stato effettivo e rinserrava,
quasi, ancor piú la loro prigione. Lo lasciavano parlare,
e talvolta reagivano infastiditi dalla sua magniloquenza.
Egli se ne andava indispettito, e si metteva a percorrere
in lungo e in largo il palazzo. Molto si preoccupava
della sua struttura e dell'armonica disposizione delle
camere. Progettava ampliamenti e abbellimenti. Faceva
abbattere pareti divisorie, allargare i passaggi, decorare i
soffitti. Il grande salone dell'Arte ricevette da lui una
definitiva sistemazione. Il portico della Storia divenne
uno dei passaggi piú ammirati e frequentati. Egli si
compiaceva della sua opera, ed amava condurre i
288
visitatori attraverso i successivi appartamenti,
mostrando come la casa avesse oramai una sua intima
coerenza, come le varie parti fossero collegate in modo
che ciascuna presupponesse le precedenti e preparasse
le seguenti. Di questa circolarità o sistema si gloriava
come della sua conquista piú alta. La casa gli sembrava
oramai opera sua. In essa si sentiva forte, corazzato,
padrone. Si sentiva il diritto di aspirare alla
primogenitura.
289
acume, congegni ingegnosi, un'infinità di cose
incominciate e lasciate a mezzo. Era bello nella persona,
alto, aitante e le donne andavano pazze per lui. Ma c'era
qualcosa di oscuro e torbido nel suo sguardo che
lasciava perplessi.
Alle parole del padre egli non pensò neppure un
istante di ubbidire. Un divieto infatti non significava per
lui che lo stimolo ad infrangerlo. Gli sembrava di non
respirare piú nella casa, di non avere spazio per
muoversi. Correva in su e in giú come una belva in
gabbia. E a chi lo ammoniva con i soliti ragionamenti, e
gli predicava la moderazione e il buon senso,
rispondeva sprezzante: «È roba per voi, questa.
Tenetevela la vostra casa, se vi sembra tanto bella. Io ne
uscirò a costo di morire». E un giorno si scagliò contro
il muro, fece una profonda breccia e scomparve. Grande
fu la impressione degli altri. Accorrevano alla breccia
non tanto per salvare il fratello, quanto per vedere se da
essa si potesse scorgere qualcosa del mondo di fuori.
Ma dai meandri della spaccatura, tutta ingombra di
pietre e di calcinacci, non filtrava neppure un filo di
luce.
Si domandavano se sarebbe tornato – gli uni con
sincera curiosità per ciò che avrebbe raccontato, gli altri
con un senso acuto d'invidia e di incredulità. Tornò
infine, stanco, lacero, sanguinante, con gli occhi smarriti
e abbacinati. Tutti gli si affollarono intorno ma ci volle
parecchio prima che potesse articolar parola.
Finalmente, quando fu un poco rimesso, girò uno
290
sguardo sprezzante intorno a sé. «È inutile che vi
racconti quello che ho visto», mormorò, «non lo
capireste». E poiché gli altri lo guardavano delusi,
continuò sempre piú eccitato: «Come potrei, del resto?
Avrei bisogno di una lingua speciale. Chi è sempre
vissuto fra queste mura non può farsi un'idea di quello
che c'è di fuori. Non ha i sensi adatti. Se io avessi voluto
portarvi qua dentro qualche cosa di ciò che ho visto e
toccato, si sarebbe trasformato nel varcare questa soglia,
nell'entrare in questa atmosfera avrebbe perso ogni suo
carattere originale. Voi l'avreste potuto afferrare e
capire, forse, ma avreste afferrato ormai un oggetto
appartenente alla casa, non piú al mondo vero. Il mondo
vero non è per i pigri e non si lascia conoscere da chi
vuol rimanere al sicuro. È per i forti, per i temerari, per
coloro che sono pronti a mettere tutto in gioco. Chi vuol
vederlo mi segua. Il rischio è grande, ma la posta è
immensa, e solo chi è disposto a perdere tutto può tutto
guadagnare».
I fratelli rimanevano un po' perplessi, e non sapevano
se credergli o no. Egli riprendeva intanto ad aggirarsi
per le stanze col suo fare superbo e distaccato. Oramai
non aveva che parole di disprezzo per ciò che gli stava
attorno. Sembrava un provinciale ritornato al paese
nativo dopo un viaggio in città. Tutto era meschino,
povero, incolore di fronte a quello che aveva visto sulla
strada. E intanto, a poco a poco, si veniva a sapere che
cosa aveva visto. Parlava di grandi case, immensamente
piú belle della sua, piú complete, piú ricche; di uomini
291
con la vista mille volte piú acuta, con le mani mille
volte piú abili e piú forti. Raccontava che nel mondo
vero, nel mondo della strada, tutto ciò che nella casa
sembrava una limitazione, un impedimento, non
esisteva. Si poteva camminare in linea retta all'infinito;
senza mai incontrare un muro. Non esisteva la morte, né
il tempo: si poteva essere contemporaneamente in piú
luoghi. A volte anche si divertiva a raccontare come
tutto nel mondo vero fosse invertito, le case col tetto per
terra e le fondamenta per aria, gli uomini con la testa
all'ingiú.
Tra i fratelli c'era chi lo ascoltava avidamente; ma
rimanevano quasi sempre delusi. Non trovavano mai in
ciò che egli diceva qualche cosa di veramente nuovo.
Sembrava loro che tutte queste cose le avrebbe potute
immaginare benissimo anche uno che non si fosse mai
allontanato dal palazzo. Gli ingredienti di cui erano
composte erano poi sempre quelli a loro familiari; la
differenza consisteva solo nelle dimensioni, o nel
portare una caratteristica ad un grado estremo di
elevatezza e di purezza, o nel considerare un processo
realizzato all'infinito, o semplicemente nel combinare le
cose diversamente da come si era abituati. Ci fu chi
cominciò a sospettare che egli fosse un impostore, e non
avesse visto nulla di ciò che raccontava. Ma a
conoscerlo bene non c'era da dubitare della sua buona
fede; per lo meno di quella buona fede esteriore che
consiste nel non proporsi esplicitamente di mentire e di
ingannare il prossimo. È accertato che egli era
292
pienamente convinto di essere uscito dalla casa e di
avere percorso un buon tratto del mondo esterno. Se poi
avesse preso tutte le precauzioni per assicurarsi di non
essersi ingannato; se non avesse scambiato per il mondo
esterno qualche tratto poco frequentato del palazzo, in
cui egli si trovava per la prima volta; se il desiderio di
vedere qualche cosa di nuovo e straordinario non gli
avesse eccitato la vista, dipingendogli a colori vividi e
lucenti una realtà non molto diversa da quella a cui era
abituato fra le pareti domestiche – questo la critica non
l'ha potuto né lo potrà mai accertare.
Questo mondo esterno fatto a immagine e
somiglianza della casa, comunque, entusiasmò alcuni,
ma lasciò delusi e increduli gli altri. E nessuno seppe
mai se il terzo fratello fosse effettivamente uscito dalla
casa.
293
accomodava ottimamente. In esso egli non vedeva
nessuna limitazione, e nell'udire le convulse discussioni
dei fratelli, si domandava a volte con una certa ironia se
fosse proprio necessario guastarsi il sangue per cosí
poco. Le sue maggiori simpatie erano per il maggiore
dei fratelli, che gli faceva un po' da padre. Amava il suo
fare concreto, il suo carattere chiuso e di poche parole.
Lo accompagnava nei giri per la casa, apprendeva con
passione il suo mestiere, imparava a conoscere il
palazzo in tutti i suoi particolari e nei suoi segreti.
Cominciò a sostituirlo nei lavori piú facili, e in breve
divenne provetto e superò il suo stesso maestro. Portava
nel lavoro uno spirito piú giovanile ed audace, una
visione piú vasta, una certa spregiudicata aggressività.
Il fratello maggiore lo guardava con malinconica
compiacenza. Non si sentiva oramai piú in grado di
seguirlo nelle sue temerarie evoluzioni, nei suoi progetti
audaci e un po' strambi. Ma sapeva che questo
giovanetto dall'apparenza tranquilla e modesta, dal fare
attento e riflessivo, aveva raccolto il meglio del suo
insegnamento; sapeva che quei progetti non erano
strambi che in apparenza, poiché erano fondati su studi
seri e rigorosissimi, e avrebbero potuto portare molto
lontano. E si rallegrava tacitamente di essere stato
capace, nei suoi tardi anni, di mettere in moto una forza
cosí genuina.
Gli altri due fratelli poco si occupavano del minore.
Erano troppo occupati dei loro problemi personali. Ma
egli non li perdeva d'occhio, e subiva quasi senza
294
accorgersene la loro influenza. Dal secondo aveva
imparato a conoscere il palazzo nelle sue grandi linee
costruttive, nella sua completa e pur cosí armoniosa
struttura. Ma per il terzo aveva una segreta ed
inconfessata simpatia. Lo accomunava a lui
l'insofferenza per la vita tranquilla fra le mura e
l'incredulità verso l'opinione che il mondo si esaurisse lí
dentro. Questa gli sembrava anzi una tesi presuntuosa e
filistea escogitata per soddisfare il proprio orgoglio
senza correre pericoli. E non condivideva affatto il
rispetto reverenziale che i due fratelli maggiori
mostravano per le mura maestre della casa. Si accorgeva
che il vivere in essa costituiva una limitazione
essenziale; e provava anche lui un certo stimolo a
disubbidire al precetto paterno. Ma ciò che non riusciva
a condividere era il furore del terzo fratello; quella
rabbia sovvertitrice che lo faceva dare con la testa
contro i muri e fantasticare totali distruzioni. Per lui non
si trattava di un problema di dignità, non gli importava
affatto di decidere se il mondo in cui viveva fosse o
meno reale. Aveva semplicemente la sensazione che di
là dalle mura ci fosse qualche cosa che avvicinata
opportunamente si sarebbe potuta afferrare per
servirsene. Ed aveva una grande curiosità di vedere
come fosse fatta. Alle discussioni fra i fratelli non
prendeva mai parte. Non si preoccupava di decidere chi
avesse ragione; ma studiava con attenzione i vari
atteggiamenti di ciascuno, pronto ad imitarli, qualora
ciò fosse riuscito utile ai suoi scopi.
295
Per questo i tentativi di sortita del terzo fratello lo
interessavano. Si avvicinava alla breccia con profonda
attenzione; ma mentre gli altri non facevano che mettere
l'occhio alle fessure nella speranza di vedere al di là,
egli ne approfittava per osservare la costituzione del
muro. Prendeva in mano i mattoni, ne studiava la forma,
la disposizione, la misura. Osservava la composizione
del cemento, ne provava la consistenza, la stabilità.
Tutto guardava con cura meticolosa, poi ritornava nella
sua camera, tranquillo e taciturno. Di quanto aveva visto
non faceva per il momento alcun uso. Lasciava che
maturasse nella sua mente, senza impazienze.
296
Critica filosofica e fisica teorica
297
escogitato secondo quei principî; per essere da essa
ammaestrata, ma non a modo dello scolaro che accetta tutto
quello che il maestro gli dice, bensí del giudice in funzione,
che costringe i testimoni a rispondere alle domande che loro
fa. E cosí perfino la fisica è debitrice della cosí vantaggiosa
rivoluzione del proprio modo di pensare, unicamente all'idea
di attenersi a ciò che la ragione stessa introduce nella natura,
nel ricercare in questa (e non attribuirle arbitrariamente) ciò
che da essa deve imparare e di cui, per conto proprio, non
saprebbe nulla. Per questa via la scienza naturale ha
cominciato a porsi sul sicuro cammino scientifico, mentre per
tanti secoli non era stata altro che un puro andar tastoni.
298
Siamo autorizzati a ritenere che Kant si rallegrerebbe
oggi della parola di Eddington, e considererebbe
realizzato il suo sogno?
La prefazione alla seconda edizione della Critica
della Ragion Pura ci dà delle chiarissime indicazioni
sulle intenzioni che hanno mosso Kant nella sua opera.
Egli vi appare dominato dalla suggestione di quelle
rivoluzioni del pensiero, di quegli improvvisi
capovolgimenti ed inversioni di punti di vista, che
permettono d'un colpo di scoprire la nascosta ragione di
ciò che appariva miracolosa concordanza o segno di una
organizzazione finalistica del mondo. La scoperta
copernicana che tutto l'universo sembra ruotare intorno
alla terra, solo perché la terra ruota intorno a se stessa, è
l'esempio piú appariscente di tali rivoluzioni. Ma altre,
piú profonde ed intime, compiute nel medesimo senso,
hanno aperto d'un tratto alla matematica e alla fisica la
via regia della scienza. Non si deve credere, dice Kant,
che sia stato cosí facile alla matematica trovare la
propria strada. Per lungo tempo (e specialmente presso
gli Egizi), essa non fu che un puro brancolare; e la
rivoluzione che le permise di avviarsi per un cammino
sicuro e di inesauribile fecondità, è dovuta alla felice
intuizione di un sol uomo. «Il primo che dimostrò il
della fisica con la scoperta delle geometrie non euclidee,
iniziatasi verso il 1820, anziché, come è d'uso, con la teoria della
relatività e con la scoperta del quanto d'azione, intorno al 1900.
Vedremo meglio in seguito i motivi che giustificano questa
veduta.
299
triangolo equilatero (si sia poi chiamato Talete o in
qualunque altro modo) fu come illuminato da una luce
improvvisa. Si accorse che non si trattava
semplicemente di osservare la figura o magari di andare
in traccia del suo puro concetto per imparare (per cosí
dire) da esso le sue caratteristiche; ma di produrla (per
via di costruzione) mediante quei concetti a priori che
egli stesso in essa inseriva e rappresentava; e che, per
essere certo a priori di alcunché, egli non doveva
aggiungere alla cosa nulla, se non ciò che seguiva
necessariamente da quello che, secondo il proprio
concetto, egli stesso aveva introdotto in essa».
Il progresso del pensiero umano, o per lo meno della
scienza, è dunque fatto, per Kant, di improvvise
rivoluzioni, di «operazioni di cataratta» che illuminano
d'un tratto un intero campo di ricerche e permettono di
imboccare quella via per la quale poi la scienza
proseguirà sicura all'infinito. Si tratta, in sostanza, ogni
volta, di vincere un'illusione antropomorfica, o, se
vogliamo, di compiere un atto di umiltà. È solo il nostro
sciocco orgoglio che ci fa porre la terra al centro
dell'universo e ruotare gli astri intorno a lei; che ci fa
considerare l'uomo come il fine della creazione, e
figurarci Dio a nostra immagine e somiglianza. Ciò che
nella natura ci appare conforme alla nostra mente ed ai
nostri fini, lo è solo perché noi mescoliamo
continuamente, senza accorgercene, i confini della
nostra mente alla considerazione della natura. Nessuna
meraviglia dunque. Nessun miracolo, nessun privilegio
300
per noi se l'immagine che ne risulta presenta una
notevole concordanza con i concetti e le forme del
nostro intelletto.
Può apparire a prima vista strano e paradossale che
chi abbia avuto il coraggio di compiere per primo
questo capovolgimento, di vincere nel proprio animo
l'idolo antropomorfico, sia ripagato da un'immensa
messe di risultati. Kant insiste sul fatto che è un solo
uomo, in genere, a osare la rivoluzione. L'umanità è
costretta a seguirlo, quasi suo malgrado, dal grande
successo del nuovo atteggiamento, dalla straordinaria
fecondità che viene a premiare l'atto di modestia. Si
potrebbe pensare che chi sfata la leggenda di un mondo
in sé ordinato ed armonico adattantesi quasi per
miracolosa compiacenza ai nostri organi di presa, non
debba trovarsi intorno, crollata quella illusione, altro
che caos e disordine.
Se la regolarità e l'armonia non sono qualità effettive
del reale, ma condizioni da noi imposte ad esso, si
potrebbe ritenere che questo riconoscimento facesse
cadere l'edificio della scienza per non lasciare al suo
posto che la bruta casualità.
Di fatto avviene il contrario. Conosciuta una volta
l'origine a priori delle leggi, esse perdono sí il loro
fascino misterioso; ma entrano con molta maggior
sicurezza in nostro potere. Non siamo piú costretti a
ricercarne gli effetti nel mondo esteriore, accogliendo di
volta in volta la regolarità come un grazioso dono del
Creatore; ma penetriamo nel meccanismo interno onde
301
tale regolarità viene proiettata nel mondo; e, anziché
cogliere a posteriori e quasi a caso i frammenti di noi
stessi nella realtà, meravigliandoci poi che le leggi della
natura siano cosí consone alle nostre forme intellettuali,
teniamo in mano le fila dell'intreccio da cui nasce questa
illusione, e la dominiamo, per cosí dire,
panoramicamente; divenuti oramai padroni di essa,
capaci di seguirla in tutte le sue evoluzioni, di
prevederla nei suoi sviluppi.
È come se si fosse penetrato il trucco di un abile
prestigiatore. Abbiamo perso ogni credenza in una forza
misteriosa che lo animi, ma siamo divenuti di colpo
capaci di ripetere i suoi giuochi e di variarli all'infinito.
Il dominio della natura è divenuto cosí il prezzo
dell'incredulità; o (se vogliamo togliere alla cosa questo
aspetto faustiano di mercato col diavolo) l'umiltà, la
rinuncia all'elezione e alla primogenitura, l'abbandono
del folle sogno dell'assoluto «eritis sicut Deus, scientes
bonum et malum» viene ricompensata con uno
straordinario dominio sul mondo. È come se la grazia
venisse a toccare proprio colui che ha cessato di
sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da
Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo
dell'universo, apre immediatamente l'occhio agli
uomini, li arricchisce d'un immenso patrimonio.
A bella posta abbiamo espresso queste cose in un
linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni
dovute all'ardimento di un sol uomo, di illuminazioni
subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi
302
brancolava alla cieca, c'è in lui sicuramente la coscienza
che una vera grande conquista conoscitiva è sempre
frutto – piú che di uno sforzo logico o di uno sviluppo
dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di
una inversione di valori, di una vittoria conquistata
contro se stessi e contro ciò cui con piú profondi e
tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per
primo un capovolgimento della portata di un Talete, di
un Copernico, di un Bacone, deve anzitutto combattere
nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che
combatte l'uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos
diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la
propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare
all'idolo di una natura che parli il suo medesimo
linguaggio, di un mondo organizzato in vista dei suoi
bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza
e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo,
di capire quanto di se stesso egli avesse proiettato fin
ora sul mondo, e di divenire padrone di questa attività
proiettante. Ad un uomo che cercava la grazia, fu detto
un giorno:
«Tu desideri la grazia, e ti prepari a richiederla. Ma sei
sicuro di riconoscerla il giorno che essa ti toccherà? Se fosse
tutt'altra cosa da quello che tu ti attendi? Se ti facesse perdere
Dio anziché trovarlo?»
«Ebbene», rispose, «non sarebbe piú la grazia. Non avrei
alcun motivo di chiamarla con quel nome».
303
«In verità ti dico», gli fu replicato, «che tu non sei degno di
ricevere la grazia».
304
morale; l'abbattimento di un idolo saldamente insediato
e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima, di cui è
estremamente difficile accorgersi, estremamente
doloroso liberarsi; idolo fatto per lo piú di un cieco ed
infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi
circondati da forze a noi congeniali, di veder ripetuto
nell'universo, nella realtà oggettiva, ciò che
sperimentiamo nel nostro intimo. Questo idolo, cui
siamo legati con tutte le fibre del nostro essere, assume
le forme piú diverse, si nasconde sotto le spoglie piú
insospettate. Si è chiamato sistema geocentrico
nell'astronomia tolemaica, causa finale nella scolastica;
si è chiamato tempo assoluto in Newton, e,
nell'elettromagnetismo classico, etere. In alcuni casi e
per alcuni ricercatori si è presentato sotto la forma di
costante universale. Quale è la maschera sotto cui si
nasconde oggi? Sarà questo appunto uno degli oggetti
della nostra ricerca.
Comunque, chi sia riuscito per il primo ad abbattere
questo idolo nel suo cuore, non è in generale compreso
né apprezzato dai suoi contemporanei. Una conquista
morale va fatta sempre a proprie spese, vincendo non
solo le resistenze proprie, ma anche quelle del mondo
circostante. Tuttavia lo scienziato che abbia avuto il
coraggio di compiere nel proprio animo il grande
capovolgimento, può contare, per diffondere il suo
nuovo atteggiamento, su di un grande alleato: sul
successo che questa liberazione gli ha fatto raggiungere
nel campo della scienza: sulla grande ed improvvisa
305
fecondità che ha premiato il suo atto di sincerità e di
rinunzia. Il mondo si interesserà dapprima alle nuove
scoperte di per sé; ma poi sarà portato ad indagare il
metodo che ha condotto a raggiungerle. La curiosità
scientifica si trasformerà ben presto in una curiosità
umana. Non c'è miglior propaganda per un nuovo
atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso
si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel
campo della scienza e della conoscenza. Se dunque alla
base e all'origine della scoperta scientifica c'è un
atteggiarsi dello spirito con tutto il complesso delle sue
tendenze, dei suoi affetti, delle sue simpatie, la scoperta
scientifica reagisce a sua volta sul mondo degli affetti e
delle simpatie religiose e morali, imponendo alla cultura
del suo tempo, con l'autorità del successo, quella
trasformazione morale da cui essa ha avuto il suo primo
impulso.
Kant si proponeva di operare la rivoluzione che aveva
già posto su basi sicure la geometria e la fisica, anche
nel campo della metafisica. Se ci sia riuscito non è cosa
che vogliamo qui indagare. Ciò che ha fatto è,
comunque, di prendere coscienza della natura e del
carattere di questo capovolgimento, di teorizzarne le
forme e la fenomenologia psicologica. Egli ha messo in
mano ai suoi contemporanei ed ai posteri una specie di
metodo intellettuale-morale per diventare scopritori
scientifici. Che i contemporanei e i posteri poco si siano
accorti di questo dono e ne abbiano – almeno
coscientemente – fatto scarso uso, dipende in parte da
306
Kant stesso e dall'interpretazione che egli diede della
propria dottrina.
Egli non ha mancato di notare una essenziale
differenza fra la sicurezza raggiunta dalla matematica e
quella raggiunta dalla fisica al seguito della rivoluzione
costitutiva di queste scienze in quanto tali. La prima è
divenuta una scienza completamente a priori, pura. Le
sue proposizioni discendono necessariamente dalle
assunzioni iniziali, e l'esperienza può essere
completamente esclusa dal suo sviluppo se non come
controllo e conferma di risultati ottenuti col calcolo. La
seconda invece è a priori solamente in parte.
L'esperienza ha ancora una parte preponderante; e,
seppure è la ragione ad avvicinarsi ad essa non
passivamente, ma col fare del giudice che interroga i
testimoni; seppure è la ragione che decide quali
domande vadano poste all'esperienza; è pur sempre
l'esperienza che dà le risposte, e dà risposte che la
ragione non potrebbe in alcun modo prevedere né
dedurre dai suoi principî. Nell'addurre gli esempi di
Galilei, di Torricelli, di Stahl, Kant vuol mostrare come
il progresso sia consistito nell'introduzione di un
elemento a priori nella ricerca naturalistica; nell'operare
una scelta, un raggruppamento dei fenomeni secondo
criteri rispondenti alle nostre esigenze; criteri che hanno
portato un ordine ed una regola là dove prima era il
caos. Ma il materiale da ordinare non dipende dalla
ragione. Non c'è nessun principio della ragione da cui
Galilei abbia potuto dedurre che i corpi nei pressi della
307
terra debbano subire una accelerazione e che questa
debba proprio essere di 981 cm/sec2, o Torricelli che il
peso dell'atmosfera debba essere proprio di 76 cm di
mercurio per cmq.
Di questa fondamentale differenza fra la matematica e
la fisica dei suoi tempi, Kant si rese sicuramente conto;
ma tentò, per cosí dire, di offuscarla, ponendo le due
scienze sullo stesso piano, in posizione parallela, l'una
nell'Estetica trascendentale, l'altra nell'Analitica
trascendentale. Alla matematica pura, fondata sulle sole
intuizioni trascendentali dello spazio e del tempo, egli fa
corrispondere una fisica pura fondata sulle forme
trascendentali del giudizio. Si affretta però a notare fin
da principio che questa fisica di cui parla non è quella
comunemente intesa:
Noi siamo veramente in possesso di una scienza naturale
pura, che presenta a priori e con tutta la necessità che è
richiesta per principî apodittici, le leggi cui sottostà la natura.
Non posso qui invocare altra testimonianza che di quella
propedeutica della dottrina della natura che, sotto il titolo di
Scienza naturale generale, precede ogni fisica (basata su
principî empirici). In essa si trova la matematica applicata ai
fenomeni, ed anche principî puramente discorsivi (derivanti da
concetti) che costituiscono la parte filosofica della pura
conoscenza della natura. Ma anche in essa vi è qualcosa di non
completamente puro ed indipendente da fonti sperimentali:
come i concetti del movimento, dell'impenetrabilità (su cui si
fonda il concetto empirico di materia), dell'inerzia, ecc., i quali
le impediscono di chiamarsi scienza naturale generale in senso
stretto, giacché quest'ultima vuole ridurre la natura in genere –
308
sia come oggetto dei sensi esterni, sia del senso interno (cioè
come oggetto della fisica o della psicologia) – a leggi
universali. Ma tra i principî di quella fisica generale se ne
trovano alcuni che hanno effettivamente quella universalità
che noi pretendiamo, come il principio che la sostanza rimane
e perdura, che tutto ciò che avviene è sempre predeterminato
da una causa secondo leggi costanti, ecc. Queste sono
veramente leggi naturali universali che sussistono
completamente a priori. Vi è dunque effettivamente una fisica
pura280.
309
l'intuizione pura esprimentesi in proposizioni sintetiche
a priori del tipo di quelle secondo cui «in un punto non
si possono tagliare ad angolo retto piú di tre linee», o
per cui «una retta può prolungarsi all'infinito», o «tre
punti stanno sempre in un piano», da esse derivano
necessariamente tutti i teoremi della geometria. Ma dal
concetto di causa, o di sostanza, nelle sue specificazioni,
non è possibile dedurre, senza ricorrere all'esperienza, le
leggi della fisica.
La rivoluzione insomma che aveva trasformato la
geometria da una scienza empirica in una scienza a
priori, era stata compiuta dalla fisica, ai tempi di Kant,
solo a metà; e difficilmente poteva arguirsi che la
scienza della natura avrebbe potuto in seguito liberarsi
completamente dall'esperienza. Possiamo dunque
rispondere alla domanda che ci eravamo posti dicendo
che se Kant potesse leggere oggi le parole da noi citate e
per di piú gli venisse detto che «quando il criterio
epistemologico delle definizioni sia applicato
sistematicamente e le sue conseguenze siano conseguite
matematicamente sino in fondo, noi possiamo esser
capaci di determinare tutte le leggi fondamentali della
natura (comprese le costanti puramente numeriche della
natura) senza nessuna ipotesi fisica»282, egli se ne
rallegrerebbe come di uno straordinario successo
ottenuto in una direzione a lui cara; ma se ne
310
meraviglierebbe altamente, come di qualche cosa che
era ben lontano dal prevedere e dal considerare
possibile.
Kant considerava lo stato raggiunto dalla fisica ai
suoi tempi come circa definitivo, da un punto di vista
gnoseologico. E, se pure riteneva possibili ulteriori
scoperte all'infinito, non pensava certo ad una nuova
rivoluzione radicale del tipo di quella copernicana.
Tanto meno vi pensava per la geometria che aveva
raggiunto un'esattezza oltre la quale gli sembrava
impossibile andare. Il compito che egli si proponeva era
di estendere questa rivoluzione alla metafisica, non di
proseguirla o di rinnovarla nel campo delle scienze
esatte e sperimentali.
E tuttavia la fisica, ed anche la geometria, hanno
nuovamente compiuto, ciascuna per proprio conto, un
capovolgimento di punto di vista paragonabile a quello
teorizzato da Kant. E ne hanno tratto la consueta
straordinaria messe di scoperte e di applicazioni. Questo
capovolgimento è apparso a molti in aperta
contraddizione con la dottrina kantiana283. Ad altri
invece è sembrato svolgersi proprio nello spirito del
kantismo284.
311
Ambedue i punti di vista sono sostenibili, a seconda
che si intenda per kantismo un corpo stabile e definito di
dottrine riguardante le forme a priori della sensibilità e
dell'intelletto; oppure un determinato atteggiamento
dello spirito, un modo di porsi di fronte ai problemi
inaugurato da Kant e che può essere proseguito anche
riguardo a questioni che Kant non si era prospettato e di
cui non aveva idea. La questione ha una notevole
importanza ai nostri scopi. Essa ci porterà a decidere se
la fisica piú recente abbia percorso il suo cammino, per
cosí dire, a caso, guidata essenzialmente dall'impegno di
dare una giustificazione teorica dei risultati sperimentali
raggiunti, oppure se sia stata guidata, coscientemente o
no, da una direttiva gnoseologica che sia opportuno
individuare per renderne coscienti gli scienziati e
spingerli ad applicarla sistematicamente. E, piú in
generale, ci permetterà di renderci conto dei rapporti
che intercorrono tra la filosofia e la scienza della natura
e dei servizi che eventualmente la prima può rendere
alla seconda.
La preoccupazione essenziale di Kant era dunque di
teorizzare la rivoluzione che aveva posto la geometria e
la fisica su basi scientifiche: dimostrare cioè come i
principî su cui queste scienze si fondano non siano
realtà in sé, ricavabili passivamente dal mondo
esteriore, ma forme della nostra mente, cornici entro cui
inquadriamo il contenuto della nostra esperienza, e che
imponiamo, per cosí dire, ad essa. Egli doveva poi
312
anche mostrare come il riconoscimento di questo
carattere a priori, anziché togliere stabilità e valore alla
scienza, la ponga su base sicura, ci renda padroni del
suo procedere e del suo sviluppo, e ci permetta di
raggiungere sistematicamente e con metodo quei
risultati che altrimenti si sarebbero ottenuti solo
frammentariamente. Kant doveva dunque opporsi ad
ogni interpretazione soggettivistica o scettica di quel
capovolgimento. Ad ogni dottrina secondo cui quelle
forme e quei principî, appunto perché appartenenti alla
nostra mente e non al mondo oggettivo, verrebbero a
rappresentare null'altro che una illusione del soggetto,
che una deformazione arbitraria della realtà. Per far
questo egli doveva da un lato scalzare il mito di una
realtà a sé stante, indipendente dal soggetto, dall'altro
mostrare chiaramente come quelle forme e quei principî,
pur avendo la loro origine nella mente umana, abbiano
in essa la stabilità e la solidità delle idee eterne; siano
qualche cosa da cui la mente umana non può
prescindere né può mutare, perché costituiscono la sua
stessa essenza. Alla stabilità del mondo oggettivo egli
deve sostituire la stabilità delle forme trascendentali
affinché la geometria e la fisica mantengano la propria
universalità e la propria certezza.
È questo l'aspetto della dottrina kantiana che ha piú
impressionato i filosofi. La conversione del concetto di
realtà in quello di oggettività, ed il fondamento di
quest'ultimo in una concordanza e coerenza delle
rappresentazioni fra loro, la distinzione fra fenomeno e
313
noumeno, e l'affermato agnosticismo riguardo a
quest'ultimo, hanno dato luogo ad infinite discussioni.
La filosofia non si è rassegnata ad abbandonare il
concetto di realtà, o di esistenza; e, non potendolo piú
attribuire alla cosa in sé, lo ha attribuito al Soggetto,
all'Io trascendentale, o ad una unità di soggetto ed
oggetto. Essa ha rivolto a Kant l'eterna obbiezione
contro gli scettici: con l'affermare che della cosa in sé
non si può dire nulla, se ne è già affermato qualche cosa,
se ne è già ammessa l'esistenza; la negazione di una
verità assoluta, in quanto pretenda di essere valida,
costituisce l'affermazione di una verità.
Sono obbiezioni insolubili, che costringono ad
aggirarsi in un eterno circolo vizioso, finché si usino,
esplicitamente od implicitamente, i termini realtà,
verità, esistenza, come concetti primi, elementari,
irreducibili; come, direi, il materiale grezzo di cui è
costituito il ragionamento. Solo servendosi di concetti
elementari di tutt'altro genere e vietando esplicitamente
qualsiasi uso dei termini verità, esistenza, ecc., con un
significato primitivo ed irriducibile ad altro, si può
uscire da quel circolo. Ma è cosa molto piú difficile di
quanto sembri a prima vista, perché quei concetti
entrano comunemente nel nostro discorso non solo
come sostantivi; e si nascondono, per esempio, sotto la
copula che unisce il soggetto al predicato nelle nostre
piú comuni proposizioni. Per liberarsi dell'esigenza
della realtà o della verità o dell'esistenza, non basta
procedere discorsivamente; bisogna compiere uno di
314
quei capovolgimenti di punti di vista in cui sono
investiti anche i centri morali, sentimentali, affettivi.
Bisogna non risolvere il problema della realtà, ma
sciogliere l'atteggiamento psicologico che lo pone e dà
ad esso un senso; ed iniziare un discorso nel quale la
domanda «È vero ciò?» oppure «Corrisponde ciò ad una
realtà oggettiva?» non abbia piú alcun significato e non
possa ricevere alcuna risposta.
Se e come un tale atteggiamento sia possibile,
vedremo in parte in seguito. Comunque, non è questo
l'atteggiamento di quelle che comunemente si chiamano
le filosofie postkantiane. In esse l'esigenza della realtà o
dell'oggetto, è ancora l'esigenza centrale. Conscie
dell'impossibilità di rinunciare alla soluzione di quel
problema, fin che si dia alle parole vero e reale un
significato, cioè fin che si ammetta come legittimo
l'atteggiamento spirituale che conduce a pronunziarle,
incapaci d'altra parte di superare quell'atteggiamento
che esse considerano l'atteggiamento filosofico per
eccellenza e da cui mai non vorrebbero staccarsi per non
perdere il proprio stesso motivo di vita, quelle filosofie
si aggirano intorno al dualismo soggetto-oggetto, alla
ricerca di un punto di entrata in quel circolo, che
permetta di svilupparne con coerenza i termini;
fermandosi ora sul Soggetto assoluto, ora sull'Oggetto
assoluto, ora su di una iniziale ed originaria unità di
soggetto ed oggetto; sempre dando a questi punti di
partenza un carattere tale che permetta di soddisfare la
nostra esigenza di oggettività, di realtà.
315
Che queste filosofie possano a buon diritto chiamarsi
eredi del kantismo, è indubitabile. Esse ne hanno ripreso
uno dei problemi principali, sviscerandolo a fondo,
lumeggiandolo in numerosi suoi aspetti, vivendone, per
cosí dire, l'insolubilità. Nel corso dei loro sviluppi
hanno compiuto delle notevolissime scoperte su alcuni
fondamentali aspetti del rapporto soggetto-oggetto e
sullo svolgersi dell'uno dall'altro (il concetto di
dialettica ne è un tipico esempio). Ma si sono venute
sempre piú allontanando dalle scienze matematiche e
naturali. Il loro oggetto di studio non era piú la
rivoluzione che ha aperto la via al progresso di queste
scienze con l'individuarne gli elementi a priori; ma il
problema della oggettività o meno di questi elementi a
priori, e della possibilità o meno di dare ad una
conoscenza cosí conformata un valore di realtà. Il
problema della conformazione della conoscenza
scientifica si era trasformato in quello della sua validità.
Se si definisce questo come l'essenziale problema della
filosofia, è chiaro che la filosofia, cosí intesa, può essere
di scarsissimo aiuto alla scienza.
Ma da Kant si dipartono altre vie285. Egli aveva
codificato, per cosí dire, le forme a priori secondo cui la
nostra intuizione e il nostro intelletto organizzano il
contenuto della conoscenza. Sorse ben presto il dubbio
che la codificazione non fosse esatta, che l'elenco delle
categorie non fosse esauriente. Ci si accorse che
316
l'attività formatrice ed organizzatrice dello spirito va
molto al di là dello spazio e del tempo e della tabella dei
giudizi. Si misero in luce altri aspetti dello spirito, che
Kant aveva ignorati, e che si presentavano con un
carattere altrettanto universale, essenziale e necessario.
La preoccupazione di Kant era stata piú gnoseologica
che psicologica; e le forme, le categorie da lui teorizzate
come sintetiche a priori, erano le consuete categorie che
avevano servito per secoli e secoli di base alla filosofia
e alla scienza: quantità, qualità, sostanza, causa, tempo,
spazio, ecc. Volendone indagare la natura e la posizione
nello spirito, egli non aveva fatto che riprenderle di peso
dalla tradizione vigente ai suoi tempi.
Ma la nuova coscienza acquistata che queste
categorie non avessero una realtà a sé, e fossero
semplicemente forme necessarie del nostro spirito, ha
attirato l'attenzione di molti sullo spirito stesso in tutta
la sua estensione e in tutte le sue varie esplicazioni,
anche non puramente scientifiche e conoscitive. Si sono
trovate altre forme e categorie che potevano a buon
diritto attribuirsi un valore universale. Altri campi della
realtà oggettiva sono passati sotto il dominio delle
forme trascendentali: il bello, il buono, lo stesso divino.
Altre tendenze sono andate piú in là, nello scalzare
l'immagine tradizionale del mondo dello spirito; hanno
considerato come originarie, come primitive ed
essenziali, formazioni oscure, nascoste nei piú intimi
meandri della coscienza, tenute fino allora celate dal
bisogno di ordine e chiarezza, di responsabilità e
317
giustificazione del pensiero classico: l'angoscia, il
terrore, il senso della morte, il dolore; oppure la libido o
il senso di colpa, o il complesso di inferiorità, o l'eros o
la simpatia286.
Chi si è avvicinato a queste forme spirituali con
mentalità filosofica, ha cercato di procedere secondo il
metodo trascendentale; ha accentuato cioè l'autonomia e
la necessità di questi concetti, mostrandoli come
componenti primi ed irriducibili del mondo dello spirito,
descrivendone l'atteggiarsi ed il procedere come qualche
cosa di essenziale, di originario, come della sostanza
stessa di cui è fatta la realtà umana. Ai termini primi a
carattere razionale-logico, in cui si era soliti scomporre
il mondo della conoscenza e dell'azione, essi
sostituirono quei nuovi atomi spirituali, come un nuovo
materiale con cui comporre il mosaico del mondo
umano. Ma piú che nel lavoro di ricostruzione, costoro
si impegnarono, in quanto filosofi, nell'affermazione di
queste forme: nel propugnare e descrivere un metodo di
introspezione che giungesse ad esse come elementi
originali, che le riconoscesse come dati a sé stanti ed
indipendenti dell'anima. In quanto tali riconobbero ad
esse quel carattere stabile e solido, quella
286 Si tratta di cose cosí note, che non è il caso di far citazioni.
Vorrei solo ricordare, per il concetto di eros o per quello di amore
o di simpatia, il libro di Klages, Vom kosmogonischen Eros, gli
studi di Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, Liebe und
Erkenntnis, ecc.; e infine l'interessante saggio di Denis de
Rougemont, L'amour et l'occident, Paris 1939.
318
indecomponibilità, quella oggettività che si suole
attribuire a ciò che si vuol chiamare reale. E parlarono
di esistenza; giungendo per altra via e con altro carico
psicologico ed umano al medesimo porto cui erano
giunte quelle che abbiamo chiamate le filosofie
postkantiane.
Proprio in questo comune punto di arrivo, in questa
medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di
raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un
valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere
riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse
e di fini che permette loro di attribuirsi il nome comune
di filosofia. E forse proprio la mancanza di questo scopo
essenziale è ciò che li spinge a contestare il diritto di
fregiarsi di tal nome a vari modi di procedere, che pure
da queste medesime osservazioni e da questa medesima
raccolta di materiale prendono le mosse. La filosofia,
essi dicono, non può che avere un fine conoscitivo. Cioè
tendere all'affermazione di una verità (sia pure quella
che non sia possibile raggiungere alcuna verità). Ogni
attività che, pure servendosi di dati e risultati ricavati
dalla filosofia, non si proponga tale scopo, sarà scienza,
o attività pratica, o altro, ma non è certo filosofia.
Non saremo certo noi a contestare la legittimità di
questo uso del termine filosofia. Solo vogliamo
osservare che con questa affermazione la filosofia ha
legato se stessa all'uso dei concetti di verità, realtà,
esistenza, come concetti primi ed irreducibili; e ciò
anche quando la sua essenza e la sua novità consista
319
proprio nell'affermare che i concetti da usarsi come
primi ed irreducibili sono di tutt'altro genere. Con
questo uso, la filosofia si è insomma autodefinita come
la scienza che usa i termini di verità, realtà, esistenza,
ecc. come termini primitivi ed irreducibili.
Comunque, affini e parallele a queste ultime cui
abbiamo accennato, corrono altre correnti che prendono
anch'esse le mosse dalla scoperta, nel fondo oscuro della
coscienza umana, di una intenzionalità affettiva, di un
mondo fluido di tendenze, di simpatie, di errori, che
appare come alcunché di piú profondamente originario,
di piú elementare, di piú primitivo, che le piú chiare e
consuete forme considerate dalla scienza dello spirito
come autonome nell'animo umano. Solamente, anziché
occuparsi essenzialmente dell'affermazione di tali
forme, della loro giustificazione, del riconoscimento di
esse come dati necessari e trascendentali dello spirito,
tali correnti si interessano piuttosto del loro uso. Piú che
accentuarne l'universalità e l'esistenza, esse si
preoccupano di vedere se, assumendole come criteri
euristici, come strumenti di lavoro, non sia possibile
presentare l'insieme della vita spirituale, o suoi
particolari aspetti, sotto un aspetto diverso dal consueto
ed eventualmente piú utile a determinati fini: se quelli
che erano sempre stati considerati come i piú tipici ed
essenziali atteggiamenti dello spirito – conoscenza,
volontà, sentimento, memoria, razionalità, morale, ecc.
– non possano essere considerati con frutto come
320
formazioni complesse, costituite da una combinazione
od evoluzione di altri elementi piú semplici.
Si tratta di un procedimento di scomposizione e
disgregazione del mondo spirituale, analogo a quello
che ha permesso alla fisica di considerare l'atomo,
ritenuto inizialmente individuale, come un edificio
complesso costituito da protoni ed elettroni. Le forme
essenziali dello spirito si mostrano come risultanti e
quasi cristallizzazioni esteriori di questo mondo
intenzionale, sotterraneo, fluido, inafferrabile agli
strumenti della comune logica, che serpeggia al di sotto
del mondo costruito e stabile nel quale gli uomini
costruiscono i loro punti di riferimento, i piloni di
approdo del loro pensiero, le basi comuni e generiche
che garantiscono loro la possibilità di comunicare,
discorrere, sopportarsi a vicenda. Nietzsche aveva
indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi
lo seguí col pacato distacco dell'indagatore.
La presenza di questo mondo sotterraneo non poteva
essere dimostrata con ragionamenti, che avrebbero
presupposto la validità di quelle formazioni stesse che si
trattava di scalzare. Né era il caso di cogliere con
immediatezza questo mondo mediante un processo di
introspezione intuitiva, di ascesi antirazionale. Secoli e
secoli di esperienza mistica ed irrazionalistica avevano
infatti oramai esaurito il campo di ciò che si può
ottenere mediante una semplice eliminazione e
negazione della ragione. Per chi voglia mostrare che una
sostanza non è semplice, ma composta, il miglior
321
metodo non è di ragionare sulla sua essenza, né di
osservarla da tutte le parti, né di abbandonarla andando
in cerca di altre sostanze che si possano considerare piú
semplici; ma effettivamente di scomporla, e ricomporla
poi mediante gli elementi cosí ottenuti. Solo quando
siamo padroni del suo processo formativo, e lo
possiamo ripetere, influenzare, modificare, prevedere, a
nostro piacere, solo allora possiamo dire di conoscerlo
veramente. Conoscerlo, anzi, non significa, in questo
caso, altro che questo esserne padroni; e la parola
conoscenza perde il suo significato di constatazione o
affermazione di una realtà o di una verità, per assumere
quello di padronanza di un processo.
Forse proprio per questa differenza nel significato del
termine conoscenza, siamo qui già fuori del campo vero
e proprio della filosofia. Ma non è questo che ci
interessa qui. Ci interessa vedere come la psicologia
moderna faccia intravedere la possibilità di sciogliere
quelle formazioni spirituali che sembrano le piú stabili
ed elementari e refrattarie alla scomposizione287.
287 Dei metodi psicanalitici è difficile sentir parlare, nel
mondo della cultura, senza passione. È questo forse il maggior
sintomo della loro potenza dissolutrice. Non si usa violenza ed
aggressività se non contro chi direttamente ci minaccia. E ciò
basterebbe alla dimostrazione della nostra tesi, che non vuole
affermare se non che tali metodi si presentano capaci di
disgregare alcuni valori ed alcune formazioni cui la nostra cultura
è legata con le sue piú intime fibre. Se sia bene accettare tale
dissoluzione, o non bisogni invece difendersi dalla minaccia, non
vogliamo qui decidere. Penso solo che potremo renderci molto
322
Si è cominciato con le forme patologiche: coi
fenomeni nevrotici, con le fobie, le idiosincrasie, gli
isterismi. Si è trovato un metodo di dissoluzione, che
permette di considerare queste formazioni, le quali
incombono sull'ammalato con tanta forza e necessità,
come dei groppi, dei nodi, dei ristagni di quella vita
meglio conto di quei valori e dell'opportunità di mantenerli e
svilupparli, se non avremo rifiutato di procedere alla loro
dissoluzione. Essi ci potranno tanto meglio servire quanto meglio
li sapremo maneggiare. Con ciò non si vuol negare che i metodi
psicanalitici siano attualmente in uno stadio di sviluppo
assolutamente rudimentale. È certo che molte cure hanno fatto
peggiorare l'ammalato anziché guarirlo; e che la psicanalisi è uno
strumento pericoloso che può far raggiungere il risultato opposto
a quello desiderato. Ma anche questo è piuttosto un argomento a
favore che contro la sua efficacia; cosí come non è un argomento
contro il potere esplosivo della dinamite, l'osservare che al suo
scopritore sono saltati per aria parecchi stabilimenti. Un metodo
di cura che non toccasse qualche cosa di vivo e sensibile, non
potrebbe neppure far del male. Si ha qui l'impressione di trovarsi
su di un terreno straordinariamente ricco e fecondo di cui non si
conosca però ancora bene il metodo di cultura. Neppure voglio
negare che numerose applicazioni dei metodi psicanalitici al
mondo della cultura e dell'arte, siano puerili ed affrettate:
semplici trasposizioni da un campo all'altro, compiute senza
attenzione alla particolarità di ciascun problema. Una maggior
preparazione culturale, da parte degli specialisti della psicanalisi,
non guasterebbe. Ma a questa disciplina nuoce la sua posizione
ambigua tra la scienza e la filosofia. I filosofi non vogliono
occuparsene, giudicandola di competenza dello scienziato; lo
scienziato la respinge, classificandola sotto la rubrica filosofia. E
mi sia concesso esprimere timidamente, dal fondo di questa
323
oscura di tendenze e di passioni che serpeggia
nell'incosciente di ciascuno. Immaginarie difese contro
pericoli immaginari; espiazioni fantastiche di
fantastiche colpe. Il mondo cosí ricco e sconosciuto
dell'infanzia, col suo indecifrabile linguaggio
intenzionale, con le sue rapide e impensate trasposizioni
di significati, con le sue bufere improvvise di passione e
di gelosia; questo mondo cosí radicalmente diverso dal
nostro, popolato di semidei onniscienti e onnipotenti,
benevoli e malevoli, amati insieme e temuti, dalle azioni
cosí spesso misteriose e incomprensibili (tali infatti
appaiono per lo piú gli adulti al fanciullo); questo
mondo in cui i limiti tra il vero e il falso, tra il possibile
e l'impossibile, tra la realtà ed il sogno, sono labili ed
imprecisi; questo mondo appare il responsabile nascosto
di quasi tutti i nostri difetti psichici e delle nostre manie.
Sono relitti della nostra vita infantile, che affiorano
prepotenti e molesti tra le maglie dell'ordine e della
regola tra le quali siamo soliti imbrigliare la nostra vita
di uomini civili; residui mal digeriti o mal dimenticati. Il
riconnetterli con l'insieme da cui sono sorti, far risorgere
alla coscienza quella vita scomparsa e soppressa, che si
324
è vendicata in modo cosí subdolo e maligno della
propria esclusione, significa guarire. Il malato assiste
con meraviglia quasi incantata a questa resurrezione288; i
frammenti ricombaciano, i nodi si sciolgono, le difese si
rilasciano, i terrori, i rancori si pacificano 289. La salute si
ottiene facendo riaffiorare l'incosciente alla luce della
coscienza. E la malattia risulta null'altro che un ingorgo
nel processo di costrizione delle acque tumultuose della
passionalità infantile entro i tranquilli canali della
ragione, della realtà, della morale, della convivenza col
prossimo.
Ma qui appunto si mostra il grande interesse di questi
studi, anche per la psicologia dell'uomo sano. Questo
processo di incanalamento, questa elaborazione della
materia grezza in forme armoniche e coerenti, è lavoro
che compiono tutti, sani e malati, secondo uno schema
piú o meno costante, determinato dalla nostra stessa
condizione di esseri umani, dai nostri rapporti col
mondo circostante, da alcune caratteristiche generali
288 Si veda per es. il ciclo di poesie di Umberto Saba,
intitolato Il piccolo Berto.
289 È questo, se non erro, il nucleo del metodo, su cui si
accordano tutte le varie scuole che hanno avuto origine dalla
scoperta di Freud. I dissensi vertono piuttosto su ciò che si debba
considerare come l'elemento essenziale dell'affettività infantile: se
sia la libido colla sua espressione fondamentale nel complesso di
Edipo (Freud), o non piuttosto il complesso di inferiorità (Adler),
o ambedue queste cose ed altre ancora (Jung). Ma queste
discussioni non hanno importanza determinante per l'argomento
che stiamo trattando.
325
della collettività in cui viviamo. I sani lo compiono con
scioltezza, senza scosse; i malati in modo incerto ed
impacciato, urtano continuamente contro inciampi ed
intoppi. Ma il processo è il medesimo; ed è, all'ingrosso,
uguale in tutti gli uomini, perché è comune a tutti il fatto
di nascere, e di sentire fame e sete, piacere e dolore, e
stimoli sessuali; è comune a tutti di avere due occhi e
due gambe e due mani che vengono stimolate nel
medesimo modo; e tutti hanno un padre e una madre, ed
in genere vengono educati da essi o da chi li sostituisca,
e ricevono nella loro infanzia attestazioni di affetto e
rimbrotti, doni e castighi. Ed hanno intorno a sé altri
bambini, con cui devono abituarsi a vivere, e si
accorgono a proprie spese che non tutte le loro voglie
possono essere soddisfatte.
Nessuno contesterà probabilmente che, se i nostri
organi fossero disposti in altro modo, se, poniamo, il
procacciamento del cibo fosse per noi un'attività cosí
semplice come quella del respirare, se nascessimo già
maturi e non bisognosi di alcuna cura (per non fare
ipotesi ancora piú lontane dal nostro stato attuale),
anche i nostri concetti di realtà e di volontà e di ragione
e di morale sarebbero ben diversi da quel che sono.
Sono osservazioni cose banali, che vengono per lo piú
sottintese dai filosofi. Ma il sottintenderle è pericoloso.
Conduce a dimenticarle; a porre l'accento solo sulla
necessità, sull'universalità, sulla trascendentalità di quei
concetti, sul loro valore obbiettivo.
326
L'obbiettività stessa, invece, potrebbe forse essere
considerata come un criterio antropomorfico, derivante
dal bisogno di sicurezza, dalla tendenza a sentirsi
circondati da un universo stabile e permanente, e la
necessità, su cui essa si fonda, potrebbe risultare
qualche cosa di non molto diverso dalla coazione con
cui certi sintomi nevrotici incombono sull'ammalato. Si
vorrà negare, per esempio, che della voce della
coscienza o dell'imperativo categorico di cui gli uomini
sono soliti gloriarsi come di qualche cosa di assoluto, e
su cui Kant fondava l'unico argomento che permettesse
di riferirsi ad una realtà noumenica, si possa seguire un
lungo e difficile processo di formazione, processo
intessuto di successive delusioni e forzate limitazioni
dei propri desideri; di tentativi falliti da parte del
fanciullo di sfuggire all'occhio infallibile dei genitori;
del senso di nudità che egli prova quando viene scoperto
a fare qualche cosa di proibito, o quando si accorge che
le cose che aveva piú accuratamente nascosto sono
facilmente risapute dai grandi? L'imperativo categorico
è un trattato di pace con questo occhio invisibile; è un
sottometterglisi volontario dopo aver tentato invano di
eluderlo. Che esso rappresenti la forma piú alta di
morale e di civiltà, non si vuole affatto contestare. Si
vuol contestare che sia qualche cosa di primitivo, di
originario, di irreducibile. È anzi una forma – appunto
perché altamente morale e civile – estremamente
complessa ed evoluta. In esso entra il passaggio dal
particolare all'universale, cioè la sostituzione della
327
persona fisica e concreta del genitore o del maestro con
un ente impersonale ed astratto avente tutte le
caratteristiche di onnipotenza e di infallibilità che il
bambino aveva inizialmente attribuito ai suoi singoli
protettori, e che è costretto a ritirare ad essi man mano
che si accorge della loro umana limitazione (si tratta
qui, in sostanza, di un fenomeno di attaccamento ad un
ideale infantile che non si vuole abbandonare, anche
quando non si trovi piú nessuna persona fisica capace di
impersonarlo). E vi entra poi una introiezione di questa
rappresentazione dal mondo esteriore a quello interiore,
che corrisponde a ciò che si chiama in termini filosofici
passaggio dal trascendente all'immanente: il
riconoscimento cioè che il luogo piú sicuro ove
conservare ciò che piú si ama e si teme, ciò da cui non
ci vorremmo mai staccare, siamo noi stessi. Una specie
di difesa dell'assoluto, insomma, dai pericoli connessi
con l'appartenere al mondo esteriore, dalla aleatorietà
cui è ivi soggetto, introducendolo in un mondo di cui
siamo totalmente padroni, e in cui possiamo piú
facilmente preservarne l'assolutezza e l'universalità (è
questo forse, sia detto fra parentesi, uno dei significati
piú intimi della rivoluzione kantiana di cui abbiamo
parlato all'inizio di questo capitolo. Quello che era
apparso allora un atto di umiltà e di modestia, la
rinunzia ad un mondo esterno a noi congeniale, si
mostra qui quasi come un atto di gelosia: l'eliminazione
del timore continuo che questo mondo esterno un giorno
ci tradisca, e non risponda a ciò che noi attendiamo da
328
esso. Col rinchiuderlo dentro di noi, ce ne sentiamo e
diveniamo effettivamente padroni; ma non di meno
siamo dipendenti da esso, dalla sua necessità, dalla sua
assolutezza. Il nostro dominio consiste nella facoltà di
servire con sicurezza, con totalità).
Ho voluto solo esemplificare; e non pretendo che il
mio esempio sia né esauriente, né completo e neppure
esatto. Mi interessava solo indicare il tono, l'atmosfera
spirituale che ha permesso, in alcuni casi, di compiere la
dissoluzione di alcune categorie eterne della filosofia
classica.
Con l'usare questo linguaggio, so di alienarmi la
simpatia di persone che apprezzo e stimo; di espormi al
loro dileggio e di screditare a priori ai loro occhi questo
lavoro. So che basterà citare, in alcune riviste, questa
pagina, per convincere la maggioranza del pubblico
serio della mia leggerezza e fatuità, e per distoglierlo
dalla lettura del resto.
Eppure credo di non aver detto nulla che – quando ci
si fosse intesi sull'uso delle parole e sull'accento da porsi
sopra i vari concetti – non possa apparire come un
evidente truismo. Che verità cosí palmari risultino, in un
determinato contesto, urtanti paradossi, è proprio ciò
che mi spinge a metterle in carta, sfidando i pericoli che
la cosa può comportare. L'osservare il modo onde
avviene questa conversione, può essere istruttivo ai
nostri scopi.
Verrò dunque probabilmente accusato di aver
presentato due dei processi fondamentali dello spirito,
329
processi che sia teoricamente sia storicamente fanno
parte, per cosí dire, dell'atto costitutivo della filosofia –
cioè il passaggio dall'individuale all'universale e dalla
trascendenza all'immanenza – come giuoco da bambini,
di averli, per cosí dire, screditati, riducendoli alle
dimensioni delle piccole lotte e bizze che avvengono
nell'animo di ogni adolescente, nell'atmosfera sovente
meschina delle famiglie. Ora vorrei domandare: questi
due processi, intesi come momenti ideali ed eterni dello
spirito, costitutivi della sua medesima essenza, si
riferiscono (è vero, benché sembri superfluo dirlo) allo
spirito umano? In esseri dotati di altri organi ed altre
consuetudini di vita (gli animali, per esempio) abbiamo
motivo per supporre che non abbiano luogo, o abbiano
luogo in modo totalmente diverso. Quando parliamo di
spirito, o di soggetto, o di io, ci riferiamo pur sempre
allo spirito, al soggetto, all'io degli uomini e delle
donne; di esseri cioè limitati nello spazio e nel tempo,
dotati di precise caratteristiche, che sono cosí, ma che
non sarebbe difficile immaginare altrimenti. I due
processi in questione, se rappresentano (come
rappresentano) due momenti essenziali dello spirito,
vengono vissuti da ciascuno nella propria esperienza
personale. E questa esperienza non ha luogo forse in un
determinato punto del tempo e dello spazio, ad una
determinata età ed in determinate circostanze della vita?
Il precisare queste circostanze diminuisce forse
l'importanza di quella esperienza, la sua serietà, la sua
solennità?
330
È proprio forse l'esperienza cruciale dell'uomo; quella
che da bambino lo trasforma in adulto, cioè da essere
dalla visione parziale e limitata lo trasforma in un essere
capace di allargare il suo sguardo all'infinito, di superare
ogni barriera, di attingere all'universale. Ma forse che
un'esperienza fatta nell'adolescenza, in una determinata
situazione precisabile nel ricordo di ognuno, è per
questo meno importante, meno decisiva, per la
coscienza intellettuale e morale dell'individuo? È per
questo l'uomo legato ad essa da vincoli meno saldi?
Ci si risponderà che non si tratta qui della serietà e
solennità di quella esperienza, ma del fatto che essa
costituisce l'istanza stessa mediante la quale noi
giudichiamo ogni esperienza; che la sua trascendentalità
ci è garantita non tanto dall'introspezione e dal senso di
coazione col quale ci sentiamo legati ad essa, quanto dal
fatto che ogni giudizio da noi formulato, in quanto abbia
un valore di verità, la presuppone; e la presuppongono
quindi anche i giudizi mediante i quali ciascuno di noi
esprime il sorgere di essa nel proprio personale passato
con tutte le sue particolarità. Ci si risponderà che lo
Spirito o il Soggetto o l'Io di cui si parla, è sí lo spirito e
il soggetto degli uomini, ma insieme qualche cosa di piú
in quanto conosce e giudica quello spirito stesso, e ne
riscontra la singolarità e la limitatezza e la possibilità di
essere altrimenti fatto. Non si nega – ci si risponderà –
che siano facilmente immaginabili esseri diversi
dall'uomo, dotati di categorie intellettuali altre da quelle
che siamo soliti riscontrare in lui. Ma l'attività stessa che
331
immagina tali esseri, essa a sua volta può essere
immaginata diversa da quella che è solo a patto di non
essere piú se stessa, di non essere cioè piú un'attività che
immagina, ma una che viene immaginata.
Questo breve scambio di domande e di risposte ci
permette di renderci conto di quanto di molesto e di
irritante avessero le precedenti affermazioni. Esse
venivano considerate come un'ennesima edizione della
polemica del positivismo contro l'idealismo, come una
ennesima confusione tra il concetto empirico e il
concetto puro. Vorremmo ora cercar di mostrare che non
si tratta di ciò.
Abbiamo già tentato di distinguere due usi del
termine conoscenza: come affermazione di una verità e
come padronanza di un processo. In generale, tutte le
proposizioni della scienza sperimentale hanno questo
secondo carattere. Quando dico che il sale da cucina è
composto di cloro e di sodio, ciò significa che sono in
grado di scomporre il sale da cucina in cloro e sodio.
Quando dico che i corpuscoli materiali, passando
attraverso un reticolo cristallino, subiscono una
rifrazione, ciò significa che io sono capace di far subire
ad un fascio di elettroni quella modificazione che la
fisica interpreta in questo modo. Quando dico che la
massa del Sole è tante volte quella della Terra, ciò
significa... non che io sia capace di mettere sui due piatti
della bilancia il Sole e tanti globi uguali alla terra, per
constatare che la bilancia rimane in equilibrio, ma che
332
questa assunzione, unita ad altre implicite nel concetto
di massa gravitante, mi permette di calcolare l'orbita
della terra, e di prevedere la sua posizione ad ogni
istante del futuro.
Ogni proposizione scientifica annunzia il risultato di
un'esperienza eseguita o almeno eseguibile o
concepibile; esperienza che si può riferire ad oggetti
qualsiasi, sia del mondo materiale, sia di quello
spirituale. E ciò non significa, si badi bene, che la
conoscenza specifica sia sempre a posteriori. Vi sono
esperienze il cui risultato non può essere diverso da
quello calcolato a priori ed Eddington ritiene, come
abbiamo visto, che tutte le esperienze della fisica si
possano ridurre a questo tipo. Se io pongo per
definizione che la velocità della luce nel vuoto sia di
300000 Km al secondo, ciò significa che, nell'istituire
per esempio la nota esperienza di Fizeau, dovrò
assumere le misure di tempo e di spazio in modo da
ottenere quel risultato. Se non lo ottenessi, ciò non
significherebbe che la proposizione riguardo la velocità
della luce è falsa, ma che ho assunto male le misure di
tempo e di spazio. Le proposizioni della fisica, le quali
contengono implicitamente una definizione, sono tutte
valide a priori. E vedremo molto meglio in seguito che
esse sono molto piú numerose di quanto non appaia a
prima vista. Ma ciò non toglie che anche se valide a
priori, esse non facciano che esprimere il risultato di un
processo di cui noi abbiamo in mano i dati; esprimono
cioè la nostra capacità di adottare nella fisica quella
333
particolare definizione. A è B significa in fisica: «io (o
altri per me) sono capace di trasformare A in B». Con
ragione dunque la filosofia attribuisce un valore pratico
a questo tipo di conoscenza, e lo esclude dal suo campo.
Sono invece esempi di conoscenza del primo tipo le
proposizioni: «il reale è razionale»; «esistono idee
innate»; «la conoscenza è sintesi dell'individuale e
dell'universale».
In queste proposizioni non si tratta di passare dal
soggetto al predicato mediante un processo di cui sia in
nostro potere il meccanismo. Esse costituiscono
piuttosto quell'inizio della conoscenza che Hegel
paragonava al salto in acqua di chi non sa ancora
nuotare; rappresentano affermazioni di verità; e si
attribuiscono un valore universale, assoluto,
indipendente da ogni limitatezza inevitabilmente
connessa con l'applicazione o la realizzazione pratica.
Per intendere chiaramente il significato della nostra
distinzione, prendiamo la seconda delle proposizioni da
noi citate: «esistono idee innate». Essa potrebbe venire
interpretata anche semplicemente come una
proposizione scientifica. Verrebbe allora a significare:
nel lavoro di analisi dei concetti umani, per giungere ai
loro elementi costitutivi, ci imbattiamo in formazioni
che non riusciamo a decomporre, e che siamo costretti a
considerare come primitive. Non riuscendo a trovare
altre formazioni da cui queste possano ritenersi derivate,
le assumiamo come innate; supponiamo cioè che l'uomo
334
sia legato ad esse dalla sua stessa natura umana, che le
porti con sé per il fatto solo di essere nato.
Questa affermazione non indica null'altro che la
nostra incapacità a procedere oltre nel lavoro di
dissoluzione e a ricostruire queste semplicissime
formazioni mediante formazioni ancora piú semplici.
Se invece vogliamo dare alla nostra proposizione un
significato filosofico, dobbiamo porre l'accento sulla
parola esistenza. Le idee innate si presentano allora non
come il punto di arrivo di un processo di dissoluzione,
ma come il punto di partenza di un processo di
costruzione. Che piú in là di esse non si può andare è
dimostrato dal fatto che sono esse alla base del
procedimento stesso mediante il quale si analizzano i
concetti umani. Volerle superare, significa cadere in un
circolo vizioso; significa voler sollevare il mondo
facendo leva sul mondo stesso.
Intesa in questo senso, l'affermazione che esistono
idee innate assume un innegabile carattere di verità.
Verità la quale, però, dipende essenzialmente dal fatto
che queste idee sono state assunte come punto di
partenza per ogni ragionamento ed ogni procedimento
del pensiero. Ogni affermazione filosofica che affermi
una verità, presuppone che sia almeno valida la lingua
concettuale (per cosí dire) nella quale tale verità è
espressa; e la validità delle sue affermazioni è
condizionata dalla validità di tale lingua. Ogni
affermazione di verità contiene dunque sempre
implicitamente un elemento non conoscitivo, un atto di
335
volontà: la volontà di usare quella determinata lingua
concettuale nella quale la verità viene espressa. Se tale
atto di volontà diviene esplicito, la proposizione da
assertoria diviene ipotetica: «Esistono idee innate,
quando si ragiona mediante una logica che assuma come
punto di partenza tali idee innate».
Sembra, formulando la nostra proposizione in questo
modo, di aver perso tutto il suo valore, di averla
trasformata in una tautologia. Ma il valore di essa sta
proprio nel fatto che l'ipotesi viene, dalla comune
coscienza, in generale sottintesa. Ciò significa che la
nostra volontà di usare quella particolare lingua
concettuale è cosí forte e cosí inconscia, è cosí legata
alla nostra natura, che non ci viene neppure in mente di
nominarla. L'accorgersi di questa volontà implicita, il
rendersene conto, l'immagine che potrebbe non esserci
od essere conformata altrimenti, è veramente una
rivoluzione del tipo di quella teorizzata da Kant; è
veramente un'operazione di cataratta. Ma è qualcosa che
la filosofia, intesa come attività conoscitiva, non potrà
mai effettuare. Non potrò mai dimostrare, in lingua
italiana, la mia capacità di parlare tedesco. Cosí, quando
abbia attribuito alla parola verità un determinato
significato e un determinato uso, non potrò mai
affermare come vera una proposizione in cui essa abbia
assunto un significato ed un uso differente. Per far ciò è
necessario un nuovo atto di volontà, direi quasi un
nuovo atto di creazione.
336
Cartesio – benché sembri strano in un razionalista par
suo – si era accorto di ciò. Sapeva che le sue verità
avevano valore solo nell'interno di una lingua
concettuale la cui affermazione costituisce un iniziale
atto di volontà, o meglio la creazione di un determinato
ambito di vita logica. È questo pensiero che sta al fondo
della sua preoccupazione di un Dio ingannatore. Se Dio
avesse voluto che 2 + 2 non fosse uguale a 4 e che la
somma degli angoli di un triangolo non fosse uguale a
due angoli retti, queste proposizioni, che per noi oggi
costituiscono verità necessarie, sarebbero false. La
necessità di questi principî è dunque interna ad una
determinata logica che noi non saremmo capaci di
immaginare diversa da quella che è, ma Dio sí. Potrebbe
anche darsi che, in una realtà assoluta, quei principî non
fossero veri, e andassero sostituiti da altri. Cartesio si
libera da questo pensiero con una crollata di spalle.
«Ebbene, egli dice, che può importare questo a me,
giacché non ne so nulla? Ciò che mi importa è ciò che è
vero nel mio mondo; nel mondo delle idee che sono per
me necessarie, e il cui contrario implica, per una testa
fatta come la mia, contraddizione. Una realtà piú
assoluta di questa, per me non esiste».
È un pensiero molesto questo, di un mondo in cui non
valgano le nostre idee eterne; pensiero che Cartesio
elimina subito, preoccupato di procedere nel suo lavoro
di deduzione logica dei principî della fisica e metafisica
dalle poche premesse iniziali. Ma i pensieri molesti non
si lasciano scacciare cosí facilmente; e questo tornò a
337
disturbare Kant, e lo obbligò ad introdurre un noumeno
ai limiti della conoscenza, e ad insistere sul valore
puramente fenomenico del sapere.
Ma Cartesio e Kant erano fondamentalmente filosofi.
Il loro problema era: «La realtà in sé non potrebbe
essere diversa da quella che noi vediamo? Il mondo
della nostra rappresentazione non potrebbe essere una
pura illusione? Dio non potrebbe averci ingannati?»
Cartesio si rifiuta di pensarci. Kant ci pensa, per
proibire agli uomini di pensarci, per dimostrare che il
pensarci non porta alcun frutto. E la filosofia post-
kantiana ha buon giuoco a mostrare ad ambedue che si
può pensarci senza paura, perché il problema è già
risolto nell'atto stesso di porlo, nel senso che una realtà
diversa da quella del pensiero non può esistere.
Che cosa infatti significherebbe una realtà non
pensata se il concetto stesso di realtà è un concetto
intrinseco al pensiero? Tutto si può conoscere, dice
Hegel, salvo la conoscenza290. Ora, parlare di una realtà
esterna alla conoscenza significherebbe conoscere la
conoscenza come estranea alla realtà.
(Si noti – sia detto tra parentesi – la grande analogia
tra questo argomento e la dimostrazione ontologica
dell'esistenza di Dio. Ivi l'esistenza di Dio è dedotta
dalla sua essenza, in quanto è un attributo di essa. Qui la
realtà è dedotta dalla natura stessa del pensiero, in
338
quanto è una forma di esso. In ambedue, il passaggio
dall'essenza all'esistenza, dal pensiero all'essere, è
fondato sulla implicazione logica di un concetto
nell'altro).
Il torto di Cartesio e di Kant, ciò che li ha costretti a
cedere di fronte alla istanza idealistica, è che questo
eventuale mondo retto da principî diversi da quelli cui
siamo costretti ad appoggiarci per la necessità del nostro
pensiero, questa mitica nuova lingua concettuale, essi
l'hanno concepita come una realtà di fronte a cui il
nostro pensiero non sarebbe che apparenza. Col riferirsi
sempre a queste categorie della realtà e dell'apparenza,
le quali appartengono proprio al mondo da cui essi
volevano – o temevano – di uscire, si sono, per cosí
dire, chiusi da soli nella propria prigione, si sono lasciati
risospingere nell'antico circolo. Per sfuggire alla morsa
del dilemma idealista – il quale si risolve poi nell'eterna
obbiezione contro gli scettici – sarebbe bastato
presentare il proprio dubbio attribuendogli un'altra
intonazione psicologica e affettiva, considerare
l'eventualità da esso avanzata, non come un pericolo cui
sfuggire, ma come una nuova possibilità offerta alla
nostra capacità di conquista, come un nuovo campo di
tentativi aperto alla nostra curiosità. La domanda da
porsi non era: «È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?»; bensí: «Come potrebbe essere
conformato un mondo di pensiero diverso dal nostro?»
339
La prima domanda parte da quella esigenza di
sicurezza e stabilità che è sempre collegata col pensiero
del reale. La risposta che essa cerca è una risposta che
assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi;
nel reale, o in qualche cosa che lo sostituisca; nel
trascendente, o nel trascendentale (e la risposta viene
poi a negare la domanda stessa, quando ci si sia resi
conto che la nozione stessa di realtà si esaurisce in
null'altro che in quella esigenza).
La seconda domanda muove invece da una esigenza
di novità, da una preoccupazione di uscire da noi stessi,
da un desiderio di eliminare gli schemi che siamo soliti
attribuire al mondo. Si tratta qui del secondo passo della
rivoluzione copernicana. Il primo era consistito
nell'accorgersi che le leggi della realtà non sono che
forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel
domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed
immutabili e irresolubili. Anzi, non nel domandarsi se
siano irresolubili (domanda che presuppone l'uso di
quelle forme stesse) ma nel tentare senz'altro di
scioglierle, di vivere senza di esse, o con altre forme.
Ambedue questi stadi si presentano come una lotta
contro l'antropomorfismo cosí tenacemente insediato nel
nostro animo: il primo sfata la leggenda di un mondo
esterno fatto a nostra immagine e somiglianza; il
secondo supera il bisogno di tenersi attaccati alle forme
del nostro intelletto come alle uniche possibili.
Ma per superare queste forme, è necessario
veramente uscire da esse, veramente pensare in un'altra
340
lingua concettuale. Finché si discorre di realtà e di
apparenza, di conoscenza e di verità, il superamento non
sarà compiuto, e l'istanza filosofica contro gli scettici
avrà tutto il suo valore. Bisogna che la nostra
affermazione sulla possibilità di mutare le nostre
categorie, non sia un'affermazione teoretica, conoscitiva
nel senso filosofico, un'affermazione di verità. Bisogna
che sia invece un'affermazione conoscitiva nel senso
scientifico, intesa come padronanza di un metodo, di un
processo psicologico. Alla domanda: «È possibile
pensare con categorie diverse da quelle su cui si fonda il
pensiero?» non si deve rispondere dimostrando la
possibilità o meno di compiere questo capovolgimento,
ma compiendolo effettivamente, usando queste nuove
categorie, vivendo in questo nuovo mondo.
È questa l'unica risposta affermativa possibile a
quella domanda, e tuttavia non è una vera e propria
risposta, o lo è solo in senso traslato, in quanto viene
data in una lingua diversa da quella in cui la domanda
era stata posta. Ogni risposta formalmente corretta, che
riprendesse i termini della domanda, non potrebbe
essere, nel nostro caso, che negativa. Ma qui si tratta,
piú che di una vera e propria risposta, di un
soddisfacimento della tendenza, del desiderio, dello
sforzo che era implicito in quella domanda; di un
appagamento della tensione spirituale da cui essa era
mossa. È come se alla domanda se sono capace di
parlare tedesco, non rispondessi né sí né no, ma mi
mettessi effettivamente a parlare tedesco; non si
341
potrebbe considerare il mio atto come una risposta a
quella domanda? Ma essa sarebbe comprensibile solo
per chi già conoscesse il tedesco, o almeno sapesse
riconoscere la lingua in cui parlo come la lingua
tedesca.
Di questo genere sono le risposte che la scienza è
capace di dare, a volte, alle domande nelle quali la
filosofia non sa vedere che circoli viziosi. Risposte che,
per cosí dire, saltano fuori dalla domanda stessa; ma che
appagano, piú di qualunque replica formalmente
corretta, la tendenza da cui quella domanda era sorta. Le
domande impossibili della filosofia, pur nella loro rigida
formulazione teoretica, sono infatti sempre espressione
di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza
dell'animo.
La dimostrazione della impossibilità di formularle
nell'interno stesso del sistema di pensieri in cui sono
state poste, è l'unica risposta che la filosofia sia capace
di dare ad esse. Ma tale risposta non soddisfa quella
profonda tendenza, quella esigenza, quel bisogno, che
risorgono spesso in seguito in forme impensate, piú forti
che mai.
Un'effettiva risposta che plachi quel bisogno, non si
può dare che in due modi: o trasformando lo spirito
umano in modo che non sia piú travagliato da esso;
oppure trasformandolo in modo che questo bisogno,
risorgendo continuamente, trovi continuamente una
nuova soddisfazione; che si pacifichi in sempre nuovi
atteggiamenti, risorgendo rinnovato da essi; divenendo
342
cosí fonte di progresso e di nuove scoperte. La risposta
si dà dunque divenendo padroni del meccanismo
psicologico mediante cui la domanda viene posta;
essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue fasi,
di variarlo all'infinito. Al problema della realtà, si
risponde fabbricando animi umani per cui la parola
realtà non abbia senso291. Alla domanda se esista un
mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo
non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo
una geometria in cui tale somma sia effettivamente
maggiore o minore di due retti; e mostrando che tale
geometria non è né piú né meno vera di quell'altra; ma
è, rispetto all'altra, essenzialmente nuova.
Speriamo con questo di aver reso chiaro ciò che
distingue il mondo di idee nel quale ci aggiriamo da
quello empiristico. Non si tratta qui di affermare come
vero che le categorie del nostro spirito siano a posteriori
e ci provengano dal mondo esterno. Questa è una
proposizione tipicamente filosofica; e, intesa come tale,
è completamente errata perché contraddittoria.
L'obiezione di Leibniz a Locke «Nihil est in intellectu
quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse», è
291 «Provo della difficoltà a capire i libri filosofici, perché
essi parlano moltissimo dell'esistenza; ed io non so che cosa
intendano» (Eddington, op. cit., p. 185). Non è paradossale dire
che la scienza moderna, ed insieme (benché sia meno evidente) la
psicologia moderna, hanno effettivamente fabbricato menti
umane capaci di pronunziare frasi di questo genere con un senso
preciso, e di basare su di esse grandi costruzioni intellettuali.
343
ineluttabile; ed è la solita obiezione che abbiamo già
visto tante volte e nella quale consiste (saremmo quasi
tentati di dire) l'essenza stessa della filosofia.
L'empirismo è una dottrina filosofica, che si esprime in
affermazioni (siano pure affermazioni scettiche)
riguardo alla verità. In quanto tale, è obbligato ad
osservare le regole del ragionamento filosofico: ed
addentrandosi in esso, cade in insolubili contraddizioni.
La scienza invece non vuole affermare mai nulla quanto
alla verità. Vuole solo mettere l'uomo in grado di
eseguire determinate azioni, o di maneggiare
determinati oggetti.
Ancora l'esempio delle idee innate ci può servire.
L'empirismo afferma: «non esistono idee innate». È
un'affermazione che pretende di essere vera: e, in quanto
tale, presuppone l'idea di verità e di esistenza.
Contraddice dunque a se stessa. È inoltre
un'affermazione che pretende di essere universale. Cioè
valida sempre e dovunque: si sottrae perciò al controllo
sperimentale.
La risposta che dà invece la scienza psicologica alla
domanda riguardo alle idee innate, non è né affermativa
né negativa. Essa prende alcune delle idee innate
elencate dalla filosofia, ed osserva come esse si
manifestino in alcuni uomini; ne segue l'origine, lo
sviluppo, i legami, le associazioni. Cerca di ricostruire il
processo del loro primo manifestarsi nella mente e
nell'animo di chi è sano; di perseguirne le deformazioni
negli ammalati. E spesso, da questo studio attento ed
344
accurato, da questo urto contro nuovi reagenti, quelle
idee «innate» rivelano la possibilità di essere
considerate come estremamente complesse. Si sciolgono
nell'animo stesso dell'uomo che ad esse si sentiva legato
per le piú intime fibre del proprio essere, in modo che
egli non le sente piú come dati ineluttabili, ma è capace
di dominarle, di comandarne lo sviluppo e l'uso a suo
piacere. Conoscere il processo formativo di quelle idee,
significa essere in grado di interromperlo ad ogni
istante, e di farlo deviare verso altre mete292.
Ne concluderà lo psicologo per questo che non
esistono idee innate? In nessun modo. Egli si limiterà a
dire che gli è riuscito, in alcuni casi, di trasformare un
uomo in cui determinate idee si presentavano con tutto
il carattere di idee innate, in un uomo libero da tali idee,
e capace di comandarne il processo formativo nel
proprio intimo. Si limiterà ad indicare gli strumenti, i
metodi, i reagenti psicologici usati per compiere tale
dissoluzione, affinché vengano eventualmente adoperati
da altri in casi analoghi. Presenterà il nuovo esemplare
di umanità come alcunché di nuovo, che, appunto per la
sua novità, può interessare gli altri uomini.
Ma si guarderà bene dal sostenere di avere abolito le
idee innate. Sarà ben conscio di essersi servito nel
proprio procedimento di scomposizione, di altri concetti
292 Vedi per esempio un'efficace descrizione dello stato
d'animo dell'uomo che si è liberato dell'«imperativo categorico»,
e che si sente «al di là del bene e del male», in C. G. Jung, Le moi
et l'inconscient, trad. fr., Paris 1938, c. II.
345
come di termini primitivi e indivisibili, e che la
dissoluzione delle vecchie idee innate è avvenuta solo a
prezzo dell'assunzione di idee innate nuove. Non
pretenderà affatto che le nuove siano piú vere, piú
buone, piú giuste delle vecchie. Affermerà solo di averle
usate con frutto, ottenendo determinati risultati; e
consiglierà chi voglia ottenere i medesimi risultati, di
procedere come lui.
Un certo accento propagandistico affiorerà tuttavia
probabilmente nella sua descrizione del lavoro fatto. Ed
è possibile che egli stesso, entusiasmato dal proprio
successo, si illuda per qualche istante di essere giunto in
possesso di un'assoluta verità. Ma pagherà molto cara
questa illusione: col vedere isterilire a poco a poco la
sua stessa scoperta.
L'illusione sarà dovuta all'errore di prospettiva di
considerare il capovolgimento del punto di vista che era
stato necessario per compiere la scoperta, come una
liberazione dall'errore, per giungere alla verità; mentre
non era altro che una liberazione da un modo di vedere
le cose, per giungere ad un altro modo. Chi, usando un
nuovo tipo di occhiali, riesce a vedere cose che
rimanevano invisibili con gli strumenti fino allora
adoperati, raramente resisterà alla tentazione di
chiamare vero ciò che vede adesso, e falso ciò che ha
visto finora. Ma con ciò avrà cessato di essere
scienziato, per divenire filosofo. Non appena la scoperta
scientifica si pone come affermazione di verità, entra in
un circolo dal quale non potrà piú uscire. Il suo valore
346
pratico ed euristico va perso a vantaggio del suo valore
conoscitivo.
La scienza, insomma, non ha nulla a che fare con la
verità. È il non essersi accorti di ciò che ha fatto sí che il
procedimento scientifico venisse confuso col
procedimento di formazione del concetto empirico. Se si
definisce infatti il metodo scientifico come costituito
essenzialmente dei due stati dell'osservazione e della
generalizzazione o formulazione della legge, come fa
per esempio Bertrand Russell293, lo si fa consistere
essenzialmente nella formazione di concetti empirici
con pretesa ad un valore di verità. Se invece si dice per
esempio che «ogni articolo di conoscenza fisica deve
essere un'asserzione di ciò che è stato o sarebbe il
risultato dell'eseguire uno specifico procedimento di
osservazione»294, si è tolto alla conoscenza scientifica il
valore di affermazione di verità, per porre l'accento sul
procedimento in cui essa consiste.
La conoscenza scientifica non è conoscenza nel senso
filosofico, mentre la conoscenza empirica è conoscenza
filosofica; sebbene, proprio in quanto si presenta come
tale, abbia un carattere contraddittorio.
Proprio questa definizione non conoscitiva (in senso
filosofico) della conoscenza scientifica, e la sua
differenziazione dalla conoscenza empirica, ci permette
di non attribuire ad essa un carattere a posteriori.
347
Abbiamo già accennato all'esistenza di proposizioni
della scienza fisica, le quali hanno una validità a priori,
e che non possono in alcun modo venir invalidate
dall'esperienza; e sono le proposizioni che contengono
implicita la definizione di un concetto fisico mediante
un oggetto od un fenomeno naturale (definizione del
tempo mediante fenomeni periodici, della velocità
mediante fenomeni di propagazione, dell'energia
mediante la proporzionalità con una frequenza, ecc.).
Avremo a trattare ampiamente, nel corso di questo
lavoro, di tali proposizioni; e vedremo nel c. II che il
loro carattere a priori è perfettamente conciliabile col
loro carattere sperimentale. Qui ci basti notare che è
proprio l'osservazione della straordinaria importanza di
esse nel corpo delle teorie fisiche, che permetterà di
attribuire alla scienza fisica quella medesima certezza e
validità a priori che, al tempo di Kant, era propria solo
delle matematiche. Certezza che è dunque un frutto
dell'operazione compiuta, distaccando la conoscenza
fisica dalla conoscenza filosofica, anzi da quella
particolare e deteriore forma di conoscenza filosofica,
che è la conoscenza empirica. Ma di ciò molto piú a
lungo in seguito.
All'ammonimento kantiano di non uscire dai limiti
delle forme della conoscenza, la filosofia ha dunque
ubbidito, e la scienza disubbidito. La prima si è
consolata della propria inerzia dicendo che quei limiti
non esistevano in realtà, erano illusori, e non
348
costituivano che una proiezione della conoscenza, di
fronte a se medesima. La seconda si è scusata della
propria audacia, pretendendo di non essere mai uscita da
quei limiti, ma di averli semplicemente modificati, resi
mobili ed elastici, docili ed adattabili alla volontà
dell'uomo. Perciò, se si vuole, si possono invertire le
parti, e dire che la scienza ha ubbidito, e la filosofia
disubbidito. Ma mi sembra che l'altra formulazione sia
la piú corrispondente all'intonazione affettiva dei due
atteggiamenti: il primo mosso da una preoccupazione di
sicurezza e da un bisogno di giustificazione logica e
morale; il secondo da un'ansia di novità e da un'esigenza
di evasione.
Certo è che la domanda essenziale suggerita allo
scienziato dalla scoperta kantiana che le idee eterne
sono categorie del nostro spirito è: «Non potrebbero
allora conformarsi altrimenti?» Il portarle di cielo in
terra le ha rese, per cosí dire, piú familiari, e tali da
incutere minor reverenza. Il pensiero di modificarle,
nonostante la loro affermata e dimostrata
trascendentalità, appare piú allettante e meno sacrilego.
Lo scienziato si comporta come il bambino cui venga
dato in mano un giocattolo con mille raccomandazioni
di non romperlo, e di usarlo secondo le prescrizioni
stampate sul coperchio della scatola. Egli non sa
trattenersi dal bisogno di smontarlo per vedere come è
fatto dentro, col risultato, a volte, di non saperlo piú
ricostruire e di averlo perso per sempre. Finché lo
vedeva nella vetrina del negozio, in bella mostra,
349
insieme con gli altri balocchi, non sognava neppure che
si potesse smontare, che contenesse un meccanismo, che
fosse composto di parti. L'averlo fra le mani distrugge ai
suoi occhi tutto il fascino misterioso del giocattolo; lo
addita come oggetto della sua distruggitrice curiosità.
Delle leggi fondamentali dello spirito l'uomo aveva
fatto, fino a Kant, una specie di porto sicuro entro cui
rifugiarsi quando si è storditi e impauriti dell'immensa
varietà del mondo. Il criterio del come te stesso domina
insieme la morale cristiana e stoica, e il pensiero
dell'illuminismo. Nel fondo del proprio animo l'uomo
crede di trovare la base per giudicare l'animo di tutti gli
altri uomini, e, dopo Kant, anche la natura. Vuoi
conoscere il mondo? Guarda dentro te stesso: in questo
motto si compendia la grande rivoluzione che trasporta
al campo della conoscenza obbiettiva il metodo di
introspezione e di autoanalisi che da tanto tempo valeva
nel campo della morale. Le leggi essenziali del nostro
singolo animo sono i criteri per giudicare non solo tutti
gli altri individui simili a noi, ma anche la natura che ci
circonda. Se nel mondo morale degli stoici e degli
illuministi i termini natura e ragione sono strettamente
connessi e spesso intercambiabili, nel mondo
intellettuale-scientifico di Kant il loro ravvicinamento è,
per cosí dire, portato alle ultime conseguenze. La legge
essenziale della natura umana è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto
l'uomo non fa che proiettare fuori di sé l'essenza della
propria natura.
350
L'enorme progresso delle scienze naturali è spiegato
proprio col fatto che esse hanno posto nell'interno
dell'animo umano le proprie leggi fondamentali,
riducendosi quindi, in ultima analisi, allo studio
dell'uomo. Mediante il metodo trascendentale l'uomo è
posto in grado di trovare dentro se stesso ciò che è
essenziale, necessario alla propria umanità; ciò che gli
permette di comunicare con gli altri uomini, e di
dominare la natura.
Con la umanizzazione delle leggi eterne della
ragione, e della natura, ad opera di Kant, l'illuminismo
aveva raggiunto il suo piú alto vertice. Ma, come si è
detto, era anche giunto in prossimità della sua
dissoluzione. Tutto ciò di cui l'uomo dispone totalmente,
perde per lui ogni fascino, ha bisogno di essere dissolto
e superato. Kant, col regalare all'uomo il grande
giocattolo della propria ragione, gli aveva anche
fatalmente inspirato il bisogno di ridurlo in frammenti,
di non accontentarsene e di cercare altro. Se
l'illuminismo si fonda su ciò che è uguale fra gli uomini,
il romanticismo cerca ciò che è diverso, singolo. Non
piú la ragione, la legge, ma il sentimento, il carattere, la
passione. Non piú ciò che accomuna, ma ciò che
distingue; non piú l'universale, ma l'individuale.
Nel campo morale, nella sfera dei rapporti con gli
altri uomini, quest'atteggiamento si presenta di nuovo
come un atto di umiltà, di rinunzia all'antropomorfismo.
L'uomo, che credeva di avere in se stesso il criterio per
giudicare gli altri uomini e la natura, si accorge che
351
questo criterio non è sufficiente, che gli fa perdere
proprio la parte piú interessante, piú inattesa, dei propri
simili. Egli si stanca di rivedere negli altri sempre
l'immagine di se stesso: è alla ricerca del diverso, del
singolo, del nuovo. Non piú «fa' agli altri ciò che
vorresti fosse fatto a te»; ma «fa' all'altro ciò che l'altro
vorrebbe fosse fatto a lui» e che è in genere diverso da
quello che vorresti fosse fatto a te. Diverso, e appunto
perciò difficile a comprendersi, a indovinarsi, a
scoprirsi. Richiede un'infinita dose di attenzione al
particolare, di distacco dalle proprie consuetudini, di
amore.
L'amore, di cui è interessantissimo studiare le forme e
l'evoluzione nello sviluppo della cultura moderna295, è
forse la forma spirituale in cui questo atteggiamento piú
tipicamente si manifesta. Non piú inteso al modo
medievale, come passione totale e annullamento di due
esseri l'uno nell'altro (Tristano) o come proiezione
nell'essere amato di una immagine ideale (dolce stil
novo) e neppure come semplice soddisfacimento di un
istinto; ma, cosí come si è venuto configurando nella
nostra società, come rapporto complesso, sentimentale,
affettivo, di interessi, di consuetudini, tra due esseri che
si considerano allo stesso livello morale e spirituale,
l'amore rappresenta forse per l'uomo moderno
l'esperienza piú diretta e bruciante dell'«esistenza di
un'altra persona». La quale molto spesso è
352
profondamente diversa da lui per carattere, per simpatie,
per abitudini, per ricordi infantili. Il permetterle di
esistere accanto a sé, il desiderare anzi la sua esistenza
piú che la propria, senza cercare di assorbirla in sé,
proprio in ragione della sua particolarità, il penetrare
nell'interno di quell'anima col rispetto dovuto ad una
cosa delicata e sconosciuta, di cui un gesto torbido o
brusco potrebbe infrangere l'equilibrio e l'armonia...
353
Filosofia e scienza
1. Il problema.
La rivoluzione kantiana, che può essere assomigliata
a quella di Copernico, consiste nell'accorgersi che quelle
che gli uomini ritenevano leggi oggettive del reale, sono
tali solo perché gli uomini stessi introducono in esse le
forme del proprio intelletto. È un idolo antropomorfico
che Kant ha abbattuto. Può ora essere proseguita questa
rivoluzione?
Kant ha ammonito sull'impossibilità di uscire dalle
forme dell'intelletto, per attingere la cosa in sé. La
filosofia post-kantiana ha eliminato la distinzione fra
fenomeno e noumeno, fra conoscenza e realtà,
mostrando che il concetto stesso di realtà in sé rientra
nelle forme dell'intelletto; che quindi non c'è una realtà
fuori della conoscenza.
Ma la scienza conosce un altro tipo di conoscenza,
diverso da quello della filosofia. È la conoscenza intesa
come padronanza di un processo.
Si conosce una cosa, quando si è capaci di costruirla,
cioè di scomporla e ricomporla. Di fronte al problema
kantiano, la scienza non si è domandata se si potesse o
354
meno uscire dal mondo delle categorie, ma se tale
mondo non fosse modificabile; se non fosse possibile
pensare con categorie diverse da quelle note
comunemente come tali. E la risposta, non l'ha cercata
in una dimostrazione di tale possibilità – dimostrazione
che avrebbe necessariamente presupposto la validità
delle categorie stesse che si volevano scalzare – ma
cercando effettivamente di modificare – per cosí dire –
le teste degli uomini; di renderli cioè di fatto capaci di
pensare basandosi su concetti basilari diversi da quelli
fin allora usati.
Cosí la psicologia ha modificato profondamente tutte
le categorie morali, a partire dall'imperativo categorico e
dal fenomeno stesso della volontà, considerati non piú
come elementi primi e indecomponibili, ma come
formazioni estremamente evolute e complesse. Cosí lo
studio della mentalità dei popoli primitivi è stato
condotto non piú come al tempo degli illuministi, per
ritrovare in essi, in forma pura ed elementare, le basi
stesse della nostra ragione e della nostra moralità, ma
anzi piuttosto per vedere ciò che vi è in essi di
radicalmente diverso da noi: per cogliere le
informazioni intellettuali e morali della nostra civiltà
nella loro origine prima, e per fermarci – per cosí dire –
ai bivii nei quali vediamo che gli sviluppi dell'animo
umano hanno preso una via, ma ne avrebbero potuta
prendere anche un'altra, che li avrebbe condotti a forme
diverse da quella intorno alle quali si impernia
attualmente la loro vita. Cosí lo studio dei riflessi
355
condizionati (Pavlov) cerca di cogliere il fenomeno
della volontà alla sua origine prima, tentando di
modificarlo, di deviarlo dalle vie per le quali è solito
addentrarsi.
Alla domanda se l'animo umano non potrebbe essere
conformato diversamente da come lo conosciamo, la
filosofia risponde che le categorie in base alle quali la
domanda stessa viene posta sono imprescindibili, in
quanto ogni risposta non può venir data che basandosi
su di esse. La scienza invece si industria a costruire
menti umane ed animi umani conformati diversamente
da quelli che conosciamo. E con ciò ritiene, se non di
avere risposto direttamente alla domanda, di avere però
soddisfatto in modo molto piú efficace all'esigenza da
cui essa era sorta. In questo senso, i metodi della scienza
possono essere, in certo modo, paragonati a quelli della
mistica.
Ora, ciò che la psicologia e l'antropologia cercano di
fare per le categorie morali ed affettive, la matematica e
la fisica lo hanno già fatto in modo molto esauriente per
le categorie piú tipicamente conoscitive.
Gli assiomi della geometria sono considerati da Kant
come forme sintetiche a priori dell'intuizione. Non è un
caso che proprio non molti anni dopo la morte di Kant
venga data una soluzione al secolare problema
dell'assioma delle parallele. E la soluzione è proprio
sviluppata nel senso sopra accennato: non deducendo
tale assioma dagli altri assiomi di Euclide, e neppure
dimostrando a priori che esso non è deducibile; ma
356
costruendo di fatto una geometria nella quale tale
assioma non valga.
La perfetta ammissibilità di tale geometria, e la sua
corrispondenza con la geometria euclidea, ha posto
all'ordine del giorno il problema che cosa siano
addirittura tutti gli assiomi della geometria, e piú in
generale le forme sintetiche a priori.
Ormai il problema è risolto, e noi sappiamo
esattamente la risposta da dare: gli assiomi della
geometria sono definizioni implicite degli oggetti
(punti, rette, piani, uguaglianza di segmenti, di angoli,
ecc.) di cui tratta la geometria stessa. La cosa è stata
ormai dimostrata irrefutabilmente da Hilbert, proprio
col metodo di costruire geometrie nelle quali valgono
assiomi diversi da quelli di Euclide. Le forme sintetiche
a priori non sono dunque principî trascendentali, o
necessità imprescindibili del nostro spirito; sono invece
convenzioni tanto radicate nelle nostre piú intime
consuetudini, tanto legate alla struttura stessa del nostro
essere e del nostro modo di sperimentare, che ci sembra
facciano tutt'uno con noi stessi. Ma l'averne
riconosciuto il carattere di convenzioni incoscienti, ci
permette di manovrarle a nostro piacere. Non siamo piú
legati ad esse; e, divenendone padroni, diveniamo anche
sempre piú padroni del nostro spirito.
Questo processo di dissoluzione delle forme
costituenti l'essenza stessa dello spirito umano, si è
esteso dagli assiomi della geometria agli assiomi in
generale, ed anche ai principî della logica. I principî di
357
identità, di non contraddizione, di terzo escluso hanno
subito la medesima prova. Si costituiscono logiche non
aristoteliche, cosí come si erano costruite geometrie non
euclidee o non archimedee. Si enunciano gli assiomi
della logica, considerandoli anch'essi come convenzioni
incoscientemente determinate dalla struttura stessa del
nostro modo di conoscere. Si considera la logica come
la fisica dell'oggetto qualsiasi (Gonseth). Ci si rende
conto che la logica non costituisce altro che una lingua
o meglio una sintassi (Carnap), cioè un insieme di
regole costruite allo scopo di regolare l'uso dei concetti
e dei loro rapporti, e che è possibile determinare
diversamente tali regole, a seconda delle diverse
esigenze.
Da questo sbloccamento delle categorie sono derivati
a volte grandi progressi alla scienza. Circa un secolo
dopo la costruzione delle geometrie non euclidee, la
fisica si è trovata a doverne far uso; si è visto cioè che
tali geometrie non sono semplici elucubrazioni di
cervelli matematici fantasiosi, ma hanno un uso
concreto nel processo mediante cui l'uomo cerca di
rendersi padrone del mondo che lo circonda. Si ha cioè
l'impressione che ogni volta che l'uomo abbatte nel suo
animo un idolo antropomorfico, e rinunzia a considerare
il mondo – in un suo particolare aspetto – come fatto a
propria immagine e somiglianza, ne deriva a lui un
aumento di conoscenza del mondo e di padronanza dei
suoi processi. Ne risulta un nuovo modo di considerare
la legge di natura; non piú come una regolarità
358
graziosamente donataci, o come una mirabile
corrispondenza tra noi e le cose, operata da un Dio
geometrizzante; ma piuttosto come l'effetto di una scelta
da noi piú o meno inconsciamente operata, partendo da
quelli che siamo soliti considerare i dati fondamentali
del nostro spirito; scelta che risulta tanto piú vasta e
varia e ricca, con quanta maggior varietà e ricchezza si
conformano quei dati fondamentali.
Ora, la scoperta che tali dati non costituiscono
qualche cosa di fisso e di immutabile del nostro spirito,
ma sono, per cosí dire, in nostro possesso, in quanto
siamo capaci di variarli e modificarli, si riflette
immediatamente anche sul modo di conformarsi della
legge naturale.
A questi risultati la scienza moderna è giunta guidata,
spesso inavvertitamente, dalla grande scoperta kantiana;
ma piú spesso, tratta dalle difficoltà stesse e dalle
incongruenze in cui si imbatteva nel suo molteplice
cammino.
Si tratta ora di raccogliere questi elementi sparsi,
individuandone il filo conduttore; di procedere
sistematicamente, là dove finora si è proceduto quasi a
caso. Gli idoli della scienza fisica non sono ancora tutti
abbattuti. Molti se ne annidano ancora sotto le piú
innocue apparenze, nei concetti basilari da cui questa
scienza prende le mosse.
C'è da sospettare che siano proprio essi i responsabili
di alcune delle piú serie difficoltà in cui si dibatte la
fisica teorica contemporanea. Il compito è di
359
individuarli, servendosi di tutti gli strumenti di cui
l'indagine psicologica, logica, scientifica è oggi in
possesso; e, una volta individuati, di scioglierli e
ricavare da questo processo tutte le conseguenze
possibili nel campo concreto della scienza.
360
capitolo precedente) ci dà un certo potere di modificare
gli assiomi stessi della geometria secondo la nostra
volontà. In questo senso, la geometria non è piú una
scienza sperimentale, o a posteriori.
Da quanto sopra, risulta però che i concetti di a priori
e a posteriori, di razionale e sperimentale, non hanno
piú il valore che veniva loro attribuito tradizionalmente.
A priori non significa piú della ragione. A posteriori
non significa piú dei sensi. Sia i dati della ragione, sia i
dati dei sensi, appaiono come elementi in cui il fattore
soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati,
ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento
logico e psicologico insieme, modificare la struttura.
A priori diviene allora questo nostro potere di
modificazione che si riferisce sia agli oggetti della
nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Si potrebbe
dire ad esempio, grossolanamente che la nozione di
linea retta, della geometria, ci proviene dai sensi (in
particolare dal senso della vista, il quale è in funzione
della traiettoria dei raggi luminosi); e quella di
uguaglianza fra le due grandezze ci proviene dalla
ragione. Ora, sia la nozione di linea retta, sia quella di
uguaglianza fra due grandezze può da noi essere
modificata. Possono cioè essere assunti assiomi diversi
da quelli abituali, in cui tali concetti vengano definiti
implicitamente in modo diverso da quello consueto. La
linea retta può, per esempio, essere definita in modo da
non costituire piú la via piú breve tra due punti;
361
l'uguaglianza può essere definita in modo da non godere
piú della proprietà transitiva; e cosí via.
L'esperienza ha dunque una parte nella geometria, in
quanto suggerisce di adottare determinati assiomi per
raggiungere determinati fini. Da quando cioè ci si è resi
conto che gli assiomi non sono principî sintetici a priori,
ma convenzioni arbitrarie, o definizioni implicite; da
quando cioè la formulazione degli assiomi della
geometria ha cessato di derivare da una introspezione
trascendentale, per divenire oggetto di libera scelta; da
allora l'esperienza si è reintrodotta nella geometria; non
piú per constatare empiricamente delle regolarità, e
formulare poi, per via di astrazione, delle leggi, ma per
consigliare, in base a criteri di opportunità, la
formulazione di certi assiomi piuttosto che certi altri. In
questo nuovo senso, l'esperienza ha però molto poco piú
a che fare con l'esperienza come viene intesa
comunemente.
È stato detto (per esempio dal Reichenbach) che
mentre gli assiomi della geometria sono arbitrari, in
quanto rappresentano definizioni implicite che
possiamo, in astratto, assumere a nostro piacere, gli
assiomi della fisica non sono arbitrari, in quanto
rappresentano veri e propri dati sperimentali nel senso
comune che viene dato alla parola, cioè «leggi della
natura». Vediamo se e in che senso ciò sia vero.
Gli oggetti di cui tratta la fisica sono i medesimi di
cui tratta la geometria: rette, punti, piani, distanze fra
punti, uguaglianze fra segmenti, ecc. Quando la fisica
362
introduce elementi che non appartengono alla comune
geometria dello spazio (tempo, massa) riesce facilmente
a geometrizzarli, introducendo nuove dimensioni; sí che
ogni legge fisica può essere espressa come un teorema
geometrico, in una geometria con un numero opportuno
di dimensioni. Ora, mentre la geometria definisce
implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli
assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante
definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Essa dice
cioè esplicitamente, per esempio: la linea retta è la
traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto, oppure: è
l'asse di rotazione di un corpo rigido; la distanza fra due
punti è misurata mediante una sbarra rigida; un
intervallo di tempo è misurato da un orologio; e cosí
via. Definiti cosí gli enti geometrici mediante oggetti
concreti che li rappresentino, è chiaro che solo
l'osservazione sperimentale può decidere quale
geometria risulti realizzata da ciascun sistema di
definizioni.
La differenza fra la geometria e la fisica sta tutta qui:
mentre la geometria definisce gli oggetti su cui opera
mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei
medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè
facendoli corrispondere a determinati fenomeni naturali.
Mentre dunque la prima gode di una completa libertà
nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle
conseguenze implicite nella scelta di quelle particolari
definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora
le conseguenze non la soddisfacessero.
363
Ma anche qui l'a priori e l'a posteriori, cioè l'elemento
arbitrario, convenzionale, e l'elemento sperimentale,
sono mescolati in un modo molto intricato. Le
definizioni reali adottate, cioè i fenomeni naturali scelti
per rappresentare gli enti geometrici, sono stati scelti
cosí e non altrimenti proprio allo scopo di realizzare una
determinata geometria. La legge naturale dunque non
avrà mai forma apodittica, come sarebbe: Lo spazio è
euclideo, ma forma ipotetica: Lo spazio è euclideo,
quando vengono assunti strumenti di misura che lo
rendano tale. Nulla, a priori, ci impedirebbe di adottare
altri strumenti di misura, qualora volessimo uno spazio
diverso da quello euclideo. Di nuovo qui dunque
l'esperienza non permette di enunciare una legge
naturale, ma non fa che consigliare l'adozione di
determinati strumenti di misura, qualora si voglia
realizzare una determinata geometria.
Che cosa avviene allora dell'esperienza come viene
comunemente intesa, di quella che dà luogo a leggi
naturali? Per esperienza in questo senso tradizionale si
suole intendere la constatazione di rapporti regolari
intercedenti fra grandezze precedentemente definite e
misurate. All'operazione del definire e del misurare non
si attribuisce qui che un carattere preliminare. Si
raccomanda di adottare, a questo proposito, alcune
precauzioni; prese le quali, ci si ritiene autorizzati a
procedere senz'altro a quella che si considera la vera e
propria opera scientifica, e che consiste nell'accostare
ingegnosamente le varie grandezze, allo scopo di
364
osservare le eventuali regolarità cui tale accostamento
potrebbe dar luogo.
Ma noi sappiamo ora che le operazioni del definire e
del misurare sono di per sé enormemente piú complicate
e determinanti per tutta la struttura della scienza fisica,
di quanto non si ritenesse mezzo secolo fa. Vi è una
fondata presunzione che gran parte delle cosiddette
leggi fisiche si possano ricondurre a quella piú generica
e nuova forma di esperienza che, anziché rivelare leggi
naturali, suggerisce determinate forme di definizione e
di misura. Questo è quanto è avvenuto per le piú celebri
e decisive esperienze della fisica piú recente.
L'esperienza di Michelson-Morley aveva inizialmente
dato luogo alla legge della contrazione di Lorentz; ma
poco dopo è stata usata per suggerire la riforma delle
definizioni e delle misure che va sotto il nome di teoria
della relatività. Le esperienze che hanno condotto alla
scoperta del quanto d'azione sono pure state interpretate,
col massimo frutto, in questa direzione.
Se questo processo dovesse completarsi
organicamente, la fisica ne uscirebbe completamente
trasformata, non solo nella sua struttura interna, ma nel
suo aspetto gnoseologico. Diventerebbe una scienza
sperimentale sí, ma non empirica; nella quale
l'esperimento non avrebbe che la funzione di indirizzare
la libera scelta degli uomini verso alcune convenzioni
iniziali, assunte per rispondere a determinate esigenze.
Tutto il resto discenderebbe automaticamente per via di
pura deduzione logica.
365
Come ciò possa concretamente avvenire, verrà
mostrato nei prossimi paragrafi, nei quali si
individueranno i due principali ostacoli su questo
cammino, nei due idoli della realtà e della causalità.
3. Il concetto di realtà.
Sulla formazione psicologica della nozione di
oggettività nel campo fisico si potrebbero fare
interessanti ricerche. Alcune sono state iniziate dal
Bachelard. Comunque, molti esempi si potrebbero
additare degli intralci portati alla scienza fisica
dall'idolo realistico. I piú celebri sono quelli derivati
dall'aver considerato spazio e tempo come enti a sé,
come strutture esistenti. La geometria ne è stata bloccata
per millenni alla forma euclidea, la fisica per secoli alla
forma galileiana. Un'altra incarnazione dell'idolo
realistico si ha nel concetto di etere, su cui è imperniato
tutto l'elettromagnetismo classico; un altro ancora in
quello di corpuscolo materiale.
In che cosa consiste questo intralcio posto al libero
procedere della ricerca fisica dalla nozione di realtà?
Consiste essenzialmente nell'introduzione di un
elemento antropomorfico, nella tendenza cioè a
rappresentarsi i fenomeni fisici nella forma piú
rispondente al nostro bisogno di stabilità e di sicurezza.
Di questa tendenza è un esempio tipico la teoria
modellistica, che cerca di rappresentarsi tutti i fenomeni
fisici sotto forma di un modello meccanico composto di
366
corpuscoli che si muovono, si urtano, si attraggono, si
respingono a vicenda.
La teoria modellistica è oggi in crisi. Ma possiamo
dire che l'idolo realistico è stato reso completamente
innocuo dai recenti indirizzi della fisica teorica? Non
esistono ancora idoli realistici da debellare, annidati in
qualche piega del ragionamento scientifico?
Crediamo di sí. Uno di questi idoli consiste nel
concetto di campo. Si dice che una carica elettrica o
magnetica, o una massa gravitazionale, crea un campo,
cioè attribuisce allo spazio intorno a sé determinate
caratteristiche. Questo modo di dire si è rivelato molto
utile per esprimere i fenomeni elettromagnetici e
gravitazionali; ma con ciò il campo elettromagnetico o
gravitazionale è divenuto un «ente» sul quale si opera
come su di un oggetto realmente esistente. Questo modo
di considerare le cose ha forse impedito di affrontare il
problema dell'elettromagnetismo da un punto di vista
dal quale sarebbe stato utile affrontarlo. Di ciò piú a
lungo nella seconda parte.
Ciò che favorisce inoltre lo sviluppo dell'idolo
realistico nella scienza fisica, è un equivoco che si
nasconde nel modo col quale si usa comunemente il
concetto di identità. Sembra che, dato un oggetto, sia
intuitivamente determinata la nozione del medesimo
oggetto in altre condizioni di tempo e di spazio. Ma
questa assunzione è arbitraria, e può dar luogo ad una
serie di gravi difficoltà. Che cosa significa che una cosa
è uguale a se stessa? Che cosa significa se stessa?
367
Significa una cosa uguale alla data? Evidentemente no,
altrimenti la nostra proposizione si risolverebbe in
un'inutile ripetizione. Non esiste la possibilità di un
confronto diretto fra una cosa data e quella che si suol
chiamare la medesima cosa, in un altro luogo e ad un
altro istante. Il principio d'identità insomma ha senso
solo se si suppone che, data una determinata cosa,
l'espressione la medesima cosa abbia un senso definito e
univocamente determinato. Ora, ciò non avviene nella
maggior parte dei casi che interessano la fisica; e allora
il principio d'identità non viene ad affermare che la
necessità di stabilire una convenzione che ci permetta di
dire quando una cosa è rimasta uguale a se stessa.
L'indagine logica intorno al principio d'identità (cfr.
principalmente il Frege) può dunque essere molto utile a
chiarire alcuni gravi ed intricati problemi della fisica
teorica moderna.
Ma il concetto centrale, nel quale la fisica paga il suo
massimo tributo all'idolo realistico, è il concetto di
costante universale. Delle costanti, Planck ha detto che
sono messaggi che la Natura manda dal suo profondo
verso di noi; le considera cioè come l'elemento
obbiettivo ultimo, su cui si fonda tutta la costruzione
della scienza. Ora, il concetto di costante universale è
altrettanto contraddittorio che quello di movimento
assoluto. Di quest'ultimo la fisica si è liberata solo negli
ultimi decenni; sul primo fonda invece ancora oggi tutte
le sue costruzioni.
368
Quando si dice che una determinata grandezza (per
esempio la velocità della luce nel vuoto) è costante, che
cosa s'intende dire? Che è costante rispetto agli
strumenti di misura mediante i quali è misurata. E la
costanza di tali strumenti, come è stata provata?
Mediante il confronto con grandezze assunte come
costanti; e cosí via.
La constatazione sperimentale della costanza di una
determinata grandezza si risolve dunque nella
constatazione della covarianza di tale grandezza rispetto
ad un determinato complesso di strumenti di misura; il
che fa sospettare che ci sia una nascosta affinità di
struttura fra tale grandezza e gli strumenti mediante i
quali è stata misurata. Il compito della fisica, in tal caso,
è di scoprire questa affinità di struttura, in modo da
ridurre la constatazione della costanza di quella
grandezza ad una tautologia.
Gli studi di Eddington sull'unificazione delle costanti
universali sono a tale proposito molto interessanti. La
cosa da fare è appunto di ridurre le costanti universali
indipendenti al minor numero possibile; e poi vedere se
esse non si possano ricondurre all'assunzione di
determinati strumenti di misura per le grandezze fisiche
fondamentali.
4. Il concetto di causa.
Che cosa significa che un fenomeno è causa di un
altro fenomeno? La risposta è piú difficile a darsi di
369
quanto sembri. Il concetto di causa è collegato anch'esso
con tutta una serie di nozioni psicologiche: è costruito in
analogia al fenomeno del volere, del produrre,
dell'agire. Il rapporto di successione non è sufficiente
per determinare il rapporto di causalità. Su di un corpo
in rotazione sorgono delle forze centrifughe. Tuttavia
non corrisponde al nostro elementare sentimento della
causalità il dire che la rotazione è causa di tali forze. Un
esame piú accurato mostra che il movimento centrifugo
non è dovuto alla rotazione, ma all'inerzia. Non di esso
perciò si deve ricercare la causa, ma piuttosto della
rotazione.
Di alcuni fatti si ritiene necessario ricercare la causa,
di altri no. Per esempio, non si ricerca alcuna causa del
fatto che un corpo stia fermo. Aristotele riteneva di
dover ricercare la causa del movimento uniforme. Per
noi invece, anche del movimento uniforme non si ritiene
di dover ricercare la causa, e la si ricerca solo delle
variazioni del movimento.
Il concetto di causa è espresso in fisica
essenzialmente dalla nozione di forza. Ogni volta che un
corpo subisce un'accelerazione, si dice che è soggetto
all'azione di una forza. Cosí il principio d'inerzia non è
che la definizione camuffata della forza. Ora, vi sono
alcuni casi (urto, trazione, ecc.) in cui appare
chiaramente come la forza agisca come causa
dell'accelerazione. In altri casi invece, ciò che si osserva
è solo l'accelerazione e la forza la si suppone, appunto
370
perché è nelle nostre piú radicate convinzioni di non
concepire un'accelerazione priva di causa.
Ora, la fisica moderna è riuscita a sottrarre un certo
numero di fenomeni alla ricerca della causa.
L'esperienza di Michelson-Morley aveva inizialmente
suggerito a Lorentz e a Fitzgerald l'ipotesi che il
movimento rettilineo ed uniforme fosse causa della
contrazione dei corpi rigidi. Un esame piú accurato
delle definizioni iniziali ha mostrato che non si tratta di
un rapporto causale tra movimento e contrazione, ma
che la definizione stessa del corpo rigido in movimento
comporta che le sue misure, viste dall'osservatore
fermo, risultino modificate nel senso della contrazione.
Che differenza c'è tra questo modo di presentare le cose
e il dire che il movimento è causa della contrazione? C'è
la differenza che, in quest'ultimo caso, introduciamo un
ente metafisico e antropomorfico.
È nello spirito della fisica postgalileiana che non si
possa mai considerare il movimento rettilineo ed
uniforme come causa di checchessia. Eppure, c'è un
caso in cui tale movimento viene considerato come
causa. È il caso dell'elettromagnetismo. Una carica
elettrica in movimento rettilineo ed uniforme crea un
campo magnetico: è cioè causa di esso. Ora questo
apparente rapporto di causalità può essere dissolto
anch'esso, e presentato come una specie di illusione
ottica, dovuta al fatto che le misure di una carica in
movimento sono diverse da quelle di una carica ferma.
Ma ciò che è piú importante, è che questo procedimento
371
può estendersi al caso di una carica in movimento
qualsiasi, sciogliendo tutto l'elettromagnetismo da ogni
rapporto causale. Una tale estensione getterebbe pure
una luce sul problema della geometria del sistema in
movimento accelerato, e del campo gravitazionale cui
esso dà luogo.
Se ogni rapporto causale nella fisica (cioè in sostanza
ogni legge di natura) potesse essere dissolto nel modo
sopra detto, potremmo ridurre tutta la fisica ad una
scienza puramente a priori, e relegare il lato
sperimentale di essa alla semplice funzione di
consigliare determinate assunzioni iniziali. Tutto quello
che è l'apparato sperimentale della fisica attuale, e che
serve a giustificare il carattere meccanicistico di questa
scienza, si ridurrebbe al ruolo di una semplice riprova
dell'esattezza di determinati rapporti calcolati.
Spieghiamo con un esempio: siano le equazioni di due
curve. Risolvendo il sistema rispetto alle variabili si
potranno facilmente determinare le coordinate dei punti
in cui le curve si incontrano. Compiuto questo calcolo,
disegnamo le due curve su di un pezzo di carta, e
constatiamo che si incontrano proprio nei punti
precedentemente determinati col calcolo. Possiamo ora
dire che il secondo procedimento costituisce una
conferma sperimentale del primo, ed è una
dimostrazione della corrispondenza fra le leggi della
Natura ed i calcoli della nostra mente? No: esso non è
altro che una ripetizione del primo procedimento, in cui
ci si serve di un altro mezzo di espressione. Il disegno
372
sulla carta costituisce una specie di macchina
calcolatrice che permette di trovare immediatamente
valori delle variabili che soddisfino
contemporaneamente alle due equazioni.
Esattamente la medesima cosa varrebbe per le
esperienze fisiche, quando fosse realizzato appieno il
programma sopra accennato. L'esperienza fisica non
costituirebbe che una macchina calcolatrice nella quale
si inseriscono i dati di un problema, e che esegue
automaticamente i calcoli. Il risultato non può essere
diverso da quello previsto teoricamente; se lo fosse,
bisognerebbe dire che i dati inseriti inizialmente nella
macchina non corrispondevano a quelli sui quali si era
calcolato teoricamente.
Verrebbe cosí a cadere quel carattere di contingenza
che è una delle caratteristiche essenziali del rapporto
causale. Non ci si baserebbe piú sulla fiducia nella
costanza delle leggi della natura; e quello che sembrava
un produrre secondo regole fisse ed immutabili, una
mirabile fedeltà ad una «consuetudine» della natura,
risulta null'altro che la conseguenza del fatto che l'uomo
si è servito di determinati strumenti per stabilire i suoi
punti di riferimento nello spazio, nel tempo, nella
misura dell'energia.
373
Sul concetto di esperienza
374
attribuisce alla linea retta (per esempio che per due
punti ne passi una ed una sola ecc.).
Ora la scienza fisica ha sempre considerato come suo
compito essenziale lo stabilire proposizioni sperimentali
nel primo senso. Quelle del secondo tipo vengono
relegate da essa in generale ai primi capitoli introduttivi,
nei quali si stabiliscono i concetti primi e le unità di
misura; e non ci si torna piú sopra nel corso della
trattazione. Ma il fondarsi cosí sulle proposizioni del
primo tipo implica tutta una serie di implicite premesse
metafisiche, a carattere realistico-finalistico; come per
esempio la credenza nella costanza delle leggi della
natura, nell'armonia del cosmo, nella preferenza della
natura per il semplice, nel Dio geometrizzante, ecc.
Lo sviluppo attuale della scienza fisica ci permette
ora di domandarci se non sia possibile ridurre il maggior
numero delle proposizioni sperimentali a proposizioni
del secondo tipo; cioè se non sia possibile trasformare le
cosí dette «leggi di natura» in una serie di osservazioni
sulla conformazione delle nostre fondamentali
sensazioni (visive, tattili, ecc.), che ci consigliano senza
imporcelo di adottare una determinata assiomatica;
stabilita la quale le proposizioni della fisica
discenderebbero da essa per via di semplice deduzione
logica.
Un tale assunto contribuirebbe a liberare la fisica
dalle premesse realistiche-finalistiche di cui sopra; ma
(e questo è molto piú importante) permetterebbe di
375
raggiungere una chiarezza molto maggiore nella
formulazione stessa delle leggi fisiche.
La realizzazione di questo programma dovrebbe
essere uno degli scopi essenziali della rivista.
376
Sull'assiomatica della teoria
della relatività
377
giungere senza introdurre come postulato autonomo il
principio di relatività.
Questo metodo, che è già stato essenzialmente svolto
dal Reichenbach nella sua Axiomatik der Raum-Zeit-
Lehre, ha il vantaggio di sostituire ai postulati imposti
dall'esperienza l'assunzione di unità di misura
consigliate dall'esperienza: cioè di sostituire esperienze
del secondo tipo ad esperienze del primo tipo (cfr. art.
I).
378
Sul concetto di «amore»
379
cui non si chiede nessun carattere morale la cui
valutazione dipenda dall'amore e non l'amore dalla
valutazione. Si potrebbe caratterizzare questo
sentimento dicendo che esso tende direttamente al suo
oggetto, mentre gli altri vi tendono indirettamente, cioè
tendono a un oggetto posticcio, che nasconde il vero
oggetto che è un altro. Quando noi diciamo di
«liberarci», di eliminare i [...] in noi, di tornare
spontanei e sinceri, miriamo appunto al raggiungimento
di un sentimento positivo di questo genere. Se cosí è,
dovremmo dire che il principio di non contraddizione e
tutta la civiltà che ne deriva (civiltà razionale,
matematico-logica, quindi meccanica) è una deviazione,
una costruzione sulla base di una malattia originaria: la
malattia del «contrapporre». Può darsi che sia cosí. In
ogni modo è forse meglio, anziché parlare di sanità e
malattia, parlare di due modi di atteggiarsi: l'uno il
«tutto positivo», l'altro il «positivo negativo». Il
secondo è stato sfruttato in tutti i sensi. Il primo non è
stato sfruttato affatto.
Ciò che non concedo a Scheler, è che questo modo di
essere, questo amore sia un fatto tutto spirituale,
indipendente dalla sessualità. Le è anzi legatissimo.
Freud qui insegna. La sessualità anzi è il primo esempio
essenziale di un affetto che attribuisce esso valore
all'oggetto in cui si applica, un affetto di pura
«espansione», e non di «valutazione». E seguendo
questa via e ciò che ho detto nelle righe precedenti, si
potrebbe interpretare tutta la costruzione della ragione
380
come una specie di superba malattia dualistica sorta
sull'originaria disinteressata e positiva «libido».
Queste considerazioni mi fanno anche dubitare se
l'amore del Cristianesimo primitivo si debba interpretare
come amore positivo (Scheler) o amore di risentimento
(Nietzsche). C'è sicuramente nel Cristianesimo un forte
desiderio di «liberazione» di amore puro. Ma mi pare
che nella ricerca degli oggetti ci sia ancora una forte
dose di risentimento. Nel passaggio dall'Ebraismo al
Cristianesimo c'è qualcosa di analogo a quello che
succede in un figlio rispetto al padre. Il padre (cioè Dio)
è inizialmente giusto e severo. Lo si ammira e lo si
teme. Gli si è inferiori perché lui garantisce l'ordine.
L'ordine, la coscienza, la moralità, è il suo occhio che
vede (cfr. Freud). A una certa età ci si accorge che il
padre si può anche amare, lo si sente piú vicino a noi,
piú «umano». Quell'ordine si è capaci ormai di
sostenerlo da soli, senza la sua costrizione. La
costrizione, il timore ci sembrano infantili, li
disprezziamo. Siamo capaci di un ordine piú libero,
senza regole cosí fisse. Il padre, non lo temiamo piú, lo
possiamo ormai amare. Se riusciamo ad amarlo senza
temerlo, ci sentiamo finalmente liberi, adulti. Il
Cristianesimo è in fondo una riconciliazione col padre:
cioè la scoperta di un amore. Il padre viene sostituito da
un senso di colpa e di autopunizione (peccato originale,
povertà, castità, ecc.). Questo riguarda però il
Cristianesimo come concetto religioso dovuto ad una
[...]. Come movimento di masse è tutt'altro.
381
Lo Scheler trae da queste considerazioni conseguenze
politiche. Cioè condanna ogni umanitarismo, ideologia
borghese, ideologia di uguaglianza che deriverebbero
dal risentimento. Io sarei d'accordo con lui che derivano
dal risentimento. Ma i mezzi che egli propugna per
restaurare l'ideale dell'amore, cioè in sostanza un ritorno
ai concetti medioevali di casta, di cavalleria, ecc. (la
forma piú vieta di reazionarismo) non mi paiono affatto
adatti allo scopo. È innegabile che la moderna
educazione tende ad allargare a piú vaste masse i beni
(spirituali, non solo materiali) che erano stati finora
appannaggio di pochi. E questo non è risentimento.
Come fare? Predicare: siate buoni, amatevi, ecc.? Non si
otterrebbe alcun risultato. D'accordo che i metodi
livellatori non risolvono affatto la questione ma
pongono almeno la questione in grado di esser risolta.
La questione è analoga nel caso di un essere individuale.
Se non ha degli squilibri nervosi che portano danno alla
sua personalità, si possono usare due metodi: o trattarlo
subito da malato, da pazzo e curarlo, in quel senso, con
enorme spesa e scarsa sicurezza di riuscita, oppure
lasciare che egli si organizzi da sé la resistenza, che si
crei un modus vivendi, nel quale egli non sia
naturalmente guarito, ma che gli permetta una vita
passabilmente produttiva. Se ora noi introduciamo un
tentativo di cura radicale sulla base di questo equilibrio
provvisoriamente raggiunto abbiamo molto maggiori
possibilità di successo. L'individuo sarà già piú forte,
potrà meglio sopportare la cura, conoscerà già da sé
382
certi processi di organizzazione che gli permettono di
non sbandarsi al primo colpo, e di non ricadere nella
malattia. Cosí è nel campo sociale. L'umanitarismo, il
livellamento, è sí, in fondo, negazione della negazione,
cioè risentimento. Ma è appunto quello che può creare
quell'equilibrio provvisorio, quel modus vivendi
artificiale, da cui si potrà ricavare la forza di liberarsi.
Onesto è il senso del «privato dell'economico» il quale
si deve intendere non come una morale, una
Weltanschauung, ma come il riconoscimento che
l'economico (o il risentimento) è l'unico punto di presa,
al quale ci si può afferrare per produrre un avanzamento
concreto. Il concetto del «salto dalla necessità alla
libertà» ha questo senso: solo una volta realizzato
questo equilibrio economico, sarà possibile parlare di
liberazione. L'errore della ideologia economica è di
porsi come definitiva, come una vera Weltanschauung:
il che le fa dimenticare il suo carattere strumentale,
impedisce ai singoli di procedere ad un
approfondimento morale individuale, e, ciò che è
peggio, col fare dell'economico (o del risentimento) una
specie di assoluto morale, rende piú difficile di
manovrarlo con quell'agilità che permette di giungere
piú rapidamente allo scopo. Il risentimento, usato
dapprima come utilissimo strumento, ha a un certo
punto reso schiavi coloro stessi che lo usavano; ed è
divenuto un mito, un fine: ci si è voluto costruire sopra
una morale. È il solito difetto dell'ipostatizzare, del fare
una filosofia di tutto. Il risentimento (o l'economico)
383
dovrebbe invece essere usato sí come l'arma piú potente
per raggiungere un equilibrio che permetta di entrare nel
«regno della libertà». Ma tranquillamente, senza
Weltanschauung, senza filosofia. Uno strumento: niente
piú.
E invece l'«amore» che cos'è? La mania di Scheler è
di porre sempre dei valori obbiettivi, di distinguere
sempre l'alto e basso, ecc. L'amore sarebbe appunto il
«valore obbiettivo», l'«alto», l'assoluto. Per noi,
naturalmente non è niente di tutto questo. Lo potremo
chiamare, caso mai, uno stadio di liberazione da
complicazioni che c'impediscono, uno «stadio» di
salute. Se si guarda con occhi spregiudicati, si vede che
la descrizione fatta da Scheler dell'amore puro, e
evangelico, non ha grande differenza dall'amore che ha
ciascun amante per la sua amata. Anche qui il valore
dell'oggetto è determinato dalla forza del sentimento che
vi è riposto, e non viceversa; anche qui egoismo e
altruismo si identificano; anche qui l'innalzamento di sé
viene realizzato nel fare il bene dell'altro, ecc. (C'è
dunque bisogno di mettere questo sentimento in sfere
metafisiche, inaccessibili?) Non si potrebbe risolvere il
precetto dell'amore evangelico in questo: Ama tutti con
la stessa dedizione, col medesimo disinteresse, con la
medesima gioia con la quale ami la tua amata? e si vede
che per raggiungere ciò è necessario avere eliminato il
risentimento, ma prima ancora del risentimento, le cause
del risentimento. Questo sentimento noi lo conosciamo
e lo possiamo realizzare per ora, solo nel campo
384
individuale e soggettivo. Si può trasportarlo a un campo
collettivo? Oppure far sí che ciascuno lo possa
veramente realizzare per tutti i suoi simili? Ne siamo
ancora lontanissimi. Ma la via per avvicinarci a questo è
di creare intanto un equilibrio provvisorio; per far
questo non conosciamo finora altri mezzi che di
soddisfare il risentimento; cioè metterlo in condizione
da essere piú facilmente eliminabile.
Un'altra osservazione: ho detto che questo amore
sarebbe un contatto diretto e «sincero», quindi libero,
del sentimento (Trieb) col suo soggetto. Il suo contrario
sarebbe un amore per un oggetto che non è esso
veramente il fine dell'amore, cioè un amore che scambia
gli oggetti, scambia il mezzo col fine. Non siamo qui
vicini alla distinzione kantiana fra categorico e
ipotetico? Il parallelo è molto utile. Anche Kant vuol
dunque giungere all'immediato, al diretto, al «senza
motivo», al positivo. Ma qual è il suo metodo? La
negazione del mediato, dell'indiretto: anzi la sua
progressiva eliminazione. E qual è la caratteristica che
assume allora questo positivo? L'universalità. E dove si
pone? Al termine di un processo indefinito. Ecco:
quando il positivo, il diretto, si vuol raggiungere per via
di eliminazione del suo contrario (ed è questa la via
seguita da tutta la nostra civiltà razionalistica) esso si
conferma, in tutti i campi, come universalità posta a
una distanza infinita, alla quale ci si può avvicinare
indefinitamente. Sono questi i concetti-limiti della
nostra concezione basata sulla negazione della
385
negazione: il concetto di totalità, di infinito, di
approssimazione. Cioè filosofia idealista e
trascendentale, calcolo matematico. L'altra via sarebbe
invece questa: non tanto eliminare la negazione, quanto
fare a ritroso il cammino che vi ha condotto. Il ritornare
semplici, cioè. Questo secondo metodo, che è stato
spesso accennato come esigenza (ritorno alla natura,
ecc.) effettivamente non è stato mai applicato. E non si
sa quindi bene quali siano i suoi punti di arrivo.
Possiamo forse già intravvedere che esso ci
permetterebbe di attingere un atteggiamento morale
diretto, positivo, integralmente vissuto e non raggiunto
solo per approssimazione. D'altro lato però c'imporrebbe
di fare a meno dei piú importanti strumenti che noi
abbiamo in mano per dominare il reale (calcolo,
organizzazione, società, ecc.). Ora bisognerebbe
studiare se e quali altri strumenti questo nuovo punto di
arrivo ci potrebbe fornire: o meglio, vedere quali aiuti
potrebbe fornire per risolvere le aporie della nostra
attuale organizzazione del reale la coscienza della
possibilità di seguire questa altra via.
386
Sul complesso di Edipo
387
Non è piú quel pezzo di propria carne, rispondente con
sorrisi ai sorrisi, tendente con voluttà al seno. Nella
madre comincia a formarsi un profondo rancore per il
nuovo essere che si sta sviluppando. Spia con terrore il
disegnarsi sul volto, nei suoi atteggiamenti, dei tratti che
non sono i suoi, che fanno il figlio o la figlia, diversi da
sé: i tratti del marito. Le bimbe, dicono, assomigliano
piú spesso al padre. Questi tratti devono essere, al loro
apparire, insopportabili alla madre. Che vi vede il segno
del tradimento, della perdita irrevocabile. Questi tratti,
essa comincia a odiarli. A volte, già li odiava da prima.
A volte il momento dell'iniziale sviluppo del bimbo
coincide con quello in cui il primo infatuamento per il
marito è passato, in cui la donna non lo ama piú, e sta
trasponendo in lui tutti i suoi risentimenti, i suoi rancori
personali. A volte infine è proprio la gelosia per il
bimbo (o la bimba) che le fa odiare anche nel marito
quei tratti che sono come il segno tangibile della sua
mutilazione. La tragedia fra madre e figlia si complica
di una tragedia fra moglie e marito. E il marito? Si era
nel primo anno disinteressato del figlio, di questo pezzo
di carne legato a filo doppio alla madre. Ma nel secondo
e nel terzo le cose cambiano. I suoi diritti ormai sono
almeno uguali a quelli della madre. Anzi, il suo apparire
piú di rado gli dà un'aureola di eccezione e di premio.
Quando è a casa è riconosciuto il suo diritto di avere il
figlio tutto per sé. La carne fresca, soda, in qualche
modo lo eccita. Egli trova e coltiva una nuova fonte di
tenerezza che a volte lo compensa di quella che si va
388
inaridendo per la moglie. È una piena rivincita che egli
prende rispetto all'anno di gravidanza e di allattamento
in cui egli era relegato in disparte. Egli può sfruttarla in
tutti i modi per sfogare rancori, vendette, risentimenti
contro la moglie.
Facciamo l'altro caso. Il primo anno è trascorso come
nel caso precedente (non credo che ci siano altre forme
di amore materno fuori di quello narcisistico, e mi pare
che il primo anno, salvo casi di odi della madre per il
figlio debba trascorrere – per maschi e femmine – in
modo presso a poco identico). Può avvenire che la
madre, nel momento in cui nel bimbo comincia a
svilupparsi l'io, riesca a prolungare la situazione del
primo anno. Lo tenterà, direi anzi, sempre, di regola.
Che vi riesca o no dipenderà da moltissimi fattori
esterni: le relazioni col marito; le caratteristiche
naturali; la fisonomia del bimbo, ecc. Poniamo che vi
riesca; avrà perpetuato nelle relazioni col bimbo, il
primo stato narcisistico. Il bimbo resterà la carne della
sua carne, l'essere per la salute del quale essa trepiderà
tutta la vita. L'amore per lui avrà un carattere di trionfo
rispetto al marito. Il marito rimarrà un estraneo nella
famiglia, l'estraneo che si teme e che s'inganna.
E il bimbo? Il bimbo è, in ambedue questi casi,
l'oggetto debole e indeciso di queste forze a lui estranee.
La sua decisione segue di regola la direzione che ha
preso il conflitto fra i genitori. Con questo non si vuol
negare che alcune sue iniziali tendenze non
costituiscano un elemento costituente del conflitto. Ma
389
si vuol affermare che ne sono un elemento, e quasi mai
il piú determinante. Gli amori e le gelosie del bimbo
sono in prima linea un riflesso degli amori e delle
gelosie dei genitori. Cosí per esempio l'odio contro il
padre. Non vi escludo che vi entri a volte, in gran parte,
il vedere in lui un rivale rispetto alla madre
(specialmente questo, nel caso che l'osservazione dei
rapporti sessuali fra i genitori abbia provocato una forte
scossa nel bimbo). Ma è molto spesso (oserei dire molto
piú spesso) l'esatto riflesso dell'odio che la madre ha per
il padre, del suo timore di lui, del suo senso di colpa di
fronte a lui, del suo senso di freddo o irritato rispetto di
fronte a lui. Cosí nascono i figli difensori, protettori
della madre. Sulla base di questo sentimento, se poi si
osservano improvvisamente i rapporti sessuali dei
genitori, può nascere una profonda delusione, per il
tradimento della madre, per il suo «passaggio al
nemico», un odio per tutti e due, un senso di abbandono,
la cui soluzione è il ritorno al narcisismo, o la ricerca di
un nuovo oggetto (nonna, balia, o altro) accompagnato
però sempre da pietà, cioè amore per se stesso.
L'altra conclusione che si può ricavare da quanto
sopra è che la mistione degli elementi maschili e
femminili in ciascun carattere non è un prius che
determina la scelta dell'oggetto su cui concentrare la
libido, ma anzi una conseguenza dell'esser stato «scelto»
dall'uno o dall'altro dei suoi genitori. Direi anzi che il
tipo della sentimentalità di ciascuno, per non dire delle
perversioni per cui sono necessari veri processi di
390
sostituzione, di identificazione, di fissazione, è
irrevocabilmente determinata da questa esperienza, cioè
dalla scelta dei genitori. E anzitutto negherei che
l'unione del figlio-madre e figlia-padre sia una regola
che si possa considerare come fondamentale. È una
regola che ha tante eccezioni da perdere molto del suo
valore. Che questo rapporto si verifichi con una certa
maggiore frequenza, è determinato probabilmente, piú
che da tendenze insite nei bambini, dal fatto fisiologico
che il maschio assomiglia piú spesso alla mamma, e dal
fatto che negli affetti dei genitori la coscienza del sesso
ha un'importanza determinante.
Ma da parte dei bambini, in un periodo in cui la
soddisfazione della libido avviene di regola per vie che
non sono quelle degli organi sessuali, in cui anzi tali
organi nella femmina non sono ancora scoperti e nel
maschio hanno una funzione diversa da quella sessuale,
in un periodo in cui le differenziazioni secondarie fra i
sessi non sono ancora apparse, mi par difficile pensare
ad un'attrazione istintiva e regolare del maschio per gli
esseri adulti di sesso femminile e viceversa. Comunque
mi sembra che a tale attrazione, anche se c'è allo stato
germinale, non si possa attribuire che una parte
secondaria nella scelta dell'oggetto.
Bisogna poi notare che la scelta della madre, da parte
sia del maschio, sia della femmina, ha caratteri
qualitativi molto diversi dalla scelta del padre. Finora è
stato descritto a preferenza il complesso di Edipo, nella
forma classica (madre-figlio) e gli si è contrapposta
391
come equivalente la forma inversa (padre-figlia). Ma
non bisogna dimenticare che la posizione della madre,
in tutto il primo anno, è di assoluta preminenza, sia per
il maschio, sia per la femmina. Ne segue che la scelta
della madre, per ambedue i sessi, ha un carattere di
conservazione, di paura rispetto al mondo esterno
(narcisismo?); la scelta del padre ha piú un carattere di
trionfo, di offesa. Il primo è un amore difensivo, l'altro è
un amore aggressivo. È il padre, non la madre, quello da
cui il bimbo «teme di essere mangiato».
Tenterò di caratterizzare alcune di queste situazioni,
tenendo conto dei sentimenti che partono dai genitori e
determinano quelli dei figli.
La madre e il figlio. È il tipico amore di difesa,
narcisistico per eccellenza. È dominato dal terrore
colorato di protesta, contro il mondo esterno che un
giorno fatalmente, immancabilmente, staccherà i due,
ingoiando il figlio. Il senso dell'esser divorato è
suggerito al figlio dalla madre. Il padre simboleggia per
il figlio (e a volte anche per la madre) il mondo esterno.
È il mostro in agguato a cui non si potrà sfuggire. I
due hanno un loro mondo a sé, l'unico in cui il mostro
non penetri, il grembo materno. Vi si fortificano. Non
solo il figlio, anche la madre. Nel figlio essa ha trovato
finalmente anche il suo rifugio. Questo essere per il
quale essa trepiderà tutta la vita, sarà anche il suo
protettore, il suo difensore. Il difendere la madre sarà
piú tardi l'unico atteggiamento virile assunto dal figlio: e
sarà in sostanza una lotta contro la virilità. Egli si
392
staccherà dalla madre solo per difenderla, per difendere
anzi il grembo materno e il mondo chiuso e sicuro di se
stesso bambino. Il tono di tutta la sua affettività sarà
determinato da questo sentimento originario. Oppure
egli non avrà la forza di staccarsi da questo mondo e
rinuncerà alla difesa attiva. Resterà tutta la vita nel
grembo materno, s'identificherà con esso. È
l'omosessualità (Freud: Narcisismo,
Massenpsychologie). Chi egli amerà nella sua vita sarà
sempre se stesso come figlio della propria madre. O il
possibile, lo sperato, l'amoroso difensore che le è
cresciuto sopra la testa e di cui solo ammira senza paura
la forza perché ne conosce ogni intimità. Oppure il
debole, l'indifeso, il tenero, che nasconde al mondo
sotto il velo delle sue carezze. Il ragazzo un po'
maggiore, cioè, o quello un po' minore.
La figlia e la madre. La paura non è cosí angosciosa.
La madre conosce piú da vicino, per esperienza propria,
il destino della figlia. Il mondo esterno sarà con essa piú
mite, non l'ingoierà. La madre non ha qui occasione
d'ingelosirsi, come per il figlio, di quelle misteriose
relazioni fra maschio e maschio, di cui ella nulla sa, ma
di cui tutto ha da temere.
393
Appunti per un articolo su «I
primitivi e le categorie dello spirito»
394
esse le consideriamo legittime, altre no. Quali sono
legittime? C'è una linea prescritta in direzione della
quale sia ammesso metaforizzare (forze, inerzia,
energia, causa, ecc.) ed oltre la quale ciò non sia piú
ammesso? Diciamo che la storia, lo sviluppo
dell'umanità ha prescritto una linea di questo genere, e
che ciò che troviamo in noi di mentalità primitiva, è una
scoria, un residuo rispetto a questa linea; e che il
proseguimento di questa linea, cioè il miglioramento
della scienza, deve consistere nell'eliminare sempre piú
questi residui, a meglio seguire questa
essenzializzazione. Ma sarebbe possibile uno sviluppo
in tutt'altra direzione, ammettendo altri sistemi di
metafore, escludendone altri? Sarebbe forse possibile. E
il pensiero dei primitivi ci si rappresenta come un punto
di partenza vergine, da cui tutte le direzioni sono
possibili.
Bachelard dice (p. 53) che ogni elemento di valore
nelle scienze deve essere psicanalizzato.
La grazia, in termini scientifici, si chiama empirismo
di una specie particolare. Non tanto per «far parlare le
cose» quanto «per far tacere se stessi». In questo senso
l'Io, il Geist, per dirla con Klages, è anche il nemico
della scienza. Ma è un Io impersonale, logico, razionale.
È un imporre alla realtà le leggi del nostro pensiero
astratto. Si crede che con l'averlo reso astratto, lo si sia
reso piú puro, piú aderente alla realtà. Lo si è reso
invece solo piú generico, quindi piú facile a dar
l'illusione della realtà. La lotta contro l'Io e la Ragione si
395
svolge anche nelle scienze empiriche, con le domande:
come si potrebbe pensare altrimenti? E la risposta che ci
dà l'esperienza, che effettivamente non si lascia
immagazzinare nei nostri normali schemi, è in sostanza
una lezione di modestia, che c'insegna a non sapere già
sempre prima quello che ci accadrà.
Dire: «c'è l'uno e l'altro», è un malvezzo idealistico.
C'è il finalismo e la causalità. No: bisogna decidersi fra
finalismo e causalità; bisogna decidersi fra Geist e
Seele. Ma non è necessario decidersi eliminando
radicalmente l'uno, p. es. abbandonando millenni di
civiltà, per una indifferenziata estasi. Lo si può fare nel
senso della nota precedente.
Sulla relazione fra paura, e morte, e cultura, cfr.
Klages, p. 69 mia nota. Che cosa è la paura per i
primitivi? Come si passa da essa al voler eliminare la
morte?
Il finalismo è il voler considerare tutto il mondo a
nostra immagine. È un tratto della mentalità primitiva
che lo sviluppo del Geist ha progressivamente
eliminato.
Vogliamo allora dire che un ritorno mistico alla
primitiva comunione significhi un ritorno al finalismo?
Forse no. Forse il finalismo è la forma piú grossolana di
dominio del Geist; forma che si è andata in seguito
progressivamente affinando nel causalismo, il quale non
è che una forma piú raffinata di antropomorfismo:
l'attribuire alla natura la nostra ragione, anziché i nostri
sentimenti e la nostra volontà.
396
Sugli idoli della scienza fisica
397
Risulterebbe che la stragrande maggioranza delle
vittorie ottenute, sono state ottenute dalla scienza da
sola, coi propri mezzi.
398
Il ritorno alla natura
399
prima di affidarmi con tanta fiducia alle loro pratiche
igieniche. Eppure è innegabile che il ritorno alla natura
non è solo il mito di un'epoca o la moda di un momento.
È una tendenza di cui è agli uomini quasi impossibile
liberarsi. La superiamo in un campo, ed ecco che ci salta
fuori, impensata, insospettata, in un altro, e anche
nell'attività stessa per la quale ce ne vogliamo liberare.
Il fatto è che l'uomo, arrivato ad uno stadio molto
sviluppato (non voglio dire elevato) del progresso, sente
il desiderio di tornare indietro: di liberarsi dei fardelli di
cui si è volontariamente caricato, e dai quali gli
sembrava di ricavare tanti vantaggi. Perché? Delusione,
sfiducia nella strada scelta, e bisogno di ricominciare da
capo? Stanchezza per la fatica compiuta? Senso
dell'inutilità di ogni sforzo e dell'impossibilità di
raggiungere qualsiasi meta?
Una prima osservazione è che gli uomini, questo
ritorno allo stato primitivo, non l'intendono sul serio. I
suoi teorici sono stati costretti a trasformarlo e
deformarlo in modo che non fosse piú quasi
riconoscibile. E nessuno si propone seriamente di
camminare su quattro zampe. Il mito della natura non ha
ritardato in nulla il cosí detto progresso. Anzi lo ha
affrettato. Ogni scoperta, ogni teoria che si proponga di
dare agli uomini nuovi strumenti ai fini della propria
utilità, si presenta come un ritorno al semplice,
all'elementare, al primitivo: come l'eliminazione di
pregiudizi e sovrastrutture, per giungere a contatto piú
diretto e immediato con la realtà.
400
Quando il mito della natura ha preso la forma di
un'ideologia politica, di un programma chiaramente
determinato, ha dato luogo a uno dei piú grandi
rivolgimenti sociali che la storia ricordi. È stato cioè un
impulso solo apparentemente volto a distruggere, di
fatto a costruire. Quando si è posto come un ideale
morale, si è identificato con la ragione e con la lotta
contro le passioni; cioè con quanto vi è di piú
complicato, artificiale, innaturale nell'animo umano.
Quando gli uomini hanno creduto che la ragione avesse
fallito al suo compito, e si sono voluti appoggiare ad
una facoltà d'intuire, di volere, di amare, questa facoltà
si è presentata come la piú semplice ed immediata:
come l'umiltà e la povertà contro la superbia e
l'artificiosità dell'intelletto. E se la ragione ha voluto
prendere un giorno la rivincita, ha voluto dimostrare di
essere alcunché di originario nell'animo umano, di
innato. Qualsiasi programma, qualsiasi ideale insomma
ha la possibilità di presentarsi come un ritorno alla
natura. E la parola natura è capace di riempirsi dei
contenuti piú antitetici. Essa è però una ottima
raccomandazione per il contenuto di cui a volta a volta è
piena. Quando gli uomini si sono convinti che
quell'ideale, quel programma, quel metodo, è veramente
il piú semplice, il piú primitivo, il piú naturale, è la volta
che lo accettano senza resistenza, che si abbandonano
ad esso con entusiasmo. Una delle ricette piú usate per
avere successo fra gli uomini è infatti il presentarsi
come i restauratori di una semplicità perduta.
401
Siamo dunque in presenza di una farsa, di una posa
insincera? Di un travestimento demagogico destinato
solo a ottener grazia presso il pubblico credulone e
sentimentale? Posto anche che sia cosí, resta da spiegare
per quale ragione gli uomini diano tanto credito ad un
mito che si rivela accessorio a tutte le formule o agli
strumenti che essi usano per comprendere o
impossessarsi della realtà. Vi deve essere qualche
motivo profondo di questo: un meccanismo costante ed
essenziale dell'animo umano che lo porta
irresistibilmente a concepire ogni conquista, ogni
progresso, come un ritorno. Come avviene insomma che
l'uomo ami tanto il semplice e il primitivo, da
trasformare in esso e chiamare con quel nome tutto ciò
che gli sembra appetibile od utile?
402
La nostra immagine
403
tutto cosí a pennello. È tutto cosí armonico, coerente,
economico. Tutto ha uno scopo, nulla va perduto. Ci
dev'essere proprio un «finalismo» nella natura, che
organizza le cose secondo le vie piú semplici e meglio
congegnate. Non c'è macchina d'uomo che possa
uguagliare questi meccanismi naturali.
Ma ci ho ripensato, quando ho visto mia moglie
stanca per l'allattamento, e le infermiere dell'ospedale
affaccendate attorno al mio rampollo, benché crepasse
di salute. Una cosina di quel genere è capace di tener
occupata una donna tutta la giornata.
Ho pensato: «Va bene; io lodo la Provvidenza per il
numero di cose che mi ha facilitato. Ma perché non mi
viene in mente di biasimarla per quelle che si è
dimenticata di facilitarmi?»
Per quale fine arcano mi obbliga la natura a portare il
bimbo in braccio un anno intero; a fornirgli tutto
l'occorrente, a tenerlo al caldo, a procurargli il cibo, a
cambiarlo sette volte al giorno? Essa, che ha costruito
un congegno cosí bello per nutrire l'infante, non
potrebbe inventarne uno per asciugarlo? È cortese, è
provvida la natura, quanto al mangiare. Ma come è
caparbia quanto al suo contrario!
Non rispondermi che questi dispiaceri se li è creati
l'uomo con la sua civilizzazione. I primitivi, gli animali
provano simili difficoltà. Anche essi devono curare la
loro prole, covarla, allattarla, proteggerla, pulirla,
portarle il cibo, insegnarle una quantità di cose.
404
Anch'essi ricevono dalla natura alcuni doni, ma devono
supplire con grande fatica a quelli che non ricevono.
Noi troviamo, è vero, un certo ordine in alcune cose.
Ma notiamo in un'infinità di altre un enorme disordine.
Tutta la nostra opera non consiste, anzi, se non nel
tentativo di ripararvi. Con tutto ciò, ci ostiniamo a
chiamar perfetta e regolare la natura. Se vediamo un
tratto di lavoro già fatto, se in un dato punto possiamo
risparmiarci un poco di fatica, pieghiamo i ginocchi e
adoriamo. In quel frammento, siamo pronti a vedere
l'essenza del tutto.
Per conto mio, però, ringrazierei molto piú la
Provvidenza se mi avesse risparmiato, anziché la purga
iniziale per il mio pupo, il timore continuo che mi
prenda freddo, o caldo, o che gli attacchino la tosse
canina. O anche solo la paura che mi caschi per terra,
ché, fragilino com'è, non ho neppure il coraggio di
toccarlo.
405
perfettissime, destinate dalla provvidenza al mio uso». Il
suo concetto della natura, se l'è costruito da sé, con
queste leggi di sua fattura.
Di fronte all'irregolare, al disordine, di fronte a ciò
che appare inutile e dannoso, e di cui non si riesce a
scoprire un fine, l'uomo non si è lasciato scomporre.
«Anche qui c'è una legge», ha detto, «bellissima,
perfetta. Tanto perfetta che le mie forze sono ancora
troppo deboli per afferrarla. Un giorno ci arriverò».
Egli ha creato parole come «contingenza», «caso»,
«accidente»; e altre come «mistero», «ignoto»,
«inesplicabile», «inesplorato». Parole che indicano
appunto ciò che egli spera un giorno di far servire ai
propri scopi. «È questione di tempo», egli dice.
La legge c'è sempre, a sentir l'uomo. Tutto sta a
scoprirla. Son sicuro che uno scienziato, un medico, non
sarebbe affatto imbarazzato dalle mie querele di oggi,
dalle mie delusioni di padre novellino. Ciascuno degli
inconvenienti di cui mi son lamentato, è parte, a guardar
bene, di un ordine meraviglioso. Il pericolo che mio
figlio cada e si faccia male, non è forse una
conseguenza della gravità, legge universale se altre mai?
E il riscaldamento e il raffreddamento dei corpi, non
hanno anch'essi regole ben precise? Quanto alla tosse
canina, il medico mi assicura che la scienza non dispera,
in pochi anni, di sviscerare la natura di questo male e di
renderlo innocuo.
406
Ogni disordine, insomma, l'uomo cerca di farlo
rientrare in un altro ordine, vicino o lontano, presente o
futuro.
407
di tutti gli angoli è sempre uguale a otto angoli retti! E
se si circoscrive un cerchio, vediamo che il lato
dell'esagono è uguale al raggio di questo cerchio!... E
come siamo stati bravi noi uomini, a scoprire, nel caos
dei punti, questo mostro di regolarità! Certo tutto il resto
sarà altrettanto regolare, e ci basterà di sforzarci, per
trovare sempre nuove armonie!»
Cosí, press'a poco, facciamo nelle scienze. Scegliamo
nell'immensità del mondo, qualche cantuccio la cui
costituzione abbia per noi una certa regolarità (cosí
come da un caos di rumori se ne estraggono a volte un
paio che fanno una piccola melodia) e non siamo capaci
di vedere se non questo. E questo, lo chiamiamo «la
natura».
L'uomo nasce legato a un certo numero di condizioni,
in cui non ha modo di rendersi alcuna ragione: due
gambe, due mani, due occhi, dieci dita, un cuore. Da
questo momento è portato a servirsi di tutto ciò che si
confà alla sua conformazione, e a negare l'esistenza di
tutto ciò che non le si adatti. E con ciò che gli si adatta,
costruisce i suoi concetti e i suoi valori: bello e brutto,
utile e dannoso, bene e male. Ti garantisco che se invece
di due mani ne avessimo diciassette, per noi la
simmetria, l'equilibrio, la proporzione sarebbero
regolate, anziché sul due, sul diciassette.
Noi vediamo solo quello che cerchiamo. E cerchiamo
solo quello che ci va a genio. Nessuna meraviglia che il
mondo che veniamo trovando, ci vada a genio. Sorge
cosí il mito di una natura bella e regolare, o logica e
408
matematica. Mito che, come tu sai, è comune allo
scienziato materialista e al mistico.
Un altro esempio: tu sai che gli animali, dopo il parto,
mangiano la placenta. Noi la buttiamo via. Perché non
la utilizziamo in qualche modo? Perché crediamo di
conoscere la funzione di questa membrana, che a nostro
modo di vedere, è stata creata per involgere il feto. Tale
scopo ci basta a spiegare la sua esistenza: non abbiamo
bisogno di altro per giustificarla nell'ordine della natura.
Ma l'animale primitivo invece, vista questa cosa
sanguinolenta, si sarà domandato: «A che cosa serve?
Proviamo a mangiarla». E a poco a poco, gli sarà
piaciuta. Se ci fosse ora uno scienziato fra i cani o fra i
cavalli, sarebbe convinto che la funzione naturale della
placenta è di saziare la madre, dopo il parto. E direbbe:
«Com'è provvida la natura, che fornisce alle nostre
cagne, alle nostre cavalle, proprio il cibo di cui hanno
bisogno, di cui sentono fame!»
La natura, credi a me, è come uno specchio che
riflette l'immagine di chi lo scruta. E l'uomo, il piú
intelligente degli animali, scambia la propria immagine
con lo specchio.
409
Il bisogno dell'unità
410
alla luce dell'universale». La sua risposta insomma si
risolverebbe nel seguente sistema di uguaglianze:
Pensiero = Universale – Universale = Unità – Pensiero
= Unità e starebbe a significare null'altro che questo.
Esiste una facoltà nell'uomo che tende a vedere le cose
in modo universale e unitario. Tale facoltà si chiama
pensiero o filosofia. Voler affermare quindi una filosofia
che non sia unitaria, è come affermare una filosofia che
non sia filosofia. Io gli darei ragione. E non mi
resterebbe che quest'ultima domanda: «Perché esiste
nell'uomo una simile facoltà?» Qui il filosofo mi
considererebbe definitivamente uno sciocco, e mi
rimanderebbe al Kant studiato al liceo e all'università:
che non è lecito un uso trascendente delle categorie del
pensiero; che la medesima attività per la quale io
domando perché, è quell'attività unitaria che la mia
domanda verrebbe a mettere in dubbio; che a questo
punto non il perché, ma il che ha luogo. Che infine
l'osservazione e quella esperienza che ognuno ha di ciò
che vi è di necessario, di permanente in lui stesso, di ciò
che costituisce il suo io piú profondo e universale, gli
presenta questa esigenza dell'unità come la condizione
di ogni pensare. «Si può pensare anche la molteplicità»,
egli proseguirebbe, «e vedere tutto il mondo come un
sovrapporsi di dati, difatti incoerenti, irriducibili l'uno
all'altro. Si può credere ad un pluralismo iniziale, e che i
collegamenti nelle cose siano sopravvenuti, dovuti ad
una nostra arbitraria organizzazione. Ma che cos'è, in
fondo, la molteplicità se non un momento dell'unità? È
411
possibile pensare al molteplice senza pensare
contemporaneamente all'uno? E gli stessi termini
complessivi di "pluralismo", "atomismo", ecc. non
indicano un bisogno di abbracciare con un unico
sguardo l'immensa varietà che sotto di essi si svolge?»
Io gli darei anche qui ragione. Dall'unità non si esce.
Essa è una realtà che non è necessario dedurre perché
condiziona ogni nostra deduzione. Fin quando esisterà il
nostro pensiero, esisterà l'esigenza dell'unità, che è la
medesima cosa che il pensiero stesso. Ma non potrei
fare a meno di notare una cosa banalissima. L'unità di
cui parla il mio filosofo non è una realtà della natura.
Egli non crede, come vi credeva la Scolastica e il
Rinascimento, e anche il razionalismo, a un mondo che
sia in sé armonico e uno per una provvidenza che lo
domini. Egli non crede a un Dio ordinatore
dell'universo, che ci mostri l'unità come una legge da lui
imposta alla natura. L'unità è per lui qualche cosa di
diverso che una realtà constatata o una meta additata dal
di fuori. È qualcosa che ci viene dall'interno e che
quindi non è affidata al controllo fallace della nostra
esperienza o della nostra facoltà di sintesi. È
connaturata con la realtà stessa in quanto è una forma
della realtà quale noi la possiamo concepire. È una delle
categorie, anzi la suprema categoria del reale, quando il
reale sia inteso non come un dato esteriore a noi, ma
come la nostra stessa realtà. La rivoluzione kantiana, il
trasportare all'interno dello spirito quelle leggi e quelle
idee esterne che fino allora erano state considerate come
412
un dato di fatto a noi esteriore, se ha limitato l'uso di
quelle forme della realtà, ha dato però ad esse una
sicurezza a priori che esse non avevano quando
dovevano essere accettate per fede o dimostrate come
alcunché di esistente al di fuori. Ora per la prima volta
l'unità della natura è qualche cosa d'indiscutibile perché
non si tratta piú di osservarla nella natura, ma è, per
definizione, l'essenza stessa del nostro pensiero della
natura.
Tutto questo è evidente; e domando scusa di aver
detto cose talmente risapute. Ciò che m'impressiona a
questo punto, è che il mio filosofo, in possesso di questa
certezza, sembra quasi rivolgersi agli altri, e a se stesso,
dicendo: «Orsú oramai sapete con certezza assoluta, a
priori, che il pensiero è unità. Che vi attendete?»
Il nostro compito non è d'ora in poi che di cercare
l'unità nella fisica come nella biologia, nella psicologia
come nella politica, come nella morale. Il pensiero è
unità. Chi pensa dovrà dunque realizzare l'unità. A
questo punto non sono piú capace di dargli ragione.
Sarei tentato piuttosto di dire che dall'istante in cui ci si
accorge che essa è la caratteristica fondamentale del
pensiero, l'unità è svalutata.
Come un bambino che dica coscientemente «io sono
un bambino!» in quel momento non lo è piú e non può
proporsi di esserlo; cosí permetterei a chiunque di
proporre la costruzione dell'unità come il compito della
filosofia, fuorché a colui che ha riconosciuto l'unità
413
come la legge essenziale del pensiero. Ciò non è un
paradosso.
414
Filosofi a congresso
415
bisogni, nei punti di vista da cui quella costruzione è
sorta. Egli lo prende bello e fatto, e lo mette a paragone
col mondo in cui vive lui. C'è un punto d'accordo? Ecco
che si rallegra di poter consentire con l'illustre
preopinante. Le posizioni divergono? Ecco che si
troverà costretto a porre una riserva. E la discussione
procede logica, coerente, ma perfettamente inutile.
Ciascuno parla di sé, e cerca di tradurre quello che dice
l'altro nel proprio linguaggio. Il suo parlare non può
essere all'altro del minimo aiuto. Anche quando c'è
accordo si sente quasi sempre che l'accordo è esteriore,
che si tratta semplicemente di una coincidenza formale:
il punto di partenza e il punto d'arrivo differiscono come
in due strade ben distinte che seguono per un tratto il
medesimo percorso.
Non c'è filosofo vero che sia capace di penetrare nel
pensiero di un altro filosofo. Egli è in grado di capire
solo se stesso. Provate a mettere a contatto, oggi,
Bergson, Husserl, Croce. Si conoscono, si apprezzano,
saranno magari capaci di mettersi d'accordo. Ma state
pur sicuri che ciascuno resterà chiuso in un mondo che
all'altro è completamente ignoto.
Non fatevi illusioni – che Platone prosegua e
completi il pensiero di Socrate e Aristotele quello di
Platone; non credete alle genealogie di filosofi, alle
tradizioni, alle scuole...
Son legami che si trovano solo nei libri di scuola, ove
i sistemi sono esposti in una lingua che consta di 25
parole. Studiate ciascuno di questi pensatori un po' a
416
fondo, cercate di entrare nella sua psicologia, nel suo
ambiente, nella società in cui vive; date un significato ai
termini che egli usa o che (quelli magari sí) ha preso in
prestito dalle filosofie in auge nella sua gioventú; e
vedrete che v'incontrate in un mondo a sé stante, con
leggi proprie, con proprie esigenze, con una propria
autosufficienza, una propria impossibilità di essere
diverso. Vi sono magari usate, sfruttate, alcune
formulazioni del filosofo precedente; vi sono magari
risolti alcuni problemi da lui lasciati aperti, ma in un
modo che quegli non avrebbe mai accettato, anzi che gli
sarebbe stato assolutamente incompatibile. E al nuovo
filosofo riesce sempre incomprensibile come il vecchio
non abbia viste le insufficienze, le contraddizioni della
sua dottrina. Cartesio, che pure non era uno stupido,
come ha potuto sostenere il famoso circolo vizioso su
cui si basa la sua dimostrazione dell'esistenza di Dio? E
Kant aveva pure intelligenza ha bastante per accorgersi
delle insolubili difficoltà in cui s'imbatte la dottrina del
noumeno. Locke non avrebbe potuto giungere da sé a
quelle conseguenze che Berkeley e Hume hanno
ricavato dalla sua psicologia? E Platone era proprio cosí
cieco da non vedere le difficoltà che poi Aristotele si è
occupato di risolvere?
Per proseguire, per correggere la dottrina di un
filosofo, per risolvere i suoi problemi, bisognerebbe
sempre ammettere che egli sia stato, in una certa misura,
privo di intelligenza. Ma per ammettere questo bisogna
essere su di un piano completamente diverso dal suo:
417
cioè bisogna non capirlo. Il tal filosofo ha avuto il gran
merito di affermare che... Però la sua limitazione
consiste nel non aver visto che... Il gran merito è di aver
detto cose che assomigliano a quelle che diciamo noi; la
gran limitazione è di non averne detta una che diciamo
noi. Cosí si usa fare la storia della filosofia: quella storia
che si vanta di superare il mero filologismo, e di
assurgere a una visione «attuale» dei veri pensatori.
Il fatto è che la grandezza di un filosofo non consiste
mai nel «risolvere» un problema, ma nel «porlo». E che
uno è tanto piú filosofo, quanto piú vero e insieme
nuovo, impensato, difficile a scoprirsi è il problema che
egli pone. Chi si limita a risolvere un problema posto da
altri, non è un filosofo ma è quasi l'aiutante del filosofo
da cui accetta il problema; fa, in certo modo, parte della
sua personalità: è un esecutore, un applicatore, uno
strumento. Egli vive in quell'atmosfera e vi coopera.
Non l'ha però creata. Le facoltà che egli usa
prevalentemente sono facoltà logiche e combinatorie. Io
non accetterei di chiamare filosofo colui che «porta alle
sue ultime conseguenze» una dottrina o che ha applicato
una dottrina a diversi campi. Egli è un loico, forse: non
un filosofo.
Ma che cosa è allora il filosofo?
418
Della lettura dei filosofi
419
Ritroso: Lo dicevo sí, e lo dico ancora. Ma tu eri
quello che insisteva sul limite di rigore, che non è
uguale in tutti i ragionamenti, sí che certe precisazioni,
che hanno senso in un contesto, non sono altro che note
sofisticaggini in un altro. Quando parlo di precisione
nelle definizioni filosofiche, parlo naturalmente di
quella relativa precisione che si può ragionevolmente
pretendere in discorsi come quelli; e mancando la quale
non vale piú la pena di seguire il filo del ragionamento.
Commodo: Ma tu sei sicuro che un libro di filosofia
contenga proprio dei ragionamenti?
Ritroso: Non cominciare coi soliti paradossi. Non mi
fanno piú nessun effetto. Anzi non me ne hanno mai
fatto.
Commodo: Ti sei mai domandato perché la filosofia
ha abbandonato il metodo sillogistico, che aveva usato
per tutto il medioevo, e il metodo geometrico usato da
Spinoza? Eppure dovrebbero essere i metodi piú sicuri
per controllare un ragionamento. Sono i metodi usati
ancora oggi, con immenso frutto, dalle matematiche e
da tutte le scienze esatte. La filosofia, a un certo
momento, ha cominciato a dire che quei metodi
appartenevano alla «vuota logica formale», che erano
inadatti ad afferrare il «perenne divenire della vita», e
cosí via. E questo momento ha coinciso col periodo in
cui si cominciava a fare luce sulle basi stesse del
metodo sillogistico, sul carattere dei suoi postulati e
delle sue definizioni iniziali. Proprio nel momento cioè,
in cui il metodo sillogistico cominciava ad acquistare
420
chiarezza, a divenire quindi uno strumento sempre piú
utile per il ragionamento, proprio in quel momento esso
è stato abbandonato in blocco dai filosofi. Perché?
Credo che il motivo sia poco confessabile. I filosofi
sono gente impegnata a far propaganda di certe loro
faccende personali, che sono, in fin dei conti, sempre le
stesse; una volta si chiamavano «esistenza di Dio»,
«immortalità dell'anima», ecc. Oggi si chiamano
«spiritualità dell'essere», «autonomia delle leggi morali»
o che so altro. Sono fatti personali, ripeto; bisogni,
esigenze, tendenze, stimoli che sorgono in modo oscuro
dalle profondità della coscienza e dall'educazione
infantile, e sui quali solo una psicologia molto
sviluppata ci potrebbe dare un po' di chiarezza. (Non
fare quella faccia stizzita: ho detto psicologia, non
psicanalisi).
Orbene, la filosofia si è impegnata ad accreditare le
soluzioni che vuol dare a questi problemi, per mezzo di
ragionamenti. Si può cercare di fare propaganda a
un'idea in molti modi: con argomenti e suggestioni
sentimentali, con prospettive utilitarie, incutendo paura.
La filosofia non ha scelto nessuno di questi strumenti, e
ha scelto invece quello del ragionamento. Ha stabilito
che quelle qualsiasi soluzioni che essa vuol dare al
problema dell'origine delle cose ed a quello della
contingenza e necessità, avrebbero avuto valore solo
quando fosse stato possibile racchiuderle in una serie
impeccabile di sillogismi. È un modo di propaganda
come un altro. La tesi affermata ti si accredita per la
421
saldezza con cui appare incatenata a tutto il resto, per la
compiutezza del ciclo a cui apparteneva. Quando i
filosofi sono riusciti a dimostrare «in forma», per mezzo
di sillogismi, l'esistenza di Dio e l'immortalità
dell'anima, hanno creduto di avere raggiunto il vertice
delle loro aspirazioni.
Ora avviene che un esame piú approfondito dei
fondamenti stessi dell'attività logica e razionatrice
conduce alla conclusione che quei sillogismi erano male
impostati. Si arriva anzi a convincersi che nessun
sillogismo è lecito su questi argomenti, perché mancano
le basi stesse per impostarli. Si riconosce insomma che
quegli argomenti non sono oggetto di ragionamento.
Kant è giunto a questo: e vi è giunto per un
procedimento che a sua volta non si può chiamare
raziocinativo; ma che risente piuttosto di quel
capovolgimento di punto di vista, di quella inversione
spirituale e morale per cui, per esempio, un Copernico
ha potuto sospettare che fosse piú facile descrivere le
cose mettendo il sole, anziché la terra, al centro.
Comunque la cosa fu detta da Kant con una tale
evidenza e persuasività, che nessuno, dopo di lui, poté
far a meno di tenerne conto; e tanto meno i filosofi, cui
egli si rivolgeva in particolare.
Dopo una tale scoperta, ai filosofi non avrebbe
dovuto rimanere altro che abbandonare le loro tesi
preferite, oppure considerarle apertamente come fatti
personali, esulanti da ogni criterio oggettivo di verità e
da ogni dimostrazione. Ma far questo avrebbe voluto
422
dire rinunciare al loro mestiere. Preferirono continuarlo
cambiando un po' le carte in tavola. Crearono una nuova
logica, che contrapposero come la vera a quella vecchia
che oramai con disprezzo chiamavano formale (e io
francamente non ho mai capito in che senso a questo
nuovo metodo possa attribuirsi il nome di logica).
Cambiarono anche il nome ai loro temi fondamentali: e
anziché di Dio e dell'anima, si misero a parlare dell'Io e
del Mondo, del Reale e del Razionale, dell'Ente e
dell'Esistente, dello Spirito e della Materia, del Soggetto
e dell'Oggetto, del Sein e del Dasein. Cosí poterono
continuare indisturbati il loro mestiere; e pur venerando
Kant come il loro maestro, poterono fare come se il suo
insegnamento non ci fosse stato: cioè continuare a dare
un'apparenza di dimostrazione logica a tesi cui tenevano
per tutt'altri motivi. Un filosofo inglese che tu forse
ameresti, il Bradley, ha detto: «La filosofia è un modo di
trovare ragioni complicate e difficili per dimostrare
delle cose che si sapevano fin da prima».
Ora, prima di rispondere all'obiezione che già si
disegna sulle tue labbra, mi sembrerebbe interessante
studiare il procedimento psicologico per cui questo
metodo del ragionamento possa acquistare una tale
persuasività, da essere invocato ogni volta che si voglia
avere la certezza di poggiare i piedi sulla solida realtà.
La cosa a noi sembra oggi tanto evidente, da non aver
quasi bisogno di spiegazione; ma di fatto non lo è. La
logica, in sostanza, non rappresenta per noi altro che
l'insieme delle condizioni che ci permettono di
423
procedere a classificazioni (cfr. Poincaré, Dernières
Pensées, p. 102). Che cosa fa sí che nell'istinto di
ciascuno ci sia una spinta cosí forte a considerarla la
quintessenza della realtà?
Io penso che ci sia, fra i misteri della nostra infanzia,
un'oscura e profonda relazione fra il nominare e
l'obiettivare. Penso che un insieme di sensazioni venga
dal bambino definitivamente raccolto insieme, e gli
venga attribuito quel carattere di compattezza e di
permanenza nel tempo e di identità a se stesso, solo
quando il bambino è capace di identificarlo e di
riconoscerlo mediante un nome. Da quel momento il
nome e l'oggetto diventano qualche cosa di
interscambievole; e il bambino traspone sul nome una
serie di sentimenti che caratterizzano il suo
comportamento di fronte all'oggetto, e in particolare il
suo comportamento di fronte all'oggettività in generale;
quell'insieme di movimenti abbozzati, quel senso di
azione subita dal di fuori e di reazione possibile da parte
del proprio corpo, che si accompagnano in generale alla
nozione di un oggetto fuori di me e che costituiscono
tanta parte di quell'insieme di stimoli e di reazioni di cui
è fatto il nostro sentimento della realtà...
Ritroso: Ma tutto questo non ha alcuna base
scientifica.
Commodo: Lo so e m'hai tolto la parola di bocca.
Tutto quanto dico non è altro che una mia impressione
vaga e confusa, non appoggiata da alcuno studio
424
concreto. E credo che studi concreti in questo campo
non ne esistano, all'infuori di quelli della psicanalisi.
Ritroso: Ma quelli non sono studi concreti.
Commodo: Può darsi: ma credo che ancora meno
concrete siano le ragioni per le quali tu li condanni.
Comunque, si è proprio obbligati, in ogni conversazione
che si fa, ad appoggiarsi su «studi concreti con base
scientifica»? Io ti dico, se permetti, una mia
impressione: e tu prendila come tale. La psicanalisi è
una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello
dell'astronomia prima di Copernico, e dell'alchimia
prima della chimica. Ha individuato in modo vago,
mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide
generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora
inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di
ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il piú
delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si
volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo
completamente sconosciuto, e il materiale che sta
portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo
solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi
secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi
sembra il colmo del filisteismo professorale.
Ma chiudiamo questa parentesi. Se non erro, tu eri
d'accordo sull'intima relazione che lega il nominare
all'obiettivare. Ora io penso che proprio in funzione di
questa relazione intima, deve essere successo che
quando la riflessione filosofica ha cominciato a far
capire agli uomini che i dati dei sensi non potevano in
425
alcun modo garantire loro la rispondenza con la realtà,
essi si sono rivolti...
426
Del finalismo nelle scienze
427
stesse hanno costruito il loro edificio. Eliminarli
significa sovvertire da capo a fondo l'edificio stesso
delle scienze naturali. Secondo me ciò è possibile e va
anzi fatto: l'edificio della scienza ne risulterebbe molto
piú soddisfacente e logico; ma la cosa essenziale non è
tanto propugnare questi principî, quanto applicarli
direttamente ai concreti problemi scientifici,
constatando quanto vantaggio derivi alla scienza stessa
dall'eliminazione del suo substrato metafisico-
finalistico. Penso che non ci sia propaganda piú
efficace, per un criterio metodologico, del mostrare alla
prova dei fatti la sua utilità.
Che anche le scienze fisiche siano imbevute di
presupposti trascendenti e finalistici potrà sembrare
strano, ma non è perciò meno vero. Basti pensare al
concetto stesso di «costanza delle leggi della natura» e
ai vari principî di inerzia, di conservazione dell'energia,
di minima azione, ecc. che sono proprio enunciati ed
usati come la sintesi dell'armonia dell'universo. Si pensi
che Newton ha costruito la sua teoria fondandola sul
concetto di movimento assoluto e di tempo assoluto; e
ora che questi concetti sono crollati di fronte a un
semplice esame logico, è crollata anche la teoria di
Newton. (Esempio tipico, questo, delle conseguenze
incalcolabili che può avere l'applicazione di un metodo
logico rigoroso e spregiudicato sulla compagine stessa
delle leggi fisiche). Oggi non si crede piú al movimento
assoluto, ma si crede alle costanti universali. Concetto
che racchiude in sé tonnellate di finalismo. Eppure
428
senza di esse tutta la fisica moderna (e antica) non
potrebbe muovere un passo. Spiega a un ragazzo che il
concetto di costante universale è altrettanto assurdo e
illogico come quello di movimento assoluto. Finché lo
vedrà usato tranquillamente nel suo libro di fisica, e
avrà l'impressione che sia uno strumento indispensabile
per la costruzione della scienza, sorriderà delle tue
obiezioni e le prenderà per inconcludenti pignolerie
filosofiche. Mostragli invece che eliminandolo dalla
compagine stessa della scienza, la scienza ne riceve
inestimabili vantaggi... ma questo prima che ai ragazzi
va mostrato agli scienziati, e a noi stessi, perché non è
stato ancora dimostrato, ed è complicatissimo da
dimostrare. (Se l'argomento t'interessa, potrei
sviluppartelo piú a lungo, con esempi, ecc.).
Insomma tu vorresti diffondere tra i ragazzi le
abitudini di pensiero delle scienze positive, illudendoti
che esse siano spregiudicate e antimetafisiche. Io penso
che il finalismo e una certa forma di trascendenza
trovino oggi il loro appoggio principale proprio nelle
scienze fisiche.
Completamente d'accordo, del resto, nella critica
all'indirizzo umanistico medievale delle nostre scuole
medie. Quanto piú fruttifero sarebbe, per esempio,
anziché tutti quegli anni di latino e greco, uno studio
serio e profondo (non solo commerciale) delle lingue e
letterature moderne! Il ragazzo che esce dal Liceo non
solo non sa chi era Galileo e Newton e Darwin, ma
neppure chi erano Shakespeare e Goethe e Voltaire e
429
Montaigne. (Quanto al De rerum natura, però, rettifico,
è nei programmi, e io, per esempio, l'ho studiato a
scuola; ma non è proprio il testo che consiglierei per
formar la mente all'indagine scientifica).
D'accordo su un corso di metodologia scientifica da
accompagnarsi al corso di elementi di scienze naturali.
Ma qui la cosa piú urgente sarebbe di istituirlo nelle
università dove è proprio indegno che manchi.
Ritroso: Ritornando all'argomento precedente, io non
vedo che sia proprio necessario sovvertire tutta la
scienza per affermare i nostri principî antifinalistici. Si
può anche concedere l'uso di tutti i concetti metafisici e
trascendenti, purché si sia coscienti che è un uso
puramente convenzionale, simbolico, preceduto da una
riserva iniziale, da un iniziale come se. Fatta questa
avvertenza preliminare, io non vedo alcun
inconveniente a introdurre forze che spieghino i
fenomeni, a parlare di costanti universali, ecc. Tanto piú
che le nuove teorie sovvertitrici, a quanto sento dire,
portano delle modificazioni tanto piccole, che non
cambiano in nulla la portata pratica effettiva delle leggi
tradizionali. Ti confesserò anzi che c'è qualche cosa che
mi disturba e m'irrita in questa smania iconoclasta della
scienza moderna, in questa grancassa che si suona al
sorgere di ogni nuova teoria, come se essa dovesse
rinnovare dalle fondamenta tutte le basi del sapere
umano. C'è in questo, riconoscilo, una forte dose di
ciarlatanismo.
430
Commodo: C'è, sicuramente: e Einstein è certamente
uno dei piú grossi tromboni pubblicitari dei nostri
tempi. Ma di questo basta sorridere, non c'è bisogno di
irritarsi. Se si guarda poi al fatto si vede che queste
teorie discendono direttamente proprio dalla critica ai
principî, formulata dal Poincaré. Questa non è una mia
opinione, ma un fatto noto e citato dai testi: tanto che il
Poincaré era giunto un pezzo innanzi sulla via della
relatività, e che le famose trasformazioni vengono
chiamate da parecchi «Trasformazioni di Poincaré-
Lorentz-Einstein». Se si vuole seguire sul serio il
pensiero del Poincaré, bisogna dunque vederlo
essenzialmente in questi suoi sviluppi.
Che si possano usare tutti i concetti finalistici o
animistici o altro, purché si abbia l'avvertenza di
considerarli fin da principio come convenzioni comode,
ma arbitrarie, non mi pare. Ci sono dei concetti che,
quando si sappia che sono delle convenzioni e non delle
realtà, non possono piú venire usati nel senso in cui
erano stati usati prima. E la correzione antifinalistica
non è innocua alla scienza, ma anzi incide
profondamente sulla sua costituzione. Riprendiamo il
solito esempio della luce, che è il piú comodo, perché
introduce solo due variabili, mentre gli altri, presi in
generale da esperienze in cui entra il concetto di forza
(gravità, ecc.), introducono tre variabili, con molte
complicazioni.
Il Fisico dice: «Si constata sperimentalmente che la
velocità della luce è una costante universale. Essa ha,
431
per qualsiasi osservatore, e in qualsiasi direzione, il
valore di 300000 km/sec».
Per noi questa costanza universale puzza di finalismo,
di armonia del mondo, di Dio geometrizzante, ecc.
Diciamo: qui ci deve essere nascosta una petizione di
principio. Probabilmente la velocità della luce ci si
presenta costante perché abbiamo organizzato
inconsciamente i nostri strumenti di misura, in modo
che l'esperimento dia sempre il medesimo risultato. La
luce non è forse lo strumento della nostra vista? E non
misuriamo noi forse le lunghezze (per esempio quelle
astronomiche) mediante la vista, cioè mediante la luce?
Che meraviglia allora che la velocità della luce risulti
costante! Siamo noi che, senza accorgercene, la
misuriamo mediante se stessa! È come se noi dicessimo
che, per un supremo miracolo della natura, un metro è
sempre lungo un metro.
Il Fisico risponderebbe: «E sia. Negli esperimenti di
cui parlavi, lo spazio era misurato mediante sbarre di
platino, e il tempo mediante orologi a pendolo. Voi
volete ora dire che la velocità della luce è una costante
arbitraria; cioè che l'assumiamo noi arbitrariamente
come costante nelle nostre misurazioni. Niente di piú
legittimo. Ciò equivale a dire che noi assumiamo la
velocità della luce come unità di misura. Lo possiamo
fare, lo facciamo anzi spesso, ma allora siamo costretti
ad abbandonare, come unità di misura, la sbarra di
platino oppure l'orologio a pendolo. Infatti è, per
definizione, velocità=spazio/tempo; e dunque quando si
432
sono assunte unità di misura per due di queste quantità
(per esempio spazio e velocità) ne risulta
necessariamente determinata l'unità di misura per la
terza. L'unità di misura del tempo non sarà piú, nel
nostro caso, il battito del pendolo, ma il tempo
impiegato da un raggio luminoso a percorrere la
lunghezza della sbarra di platino che costituisce l'unità
di misura spaziale. Messe cosí le cose io ti dirò:
esperimenti concordi dimostrano che ogni pendolo ha
un periodo costante. Il finalismo, cacciato dalla porta,
ritorna dalla finestra. Insomma, è innegabile che c'è una
relazione fissa e costante fra sbarra di platino, pendolo e
velocità della luce. Quale di queste tre quantità vorrai
considerare come una costante sperimentale, mi è
indifferente, ma una delle tre lo deve essere, senza che
tu possa trasformarla in una nostra definizione. Ora
questo rapporto fisso fra sensazioni cosí disparate le une
dalle altre, è strano e conturbante; e nulla ci può togliere
l'impressione di avere colto qui il cardine di una
regolarità che, se anche non la vogliamo attribuire alle
cose ma solo alla nostra sensibilità, è una regolarità che
constatiamo senza averla voluta, rispetto alla quale noi
siamo passivi, e che ci si presenta indipendente dalle
esigenze nel nostro intelletto».
Cosa possiamo rispondere? Una risposta, a mio
parere, c'è ed è l'unica che possa salvare la nostra tesi
antimetafisica: ma è una risposta che non si può dare,
finché non sia appoggiata su una dimostrazione
scientifica, rigorosa. Comunque la mia convinzione
433
antifinalistica è talmente radicata e poggia, a mio parere,
su basi logiche talmente solide, che ho piena fiducia che
la dimostrazione scientifica si possa trovare. La risposta,
insomma, è questa:
Sbarra di platino, pendolo e luce stanno fra loro in un
rapporto fisso; ciò significa che essi sono la medesima
cosa, cioè che il fenomeno dell'oscillazione del pendolo
non è altro, se non travestito, che il medesimo fenomeno
della propagazione luminosa. In altre e piú generali
parole: ogni volta che si è constatata sperimentalmente
la costanza di un determinato fenomeno, ciò significa
che il fenomeno misurato non era altro che il medesimo
fenomeno che si era adottato come strumento di misura.
Ciò che si è misurato non è insomma altro che lo
strumento di misura. Nessuna meraviglia allora che il
risultato sia sempre lo stesso.
A dirla in questa seconda forma sembra una cosa
plausibilissima, ma a metterla nella prima sembra
un'allucinazione da invasato. Il vero è che questa
risposta non è né rara né lapalissiana. Lapalissiana non è
perché la fisica oggi è ben lontana dall'attribuire la
medesima natura ai fenomeni di cui sopra. Pazza non è
neppure, perché il problema delle costanti universali è
giunto oggi a un grado tale di unificazione, che permette
di considerare possibile l'impostazione di un tale punto
di vista. Ti ricordo Le nuove vie della scienza di
Eddington, alla fine del quale troverai una breve
esposizione del problema.
434
Comunque quello che mi interessava era di mostrarti
che, se vogliamo poter affermare con serietà e con frutto
la tesi antifinalistica, non possiamo esimerci dal
mostrare che ogni volta che la fisica misura la costanza
di un fenomeno, il fenomeno misurato e quello
mediante il quale si misura sono la medesima cosa. La
cosa, ripeto, è ben lungi dall'essere dimostrata; e questo
è il motivo per cui anche i fisici piú arditi, oggi,
continuano ad essere finalisti. Tuttavia i casi essenziali
in cui questo problema si pone si riducono a pochissimi
(tre, probabilmente). E comunque, finché la fisica non
avrà fatto questo passo avanti, l'antifinalismo resterà una
mera esigenza, un programma, un desiderio: ma potrà
essere sempre confutato alla luce dei dati sperimentali.
La realizzazione di un programma di questo genere
sarebbe semplicemente assurda in scienze come la
biologia o l'economia, in cui le leggi sono
numerosissime e irriducibili l'una all'altra. Ma la fisica è
una scienza ancora molto piú semplice di quanto non
appaia. Le variabili di cui tratta sono tre: spazio, tempo
e massa. (Oppure spazio, movimento e forza, oppure
tempo, movimento e energia o altre terne equivalenti).
Le leggi essenziali e primitive dalle quali sviluppa tutti
gli altri fenomeni, sono pure tre: gravità, carica elettrica,
fenomeni elettromagnetici. Con questi semplici dati
primitivi si può rendere conto di tutti i fenomeni
osservati dalla fisica. La ricerca delle inversioni
finalistiche si può dunque limitare a queste leggi
elementari, e non si presenta come un'impresa
435
inattuabile. Ti voglio dare un esempio di come ciò
potrebbe procedere a proposito dell'elettromagnetismo.
Fisico: Tu sai che una carica elettrica in movimento
dà luogo a un campo magnetico: si comporta cioè come
una calamita. Questo è uno dei fenomeni piú
meravigliosi e strani della natura e da esso derivano le
piú diverse conseguenze: dalla disgregazione degli
atomi alle onde della radio. Ora prova tu, se puoi, a
negare un ordine e una regolarità nella natura, in
presenza di questo fatto. Una calamita e un corpo
elettricamente carico si trovano rispettivamente nel
punto A e nel punto B, fermi ambedue. Finché stanno
cosí, non si accorgono l'uno dell'altro, non subiscono
alcuna sollecitazione. Fa' ora sí che uno dei due si
muova, ed ecco che fra i due cominciano ad agire e
interagire forze, sollecitazioni, impulsi; è come se d'un
tratto si fossero riconosciuti. E il bello è che queste
forze sono perfettamente calcolate, e stanno in una
relazione semplice, sempre la stessa, col movimento
reciproco della carica e della calamita. Andate ora a
negare che nella natura c'è un ordine, una regolarità.
Noi (prima obiezione antifinalistica all'acqua di rose):
Tu parli un linguaggio mistico che è assolutamente
superfluo. Quando dici che sorgono delle forze, degli
impulsi, ecc., esprimi i fatti in un modo animistico e
antropomorfico. Si possono esprimere i fatti senza far
intervenire tutti questi concetti equivoci. Il dire che un
corpo è sollecitato da una forza, riceve un impulso, non
esprime se non il fatto che questo corpo si muove lungo
436
una certa traiettoria con una certa velocità. Di' le cose in
questo modo semplice e asciutto, e vedrai che gran parte
del meraviglioso scompare.
(Questa obiezione non obietta niente. E il Fisico ha
perfettamente ragione di risponderci:)
Fisico: Non è il modo di esprimerlo, è il fatto stesso
che è meraviglioso. Io mi meraviglio che un corpo in
presenza di un altro corpo non si muova se questo sta
fermo, e si muova se questo si muove. Comunque tu lo
esprima, il fatto rimane strano e sconcertante; e non è
solo una questione di linguaggio.
Noi (seconda obiezione antifinalistica, molto piú
concreta): Se le cose stanno cosí è presumibile che la
calamita e il corpo elettricamente carico siano in
sostanza della stessa natura; cioè che i fenomeni del
magnetismo e quelli dell'elettricità siano in sostanza un
solo ordine di fenomeni.
(Questa seconda obiezione è piú sensata, e porta
effettivamente il problema un passo avanti. Va però
dimostrata). In linea di fatto, oggi è quasi sicuro che i
corpi calamitati e i magneti naturali contengono nel loro
interno cariche elettriche in movimento. Ma con questo
il problema non è ancora risolto completamente. Il
Fisico può ancora obiettare che è pur strano e
meraviglioso il fenomeno anche se intervenga fra sole
cariche elettriche. Due cariche elettriche si attraggono
con una certa forza, quando sono ferme. Se le poni in
movimento anche rimanendo uguale la loro distanza
reciproca, alla forza primitiva se ne aggiunge una
437
nuova, che non possiamo fare a meno di considerare
come effetto del movimento. Siamo sempre lí; il
movimento crea una forza. Se anche elimini il
linguaggio mitico il fatto rimane.
Noi possiamo rispondere in modo da eliminare ogni
meraviglia dal fenomeno. Ricordiamo che la meccanica
moderna (la quale si fonda sulla semplice assunzione
logica e omogenea di definizioni e unità di misura,
senza presupporre alcun fatto sperimentale) attribuisce a
ciascun sistema in movimento sue particolari misure
spaziali, temporali, dinamiche. Se noi allora
consideriamo le due cariche in movimento, le misure
che dobbiamo prendere per misurare la loro azione
reciproca non saranno le nostre misure, ma saranno
quelle degli osservatori in movimento insieme alle
cariche. Nessuna meraviglia che esse risultino diverse
dalle nostre: sarebbe anzi da meravigliarsi se
risultassero uguali. Questa forza magnetica che sembra
creata dal movimento, risulta cosí una semplice
illusione ottica, un effetto di prospettiva dovuto alla
diversità delle misure dei due osservatori. E questa
diversità delle misure, a sua volta, non è nulla di
meraviglioso, ma risulta direttamente dal modo come le
misure stesse sono state assunte.
Con questo il finalismo è completamente eliminato
dal fenomeno. Ma perché la cosa riesca convincente, è
assolutamente necessario poter dedurre, dalle semplici
trasformazioni delle misure spazio-temporali e
meccaniche, le leggi dell'elettromagnetismo; le quali
438
sono state invece poste finora come la sintesi di una
serie di fatti sperimentali. Solo se si potrà far
discendere, da queste semplici assunzioni di definizioni
e di misure, le conseguenze stesse dei fenomeni
elettromagnetici, solo allora i fenomeni elettromagnetici
avranno perso il loro alone di misticismo.
Ritroso: E quando si sia fatto ciò, si potrà dire di
avere veramente scoperto qualche cosa di nuovo? Le
leggi a cui si giungerà non saranno identiche a quelle di
prima?
Commodo: Forse sí, ma forse anche no. Poniamo che,
partendo da questa via puramente deduttiva, si giunga a
formule che coincidano con quelle note
dell'elettromagnetismo solo in via approssimata. Ecco
che si potrebbero prevedere degli esperimenti
raffinatissimi che mettano in luce la differenza fra le due
formule; e questi nuovi esperimenti potrebbero dar
luogo a qualche applicazione e a qualche scoperta. Ciò
può succedere e può anche non succedere. In altri
campi, rispetto a procedimenti analoghi, è successo.
In conclusione: Tu credi che le affermazioni
antifinalistiche si trovino sulla via regia della scienza
sperimentale classica e del positivismo scientifico del
secolo scorso. Io credo invece che si trovino su di una
importante deviazione da questa via, deviazione che
minaccia ormai di sostituire la via stessa e che è stata
iniziata da Poincaré e da Mach (salvo i precursori)
ispirandosi meno a Spencer e a Comte che non a Kant.
439
Penso inoltre che, se si vuol condurre l'antifinalismo a
conseguenze logiche e a risultati concreti, bisogna
abbandonare la concezione classica della scienza come
espressione astratta e simbolica di fatti sperimentali
(concezione presupponente che questi fatti siano sempre
riconducibili ad un ordine ed a un'armonia), e sviluppare
invece la concezione della scienza come deduzione
logica delle conseguenze implicite nell'assunzione
iniziale di alcune definizioni suggerite, consigliate (ma
non imposte) dall'esperienza, cioè dal comportamento
dei nostri sensi di fronte agli stimoli esterni.
Credo che, allo stato attuale delle cose, non sia
azzardato credere che questa via logica e deduttiva
possa condurre a tutte le leggi che si ritenevano finora
ottenute per via induttiva dai dati sperimentali; e che, a
parte l'immenso chiarimento logico che ne deriverebbe,
il seguire questo metodo possa condurre anche a risultati
di effettive scoperte e applicazioni.
440
Dell'antropomorfismo nelle scienze
441
di altrettanti giochetti, sentirai con supremo sprezzo che
questo è un discutere a vuoto. È l'unica cosa sulla quale
sono d'accordo con te.
Il tuo metodo è questo: (1) Ridurre quello che io dico
a banali paradossi. (2) Ad essi contrapporre banali
verità. (3) Provare un nobile disgusto per gli uni e per le
altre. Ora io sarei pronto a sopportare (1) se tu non mi
rispondessi con (2). E che tu lo faccia, mi dimostra che
forse lo stesso (1) non era fatto giustamente.
Curiosus: Confessa che tutto questo sproloquio è
fatto per mostrare che le tue armi polemiche sono
altrettanto appuntite di quelle di Severo.
Commodo: Lo confesso. Ma questo non svaluta i miei
argomenti, che riaffermo decisamente. Comunque passo
all'essenziale della questione.
Io non ho mai detto che la vita non esiste. Neppure
nego che ci siano forze a noi inafferrabili. Dico solo che
se sono inafferrabili non possiamo dir niente, e che
possiamo dirne qualche cosa solo in quanto e per quel
tanto che siano afferrabili. E se sono afferrabili vuol dire
che rientrano nei nostri schemi di regolarità, di
previsione, di rifacimento. E quando sono entrate in
questi schemi, sono in nostro potere. E ciò che è in
nostro potere noi lo chiamiamo materia o cosa morta.
Severo: Questo è il punto. È proprio vero che
afferrare una cosa significa per noi farla solo rientrare
nei nostri schemi di previsione, ecc.? Non c'è una forma
di conoscenza in cui tali schemi non entrano affatto? La
conoscenza storica, per esempio. Essa non è fatta di
442
banali previsioni, ma di qualche cosa di molto piú vivo.
È un prolungare la nostra personalità verso il passato
dell'umanità, per farla tendere verso il futuro. La storia è
connaturata intimamente con la vita, intesa come
autoformazione, cioè come realizzazione di fini. La
storia non è una scienza ipotetica, che consideri il suo
oggetto come un mezzo. Essa è attiva, pregna di
avvenire.
Commodo: Belle e sante parole, ma quanto piú utili se
fosse lecito, senza incorrere in anatemi, vederle piú da
vicino!
Severo: Ecco il solito prigioniero dell'intelletto.
Commodo: Va' al diavolo. Sí, certo, la storia è la
nostra coscienza di noi stessi, e via dicendo. Ma lo è in
quanto viva e attuale attività dello spirito, non in quanto
corpo di nozioni e di fatti codificati nei libri, e raccolti
negli archivi, e classificati dagli statistici e dai giuristi.
In questo ultimo senso essa è una mera raccolta di fatti
che, se può avere un uso, ha proprio un uso ipotetico (se
vuoi ottenere questo fine devi usare questo mezzo) cioè
un uso di molte aleatorie previsioni, basate su analogie.
Ora non puoi negare che la storia per chi non se ne
occupa attualmente e attivamente, la storia come
materia di studio nelle scuole, come corpo sistemato di
dottrina, non è niente piú che questo. Ben altro è invece
il caso di chi ne fa il centro della propria vita morale e
spirituale, per chi la vive come il proprio stesso passato
e ne fa la base e il punto di partenza per ogni sua azione
e per ogni suo fine (e tutti lo fanno in maggiore o minor
443
misura). Ma allora si può ripetere la medesima cosa per
le scienze naturali, che hanno un valore strumentale e
indipendente dai fini solo per chi le consideri come
corpo codificato e stabile di cognizioni. Ma per chi le
viva come il dramma della propria ricerca (e tutti, anche
qui, piú o meno lo fanno) sono qualche cosa che affonda
le sue radici sempre piú in là nel mondo circostante, per
porsi sempre nuovi fini; qualche cosa che anzi detta essa
stessa i fini al ricercatore, e nel suo stesso crescere e
divenire trova il motivo di ulteriormente crescere e
divenire. Mi pare, del resto, che perfino il grande Croce
abbia recentemente riaffermato che le scienze naturali
non sono altro che storia. E non è persona sospetta di
simpatia per le scienze.
Severo: Riconoscerai però che i fini della storia sono,
per cosí dire, finalistici e non cosí strumentali come
quelli della scienza. Toccano nell'uomo qualche cosa di
piú intimo, di piú categorico.
Commodo: Può darsi, ma comunque questo non
riguarda il nostro argomento. E poi è in fondo questione
di gusti. C'è chi sente proprio come categorico in sé un
bisogno di espandere la propria comunione col mondo
circostante. Anzi, direi che questo bisogno è uno degli
essenziali bisogni degli uomini. Senza contare che uno
dei grandi fini che si propone la scienza è di salvare gli
uomini dalle malattie.
Comunque, ripeto, questo non tocca il nostro
argomento. Il fatto è che, quali si siano i fini che un
qualsiasi tipo di studio o di conoscenza ci addita, noi li
444
possiamo raggiungere tanto piú esattamente, quanto
maggiore è la facoltà di previsione che quella scienza ci
fornisce. E questa parola previsione non indica
necessariamente qualche cosa di meccanico, di
meschino. La si può considerare come qualche cosa che
fa corpo con la natura stessa dell'uomo; una agilità di
movimento, un controllo della situazione, una
precisione di riflessi che rende sicura e fruttifera
l'azione. Ma sarà pur sempre questa facoltà, ridotta alla
sua piú intima essenza, la capacità di vedere, con quanta
piú ampiezza è possibile, che, posti certi fatti nel
presente e nel passato, ne avverranno certi altri
nell'avvenire. (Con intenzione non ho detto che poste
certe cause ne seguono certi effetti).
Severo: Insomma; tu non ammetti che in certi casi,
nel rendersi conto dello svolgersi di certi avvenimenti,
si sia costretti ad introdurre delle cause che contengono
già in se stesse potenzialmente, allo stato di tendenza
piú o meno confusa, l'effetto? Insomma delle cause
finali?
Commodo: Non ho mai capito la natura di tali cause.
Comunque non sarei affatto alieno dall'ammetterlo,
appunto in quanto cause. Ma dico che sono tanto piú
adatte a contribuire alla formazione di conoscenze
rivolte verso il futuro, con quanta maggiore sicurezza
esse possono far prevedere l'effetto; cioè con quanta
maggiore forza e necessità l'effetto è legato ad esse. La
natura delle cause, il perché una data causa produca un
445
dato effetto, è, a ben guardare, estraneo ai veri interessi
della scienza.
Generalmente si considerano tanto piú finalistiche e
antropomorfiche le cause, quanto meno sono sicure;
cioè quanto meno sono cause; quanto meno sono utili
alla scienza. Ma in fondo niente ti vieta di dire che il
polo nord di un magnete tende verso il polo sud e
viceversa, se sia chiaro che ciò significa che i due poli,
posti in presenza l'uno dell'altro, si muovono in
direzione l'uno dell'altro; o di dire che i fagociti si
difendono contro i germi patogeni aggredendoli, se con
queste parole si adombra una serie di fatti esattamente
prevedibili e calcolabili. Nelle scienze economiche e
storiche è spesso l'osservazione stessa della psicologia
umana e dei fenomeni della volontà, che ci porta a
quelle conclusioni per cui questi modi di conoscenza si
possono dire carichi di futuro. Ma anche qui si tratta di
ciò che nella psiche e nella volontà vi è di permanente,
di ripetentesi, di prevedibile; è sempre cioè un certo
meccanismo in queste attività che ci permette di
poggiare su di esse (con piede, a vero dire, assai
malsicuro) per procedere oltre.
Curiosus: Ebbene, e con questo? Non mi dici niente
di nuovo. Queste cose le so a memoria dall'idealismo. Il
pensiero pensato è natura, è morte; e cosí via. Val la
pena tutto questo apporto di eloquenza e di
combattività, per partorire questo ormai vecchio
truismo?
446
Commodo: Val la pena, credo, perché il contesto nel
quale lo dico è diverso da quello dell'idealismo. Queste
cose le ho dette non per averle dedotte dalle mie letture
filosofiche: ma per essermi imbattuto, nelle mie letture
scientifiche, in concetti come forza vitale, finalismo
interno, ecc. È il bisogno di chiarire a me stesso il
significato nebuloso di questi termini, è il sospetto che
celino entro di sé un gran vuoto, che mi ha condotto alla
formulazione di cui sopra. E vedi che, nel contesto
scientifico, queste formulazioni cosí innocue in un libro
di filosofia assumono una forza sovvertitrice e
paradossale tale, che sembra che uno scienziato serio
non possa neppure prenderle in considerazione. Severo
infatti le combatte non come truismi, ma come banali
paradossi. La loro forza sta appunto in questo, di essere
le due cose insieme: evidenti per il filosofo, paradossali
per lo scienziato, irritanti per tutti e due. E ciò dimostra,
a mio parere, la scarsa serietà sia degli scienziati, sia dei
filosofi; incuranti gli uni del significato dei concetti che
usano, paghi gli altri del fatto che le loro scoperte
facciano armonicamente corpo col sistema delle loro
dottrine, ma tanto poco fiduciosi nell'effettivo valore di
esse, da non curarsi neppure di applicarle al campo cui
si riferiscono.
Curiosus: Questi tuoi tentativi, di trovare istanze
superiori unificatrici della scienza e della filosofia, mi
sono sospetti. Credo non sia un caso che questi due
modi fondamentali di atteggiarsi dello spirito siano
rimasti sempre separati, nel corso della storia. Ci deve
447
essere una fondamentale autonomia, in ciascuno di essi,
che non sopporta superiori unificazioni.
Commodo: D'accordo contro le superiori unificazioni:
ma non d'accordo sull'autonomia. Credo anzi che
l'autonomia sia la principale malattia della filosofia e
forse anche delle scienze. E io non voglio trovare
nessuna superlogica o istanza superiore, la quale,
appunto perché superiore, sancirebbe le autonomie che
le stanno sotto. Io vorrei, caso mai, sventare le
autonomie o, piú modestamente, prendere sul serio le
scoperte del pensiero. Non provare il loro valore in una
facile circolarità che esse hanno con se medesime, ma
pretendere che esse abbiano un'attività nel campo cui si
riferiscono e, se non l'avessero, abbandonarle. Perciò, se
arrivo a convincermi che il pensiero pensato è natura, e
che il termine vita usato nelle scienze naturali non ha
alcun significato, pretendo che questa scoperta valga per
le scienze naturali, e non per la filosofia. E per le
scienze naturali non è piú un truismo, ma un paradosso;
cioè sovverte tutto il loro metodo. E se non dovesse
trovare applicazione nelle scienze naturali e aiutarle a
progredire, a risolvere alcuni loro problemi, questa
pretesa scoperta non varrebbe niente, e bisognerebbe
abbandonarla.
Severo: Ciò che non sopporto è il tuo chiamar morto
tutto quello che è conosciuto.
Commodo: Alla buon'ora! Anch'io non lo sopporto.
Ma altrettanto poco sopporto di chiamare vivo tutto
quello che non è conosciuto. Io vorrei anzi eliminare le
448
due parole morto, vivo e sostituirle con le due parole
conosciuto e non conosciuto, o meglio prevedibile e non
prevedibile. In fondo non voglio altro che questo.
Severo: Se vuoi fare solo una riforma della
nomenclatura, padrone.
Commodo: Ma le parole sono evocative. Il chiamare
morto il conosciuto è il sintomo di una ipostasi, di una
entizzazione; è il riferire l'insieme delle cose conosciute
non a una scelta da noi operata, ricercando ciò che si
adatta ai nostri organi di presa, ma a un supposto corpo
di fatti e di leggi autonome, a sé stanti (la fisica, le
scienze, il mondo materiale) la cui intima struttura
sarebbe conoscibile, prevedibile. Tutta l'entizzazione sta
in questa trasposizione dal conosciuto al conoscibile. Ed
essa porta con sé l'analoga entizzazione del non
conosciuto in un non conoscibile o vitale o libero o
spontaneo, ecc. Io non vorrei fare che questo: sostituire
il suffisso -uto al suffisso -bile. Ma questo semplice
spostamento credo che porterebbe un certo sconquasso
nelle scienze naturali. Ed è tutt'altro che facile ad
eseguirsi sul serio.
Severo [manca nel manoscritto la risposta, il cui
tenore è però facilmente deducibile da quanto aggiunge
Commodo].
Commodo: Questa tua ultima obiezione mi tocca
abbastanza da vicino. Ma veramente non so se io debba
correggermi del difetto che mi addebiti e che
sicuramente ho. Con te mi pare che sarebbe venuto il
momento di fare il discorso contrario a quello fatto
449
finora; e tu stesso ne senti in fondo il bisogno, quando
fai l'apologia del risentimento. Certo di fronte ad amici
aperti e liberi, agili, e ascoltatori (e sono quelli che io
amo di piú), io mi vergogno spesso, mi sento ristretto e
meschino, egoista, aggressivo, molto piú Severo che
Commodo. E dal loro sorridere ironico, dal loro scrollar
le spalle, mi sento toccato profondamente e sento che il
loro atteggiamento viene da un mondo piú alto di quello
a cui appartengo, da un mondo in cui non ci sono paure
e difese e conquiste. Ma tuttavia penso spesso che
questa meschinità è in fondo necessaria se si vuole
costruire qualche cosa. È un tributo che si paga al fare.
Chi fa, è necessariamente piú aggressivo, meno aperto,
meno disponibile, meno libero di chi non fa. Deve in
certa misura farsi sordo e cieco per quello che sta al di
fuori del suo fare, amarlo di un amore esclusivo,
concentrato, egoistico, meschino. Perciò, se
umanamente provo un grande rispetto e affetto per gli
uomini completamente disinteressati e disponibili la cui
essenza si compensa piú nel vivere che nel fare, pure
non posso fare a meno di trovare utili anche gli altri. Piú
utili? Non so, perché i primi hanno una grandissima
utilità appunto come amici, come conversatori, come
lievito. Ma anche dei secondi, insomma, c'è bisogno. La
loro opera è piú appariscente, e questo me li rende piú
antipatici. Dei primi ne conosco solo uno che sia
diventato immortale: Goethe.
Ma torniamo a noi. Voglio provare a tradurre nel mio
linguaggio quello che tu dici.
450
Severo: Ti aiuterò io. Quello che tu stai facendo, se ho
ben capito, è una campagna contro l'antropomorfismo.
In esso tu ravvisi il nemico n. 1 della scienza, cioè la
causa prima del suo non progredire. Nella misura in cui
l'uomo è cosí innamorato di se stesso da vedere sé come
il fine supremo del mondo, o il mondo fatto a propria
immagine e somiglianza, in quella misura la scienza non
progredisce. E questo antropomorfismo è spesso cosí
sottile e inavvertito, che è difficile snidarlo. Per ora gli
vuoi dare battaglia sotto la sua forma di forza vitale,
finalismo interno, ecc.
Curiosus: D'altra parte mi pare che tu sia il piú
accanito degli antropomorfisti. In fin dei conti, non vuoi
dire altro se non che tutto quello che conosciamo lo
abbiamo ridotto a nostra immagine e somiglianza; e che
siamo la misura di tutte le cose. Alla grazia dell'anti-
antropomorfismo!
Commodo: È questione d'interessi. Avete ragione tutti
e due, ma mi riconosco piú nella descrizione di Severo.
L'antropomorfismo tipo Curiosus c'è sí, ma è subíto,
non voluto. È il riconoscimento di un dato di fatto: che
non siamo capaci di uscire da noi stessi, e che il
conoscere per noi non può realizzarsi che sotto la forma
di apprendere, cioè di adattare ai nostri organi di presa.
Ma questa è una necessità, una cruda necessità anzi, di
cui faremmo volentieri a meno. Non risponde a nessun
nostro bisogno...
Curiosus: Si dice esigenza.
451
Commodo: A nessuna nostra esigenza. E da quando,
25 secoli fa, si è scoperto questo nostro legame, il
pensiero umano non fa che dibattersi per uscirne.
Curiosus: Si dice evaderne.
Commodo: Direi, anzi, che in un senso profondo,
sono proprio antropomorfici gli sforzi per evaderne;
dato che antropomorfismo significa attribuire aspetto
umano alle supposte cose fuori di noi, ma non attribuire
aspetto umano a noi stessi. Ogni volta che si vuole
uscire dall'uomo misura di tutte le cose e si cerca di
scoprire la conformazione delle vere e proprie leggi del
reale, non si può fare a meno di immaginare in modo
piú o meno raffinato, in queste pretese leggi, un insieme
di tendenze, fini, armonie, ecc. che sono presi dal
mondo dei nostri desideri e dei nostri sentimenti. È
questo l'antropomorfismo che ritengo deleterio ad ogni
scienza e, direi, ad ogni conoscenza. Indice di un
orgoglio insopprimibile, di un amore di se stesso che
accieca di fronte a tutto ciò che è fondamentalmente
altro, diverso. L'antropomorfismo del tipo Curiosus è
anzi una correzione ad esso. Mostra come questa pretesa
somiglianza fra il mondo esteriore e noi non sia che
un'illusoria proiezione di noi nel mondo esteriore. E
riconosciuto una volta per tutte (con scarsa
soddisfazione) che da noi non possiamo uscire, e che
tutto quello che incameriamo risentirà sempre dei nostri
organi di presa, ci può insegnare di tenere tali organi
rilasciati, molli, senza forme preconcette, pronti ad
adattarsi e a circondare delle loro ventose semifluide
452
ogni stimolo che venisse a colpirli. Esso non esclude,
insomma, una passività, una recettività di fronte al dato.
La differenza fondamentale fra l'uno e l'altro
antropomorfismo è insomma che uno è una
constatazione, o meglio una necessità, dalla quale finora
non siamo riusciti a uscire, l'altro è invece una esigenza.
Ora io odio le esigenze. Non ho neppure alcun motivo
di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun
modo di liberarci, se non illusoriamente.
Curiosus: Una specie di idealismo sperimentalistico,
insomma.
Commodo: Se ti piace. Ma il solo pronunciare questi
nomi mi fa rabbia e vergogna. E di queste cose ho
parlato solo per compiacerti e perché mi ci hai
trascinato. Non m'interessa affatto la concezione da cui
parto, il metodo che uso, il sistema a cui appartengo.
M'interessa quello che voglio fare; e quello che voglio
fare è di chiarire il significato del concetto di forza
vitale e di finalismo interno nelle scienze; e di
dimostrare che non servono a niente di preciso, se non a
soddisfare il bisogno di vedere nel mondo intorno a noi
fatti affini a quelli che avvengono nel nostro animo.
Severo: Ecco: qui ti aspettavo, per dirti questo: dato e
non concesso che tu possa eliminare l'antropomorfismo
nella considerazione del mondo esteriore, c'è per lo
meno un campo dal quale non puoi eliminarlo: quello in
cui l'oggetto della tua considerazione è un altro uomo, o
piú altri uomini. In questo caso, se non vuoi usare criteri
antropomorfici, sei un fesso.
453
Commodo: E la mia paura di passare per fesso è tanto
grande, che ti concedo volentieri queste profonde verità.
Se l'oggetto del mio studio rassomiglia come due gocce
d'acqua a me stesso, è chiaro che gli devo attribuire tutto
ciò che attribuisco a me stesso, e cioè fini, volontà,
libero arbitrio, ecc. Ci sono questi speciali e sconcertanti
oggetti, insomma, gli altri uomini, che non possiamo
considerare solo come oggetti, appunto perché
sappiamo o supponiamo che siano, da parte loro,
soggetti. Non è tanto il fatto della lotta e del volersi
sottomettere a vicenda (cosa di cui tu sei fanatico) che
c'impedisce questa sussunzione sotto le categorie
scientifiche; ma il fatto che una volta compiuta questa
sussunzione, tu devi riconoscere che nell'altro uomo c'è
un'attività a sua volta sussuntrice (bella parola) che tu
non potrai studiare scientificamente senza perderne gran
parte, allo stesso modo che quando hai studiato la tua
propria attività che pone categorie scientifiche, ti resta
da studiare quella tua attività che studia l'attività, e cosí
via. È proprio insomma questo necessario
antropomorfismo, questo obbligo di considerare l'altro
uomo alla stessa stregua che te stesso, è questo che
t'impedisce di studiare l'altro uomo; cosí come non
potrai mai studiare completamente te stesso, dato che
l'attività che studia mentre studia, non potrà mai essere
studiata.
Curiosus: Vedi che sei costretto anche tu a usare
formule idealistiche. Se le avessi usate io in questo
modo, chissà come mi avresti dato addosso.
454
Commodo: Lasciami in pace. Le uso come e quando
mi fanno comodo, senza ritenermi obbligato, per questo,
a crearci sopra un sistema e una Weltanschauung.
Dicevo dunque che nel caso degli altri uomini, sí,
l'unico mezzo di studio e di conoscenza approfondita è
l'analogia con noi stessi: e che questa analogia non ci
potrà mai dare una conoscenza veramente completa, non
per insufficienza dei nostri strumenti, ma per
un'intrinseca contraddizione. Ho detto bene?
Severo: Benissimo.
Commodo: Ora, per questi casi, noi siamo forniti di
organi di presa speciali, ben diversi da quelli del
conoscere scientifico, cioè del prevedere, ma che pure ci
permettono di ricavare dal loro uso soddisfazioni non
minori che quelle del prevedere. Sono quegli organi che
io chiamerei con una parola dell'amare. Con questa
parola intendo qualcosa di molto vasto, un generico
atteggiamento affettivo, in cui rientrano sentimenti
come l'odio, l'amicizia, il timore, la speranza, i desideri,
il piacere, il dolore, ecc. È questo l'organo di presa che
noi mettiamo in moto riguardo agli oggetti che ci
rassomigliano. E questo per una ragione fondamentale:
che, in fondo, questo è l'organo di presa fondamentale
che noi usiamo verso noi stessi. Non mi dilungo troppo
su questo argomento, perché immagino che tu sia
sufficientemente orientato verso ciò che intendo dire.
Severo: Sí.
Commodo: Ora è proprio questo atteggiamento,
questo modo di presa, che ci fa porre dei fini essendo i
455
fini nient'altro che abbozzi di atti di volontà; e non
essendo gli atti di volontà se non espressioni tipiche
dell'atteggiamento affettivo. Spero che questo ti riesca
chiaro e familiare; altrimenti ci vorrebbe un dialogo
apposta.
Severo: Tira avanti. E non temere che ti accusi
d'introdurre nuove categorie (dell'amore, ecc.) al posto
delle vecchie.
Commodo: Meno male. Ora, il modo dell'amore
procede per molte vie; ma se ce n'è una che gli è
incompatibile e lo ammazza, questa è il prevedere.
Amare nel senso vero e non degenerato della parola,
significa proprio considerare il proprio oggetto come
supremamente altro, quindi sempre nuovo, sempre
sconosciuto, ogni volta conosciuto di nuovo e con
sorpresa, in una parola, imprevisto, vivo. E ciò, ancora
una volta, per analogia con noi stessi: perché ciò che
amiamo di piú in noi stessi, e che sentiamo piú
intimamente nostro, è proprio il nostro libero arbitrio, e
cioè la possibilità che sentiamo intima e essenziale in
noi, di essere ogni volta diversi da come sarebbe stato
prevedibile.
Severo: Non dico che questo sia sbagliato, ma è
tendenzioso. Mi pare che potresti dire cose molto
diverse e quasi opposte a queste, sull'amore, e che
potrebbero pretendere di essere giuste, cioè di
rappresentare il modo vero e non degenerato di amore.
Commodo: Concedimi una sola cosa: che quando ci
troviamo di fronte a qualche cosa in cui supponiamo un
456
centro di vita simile al nostro, il modo di presa è sempre
affettivo. O esiste un altro modo possibile di
comportarsi?
Severo: Cosí a occhio, non ne vedo altri.
Commodo: Concedimi ora un'altra cosa: che il modo
di presa affettivo non ha luogo se non con esseri che
sono, o si suppongono viventi, cioè nei quali si
supponga un centro di vita analogo al nostro.
Severo: Questo te lo concedo piú facilmente.
Commodo: E questo ci fa pensare che il modo di
presa affettivo sia proprio la trasposizione su altri di un
sentimento che proviamo inizialmente verso noi stessi.
Anche qui l'importante sarebbe di non essere
antropomorfi, o meglio, in questo, automorfi. Perciò la
tua descrizione dei due uomini che vogliono sopraffarsi
e usarsi a vicenda e non ci riescono appunto perché
l'altro, in quanto usa, si oppone ad essere usato, mi piace
poco. Questa tua esperienza del contatto con l'altro
uomo come un urto, una lotta, uno sforzo per sopraffare
o per non essere sopraffatto, mi pare l'aspetto deteriore
di tutto quello che tu fai e pensi. Il rapporto con un altro
centro di vita è per te sempre in qualche modo una
mancata autoaffermazione.
Severo: Non ricominciare con quel tuo tono di
predicatore di mansuetudine. Ho preso quell'esempio,
ma ne avrei potuto prender un altro qualsiasi.
Commodo: Ma m'interessa che tu abbia preso proprio
quello. La lingua batte dove il dente duole. E
l'argomento ci servirà, credo, parecchio. Il modo di
457
presa rispetto all'uomo che non vuole lasciarsi usare e
che ti vuole usare a sua volta, è, secondo me, di
rinunziare alla lotta e di lasciarsi usare.
Severo: Poveri noi, dove andiamo a finire!
Commodo: Non aver paura, andremo a finire da
tutt'altra parte. Intendo dire che il vero modo di presa
affettivo riguardo all'altro uomo è di lasciarlo esistere,
non di trasformarlo a mio modo, ma di godere del suo
essere diverso da me. È questo quello che io chiamo
amore, e comprensione di un altro uomo. Non «non fare
agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», ma «fa'
all'altro ciò che l'altro vorrebbe fosse fatto a lui». Non
«per conoscere gli altri, guarda dentro te stesso» ma
«per conoscere gli altri guarda gli altri». E nota quello
che hanno di proprio, di peculiare, di diverso da te. Non
cercare punti di contatto, minimi comuni denominatori,
categorie universali, ecc. Cerca di imparate la loro
lingua senza usare sempre la tua come termine di
paragone. E cosí via con una serie di precetti e di
metafore che lascio a te di sviluppare a titolo di
esercizio.
Severo: Perché no? Non ho niente in contrario a
questo. Anzi sono io, se non erro, il primo che ha
parlato di capire, di rinunziare ai nostri preconcetti, di
lasciare esistere gli altri. E sono quello che lo pratica piú
coerentemente.
Commodo: Appunto. Questo però è contrario al
«risentimento» e al non lasciarsi sopraffare. Ma
andiamo avanti. Il modo di presa affettivo, abbiamo
458
visto, s'identifica con l'atteggiamento che pone fini.
D'altra parte presuppone necessariamente nel suo
oggetto un carattere antropomorfo. Ciò significa che c'è
anche in esso in qualche modo una previsione sui
generis. Si prevede cioè che l'oggetto si comporterà in
modo antropomorfo, cioè imprevedibile. Si prevede
l'imprevedibilità.
Severo: E poi ti arrabbi quando ti si chiama
paradossale!
Commodo: È un paradosso solo nella sua
formulazione esteriore. È un fatto incontestabile che noi
richiediamo, da parte dell'oggetto che consideriamo
come essere vivente e verso cui ci comportiamo in
modo affettivo, che si comporti appunto come un essere
vivente: che ci faccia sentire, nella sua risposta, la sua
autonomia, il suo essere un centro indipendente di vita,
fornito di libertà. È proprio questa fondamentale
imprevedibilità che costituisce il massimo incentivo alla
nostra presa affettiva. Quando essa manca, quando la
risposta giunge troppo regolare e meccanica, allora il
nostro affetto muore, e ci sembra di avere a che fare con
qualche cosa di morto.
Severo: Ebbene? Io non ho voluto dire altro che
questo.
Commodo: Lo riconosco. Ma io voglio servirmene
per dimostrarti che la mia polemica contro il concetto di
vita non era fuori luogo. Sono anche pronto a
riconoscere che tu hai, in fondo, ragione quanto alla
strumentalità della scienza: purché tu riconosca che ogni
459
scienza è strumentale, la storica come la naturale; e che
non c'è luogo per parlare di due tipi di scienza: la
strumentale e la finalistica.
Severo: È questione di parole. Si tratta di quello che
tu vorrai definire come scienza.
Commodo: Ma è importantissimo ai nostri scopi,
vedere come costruiremo le nostre definizioni, perché è
proprio in base ad esse che vengono costituiti i gruppi
fondamentali di attività intellettuali, le professioni
riconosciute, le facoltà universitarie, gli argomenti di
trattati, le società scientifiche e storiche, i sistemi
filosofici. Io direi cosí: chiamiamo scienza tutte le
attività di ricerca e di conoscenza che cercano di
costituire, con mezzi qualsiasi (meccanici, matematici,
statistici, probabilistici, filosofici, ecc.), dei sistemi di
prevedibilità. Chiamiamo attività finalistiche quelle in
cui entra un elemento affettivo, rivolto verso gli altri o
verso se stessi o verso le generazioni avvenire, o verso
le passate, o che so io.
Severo: Domando io se valeva la pena di arrabbiarsi
tanto per la mia iniziale confutazione. Quello che hai
appena detto ne è la migliore giustificazione.
Commodo: No, per la solita evocatività delle parole,
la tua confutazione tendeva a liquidare la discussione,
dal momento che rivelava la sua povertà logica,
consistente solo in un'abile disposizione di definizioni.
Io dico invece che è proprio a questo punto che la
discussione comincia a diventare interessante: perché
essa consiste appunto nel determinare i limiti entro i
460
quali ha senso un concetto come quello di «forza
vitale». E le definizioni che poniamo non sono scelte a
caso, ma in base a criteri di opportunità, intorno ai quali
appunto si sta discutendo.
A seconda di come tu definisci la storia e la filosofia,
per esempio, le puoi considerare legate alle scienze
naturali o alle attività artistiche o ad altro. E il porre
questa o quella definizione, equivale dunque ad
affermare che una certa attività va svolta in questo od in
quel modo.
Severo: Va bene. Poste ora le definizioni come tu le
hai poste, e come io sono pronto ad accettarle, non
negherai che la storia rientri nelle attività che tu hai
chiamate finalistiche. Ora, se tu vuoi negare alla storia il
carattere di conoscenza, lo puoi fare definendo a modo
tuo il concetto di conoscenza. Ma mi pare che non
giungi che a confondere le idee senza alcun costrutto.
Commodo: Non credo. Pensa anzi che uno dei
risultati di questa discussione potrebbe essere di chiarire
meglio che cosa intendiamo per storia.
Severo: Non faresti certamente cosa nuova. È un
secolo e mezzo che non si discute di altro.
Commodo: Ma io non so niente, o mi sono
dimenticato di tutte queste ricerche. E non ho letto
l'ultimo libro di Croce sulla Storia come pensiero e
come azione. Il rischio che corro è dunque o di dire
stupidaggini, o di dire cose risapute. Ma le direi con una
certa ingenuità, senza essere sopraffatto dagli schemi
tradizionali. Ed è quello che in questo momento
461
m'interessa di piú, giacché quanto alle stupidaggini ci
sarai sempre tu per correggerle, e per il resto non
m'importa tanto di dire cose nuove, quanto di dire cose
sgombre da preconcetti sistematici.
Severo: Be', non sei sazio di polemiche
metodologiche? Vieni al sodo.
Commodo: Storia, mi pare, può significare tre cose
diverse: 1) Si analizzano i fatti avvenuti allo scopo di
stabilire in essi dei sistemi di costanze, delle leggi che si
ripetono, dei rapporti di cause e di effetti, che, come si
suol dire, diano ragione dei fatti avvenuti. Questo modo
di considerazione è, piú o meno coscientemente,
scientifico, cioè rivolto a stabilire un sistema di
prevedibilità. Il ricercare le cause dei fatti avvenuti ha
sempre in sostanza lo scopo di poter prevedere i fatti
avvenire, ogni qual volta queste cause si ripresentino in
modo approssimativamente uguale. I cicli vichiani, la
dialettica hegeliana, il materialismo storico, in fin dei
conti, non vogliono essere che chiavi per capire la
storia. Se raggiungano o no il loro scopo non voglio
indagare. Ma è chiaro che la loro interpretazione del
passato non avrebbe senso, se non si potesse presentare
anche come un'indagine rivolta a capire il presente e a
percorrere l'avvenire. Intesa in questo senso, la storia,
nonostante le apparenze ben diverse, è una scienza
tipicamente ipotetica, del tipo di quelle che tu hai
caratterizzato. Date queste premesse ne seguono queste
conseguenze; data una situazione di questo tipo, si
svilupperà in questo senso. Ora tu avrai un bel dire che
462
il legame fra le premesse e le conseguenze è un legame
vitale; che lo svilupparsi della situazione è dovuto a
liberi e spontanei atti di volontà, ecc. ecc. Il fatto rimane
questo: la tua indagine storica ti ha condotto ad
osservare determinate costanze, che tu hai ancora il
diritto di chiamare spontanee e vitali, solo perché non
sono pienamente realizzate e nella misura in cui non lo
sono. Tu chiami vitale, insomma, ciò che non è costante,
cioè, quell'alone d'incertezza che circonda la previsione
storica. Chiami, insomma, vitale ciò che tu non sei
riuscito ad afferrare, che ti urta o disturba nel tuo sforzo
di costruire la tua legge. Sei d'accordo?
Severo: Provvisoriamente sí. Ma non mi pare di
poterti concedere tutto. Ci ripenserò; intanto prosegui.
Commodo: Questo primo modo di far storia, benché
abbia un aspetto molto diverso dalla scienza, le è
sostanzialmente affine. Il secondo invece è molto simile
alla scienza, ma non s'identifica con essa. È la semplice
ricerca dei fatti avvenuti, l'accertamento obiettivo di
essi. Il procedere in questo tipo di storia è molto affine a
quello delle scienze sperimentali: ha di esse lo scrupolo
dell'esattezza e il bisogno di obiettività. Ma gli manca la
spinta verso il futuro, l'elemento induttivo e la
formulazione di leggi. È strano che mentre nelle scienze
sperimentali la ricerca dei fatti è sempre orientata verso
la formulazione delle leggi, nella storia ciò non avviene;
e i cultori del primo tipo di storia sono ben distinti,
come tipo umano, come atteggiamento mentale, dai
cultori di quella del secondo tipo, i quali si potrebbero
463
paragonare piuttosto ai costruttori di microscopi e
telescopi, a coloro insomma che ci forniscono di
strumenti che allarghino e organizzino moltiplicandola
la forza dei nostri sensi. Essi organizzano invece la
nostra memoria, e ci permettono di ricordarci (se si
potesse usare la parola) anche di cose che non abbiamo
mai viste.
Severo: Ebbene; e il terzo modo?
Commodo: Il terzo modo è finalmente quello buono e
vero e bello, quello in cui tu ti crogioli e ti bei, la storia
vera e vissuta, la storia vivente e operante, in cui il
passato è il tuo passato, e appunto per questo si articola
nell'avvenire, non a mo' di previsione, ma come
tendenza, spinta, posizione di fini. La storia che è Vita...
Severo: Non vedo cosa ci sia da sfottere.
Commodo: Neanche io, veramente. Eppure mi viene
da sfottere, forse per quell'accanimento, e quella
violenza che tu metti nel tuo amore per la storia, e che
mi è, come sempre, un po' sospetto. Vi intravvedo sotto
dei legami e dei rancori personali, un tenersi attaccati
per inerzia a una strada una volta presa, un volersi
convincere ad ogni momento che essa è la migliore e la
piú giusta e gloriosa. Comunque, questa sfottitura non è
rivolta alla cosa stessa, ma al modo come tu la pratichi,
il che, a uno spirito nobile e disinteressato come il tuo,
dovrebbe far piacere.
Severo: E me lo farebbe, se io non sospettassi invece
che tu, sotto sotto, sfotta proprio la cosa stessa. E
questo, devo dirtelo, mi fa schifo. Mi assomiglia molto a
464
un meschino ed egoistico fregarsene di tutto, con per di
piú quella sufficienza, quel tono blasé, quelle arie di
stare au dessus de la mêlée.
Commodo: Sinceramente non credo che si tratti di
questo: tanto è vero che la tua accusa non m'irrita
affatto. Ma dunque, questo ultimo modo di far storia,
considerandola come il passato dell'umanità, nel quale si
rinnesta il nostro stesso passato, è evidentemente un
modo nel quale non entra la previsione, ma entra in
larghissima misura l'affetto (nel senso largo che si è
detto). Si tratta insomma di porsi dei fini, di iniziare
delle azioni dettate da sentimenti e relazioni che
intercorrono fra noi e noi stessi, fra noi e gli altri
uomini, presenti e passati. La storia ci permette di
allargare questo affetto e queste relazioni, di estenderle
a ciò che fu e a ciò che è lontano, di provare sentimenti
e di abbozzare azioni con un orizzonte piú vasto, che
abbracci potenzialmente la totalità dei nostri simili.
Severo: È appunto questo che volevo dire. Ripeto, se
permetti, le mie parole di poco fa: «c'è un'esperienza (la
storia) che impone di considerare gli altri uomini, di
rendersene conto, di conoscerli, se non ti secca troppo,
come altri creatori di fini e della loro realizzazione».
Commodo: Mi secca appunto un po' la parola
conoscere; che si presta ad equivoco, perché si usa sia
per il conoscere scientifico, basato sulla previsione, sia
per questo conoscere affettivo, basato sull'attribuzione
all'altro uomo di un'attività finalistica. Usala pure, se
vuoi questa parola, anche in questo caso, purché sia
465
chiaro che quando conoscere significa lasciare esistere
un'attività finalistica nell'oggetto, l'unico modo di agire
è l'applicare a nostra volta all'oggetto un'attività
finalistica, cioè far reagire e giocare i suoi fini coi
nostri.
Severo: Va bene. Ora siamo d'accordo; ma mi sembra
che lo siamo stati fin da principio, e che non valeva la
pena fare questa discussione.
Commodo: È valsa la pena per due motivi: (1) perché
si è chiarito che il conoscere storico non ha nulla a che
fare col conoscere scientifico. (2) Perché si è chiarito
che la nozione di vita ha luogo solo là dove si pongono
fini e si suppone la posizione di fini; e che in questi casi
l'interpretazione di tale finalismo come una forza,
un'attività, una legge sfruttabile in modo scientifico, non
ha alcun senso, appunto perché tale sfruttamento
implica una prevedibilità che è in aperta contraddizione
con l'attività finalistica. Perciò si potrà parlare di vita,
ma non di forza vitale, si potrà parlare di finalità, di
posizioni di fini, ma non di cause finali.
Severo: Arrivati a questo punto non avrei alcuna
resistenza a darti ragione. Ma non so obiettivamente se
tu l'abbia. Hai letto la Critica del Giudizio?
Commodo: L'ho riguardata per l'occasione. Ma io
credo che sia da rigettare: ciò che voleva fare è proprio
un capovolgimento di quelle formulazioni. Ne
parleremo piú a lungo un'altra volta, perché mi pare che
l'argomento investa tutti i rapporti fra legge naturale e
466
esperienza. E ora, per finire, daremo luogo al seguente
festeggiamento. Scrivi su un foglio di carta la tua età.
Severo: Fatto.
Commodo: Ora scrivi l'età del tuo primo figlio, poi
l'anno in cui sei nato, e l'anno in cui ti sei sposato, poi il
numero degli anni intercorsi fra il tuo matrimonio e la
nascita del tuo primo figlio.
Severo: Fatto.
Commodo: Ora metti tutte queste cifre in colonna e
sommale insieme.
Severo: Fatto.
Commodo: Il totale è o non è 3880?
Severo: Come fai a saperlo?
Commodo: È una legge di natura che ho scoperto
recentemente. Facendo una statistica di tutti gli uomini
sposati con figli nella Calabria meridionale (regione per
molti rispetti tipica in quanto la composizione delle
razze si avvicina a quella media del globo terrestre) ho
trovato che questa legge risulta verificata con
un'approssimazione del 97%, il che rientra
perfettamente nel campo d'incertezza dovuto ai possibili
errori di osservazione. Penso anzi che ci troviamo in
presenza di una nuova costante universale, cioè per dirla
con Max Planck, di uno di quei misteriosi messaggi che
la Natura ci manda dal suo seno per rivelarci l'intima
struttura delle sue fibre. Ora sto estendendo le ricerche
alle donne.
467
Severo: E un'osservazione di questo genere, non ti
avvicina, in qualche modo, ad un certo finalismo interno
della natura?
Commodo: Sí, o valentissimo: e ti dirò anzi che la
fiducia nel finalismo interno cresce nell'animo mio,
nella misura in cui cresce la meraviglia per il misterioso
messaggio inviatoci dalla Natura per il tramite degli
uomini sposati della Calabria meridionale.
Ritroso (rivolto a Severo): Confesso che non riesco a
rendermi conto come una persona seria come te, possa
seguire a lungo discussioni di questo genere. Che frutto
ne cavate? Costui si dà le arie di antifilosofo, ma questa
è una semplice posa, un vezzo demagogico. Io ho
parlato poco, è vero; ma ho poca voglia di parlare con
lui. Mi basta l'argomento delle discussioni che fa: sono
le tipiche discussioni del filosofo. Quel presumere di
rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai
praticate; quell'illudersi di avere in mano la chiave che
apre tutte le porte...
Commodo: Io credo che vi sia una chiave che apre
molte porte, nel campo delle scienze che si fondano sul
ragionamento: ma questo non ha niente a che fare con
un sistema filosofico. È alla portata di tutti, e non credo
sia riservata ai soli sacerdoti di una specifica scienza: è
il buon senso e il tranquillo, pacato, spregiudicato esame
dei punti di partenza e delle definizioni iniziali.
Ritroso: E questo non lo chiami filosofia?
Commodo: No, perché lo scopo di questo esame non
è filosofico, ma scientifico. Non si tratta affatto di
468
giustificare questi principî di fronte ad una istanza di
validità universale, e rispetto ad una circolarità o
autosufficienza del pensiero, e di fronte ad una dialettica
dello spirito, o che so io. Si tratta di vedere quanto
questi principî siano adatti ad adempiere allo scopo che
è loro assegnato nell'ambito ristretto di ciascuna scienza.
La ricerca ha dunque un carattere pragmatistico: e può
essere giustificata solo da un successo nel campo
scientifico, cioè da qualche effettiva scoperta e
chiarimento cui essa possa condurre nell'interno di
ciascuna scienza.
Ritroso: Non offenderti della mia domanda. Da
quanto tempo ti occupi di scienza?
Commodo: Da due anni circa.
Ritroso: E allora permettimi di rivolgermi, per
chiarirmi le idee sui principî delle scienze, a coloro che
se ne occupano da qualche anno di piú.
Commodo: Te lo permetto, certo; e non posso
obbligarti ad ascoltarmi. Ma mi pare che tu sia un po'
troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative
professionali. Sei proprio sicuro che l'aver frequentato
una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere
una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una
condizione assolutamente necessaria per capire qualche
cosa dei principî fondamentali di una scienza?
Ritroso: Francamente sí, lo credo, per quanto ciò
possa sembrare meschino e pedantesco. Ho troppa
esperienza dello sconquasso e del disordine che portano,
almeno nella mia scienza, i dilettanti e gli outsiders...
469
Commodo: Se non erro, Pareto era un outsider. Ma
non è questo che volevo dire. Volevo fare
un'osservazione che credo posso permettermi,
limitatamente alla fisica, nonostante i due soli anni di
esperienza. Ed è questa: che l'appartenenza
professionale alla categoria dei fisici, comporta un
legame cosí stretto con la scienza e un interesse cosí
diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si
articola momento per momento, che è difficile avere la
possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i
principî fondamentali da cui si è partiti. Questi principî
primi affondano le radici nella memoria dei primi anni
di studio, si sono, per cosí dire, succhiati col latte, in
una forma oramai stabile e accettata. Ritornarci sopra ad
ogni momento sarebbe impossibile, significherebbe
sconvolgere dalle fondamenta tutto l'edificio del proprio
sapere.
Ritroso: Si trovano però dei fisici che hanno fatto
questo: Mach, Poincaré.
Commodo: Mach non era un fisico. E Poincaré l'ha
fatto con intento filosofico, alla fine della sua vita,
indipendentemente dalla sua opera di fisico. Ma non
troverai mai un fisico, che di fronte ad un problema
concreto che non riesce a risolvere, si domandi, per
esempio, se la definizione iniziale di massa, o di forza, o
di lunghezza, o di velocità, era stata ben posta. Uno solo
l'ha fatto, giovanissimo, con un certo ardore
scandalistico e iconoclasta, quindi un po' da outsider:
Einstein. E ne è venuto fuori quel po' po' di scoperta che
470
tu sai. Ma tutti gli altri, anche i piú grandi, nel migliore
dei casi limitano la loro revisione a una correzione dei
principî classici, in vista della nuova esperienza che
altrimenti non si riesce a giustificare (Heisenberg,
Schrödinger).
Ritroso: Se non lo fanno avranno le loro buone
ragioni: e io mi fido piú di loro che di te. Del resto in
molti casi può essere utile, allo scopo della ricerca,
servirsi anche di concetti non ben precisati, che servono
come da impalcatura, da struttura provvisoria che aiuta
il procedere dell'indagine.
Commodo: D'accordo. E anch'io non avrei niente da
obiettare, se sapessi che questo mancato chiarimento dei
principî è il risultato di una ragionata analisi, che ha
avuto validi motivi per decidere di mantenerne alcuni,
benché non ben precisati. Ma ciò non è. Tu senti parole
vaghe come «idealizzazione dell'esperienza quotidiana»,
come «generalizzazione dei dati della sensibilità». In
altri autori, come uno che ho sotto gli occhi, leggi
senz'altro che «ogni scienza affonda le sue radici nella
metafisica» e che quindi non val la pena di occuparsi dei
principî. Sai che non sono riuscito a trovare in nessun
libro, neppure in quello di Einstein e dei suoi allievi,
una definizione non puerile del corpo rigido? Tutti si
risolvono a dire: corpo rigido è quello che tutti sanno.
Salvo poi a dichiarare dopo centinaia di pagine piene di
astrusi calcoli che, allo stato attuale della scienza,
bisogna dire che non sappiamo di preciso che cosa sia
un corpo rigido. E nota che la definizione di corpo
471
rigido è la base della definizione del metro e di due
lunghezze uguali. Se non ci credi, ti posso mostrare i
testi.
Ritroso: Può darsi che sia cosí nella fisica. Ma
nell'economia?
Commodo: Nell'economia, o carissimo, sono pronto a
concederti che tutto va nel migliore dei modi possibile.
472
Dello psicologismo in economia
473
loro natura dalle altre affermazioni appartenenti alla
«penombra» dalla quale gli economisti puri tentano con
tanta cura di differenziarsi.
Se cosí fosse, la differenza fra economia pura e
scienze psico-sociologiche sarebbe una differenza di
grado e non di natura.
Robbins considera le deduzioni economiche come
dovute ad un procedimento puramente logico-analitico;
un esplicitare le conseguenze che sono già contenute
nelle premesse poste (cfr. principalmente p. 110). Il
procedimento applicato non avrebbe cioè nulla di
psicologico, e godrebbe di quella apoditticità, di
quell'automatismo che è proprio delle scienze esatte. Le
leggi economiche sarebbero in fondo null'altro che
tautologia (cfr. pp. 81, 82, 110) e questo ci garantirebbe
della loro assoluta validità entro i limiti delle premesse
poste. Al di fuori di questi limiti (cioè quando le
premesse stesse variano) è evidente che esse non
pretendono piú ad alcuna validità. E il variare di queste
premesse è considerato dal Robbins come un problema
estraneo all'economia, la quale assume queste premesse
come dati, lasciando ad altre scienze (psicologiche, ecc.)
lo studio del loro variare (pp. 115-18).
Ma con questo il Robbins introduce una nuova
limitazione di contenuto che fa perdere tutti i vantaggi
della sua bella definizione «formale» o «[...]»
dell'economia. Già a p. 116 sgg. si parla di cambiamenti
endogeni ed esogeni, escludendo questi ultimi dalla
considerazione economica. E questa distinzione riappare
474
in vari punti del suo libro (pp. 64-93 sgg.). Questa
distinzione fra «materie economiche» e «materie
extraeconomiche», come ho già detto, riintroduce le
definizioni «materialistiche» o «contenutistiche»
dell'economia.
Ora questa distinzione deriva dall'illusione che le
leggi economiche abbiano un valore tautologico, quindi
assolutamente certo, mentre le altre apparterrebbero a
quella «penombra di probabilità psicologiche e
sociologiche» (p. 118) che circonda sempre il campo
dell'economia. Ora esiste veramente una distinzione cosí
netta?
Esaminiamo queste pretese implicazioni necessarie,
cioè economiche, contrapposte a quelle solo probabili
(cioè sociologiche-psicologiche) sugli esempi stessi del
Robbins (p. 116, 1). L'inflazione è seguita da una caduta
del valore della moneta (legge economica, cioè
impersonale, analitica, automatica, non psicologica).
Invece: la caduta del valore della moneta è seguita
dall'inflazione. (Non legge economica, ma
probabilmente psico-sociologica; cambiamento
esogeno, non necessario, in cui entra un atto di volontà
da parte dei governanti, che per la sua natura stessa non
è prevedibile con certezza).
Ora è vero che la proposizione (1) sia analitica,
tautologica, certa di una certezza logica e non
psicologica? Non è vero. Nella proposizione «il volume
della circolazione aumenta» non è contenuta con
implicazione analitica la proposizione «il valore della
475
moneta cade» neppure se si assume che tutto il resto
rimanga invariato. Per dedurre dall'una l'altra posizione
è necessario procedere a certe assunzioni riguardo
all'animo umano e al suo reagire a certi stimoli.
Bisognerà sapere che quanto meno un bene è scarso con
tanta maggiore facilità gli uomini sono propensi a
scambiarlo con altri beni piú scarsi. Ora questa è una
legge elementare di psicologia, in sé della stessa natura
che quella che prevede che un governante è condotto a
stampare moneta quando il valore di essa diminuisce.
Ma che cosa fa sí che la prima legge appaia tanto piú
sicura e necessaria della seconda? Se ambedue sono
implicazioni psicologiche e derivano dall'osservazione
dell'animo umano, perché l'una appare cosí evidente da
poter essere scambiata con una tautologia e l'altra no?
La risposta credo sia questa: che il primo tipo di
previsione ha carattere collettivo e statico, e l'altra ha
carattere individuale. Per dire che un aumento di
circolazione porta ad una diminuzione del valore della
moneta, si deve supporre un certo comportamento degli
uomini e un certo loro reagire alle mutate condizioni.
Ma di queste reazioni si considera la media, il risultato
globale in cui tutte le differenze individuali si elidono.
Per dire invece che una diminuzione del valore della
moneta conduce all'inflazione, bisogna supporre un
certo comportamento di un numero ristrettissimo di
persone per le quali non vale quel livellamento che nelle
leggi statistiche elimina le particolarità individuali. Se
(supposizione assurda) la stampa della moneta fosse
476
affidata all'iniziativa dei privati, la seconda legge
avrebbe un valore altrettanto necessario che la prima.
Non esiste dunque una distinzione netta fra leggi
economiche (analitiche, tautologiche, necessarie) e
«penombra psico-sociologica» che circonderebbe tali
leggi. Su ambedue si tratta di prevedere certe reazioni
umane a certi cambiamenti delle condizioni esteriori.
Solo che nel secondo caso, essendo il soggetto che deve
reagire uno o pochi individui, rimane un margine molto
largo all'imprevisto; nel primo caso invece tale margine,
che rimane anche qui per il caso del singolo individuo,
viene eliminato dalla compensazione dovuta al grande
numero.
La differenza fra leggi economiche (o endogene) e
extraeconomiche (o esogene) non è dunque una
differenza di natura fra leggi analitiche (tautologiche) e
leggi empiriche (psicologiche). È piuttosto una
differenza di grado nella probabilità, fra leggi statistiche
e leggi individuali (fra leggi macroscopiche e
microscopiche). Dalle une alle altre si passa con
continuità senza tagli netti.
Obiezione: Posto anche che sia cosí, quale importanza
pratica ha questa precisazione? Non è essa in fondo una
pignoleria accademica? L'essenziale è che rimane una
evidentissima distinzione fra le leggi in cui la
prevedibilità è assicurata, e quelle in cui è aleatoria.
Delle prime si occupa l'economia, delle seconde no.
Risposta: È vero. Ma credo che l'osservazione valga
ugualmente la pena di essere fatta, per questo motivo:
477
che sulla «penombra psicologica» gli economisti
gettano comunemente un'ombra di disprezzo. È essa,
dicono, il campo delle facili e arbitrarie
generalizzazioni, della pseudoscienza,
dell'intorbidamento delle acque, che getta una luce
equivoca anche sulle piú sicure deduzioni della scienza
economica (cfr. Robbins passim).
Obiezione: Ebbene: e non è vero questo, forse?
Risposta: È vero, ma c'è di piú; da questo disprezzo
per le leggi arbitrarie e aleatorie che fermo resta ai
margini della propria scienza, gli economisti sono
condotti ad auspicare costituzioni e regimi in cui venga
lasciato il minor campo possibile alla formulazione di
tali leggi. Il regime ideale sarebbe per loro quello in cui
tutti sottostessero alle ferree leggi dell'economia nel
senso ristretto in cui l'hanno definita; in cui le previsioni
non dovessero mai fondarsi sulla psicologia, ma sempre
sulla logica analitica. Il fastidio per ciò che disturba il
tranquillo e serio procedere della propria scienza, essi lo
trasformano in un disprezzo generale, umano; lo
trasformano in una Weltanschauung da cui fanno
dipendere le loro ideologie morali, sociali, ecc. Ora,
mentre è vero che uno stato di cose in cui le azioni e le
scelte procedono da volontà complessive anziché
individuali offrirebbe il piú vasto campo alla
formulazione di leggi economiche (e sarebbe perciò una
bazza per gli economisti tipo Robbins), non è affatto
detto che sarebbe una bazza per gli uomini in generale, i
quali se ne fregano di solito di vivere in un mondo
478
accessibile a solide e pulite generalizzazioni e
previsioni, ma desiderano invece di mangiar bene, vestir
bene, divertirsi, istruirsi, espandere la propria
personalità, ecc.
Dico insomma che l'illusione di un distacco netto e
qualitativo fra leggi economiche e leggi psicologiche
favorisce sentimenti e passioni che dal ristretto campo
della scienza economica si allargano e si estendono a
concezioni generali, morali e sociali; confondendo le
idee e dando luogo a innumerevoli equivoci.
Severo: Mi meraviglio come tu, che credi alla [...] ti
possa accontentare di spiegazioni cosí esteriori, cosí
superficialmente logiche. Una semplice serie di
passaggi logici sbagliati spiegherebbe secondo te tutta
una Weltanschauung con le sue infinite implicazioni
morali, psicologiche, ecc.
Commodo: È appunto perché credo alla [...] che
faccio questo. È appunto per mostrare che questa
Weltanschauung, che si presenta cosí seria, cosí
imponente, gonfia di lotta e di sacrificio, derivi spesso
in gran parte da simpatie e disprezzi imparati a scuola;
da atteggiamenti appropriatisi in quel periodo cosí
pericoloso fra i 16 e i 25 anni in cui si è condannati a
scolpire una volta per sempre la propria fisonomia
avvenire, e le opinioni che avremo da uomini maturi
senza avere effettivamente altra possibilità se non di
seguire questo o quel maestro che ci capita sottomano,
di lasciarsi influenzare da questa o quella lettura
casualmente scelta.
479
È proprio in questo periodo che le nostre opinioni
scientifiche sono piú appassionate, colorate di amore e
di odio, di alterigia accademica e di disprezzo. E questi
sentimenti stingono, dilagano sul resto dei problemi
anche non scientifici; e quel che è peggio si imprimono
in noi e determinano tutte le nostre fisonomie avvenire.
Non riconosci tu a colpo sicuro un uomo che a 18 anni
ha letto Croce? Ciò che lo distingue non sono tanto le
sue opinioni estetiche e filosofiche, quanto una serie di
simpatie e di disprezzi: è un uomo, per esempio, che
avrà per tutta la vita una invincibile avversione per le
edizioni Bocca, e una invincibile simpatia per le
edizioni Laterza e La Nuova Italia.
Di questo tipo è il passaggio che ho tentato di
descrivere fra la distinzione di cambiamenti endogeni ed
esogeni, e una specie di atteggiamenti morali e sociali.
È un «idolum academiae» che ho cercato di individuare.
Severo: E tu pretendi di poter eliminare questo
«idolum» solo col dimostrare che la distinzione fra
cause endogene ed esogene non regge?
Commodo: Non mi sogno di crederlo. Non c'è
argomento logico che possa estirpare questo idolo, in
chi ci è attaccato. Anzi è stato proprio l'accorgermi di
questa incongruenza logica, in un autore altrimenti cosí
serio e rigoroso come il Robbins, che mi ha servito
d'indizio per concludere che forse anche lui appartiene
alla schiera dei devoti di questo idolo. Togliergli i
sentimenti di attaccamento e di reverenza verso di esso,
non ne sarei assolutamente capace. Ma il piccolo fallo
480
logico, l'ostacolo girato con frettolosa disinvoltura, è per
me un indizio che lí sotto ci sono delle resistenze contro
cui la logica si spunterebbe. E m'invita a prendere tutto
l'argomento non troppo sul serio.
Vedo che riprendi gli argomenti del Robbins; il che,
in un certo senso, mi fa piacere, perché elimina certe
parvenze di accordo che invece non fanno che
ingenerare equivoco. Dunque tu affermi che
proposizioni del tipo: «l'aumento di circolazione porta
ad un rialzo di prezzi» sono proposizioni analitiche, in
cui non entra alcuna supposizione che gli uomini usino
una certa scala di preferenze relative e sono «valide
qualunque siano le scale in realtà». Esse si
differenzierebbero dunque intrinsecamente da
proposizioni del tipo: «Le ragazze cittadine preferiscono
calze di seta a calze di lana» le quali contengono la
constatazione psicologica di un certo ordine di
preferenze da parte di un certo gruppo di persone.
Io dico invece che le due proposizioni non si
differenziano intrinsecamente, perché la prima contiene
implicitamente altre proposizioni, che si riducono ad
essere anch'esse la constatazione che gli uomini usano
certe scale di preferenze relative e non altre. Che poi
queste scale siano di grandissima generalità e stabilità e
sicurezza, non è questo che voglio contestare. Se sarò
riuscito a dimostrarti che anche la prima delle due
proposizioni si fonda implicitamente su due
constatazioni riguardanti scale di preferenza usate dagli
uomini, avrò dimostrato che le due proposizioni, per
481
quanto l'una sia molto piú stabile dell'altra,
appartengono allo stesso tipo, alla stessa categoria.
Vediamo: la proposizione: «Quanto meno un bene è
scarso per un individuo, tanto minore è il sacrificio che
egli è disposto a fare per ottenerlo» non contiene
evidentemente alcuna constatazione riguardo alle scale
di preferenza usate dall'individuo in questione. Essa è
una proposizione puramente tautologica, posto che si sia
definito il concetto di scarsità come segue: Una unità di
un bene è piú scarsa di una unità di un altro bene per un
individuo, quando egli è disposto a liberarsi della
seconda per ottenere la prima (non parlo a bella posta di
incrementi, perché appunto lí è implicita, come
vedremo, la supposizione di certe scale di preferenze
relative. Perciò la parola «scarso» riceve qui un uso un
po' peculiare. Meglio sarebbe la parola «desiderabile»).
Questa proposizione, in sostanza, equivale a dire:
«Gli uomini considerano i vari possibili beni alla
stregua di scale della loro importanza relativa». Potrei
dirti che anche questa è una constatazione psicologica,
ma non te lo dico. Sarebbe una stupida pignoleria, e non
servirebbe a niente. Sono dunque pronto a riconoscere
che nella proposizione suddetta, non c'entra alcuna
constatazione sull'uso di una piuttosto che dell'altra
scala di preferenze. C'entra solo la constatazione che
esistono scale di preferenze.
Ma da questa proposizione scende veramente come
corollario la legge della utilità marginale decrescente, e
da questa la proposizione (1) senza che s'introduca
482
proprio niente di nuovo? L'esame particolareggiato di
questo problema sarebbe molto istruttivo e bisognerebbe
farlo, a meno che altri non l'abbia già fatto. Ma mi
occorrerebbero alcune conoscenze che non ho. Mi
limito dunque per ora a questa affermazione:
483
(1) che la (4) e la (5) hanno carattere psicologico;
(2) che la (4) è indispensabile per passare dalla (3)
alla (1).
484
suscettibile di «piú» e «meno», o pignolissimo
Ritroso!). Che hanno usi alternativi è espresso col fatto
che siano scambiabili con altri. Le scale di preferenza
non indicano che la desiderabilità di ciascuna unità di
ciascun bene rispetto agli altri, ad un dato istante.
Che cosa definiremo ora come beni o meglio come
unità di ciascun bene? È qui che la questione comincia a
complicarsi. Anzitutto è chiaro che qualitativamente
dovremo far entrare nella categoria dei «beni» tutto ciò
che può essere desiderabile da un uomo qualsiasi:
quindi oggetti, servizi, godimenti concreti od astratti di
qualsiasi genere, l'eliminazione di mali, ecc.
(2) Chiameremo poi «unità» di ciascun bene una
quantità indivisibile di esso, o tale che negli usi comuni
si possa considerare indivisibile (un chilo di carbone, un
etto di pasta, ecc.).
(3) Un terzo problema si presenta, molto piú grave
dei precedenti: come far sí che nella definizione stessa
dei beni non sia implicita l'assunzione di alcuna speciale
scala di preferenza? Un'assunzione disattenta del
concetto di «bene» può facilmente infatti contenere
come affermazione implicita che un certo bene sia
preferibile ad un altro. Il concetto di «utilità marginale»
ha eliminato i piú gravi di questi inconvenienti, ma forse
non li ha ancora eliminati tutti. Si tratta insomma di
eliminare sempre piú ogni intrusione psicologica (nel
senso or ora definito) dal concetto di «scale di
preferenza».
485
Spieghiamo meglio la cosa. Si può essere indotti da
analogie matematiche ad assunzioni non contenute nelle
nostre premesse. Dall'affermazione a>6 (il possesso di
una unità del bene a è preferito da un certo individuo al
possesso di un'unità del bene 6) non discende affatto,
come nella matematica, l'affermazione 2a>26. Tale
affermazione equivarrebbe all'assunzione di una certa
scala di preferenza. È dunque pericolosissimo, in
economia, dire: «Noi poniamo certe definizioni e certe
premesse, e poi lasciamo lavorare la matematica». La
semplice assunzione dei postulati fondamentali della
matematica riferiti ai termini della scala di preferenza,
può dar luogo a gravissimi equivoci, perché significa
l'assunzione di leggi psicologiche che non è affatto detto
che siano valide. Il fatto è che le stesse notazioni >, <,
+, –, ecc., si usano per semplice analogia e non hanno in
economia affatto il medesimo significato che hanno in
matematica. Supponiamo per esempio di dare ad a il
significato di «un'unità di un bene determinato»; per
esempio: un kilo di carne. Ecco che non potremo
neppure scrivere a=a; poiché in economia questa
uguaglianza significa: «il possesso di un kilo di carne è
altrettanto desiderabile che il possesso di un altro kilo di
carne, in altre condizioni». Questa affermazione già
implica l'assunzione di una certa scala di preferenza; e,
come sappiamo, non è vera.
Una prima osservazione dunque dice che gli elementi
della nostra scala non possono essere tout court le unità
di ciascun bene. Ciascuna assume infatti un posto
486
diverso nella scala delle preferenze, a seconda che il suo
possesso venga considerato a partire da una certa
condizione o da un'altra. Piú giusto sarebbe dunque dare
agli elementi della nostra scala di preferenza la forma M
+ a intendendo con M uno stato di possesso
complessivo. Allora si potrà effettivamente scrivere (M
+ a) – M = (N + a) – N. Questa disuguaglianza ha
significato, appunto perché abbiamo stabilito che il
simbolo a preso a sé non abbia alcun significato; e non
sarà quindi possibile scrivere (M + a) – M = a; e non
sarà vera la (M + a) – M = (N + a) – N che sarebbe
invece nella comune matematica.
Questa osservazione dunque non limita né determina
il contenuto delle scale di preferenza, ma anzi lo rende
piú largo e indeterminato. Essa toglie delle assunzioni
psicologiche, non le introduce.
Ma prendiamo ora la proposizione:
487
dieci persone che chiameremo i per cui vale la
disuguaglianza: Mi < (Mc – 5l) + sp (con i che varia da 1
a 10). Per tutte le altre persone, che chiameremo K, vale
invece la disuguaglianza contraria: MK > MK – 5l + sp.
Poniamo ora che il mercante metta i suoi spazzolini
da denti a 6 lire. È possibile che fra le persone i se ne
trovi una (la prima per esempio) o piú che non
comprano piú lo spazzolino. Ciò significa che per
queste persone valgono le due disuguaglianze:
MI < MI – 5l + sp
MI < MI – 6l + sp
MK > MK – 5l – sp
MK < MK – 6l + sp.
488
è in vendita a 6. Ma in astratto nulla esclude che si
possa trovare. E comunque il dire che un tale uomo non
esiste, significa fare un'assunzione sulla conformazione
delle scale di preferenza usate dagli uomini cioè
un'assunzione psicologica. Questa assunzione, nella sua
forma generale, non è che la (4), cioè:
489
Questa restrizione del concetto di scala è, ripeto,
sempre possibile. Solo che non potremo piú dire
legittimamente:
490
paio di quegli uomini inumani di Pantaleoni e
Spatenbrau, ecco che la legge del prezzo e della
domanda non sarebbe piú applicabile. E l'economista,
però, che ci tiene alla sua legge, direbbe che la legge ha
funzionato perfettamente; salvo che un paio di bruti
hanno comperato gli spazzolini, in barba a ogni
definizione di scala di preferenze; ragione per cui sono
stati radiati dal rango dell'umanità, con evidente
vantaggio della schiarezza scientifica e della
matematicità della economia; sicché, in fin dei conti,
quel paio di spazzolini in piú, in realtà «non è stato
comperato». La sua cessione al prezzo di 6 lire, a non-
uomini che non li avrebbero acquistati a 5, non si può in
nessun modo definire un atto di compra-vendita.
Ora hai un bell'arrabbiarti per la banalità di questa
sfottitura; ma è questo (e son pronto a dimostrartelo) il
fondo dell'argomento per cui si dice che quando la legge
economica non ha funzionato, «si sono introdotti fattori
esogeni e psicologici». Ciò significa null'altro che
questo: «Si sono introdotti fattori che ubbidiscono a una
psicologia meno elementare, piú complicata, piú
inconsueta che quella che presiede alla formulazione
delle leggi del mercato».
Ora il significato della presente critica non è altro che
questo: se noi consideriamo queste anomalie come
qualche cosa di qualitativamente estrinseco alle leggi
dell'economia, la nostra attenzione continuerà a restare
fissata sulle leggi stesse e sulla elementarissima
psicologia da cui dipendono. Caveremo dalle leggi date
491
tutte le possibili conseguenze contenute in esse; ma
quando ci si presenterà un fatto le cui premesse non
quadrano con le definizioni dell'economia (per esempio
un uomo che compera piú volentieri a 6 che a 5) non
avremo affatto da occuparcene; lo chiameremo
extraeconomico, psicologico e con ciò lo avremo
completamente liquidato.
Ritroso: Liquidato quanto alla scienza economica.
Nulla ci impedirà di occuparcene in altra sede.
Commodo: Giusto; ma con questo appunto gli
negheremo i benefici che potrebbero derivare al suo
studio dall'applicazione degli schemi di una scienza già
progredita e organizzata come l'economia.
Se invece noi ci rendiamo conto che le definizioni
iniziali della economia sono improntate ad una
psicologia elementarissima sí, evidentissima,
lapalissiana, ma pur sempre psicologia, se ci rendiamo
conto di ciò, quando ci troveremo di fronte ad un
fenomeno che ubbidisce ad una psicologia piú
complicata, saremo tentati di affermarlo con strumenti
già in nostro possesso in quanto economisti. O meglio
modificheremo i nostri strumenti (cioè le nostre
definizioni e postulati iniziali) in vista del nuovo
fenomeno e otterremo nuove leggi forse piú limitate
delle precedenti, ma tali che in esse la grande macchina
calcolatrice che abbiamo a disposizione nella scienza
economica non vada del tutto sprecata. Qualche cosa di
simile sta facendo la fisica con l'introduzione di
geometrie non euclidee, ecc. E i vantaggi che se ne
492
ricavano sono immensi. L'economia dell'uomo che
compra a 6 piuttosto che a cinque (e questo non è che un
esempio) sarebbe qualche cosa di simile.
Ritroso: Sta bene: ma il fatto è che questa psicologia
che tu chiami anomala, non si presta a leggi, a
definizioni, a generalizzazioni. Quanto piú procediamo
in essa, tanto piú ci addentriamo nel campo
dell'arbitrario, dell'aleatorio, dell'imprevedibile.
Commodo: D'accordo, ma io volevo appunto mettere
in rilievo che la linea di demarcazione fra il campo della
scienza e il campo dell'arbitrio (o fra il campo del
prevedibile e il campo dell'imprevedibile) non giace,
come sembra agli economisti, appena varcata la soglia
del lucido edificio matematico da loro costruito. Se è
vero che al di dentro di esso tutto è prevedibile e
osservabile scientificamente, non è però vero che
appena usciti da esso si entri nel caos, nel mondo del
caso, dell'arbitrio individuale, della psicologia. Il
passaggio è graduale.
Ritroso: Che cosa vuol dire questo? Come ci può
essere un passaggio «graduale» fra una legge
matematica e una legge non matematica? La
matematica, ch'io sappia, non ammette gradualità.
Commodo: Ci può essere: perché la matematica non
si occupa solamente di sistemare il campo delle
prevedibilità, ma di tracciare i limiti dell'imprevedibilità
o dell'indeterminazione, e questi limiti sono imprecisi e
mobili; ma non è affatto impossibile alla matematica di
chiarirli e renderli afferrabili. Pensa agli immensi servizi
493
che hanno reso alla fisica le «relazioni di Heisenberg»
che non sono altro che «relazioni d'indeterminazione» le
quali determinano cioè oltre quali limiti un fenomeno
non è prevedibile.
Questo errore dell'arbitrario e del casuale è comune,
mi pare, alle piú diverse scuole di economisti, le quali
reagiscono ad esso però in modi diversi, e che mi
sembrano diversamente fruttiferi. (Parlo qui solo per
sentito dire). Gli economisti tipo Robbins, come si è
visto, di fronte a questi fenomeni un po' sporchi e che
non quadrano con le definizioni, se dovessero seguire il
loro istinto, chiuderebbero gli occhi e direbbero che non
esistono. Poiché ad ogni istante ci sbattono il naso
contro, dicono che non esistono nell'economia; il che
permette loro di non occuparsene come economisti. E
poiché ancora ciò non li esimerebbe dall'occuparsene
come uomini, li negano combattendoli, contestando loro
il diritto alla vita: che è un altro modo, piú rabbioso e
confuso, di dire «che non esistono»; di escluderli dal
mondo dei fini morali.
Altri economisti, piú conseguenti nel desiderio di
eliminare la penombra psicologica ai margini della
propria scienza, ne negano effettivamente l'esistenza, e
lo dimostrano. Ogni azione individuale, secondo loro, lo
è solo apparentemente, e il singolo, nel volere e
nell'agire, è inconsciamente l'espressione di ferree leggi
economiche che determinano e dominano ogni sua
attività. Conosciute queste, non è difficile prevedere
494
anche l'azione del singolo, e ricondurla agli schemi della
scienza.
Ebbene, apparentemente questo sembra un chiudere
gli occhi alla realtà, ancora piú caparbio e ostinato del
precedente. In realtà esso è il primo tentativo in grande
stile di fissare quelle leggi d'indeterminazione di cui si
parlava. Mentre la concezione tipo Robbins non vede
alcuna possibilità di presa al di fuori delle leggi
economiche, e, sviluppata con impeccabile coerenza dal
nostro buon Ritroso, conduce a considerare la storia
come una specie di romanzo, una serie di fatti e di atti e
di volizioni che sono stati cosí, ma avrebbero potuto
essere altrimenti, in cui sarebbe vano cercare un
rapporto causale suscettibile di ripetersi in avvenire;
l'altra concezione, invece, usata intelligentemente, ha
permesso proprio di determinare i limiti di questa
aleatorietà delle volizioni individuali; ha presentato i
fatti della storia, apparentemente determinati
dall'arbitrio di un singolo, come collegati ad una serie di
cause piú profonde, di cui il singolo credeva di essere il
padrone, ed era il servitore; ha permesso di scorgere una
logica profonda in fatti storici a prima vista slegati e
caotici; ed ha dettato alcuni criteri d'interpretazione e di
previsione, di cui tutti oggi, aderenti o no, a questa
dottrina, non potrebbero piú fare a meno.
Ritroso: Lasciamo andare questi sviluppi. Tu additi
l'origine di tutto il male nel fatto che si presenta come
analitica, o matematica, o tautologica, una proposizione
che invece secondo te è sintetica, e psicologica o
495
empirica, perché derivante dall'osservazione. Tutta la
faccenda, in fondo, sta qui. Ora sei sicuro tu di poter
tracciare una distinzione netta fra proposizioni astratte
ed empiriche, analitiche e sintetiche, o che so io? Non
credi che le une si possano facilmente convertire nelle
altre? Se io dico «il marmo è duro» questa proposizione
è empirica, perché deriva da un'osservazione, che io ho
fatto; ma la posso trasformare in analitica definendo
come marmo qualche cosa che abbia la caratteristica
essenziale di esser duro. Allora se m'incontrassi con del
marmo (carbonato di calcio) che non è duro, direi che
non è marmo.
Commodo: Questa questione è interessantissima; e ha
fornito il tema per me ad innumerevoli variazioni sul
tema delle definizioni scientifiche. Le definizioni che
stanno alla base di una scienza derivano dall'esperienza?
Evidentemente no, giacché l'esperienza deve appunto
fondarsi su di esse. E tuttavia posso io costituire le
definizioni della scienza indipendentemente
dall'esperienza? No, sotto pena di costituire una scienza
le cui leggi non sono applicabili a nessuno dei fatti
conosciuti. Ti faccio un esempio. Io non posso fare
nessuna esperienza di fisica senza sapere che cosa è un
corpo rigido. È esso che mi permette di sapere che cosa
sono due lunghezze uguali, ecc. Dunque la definizione
di un corpo rigido è assolutamente indipendente
dall'esperienza, e non può in alcun modo suonare «è
rigido un corpo, le distanze fra i punti del quale
rimangono invariate». Siamo quindi liberi di chiamare
496
rigido un corpo qualsiasi, un pezzo di platino come un
pezzo di gomma. Che cosa ci spinge a scegliere il pezzo
di platino? l'esperienza? No, come si è visto; poiché la
scelta è anteriore all'esperienza. Ciò che ci spinge a
scegliere il pezzo di platino sono considerazioni
riguardanti l'uso che si dovrà fare di quella definizione;
il contenuto di cui si dovrà riempire, gli oggetti del
mondo concreto cui si dovrà applicare.
Se noi scegliessimo di chiamare rigido un pezzo di
gomma, ogni volta che esso, secondo il nostro modo di
dire attuale, si è allungato o accorciato, dovremmo dire
invece che esso è rimasto inalterato, e che invece si
sono accorciati o allungati gli altri oggetti, le case, i
pezzi di ferro, di platino, ecc.; e introdurre forze che
giustifichino questi cambiamenti. Il che è possibile, ma
evidentemente non ci conviene.
Severo (a Ritroso): Ti consiglio di non imbarcarti in
una discussione su questo argomento, altrimenti non ne
usciresti senza esserti sorbito prima tutta la relatività
ristretta.
Commodo: Effettivamente queste affermazioni,
benché apparentemente paradossali, sono di un'assoluta
esattezza; e credo che sarebbe utile per chiunque
rendersene partitamente conto, perché hanno un
significato che trascende di molto la fisica.
Torniamo all'economia; io posso certamente definire
il concetto di «scale di preferenza» in modo da farne
discendere analiticamente la contrazione della domanda
col rialzo dei prezzi. Dovrò a questo scopo sottoporre il
497
concetto di scala almeno alla limitazione di cui alla (7).
(E forse ad altre limitazioni, che ora non ho voglia di
esaminare). Nulla m'impedisce di fare ciò. Senonché io
voglio poter dire anche:
498
Immaginati i fisici di fronte alla famosa esperienza di
Michelson-Morley.
Ritroso: E dagli con la fisica!
Commodo: Lasciati servire. È una scienza chiara e
pulita, proprio come piace a te. Ed è quella che finora ha
dato piú frutti. Credo che abbia qualche cosa da
insegnare agli economisti.
Immaginati dunque i fisici di fronte a quell'esperienza
che non quadrava con alcuna delle leggi conosciute. Se
fossero stati degli economisti, avrebbero detto che
quella esperienza era «extrafisica»; e non se ne
sarebbero occupati oltre. E altrettanto avrebbero detto
anche i fisici, solo che fossero vissuti due secoli fa.
Avrebbero invocato fattori trascendenti, si sarebbero
serviti di questa esperienza per dimostrare l'esistenza di
Dio, o che so altro.
Oggi i fisici sono piú aggressivi, e hanno piú fiducia
nella propria scienza. Restavano loro due vie:
(1) Trovare una nuova legge, o invocare una nuova
forza, che giustificasse i risultati dell'esperienza. È
quello che hanno fatto Lorentz e Fitzgerald, con la
famosa contrazione. Ma questo procedere era
contraddittorio perché ne risultava che un corpo rigido,
in certe condizioni, non è rigido.
(2) Modificare le definizioni stesse iniziali di corpo
rigido, di tempo, ecc. È quello che ha fatto Einstein, con
i risultati spettacolari che conosciamo. E il suo
procedere ha un'importanza quasi piú grande dal punto
di vista della metodologia che da quello concreto della
499
fisica: ha aperto veramente gli occhi ai fisici, e potrebbe
aprirli anche agli altri scienziati.
Ora, trasportandoci all'economia, il primo tipo di
soluzione è quello dello Spatenbrau-Pareto: studiare,
alla luce delle note leggi economiche, quegli individui
«anomali» cioè extraeconomici, che comprano a sei
piuttosto che a cinque. Questo metodo involve, come si
è visto, una contraddizione, perché implica l'esistenza
sul mercato di soggetti che ne sono stati esclusi dalle
iniziali definizioni; considera cioè come uomini
(elementi del mercato) degli esseri cui è negato
inizialmente l'attributo di uomini, cioè di elementi del
mercato.
Il secondo tipo di soluzione è quello che mi sembra il
piú coerente e fruttifero, cioè di rivedere le definizioni
iniziali, in modo da farci rientrare anche quei particolari
uomini anomali, a costo di far crollare tutte le leggi piú
celebrate, i principî piú saldi.
Ma comunque la piú sciocca e sterile è senza dubbio
la soluzione tipo Robbins: di non occuparsi affatto di
quegli uomini, col dire che non rientrano nell'economia.
Quando parlo degli uomini che comprano a 6
piuttosto che a 5, voglio naturalmente fare solo un
esempio. Tu che sei bravo, saprai certamente
immaginare degli esempi migliori e piú vicini
all'esperienza quotidiana.
Concludendo: tutte le scienze, e in particolare
l'economia, hanno cominciato come scienze
sperimentali. Si constatavano dei fatti, delle costanze,
500
delle regolarità, e su di esse si costruivano le leggi.
Galilei sperimentava il principio d'inerzia che oggi per
noi è una definizione. Ricardo sperimentava che gli
uomini comprano di piú là dove costa di meno.
Ritroso: Non era Ricardo.
Commodo: Fa lo stesso: fa' conto che si chiamasse
Pinco Pallino. Nel fare queste constatazioni Galilei
pensava di aver trovato qualche cosa di costante nella
natura dei corpi. Pinco Pallino pensava di aver trovato
qualche cosa di costante nella natura degli uomini, cioè
nella loro psicologia. E nel far questo, non si
preoccupavano di definire chiaramente i termini delle
loro proposizioni. Nel dire un corpo lasciato a se stesso,
Galilei intendeva di dire una cosa evidente a tutti, non
bisognosa di ulteriori chiarimenti. Nell'usare le parole
«uomo», «comperare», «costare», «di piú», «di meno»,
ecc. l'economista primitivo riteneva che di esse fosse
chiaro e univoco il significato.
Quando le scienze hanno raggiunto un grado
sufficiente di generalità, hanno creduto che fosse venuto
il momento di trasformarsi da sperimentali in
matematiche, da empiriche in analitiche.
Era questo un modo di emanciparsi dall'esperienza, e
di affidarsi totalmente al puro ragionamento. Ti potrei
dimostrare che ciò è avvenuto anche per la fisica,
benché essa si chiami ancora oggi una scienza
sperimentale. Ma è avvenuto certamente per l'economia
tipo Robbins. Era il fastidio della propria imprecisione,
che la spingeva a ciò, la noia di dover tener conto delle
501
eccezioni, di considerare le proprie leggi come leggi
approssimative statiche, non applicabili agli individui
singoli. Questo fastidio ed il trionfo di averlo eliminato
è chiaramente visibile nel libro del Robbins. Non piú
«penombra psicologica», non piú dipendenza
dall'osservazione malfida, dalla storia ingannatrice (cfr.
principalmente p. 72 sgg.). Oramai la teoria poggia sulle
basi incrollabili del puro ragionamento analitico; è
applicabile ad un singolo individuo come a una nazione
intera; è monda di eccezioni, vale oggi come ieri, come
sempre.
Come si è ottenuta questa radicale trasformazione? In
un modo semplicissimo: trasformando in tautologie
quelle che erano finora proposizioni empiriche;
definendo cioè i termini di esse in modo tale che esse
valgano incondizionatamente. Vogliamo essere sicuri
che gli uomini comprino proprio sempre di piú là dove
costa di meno? Vogliamo eliminare ogni eccezione a
questa regola? Definiamo come uomini solo quelli che
fanno cosí; e saremo sicuri che nessuna eccezione ci
verrà piú a rompere le scatole.
L'illusione è perfetta; chi ha voglia di vivere
tranquillo senza grattacapi, ha trovato il fatto suo. Ma...
ma gli uomini in carne ed ossa continuano a comperare
e a vendere come pare a loro. L'economia riesce a
prevedere ben poco, e si scredita sempre di piú.
Ritroso: Se tu dici che la fisica ha proceduto in questo
medesimo senso, trasformando in tautologie le sue
proposizioni empiriche, suppongo che tu le rivolgerai le
502
medesime critiche che rivolgi all'economia. Se il male
sta tutto in questo matematizzare e nel fissare
arbitrariamente le proprie definizioni, e nel trasformare
in astratte le proposizioni empiriche, non vedo perché tu
debba entusiasmarti per la fisica e disprezzare
l'economia.
Commodo: Il male non sta affatto nel matematizzare,
e neppure nel definire arbitrariamente. Io considero anzi
la «libertà del definire» come una delle maggiori
conquiste della scienza contemporanea. È che questa
libertà è stata usata diversamente dai fisici e dagli
economisti. I fisici son sempre preoccupati che le loro
definizioni siano tali che la realtà dell'esperienza vi
possa essere contenuta tutta dentro: e per raggiungere
definizioni che si adattino nel modo piú preciso alle
caratteristiche essenziali del nostro vedere, toccare,
misurare, sperimentare, sono pronti ad abbandonare le
leggi piú stabili, i concetti che finora erano stati piú
sicuri; le nozioni di uguaglianza, di simultaneità, di
spazio, di causalità; le leggi della conservazione
dell'energia, ecc. C'è anzi in loro una certa burbanza, un
certo ardore iconoclasta, che non li ferma di fronte a
nessun cardine concettuale, pur di riempire la propria
scienza della realtà concreta dei fatti che avvengono.
L'esperienza non serve piú come incentivo a creare una
nuova legge; è invece il punto di partenza per una
trasformazione di tutte le definizioni, e poco importa se
con esse crolla l'edificio intero della fisica classica;
purché s'intravveda che il nuovo edificio che è in
503
costruzione sarà capace di contenere piú mondo. Tu
vedi infatti che chi discute e si oppone a questa
distruzione di principî sono solo i filosofi. I fisici se ne
occupano poco, accettano le nuove formule (magari
senza capirle) e le usano e fanno delle bellissime
scoperte.
L'economia fa invece esattamente il contrario. La sua
preoccupazione centrale è di salvare le leggi ricevute;
avvenga che può dei fatti concreti cui queste leggi
dovrebbero applicarsi. Il principio dei valori marginali,
la legge della domanda e dell'offerta esistono. Se un
fatto si contrappone ad essi, è il fatto che non esiste: o,
per esprimersi piú scientificamente, è dovuto a cause
esogene, psicologiche, extraeconomiche; sempre con la
medesima conseguenza di non occuparsene affatto.
E se si domanda quali sono queste cause esogene ed
extraeconomiche, si ottiene la seguente risposta: sono
quelle che si oppongono alle leggi dei valori marginali,
della domanda e offerta, ecc. Sicché la proposizione
assume questa forma meravigliosa: «Se un fatto non
rientra nelle leggi della domanda e dell'offerta, vuol dire
che è dovuto a cause che non lo fanno rientrare nelle
leggi della domanda e dell'offerta».
La differenza fra la fisica e l'economia è la differenza
fra una scienza giovane, temeraria, ansiosa di nuove
scoperte, incurante d'inciampi e di regole, e una scienza
vecchia, priva di curiosità, incurante di espandersi,
desiderosa solo di tranquillità, di ordine, di
sistemazione.
504
Sull'azione
[scrive Colorni]
505
prospettiva di non venir rinnovati, finiti i primi cinque
anni. Ora, io non voglio dire che Commodo sia di
questi: tutt'altro. Ma insomma, questo suo far i conti alla
lunga mi disturba. C'è in lui troppa tranquillità, troppo
poco desiderio di vivere sul serio la vita. In un momento
come questo...
Commodo (sopravvenendo alle loro spalle): Ho
sentito tutto. Deve sapere, cara Genoveffa, che da alcuni
mesi costui non fa che rinfacciarmi, in tutti i modi e a
tutte le occasioni, la mediocrità dei miei sentimenti.
Quando ero adolescente, avevo tre cugini maggiori, che
s'incaricavano ad ogni piè sospinto di ricordarmi quanto
io fossi lontano da quell'ideale di virtú e di moralità che
essi rappresentavano perfettamente. Mi sembra ora di
essere ritornato a quel tempo; solo che il cugino è uno
solo, ma vale per tre. E con questa differenza poi: che
allora mi sentivo continuamente in colpa, e prendevo
molto sul serio gli ammonimenti dei cugini; oggi ci
faccio un baffo. Ma tralascio la mia difesa, che non
interessa in questo momento; voglio solo affermare che
nella critica ai «confinati di professione» sono
perfettamente d'accordo con Severo.
Quanto all'atteggiamento di costui, le dirò che da un
anno e mezzo egli vive sulle spine, con un piede alzato,
pronto alla partenza. Non so se abbia già fatto le valigie.
Certo non studia piú, non lavora; credo si possano
contare sulle dita di una mano i libri che ha letti in
questo periodo. L'unica cosa che fa, è rimuginare
rimproveri e recriminazioni: trascinandoci tutti in
506
interminabili discussioni, che fra noi sono poi
perfettamente inutili, perché conosciamo già da un
pezzo i reciproci argomenti. Esagera, dico il vero?
Severo (tace, corrucciato).
Commodo: Ora il male non consiste tanto nel far
questo: consiste nelle conseguenze che questo porta, e
che si riversano poi di riflesso sugli amici. Lui era una
volta l'unica persona, in questo paese, che fosse capace
di ascoltare gli altri. Non pretendeva, nello scegliersi gli
amici, che questi fossero d'accordo con lui. Pretendeva
solo che fossero vivi, e che avessero qualche cosa da
dire. Una volta, egli era il contrario di un moralista:
conducevamo insieme una lotta contro coloro per cui
tutto consiste nel pavoneggiarsi in un atteggiamento
dignitoso, o sdegnoso, o decoroso, o impetuoso: contro
coloro che hanno paura di sporcarsi con contatti impuri,
e che sono continuamente occupati a mantenere
immacolata la propria coscienza e la propria
reputazione.
Severo: Sí, sí, va bene. Queste erano belle
occupazioni per i tempi tranquilli; svaghi alla Huxley.
Oggi, di questa roba, me ne frego. Oramai siamo al
dunque...
Commodo: Ecco, è appunto questa ossessione
dell'essere al dunque, quando poi praticamente non si
può far niente di concreto. Rovina i nervi. Tu oramai sei
diventato il piú esclusivista degli esclusivisti, il piú
moralista dei moralisti. Una volta dicevi che «chacun
tue ses puces à sa façon». Oggi, se uno si ammazza le
507
pulci a modo suo, gli potrai concedere al piú di essere
tuo alleato: tuo amico no. Per essere tuo amico, deve
ammazzarsele proprio come te le ammazzi tu, cioè con
le stesse reazioni e le stesse idiosincrasie, con gli stessi
sdegni e le stesse passioni, e le stesse impazienze. Deve
stare anche lui con un piede alzato e con le valigie fatte.
Se per caso nel frattempo ha pensato bene di mettersi un
po' a sedere e di prendere un libro di matematica, ti
irrita, ti disturba; lo disprezzi. I suoi sentimenti sono
mediocri. La sua passione non arde con sufficiente
violenza. Ora io ti dico che il mio libro di matematica
me lo porterò sempre dietro, da tutte le parti. E se ti
scoccia di vederlo, non so che farci.
Può darsi che tutto questo sia necessario: che un
organizzatore, che un uomo politico non possa non
essere cosí. Ma può anche darsi che questo rattrappirsi e
rinchiudersi nuoccia proprio all'uomo politico in quanto
tale; e che una piú ampia umanità, un occhio piú attento
e benevolo verso ciò che è diverso da sé, sia proprio una
condizione per il successo. Che ne dice, Genoveffa?
Genoveffa: Dico che questo discorso mi meraviglia.
Io non mi ero affatto accorta di tutto questo.
Commodo: Già: infatti, da qualche giorno le cose
sono un po' cambiate. Altrimenti non avrei neppure
avuto il coraggio di scrivere queste righe. Ci siete volute
voi donne, per rendere un po' piú umani i nostri rapporti,
che minacciavano di intisichirsi in una serie di opinioni
scambiate e di reciproche incompatibilità.
508
[scrive Spinelli]
509
Genoveffa: Oh! E per chi mi prendi? E che c'entra poi
con quel che stiamo ora dicendo?
Severo: Dovreste qualche volta ubriacarvi, voi che
non conoscete l'ebbrezza dell'azione, per averne un'idea
mediante quella analoga suscitata dal vino. Nell'ubriaco
svanisce tutto fuorché l'atto che si accinge a compiere,
ed egli vi si precipita dimentico di sé, non accorgendosi
quanto sia limitato ed insensato quel che fa. Cosí
l'azione. – Non è vero che io viva pronto a partire,
aspettando ansiosamente quel che accadrà dopodomani.
Sí, è vero che talvolta mi sento come Orfeo, una
scimmia dello Zoo di Roma che improvvisamente
saltava contro le sbarre, le afferrava a quattro mani e le
agitava freneticamente. Ma queste son solo raffiche
momentanee di pazzia, e nemmeno ormai troppo
frequenti poiché da troppo tempo so la loro inutilità.
Non ad esse è dovuto il rattrappimento che Commodo
mi rimprovera, ma proprio ad una ondata di azione che
mi ha preso da alcuni mesi e che ora volge al termine.
Ed agire implica sempre trovarsi in uno stato di
ebbrezza in cui si trascura e dimentica l'apollinea quiete
dell'amicizia.
Commodo: Ma tutto ciò è assai animalesco e privo di
equilibrio. Occorre saper mantenere il dovuto distacco
dalle proprie opere, conservarsi a se stesso, e agli amici.
Severo: Sí, è abbastanza animalesco. Ma credi che sia
tanto facile essere umani? Per me non lo è stato. È stato
come la scoperta di una terra ignota, cui sono stato
condotto per la prima volta e con riluttanza dalla mano
510
di una donna. Son come un ubriacone condotto alla
sobrietà dall'esercito della salvezza. Sii un po'
indulgente e lascia che qualche volta ricada in pieno nel
vecchio vizio.
Commodo: Ma finirai per non sapertene piú liberare,
e per non raggiungere ugualmente quel qualunque
successo che vuoi raggiungere.
Severo (a bassa voce): Bestia! credi che l'importante
sia il successo! (ad alta voce): Non me l'auguro, ma è
possibile che la mia leggera vernice di umanità finisca
per andarsene a pezzi e che resti solo l'animale d'azione.
Che farci?
Il ricordo che l'altra notte mi è tornato con piú
insistenza alla mente perché compendiava in pochi tratti
tutta la faccenda, è stato questo.
Immaginami a 18 anni – quasi la tua età, Genoveffa –
seduto ad un banco dell'Università. Il professore
cicalava la sua lezione. Io ero sperduto nella
contemplazione di una graziosa studentessa per cui mi
ero preso una discreta cotta. Si accende nel cortile una
delle solite baruffe politiche di quell'epoca. Mi alzo per
uscire. Era pressappoco perfettamente inutile andarci e
preferivo la lezione di quel paio d'occhi. Non sentivo
nessun dovere che mi ordinasse di andare a rintuzzare i
prepotenti. Volevo semplicemente andare a fare il
prepotente anch'io – possibilmente piú di loro.
La ragazza, che pure mi approvava in genere, mi
afferra la mano e colle labbra e cogli occhi mi prega di
restare. Non avevo ancora avuto mai da lei una tale
511
dimostrazione di interessamento per me. In pochi istanti
ho farneticato alla dolcissima idea di tornare a sedere, di
vederla sorridere trionfante e di godere della mia
sottomissione a lei. Ma non sono stato buono ad essere
cosí umano. Le ho sorriso, ho divincolato la mano e
sono uscito. Ed ancor ora mi dico bestia.
Il tuo rimprovero ed invito è dell'identico genere. Ora
sono però un po' meno bestia e so tornare a sedermi al
banco dell'umanità e della comprensione, facendo atto
di sottomissione, pur se non posso garantire di restarci
seduto per sempre. Non tutti possono avere la tua felice
natura.
Commodo: Ma bisogna acquistarla. Anche per me è
stato un acquisto faticoso, come ben sai.
Severo: No. Per te è stato solo necessario liberarsi da
una sovrastruttura ideologica che t'imponeva come un
imperativo l'azione. Per te è stato un ritorno a quel che
naturalmente eri. Per me le cose stanno precisamente al
contrario. Se mi libero da quel che ho acquisito –
meglio: che mi è stato donato – e torno alla mia natura,
torno al puro stadio di animale.
Commodo: Fesserie.
Genoveffa: Ma, caro Commodo, se non sbaglio, mi
pare che chi ora sia esclusivista desideroso di veder tutti
uguali a sé, non sia Severo, ma proprio lei. Le parti si
sono invertite.
Severo: Carissima Genoveffa, accade sempre cosí. Le
carte si cambiano sempre in tavola. E basterebbe
512
indagare un po' piú a fondo per vederle cambiare ancora
una volta.
In fondo tutta la tirata di Commodo cos'altro è stato
se non un'irritazione di un amico che temeva di perdere
un amico e che si irritava pel dolore che ne avrebbe
ricevuto, che cioè era egocentrista, desideroso di essere
apprezzato ed amato, arrabbiato nel vedersi trascurato e
maltrattato.
Anch'io – ti confesserò – ho avuto gli stessi timori ed
irritazioni, ma se egli non avesse parlato lo avrei
lasciato certamente allontanare senza muover dito.
Genoveffa: Perché poi? Mi dicevi pur ieri che la sua
amicizia era la cosa cui tenevi di piú e per cui eri
contento di esser venuto a Ventotene.
Severo: Il perché sarebbe lungo a spiegare e darebbe
probabilmente luogo a quell'altro cambiamento di carte
in tavola cui accennavo poco fa.
Gli uomini son sempre diversi da quel che sono in
fondo, e nessuno sa per di piú se il fondo sia proprio
tale, o non ne celi un altro ancor piú oscuro.
Commodo è sfornito di quel che io chiamo senso
dionisiaco della vita, cioè del senso di comunione con il
resto del mondo. Perciò coltiva piú accuratamente che
può tutti i legami cogli altri, ché, se non li curasse, gli
altri gli resterebbero estranei lasciandolo solo. È come
un ragno con fili tesi in tutte le direzioni. Questa è la sua
umanità.
Io, come ti ho detto, son molto piú animale e la mia
umanità consiste nello staccarmi e non nell'attaccarmi.
513
Staccarsi però significa finire per accettare la vita, cioè
l'originaria comunione con un certo tal quale sprezzo.
Venga o vada o si conformi come vuole.
Genoveffa: Non capisco piú niente.
Severo: Anch'io non capisco piú troppo quel che sto
dicendo.
[scrive Colorni]
514
contenti di rivedersi! E quanto a lei, Genoveffa, non
prenda troppo sul serio le pose autarchiche di costui.
Tutti gli uomini, di fronte alla donna...
Severo (inferocito): La vuoi smettere? Ne facciamo a
meno dei tuoi consigli e delle tue esperienze coniugali.
P.S. (Domanda a Severo): Mi piacerebbe che tu
scrivessi un capitoletto intorno all'«Essere e Fare». Per
me tu, in fin dei conti sei per l'Essere, benché tu creda di
essere per il Fare. Tu sei in sostanza per il «Fare come
modo di essere». E tutto il presente scritto lo dimostra.
Appendice
515
Severo: Io?! Mi guardo bene dal pretendere qualche
cosa in questo senso da te.
Commodo: Non facciamo stupidi complimenti. Io non
credo, come Kant, che il matrimonio sia un puro
contratto. Ma mi trovo un po' nella posizione del padre
che, prima di concedere la figlia al focoso innamorato,
vorrebbe assicurarsi che questi non tende solo alla
soddisfazione della sua forte passione, ma ha il
desiderio e la capacità di fondare una casa sana e solida.
Ora, a ogni mia indagine in questo senso, tu rispondi
solo che il tuo amore è forte, e che per il momento non
ti curi che della soddisfazione di esso. Per la casa sana e
solida affetti anzi un certo disprezzo. Io, che conosco la
tua serietà e intelligenza, avrei un gran desiderio di
affidarti la figlia anche senza alcuna garanzia. Ma
capisci che mi tocca stare con un occhio aperto, perché,
se come amico desidero la tua felicità, come padre
desidero il bene di mia figlia, e il benessere di tutta la
famiglia, e una discendenza numerosa e robusta.
[scrive Giuliana]
516
le mie alle sue parole, avevo notato anch'io sul volto di
Severo (volto che incomincio a conoscere) un segno
d'irritazione e lei quindi non fa che esplicare un mio
confuso pensiero.
Riguardo alla critica sui «confinati di professione» io
non generalizzerei troppo: nonostante tutti i vantaggi
della posizione, troppo forte è il richiamo della vita, per
cui penso che i nove decimi, non un decimo abbiano il
desiderio di evadere, anche affrontando i disagi e le
incertezze di una vita da rifare, quell'un decimo poi si
accontentano, non tanto perché la posizione attuale li
conforta materialmente e spiritualmente, quanto perché
pigri ed inerti come sono si accontenterebbero anche in
una condizione meno confortevole pur di non fare la
fatica di ritrarsi da essa per cercarne un'altra: in breve
non la condizione di confinati politici basta loro, ma
qualunque condizione basterebbe.
L'accusa di accidia poi (accusa che riguarda
indirettamente anche me, perché, se ben ricorda, davo a
lei ragione) io la muterei in un'accusa di saggezza
perché saggio è colui che non precipita l'avvenimento
ma calmo (magari con un libro di matematica tra le
mani) l'attende, pronto quando esso è tanto vicino da
poter essere acciuffato pei capelli, e non che si affanna
nell'attesa, preparando programmi, facendo propositi
che magari al momento opportuno o non servono o non
possono servire. Naturalmente questa insofferenza
genera uno stato d'animo continuamente irritato ed
irritante e sono d'accordo sulla nullità di questo
517
atteggiamento che impedisce di ascoltare e quindi di
comprendere sentimenti e atteggiamenti altrui che
potrebbero modificare e forse migliorare i propri
sentimenti, i propri atteggiamenti.
Ma a questo proposito voglio riferirle, sicura della
sua intelligente comprensione un brano di una breve
conversazione avvenuta tra me e Severo.
Genoveffa e Severo (mollemente sdraiati sull'arena,
all'ombra di un ricco quanto conteso ombrellone, ad
opportuna distanza – purtroppo –, sotto lo sguardo
maligno di pochi militi e molti confinati).
Severo (continuando nei suoi detti): ...sono veramente
felice di aver trovato amici quali i Colorni, solo per essi
o loro sono contento di aver lasciato Ponza con tutti i
suoi vantaggi (lavandaia compresa). Sono persone vive,
che continuamente suscitano in te idee diverse o ti
aiutano ad esplicarne altre che si agitavano in te
confusamente (vedi prima pagina diario di Saverio). Per
questo Colorni mi è veramente amico, benché sia
talvolta o spesso irritante quando parla (Genoveffa
annuisce) con quel tono che non ammette o che si
attende che non ammetta replica, cercando quasi di
imporre ad altri quelli che sono esclusivamente suoi
giudizi riguardo fatti, persone, cercando magari di
imporsi con la forza della voce, venendo meno la forza
dell'argomentazione (la conversazione fra Genoveffa e
Saverio prosegue poi su tutt'altro terreno).
Genoveffa: A questo punto, se fossi Fedro (è l'unico
favoleggiatore a fine moraleggiante che io conosca)
518
spiattellerei con chiarezza la morale della favola, ma,
dato che io ho maggior fiducia nella comprensione
umana lascio trarre la conclusione a chi interessa.
519
Del successo
[scrive Colorni]
520
che tu pensi ed agisca in modo da realizzare quello che
ti proponi.
Ora tu la compagnia di costoro la brami, la cerchi, ne
hai bisogno. Puoi fare a meno delle gioie apollinee
dell'amicizia, ma non puoi assolutamente fare a meno di
un certo numero di persone che abbia fiducia in te. Fa
parte, questo, della tua originaria comunione colla vita,
di quella che chiami la tua animalità. Ora io penso che
se queste persone ti si presentassero come dei semplici
compagni di orgia, dei pazzi dell'azione pari tuoi, in
brevissimo tempo ti disgusteresti di loro e di te stesso. E
credo che questo sia il motivo profondo per cui tu hai
scelto la via che hai scelto, e non quell'altra.
Ora il motivo centrale per il quale mi riesce a volte
impossibile solidarizzare con te, è proprio questo tuo
bisogno di sfogo, questa inquietudine fine a se stessa,
questo aggirarsi «quaerens quem devoret». Cose che
ammiro, e, in qualche modo, mi affascinano, ma non
posso far a meno di sentire, in fondo ad esse, qualche
cosa che gira a vuoto. Se un giorno tu ti dovessi trovare
ad agire sul serio, non vorrei esserti troppo vicino:
altrimenti si litigherebbe eternamente. Ma mi
piacerebbe capitare ogni tanto all'improvviso, e batterti
una mano sulla spalla. Mi manderesti all'inferno, ma
forse eviteresti qualche sdrucciolone.
Severo: Non ti posso dar torto in nessun modo. Ma se
dovessi risponderti sinceramente, ti direi che l'unica
maniera per non sdrucciolare, è di non preoccuparsene.
Non so perché: ma io ho una credenza quasi mistica che
521
il successo corona chi non lo ha cercato, chi ha agito ex
abundantia cordis, per la gioia dell'azione, senza calcoli,
senza mezzucci, senza sotterfugi. Avevo una volta
cominciato a scriverti una lettera sul «comando». Io non
pretendo che si abbia fiducia in me: ma se l'avete,
seguitemi senza troppi se e ma, senza battermi troppo la
mano sulla spalla.
Commodo (un po' smontato): È vero, sí, è vero... Non
so: mi piacerebbe che ti capitasse quel che è capitato a
me con quel poeta; che uno ti domandasse a bruciapelo:
Perché ti occupi di politica? E tu ci stessi male per dei
mesi, e ti trovassi costretto a non occupartene piú. Non
ti so dire: Mi pare che tu ami troppo quella «bionda
bestia» che è in te, per essere tu sul serio una bionda
bestia.
[scrive Spinelli]
522
possibilità di esserne gettato via come un limone
spremuto. Non voglio essere assolto ad ogni costo. Può
darsi che in fine io sia condannato. Cosí come accetto
tranquillamente di dover morire, e talvolta mi auguro
che capiti presto.
Se ti chiedessi: perché ami quella donna? credi che
sapresti rispondermi? Tutti i perché che potresti
escogitare sarebbero la semplice riasserzione del fatto
che l'ami.
Anche la politica è un'insensatezza simile all'amore,
almeno nei politici di grande levatura, che sentono di
aver bisogno degli uomini e che gli uomini han bisogno
di loro. Di questa stoffa son fatti Cesare, Wallenstein,
Bismarck, Cavour, Hitler.
Sarebbe un ben mediocre amante chi restasse
scombussolato e vedesse svanire il suo amore pel fatto
di scoprire che esso scaturisce non da una purissima
fonte di attività, ma da un che di passivo che c'è in lui,
da un bisogno di comunione con l'altra persona. Un
buon amante nel constatare la sua prigionia si allieta che
nell'altra persona e non in lui è l'origine dell'appello a
cui ha ubbidito.
Commodo: Tutto ciò è giusto, ed io l'ho sempre
predicato. Ma nell'attività politica questo non c'entra.
Questa non è che un astratto rapporto con altri uomini
derivante dalla necessità di soddisfare certi concreti
bisogni sociali. Non vi è nulla di analogo coll'amore.
523
Severo: Colla stessa stupidità Kant che non conosceva
evidentemente l'amore parlava del matrimonio come di
un puro contratto.
I bisogni sociali, le istituzioni politiche sono la
necessaria ossatura, ma non la viva carne della politica.
Se non riesci a capire questo, dí pure che non hai mai
capito nulla in questa faccenda.
Commodo: Pure non son proprio un novellino in
materia.
Severo: Non ha importanza. Quasi tutti gli uomini in
un modo o nell'altro amano o hanno amato. Eppure
quanto pochi son coloro che sanno rendersi conto di che
sostanza sia fatto l'amore.
E non sanno rendersene conto perché o non sono
capaci di disinebriarsene o vi si sprofondano
periodicamente colla stessa cupa ottusità con cui
vediamo i bevitori tornare al vino dopo una lunga
astinenza, per obliarvisi – senza conservare un distacco
nel loro ubriacamento. Gente priva di ironia. Ma Cesare,
ma Wallenstein non erano solo capi di uomini, non
dirigevano solo guerre e rivoluzioni, non elaboravano
piani grandiosi; erano anche epicurei capaci di guardare
con occhio limpido e disincantato la loro stessa opera.
Ora guardare con occhio disincantato la propria opera
è il mezzo piú sicuro per vedersela inaridire e per
odiarla, ogni volta che ad essa si è ricorso per
raggiungere in qualche modo uno stato di sicurezza,
cioè ogni volta che essa è scaturita da una polla molto
superficiale. Ma se la sorgente è situata molto in fondo
524
lo sguardo ironico non la fa disseccare – non ne è
capace.
Il tuo poeta ti ha messo in imbarazzo perché la
filosofia era stata per te qualcosa con cui difenderti
contro te stesso. Ma se non lo fosse stata? Se grazie ad
essa tu non ti fossi sentito sano ma malato, se per te
fosse stata non un'attività, ma un'esperienza d'amore,
credi che tanto facilmente te ne saresti staccato? La sua
domanda avrebbe solo contribuito, qualora non te ne
fossi ancora accorto da solo, a farti scorgere la sua
irragionevolezza ed avresti poi accettato di essere
ragionevolmente irragionevole.
Ed hai ragione nel dire che la semplice compagnia di
compagni d'orgia è una cosa disgustosa, e che questo
disgusto è stato uno dei motivi profondi del mio
distacco da loro. Infatti benché io sappia bere,
normalmente non bevo. Chi è in orgia continua lo è per
stordirsi. Invece bisogna sapersi ubriacare quando le
tavole sono imbandite e quando i bicchieri vengon da sé
alle tue labbra. Allora abbandonati pure gioiosamente
poiché non ti perderai di sicuro, e sorridi
tranquillamente del povero sobrio che scuote la testa e
disapprova questo tuo naufragare e viene a spiegarti che
ci son altri modi piú saggi per raggiungere l'equilibrio e
l'arricchimento del proprio animo.
Commodo: Eppure ripeto che mi sembra che in tal
modo ci sia qualcosa che gira a vuoto.
Le tue esaltazioni della letizia della bionda bestia
celano un atteggiamento di disgusto e di tristezza. Non
525
puoi negarlo, poiché non hai esitato in varie occasioni,
ed in questo stesso dialogo, a manifestarlo.
Severo: Per quel che posso saperne direi che la
tristezza è un aspetto necessario del distacco e questo è
posteriore al senso panico. Non quest'ultimo serve a
soffocare la prima, ma essa è l'occhio limpido con cui si
contempla questo. La tristezza è figlia della solitudine
che bisogna conquistarsi.
Commodo: Chi sa poi dire con precisione che cosa sia
prima e che cosa dopo?
Severo: Veramente. Chi sa? Ma ora mi sembra
proprio che le cose stiano cosí.
[scrive Colorni]
526
ubriacone abituale, schiavo del vino, incapace oramai di
goderne. Puoi ringraziare la sorte, che ti ha conservato,
tuo malgrado, sobrio e fresco per la bevuta finale.
[...]
527
Sulla morte
528
da parecchio mi sto occupando di capire come sei fatto
tu, essendomi accorto che sei fatto diversamente, ma in
modo perlomeno altrettanto umano. Da parecchio tempo
il modello di virtú, fra noi due, sei tu e non io. E non me
ne lamento; anzi ne sono contento, poiché questo è
l'argomento di cui ora si tratta.
Severo: Vedi però che sei sempre il medesimo?
Cerchi di capire come sono fatto io, per acquistare, per
arricchirti, come un avaro che accumula tesori. Non
sarai mai capace di una vera prodigalità.
Commodo: Questa è un'altra faccenda. Io sono fatto a
modo mio. Se io sia capace di cambiarmi, e se sia bene
che lo tenti, è una questione a parte. Dico solo che è
ridicolo che mi accusi continuamente di non lasciarmi
esistere.
Severo: È un'accusa che faccio a scopo polemico. Mi
è comodo contrapporti a me, per capire meglio come
sono fatto io.
Commodo: E io vorrei toglierti appunto questo
strumento polemico. Cercatene un altro. Puoi benissimo
contrapporre i nostri due modi di essere, senza farmi
continuamente quella insulsa accusa. Per dimostrarti
come io sono lontano ormai dall'atteggiamento
predicatorio riguardo al «ricevere», ti dirò che ho letto
ultimamente un libro di Huxley, e mi ha fatto schifo.
Severo: Be', torniamo a bomba. Dicevi, sulla paura di
morire?
Commodo: Dicevo che tutto finisce e si accentra lí,
per tutti noi, sia per te, sia per me. Tu non temi la morte;
529
anzi, hai trovato un sistema di vita e un atteggiamento
spirituale di cui questa serenità di fronte
all'annientamento è la naturale conseguenza. Ma il tono
di compiacenza e di trionfo col quale annunzi la tua
conquista, mi fa sospettare che si tratti appunto di una
conquista; che l'indifferenza raggiunta abbia un suo
lungo e doloroso passato fatto di incubi e di terrori. Io
penso che tu sia stato uno di quei bambini da cui l'«aver
paura» era considerato come la suprema vergogna,
come la cosa che a nessun costo si sarebbe confessata; e
il «non aver paura» come il massimo ideale della
perfezione e della virilità. Mi è spesso occorso di notare
che molti dei tuoi atteggiamenti sono dettati dalla
preoccupazione di non mostrare timore. Che meraviglia
che tu ponga poi come culmine e coronamento di un
modo di essere che ti sembra giusto e desiderabile,
l'esser pronti a morire?
Severo: Mi fai rabbia, con le tue pose da psicanalista.
Queste inversioni sono troppo facili per essere giuste. Io
sarei, insomma, secondo te, dominato dalla paura; e
questo spiegherebbe tutto il mio modo di essere. Mi
pare però che la tua diagnosi sia troppo generica, e che
si potrebbe adattare a qualsiasi atteggiamento. Per
questo, mi tocca poco. Che la paura di morire sia un
sentimento primordiale e originario nell'uomo, è
probabilmente vero; che quindi si possa trovare una
certa dose di questo sentimento come componente di
qualsiasi reazione affettiva o spirituale, non è da
meravigliarsi. Ma appunto perciò è fallace ed equivoco
530
ricorrere a questo sentimento per spiegare un particolare
e determinato modo di essere. Voglio dire che se la tua
diagnosi è giusta per me, lo è per chiunque altro; per te,
per esempio.
Commodo: Ma sí, ma sí, anche per me. È il diverso
modo di reagire a questa paura, che m'interessa. A me
seccherebbe, obiettivamente, di morire, perché ci sono
ancora parecchie cose che mi piacerebbe di fare. E al
pensiero di non esserci piú non faccio quasi mai mente
locale: per cui non so come reagirei se fossi confrontato
con la prospettiva della fine. Ma ti so dire una cosa:
avevo un amico scienziato, che aveva fatto una scoperta
scientifica. Mi raccontava che, nel periodo in cui la sua
idea si stava concretando, e sentiva di aver toccato con
mano una nuova verità, aveva avuto settimane di vera
ebbrezza nelle quali era dominato dal pensiero: «Adesso
posso morire». La sua fantasia era andata cosí in là, che
aveva detto alla moglie: «Se dovessi morire, la mia
scoperta è contenuta in questo quaderno». E gli
sembrava con questo di aver vinto la morte. Ebbene, io
mi sento affine a quel mio amico; e nel confrontare
quell'atteggiamento col tuo, mi rendo sempre piú conto
di che cosa significhi il mio arrabbattarmi intorno alla
scienza, e il mio desiderio di aver figli, e tante altre cose
di me. Sono tutte una lotta contro la morte, contro
l'insopportabilità del pensiero di «non esserci». Sono la
frenetica costruzione di surrogati di me, di cose che
esistano indipendentemente da me, ma che siano mie e
mi sopravvivano. Solo questi surrogati sono per me
531
capaci di allentare quella tensione e di rendermi il
pensiero di morire sopportabile e amico.
Dico questo, perché non è contenuto nell'analisi che
tu fai di me. È vero che io ho sempre messo in luce,
nelle nostre discussioni, l'aspetto del «ricevere». Ma è
quello, in fin dei conti, il mio atteggiamento essenziale.
Per lo meno altrettanto essenziale è, per me, il vincere la
morte mediante il «fare». Non «dare», né «ricevere»,
ma «fare». Questo è un mio imprescindibile bisogno,
senza aver soddisfatto il quale, non potrei avere la calma
per tranquillamente ricevere. E per «fare», intendo
creare qualche cosa che stia da sé, e che sia però nello
stesso tempo un prolungamento di me che mi
appartenga, in cui mi riconosca, ma che non abbia
bisogno della mia presenza per continuare ad esistere.
Perciò mi son trovato tante volte in disaccordo con te
riguardo al problema dell'«essere» o del «fare». Per voi
uomini d'azione, benché sembri un paradosso, l'«essere»
è tutto. Quello che vi importa è il «come», il «da chi» la
cosa è stata fatta. Ciò che vi interessa e su cui
polarizzate la vostra attenzione, è il processo durante il
quale la cosa vien fatta, e durante il quale si fa sentire la
vostra azione. Una volta compiuta, la cosa per voi non
ha piú alcun interesse. Per me, una volta compiuta, la
cosa ha il supremo interesse di esserci, di esistere, e che
allora io posso morire tranquillamente; o meglio, posso
vivere senza la paura di morire.
Non so se m'intendi; e se intendi, una buona volta,
che non pretendo affatto che il mio sia il modo migliore.
532
Anzi, riconosco senz'altro che è forse il piú malato,
quello in cui la malattia viene aggirata, ma non superata.
Il tuo metodo prende le cose piú di petto ed è, in certo
senso, piú coraggioso. Tu parli di un «distacco dal
desiderio di avere» e riconosci che questo distacco
significa «accettare la rinunzia alla vita stessa». Ebbene,
io ti dico che questo distacco, questa rinunzia, non è
altro che un farla in barba alla morte. Conosci il metodo
dell'uomo che, per pudore, si denuda, o di quello che,
per timore che un suo segreto si venga a risapere, lo
divulga lui per primo? Il procedimento psicologico è
sempre il medesimo: la cosa paventata, quando sia
liberamente voluta e procurata spontaneamente, perde
tutta la sua temibilità. Cosí è per la morte. Io cerco di
sfuggire ad essa col crearmi un sostituto della mia vita
personale, qualche cosa che viva in vece mia, e nel
quale io possa illudermi di continuare a vivere. Tu vuoi
sfuggire non alla morte, ma alla paura di essa col volerla
preventivamente, col procurartela artificialmente da
solo, annullando te medesimo, considerandoti un
frammento del cosmo, vivendo di una vita generale,
universale, di cui il tuo singolo io non sia che una
insignificante contingenza. Il tutto, il cosmo (o, piú
modestamente, la società) non può morire. Se tu riesci a
immedesimarti con esso, ad entrare come parte
integrante nella sua pulsazione vitale, neppure tu
morirai, qualunque cosa accada alla tua persona. O
meglio, tu sarai già morto, in quanto persona singola, fin
dal momento in cui ti sarai tuffato in quella comunione
533
panica. Da quel momento, nulla ti potrà piú accadere di
grave, di temibile. La tua morte personale non ti
apparirà diversa da quella di chiunque altro. E allora
potrai affermare con orgoglio: «Non tremo; sono pronto
a qualsiasi distacco».
Che le cose stiano cosí, è dimostrato proprio da
quest'ultima frase, che in certo senso, ti tradisce. È
dimostrato dal carattere mistico (nel senso migliore) del
tuo atteggiamento. Non per nulla ti riferisci a Paolo e a
Eckhardt. Chi vuole questo distacco, questa
immedesimazione nel tutto, non è un'anima umile e
passiva, capace di vivere solo in funzione di altri; è anzi
una forte personalità, che in questa comunione riserva a
sé una parte importante, che vuole immedesimarsi negli
altri solo per capirli meglio di quanto essi non capiscano
se stessi, per guidarli là dove essi, senza averne
coscienza, sono destinati ad andare. Questo dimenticarti
di te medesimo è il tuo vero modo di farti valere, di
potenziare la tua forza e le tue capacità. Non nego, e lo
ripeto, che ciò sia bello. E che sia nato da una malattia,
non ha nessuna importanza. Ogni nostro atteggiamento
morale o spirituale è, in qualche modo, nato da una
malattia; e un uomo sano, in questo senso, sarebbe
l'essere piú amorfo e insulso che si possa immaginare.
Ho voluto analizzare queste cose, perché mi pare utile
rendersene conto; non perché ritenga che si debbano
mutare.
Ulpia: Parola d'onore, mi fate ridere. Ecco due
galantuomini, tutti dominati dalla paura di morire, e che
534
s'ingegnano di far finta che la morte non ci sia. Uno
suda e si affanna a costruire qualche cosa che gli
permetta di dire: «Non omnis moriar»; l'altro si crea un
atteggiamento morale, una personalità, il cui sugo
consiste nella soddisfazione di non tremare.
E non ci sarebbe una terza soluzione: di tenersela, la
paura? Di non costruirsi sovrastrutture fittizie, ma di
guardare in faccia alla realtà come è; e se questa realtà si
chiama morte, chiamarla col suo nome; e se la morte è
brutta e tremenda e paurosa, temerla alla buon'ora, senza
infingimenti e sofisticaggini? Io, per conto mio, il
terrore della morte lo conosco da un pezzo, e posso dire
che di esso è intessuta tutta la mia infanzia, anzi tutta la
mia vita. Ma non ho mai pensato a liberarmene, a
negarlo, a superarlo, a nasconderlo. Ce l'ho e me lo
tengo; e, in qualche modo, me lo sono fatto amico. Lo
conosco, oramai, come un vecchio compagno delle mie
giornate tristi, e delle notti. A sentir voi sostenere di
averlo vinto e debellato, e poi discutere come state
facendo oggi, mi fate veramente un po' schifo; e mi par
quasi di essere piú coraggiosa di voi. Almeno,
concedetemelo, piú sincera.
Commodo: Certamente. E soprattutto piú sana. Voi
donne, quando siete veramente donne e non isteriche
moraliste, siete piú sane e piú semplici di noi. Per
questo ci fate bene spiritualmente, e se vogliamo
salvarci, dobbiamo ricorrere a voi. Per noi, essere
semplici è la cosa piú complicata che ci sia. Ma proprio
questa vostra semplicità e salute, questo vostro
535
acquietarvi alle cose come le ricevete, questo non
combattere, non ribellarvi, non «superare», proprio
questo forse è il segreto per cui la maggior parte dei
frutti della civiltà è dovuta agli uomini. Perché la civiltà,
e la cultura, e l'intelligenza, e l'attività, e la morale, e
tutto insomma, è frutto di scontentezza, e di paura o
vergogna o senso di colpa che si vuol nascondere o
superare. Non c'è bisogno della psicanalisi per
riconoscerlo; e un filosofo oggi di moda, pone al centro
dell'essere il «Hingeworfensein zum Tode». È il fatto
che dobbiamo morire che dà un senso concreto e finito
alla nostra attività, che ci permette di misurare il tempo,
e di spenderlo come un tesoro non illimitato, che ci fa
muovere, agire, riempire di qualche cosa questo periodo
che abbiamo a disposizione, creare valori, guardare con
desiderio al futuro. Nella tua accettazione della paura
come di un fatto costituzionale, ineluttabilmente legato
alla tua vita, c'è sicuramente qualche cosa di molto sano
e equilibrato, e coraggioso anche. Ma permetti a noi due
di restare attaccati alle nostre malattie: sono cosí belle e
divertenti, e ci riempiono in modo cosí appassionante la
testa!
Modesto: Vi ho ascoltato finora con una certa
meraviglia. Io non sono abituato a queste introspezioni;
e non so neppure se siano veramente fruttifere. Ciò che
m'interessa è il lato concreto dei problemi. E qui mi
trovo di fronte a due atteggiamenti fondamentali: il
«dare» e il «ricevere». Ora non voglio giudicare quale
dei due sia piú sano o piú malato; né voglio dare una
536
valutazione morale di essi. So che ambedue sono
giustificati, ciascuno nella sua sfera; che ambedue
possono condurre a ottimi risultati. Ma per il campo che
a me interessa, che è quello dell'azione pratica, so che
uno di essi, quello di Severo, è l'unico che abbia un
senso e che rappresenti un valore. Non che io disprezzi
l'altro. Ma l'altro è appunto un atteggiamento da
scienziato, o meglio da epicureo dello spirito, occupato
del proprio perfezionamento, e il cui interesse per
l'azione è dovuto in fondo a un semplice snobismo
intellettuale; a un individualistico ed egoistico (oppure
moralistico) bisogno di non essere estraneo a nulla, a un
avaro e meschino «nihil humani a me alienum puto».
Ciò che ti spinge, o Commodo, all'azione, non è un vero
interesse per l'azione stessa, un affetto, un bisogno
profondo e sincero di partecipare alla vita degli altri. È
piuttosto un senso del dovere, un bisogno di non aver
niente da rimproverarti, di essere in pace con la tua
coscienza, presentabile di fronte a qualsiasi istanza
giudicante; oppure la preoccupazione di conoscere tutto,
di aver tutto provato, di fare ogni esperienza che ti
arricchisca lo spirito ed allarghi la mente. Ora questi, in
fin dei conti, sono tuoi fatti personali. A nessuno, fuor
che a te stesso, importa se i tuoi godimenti spirituali
siano di un grado piú o meno perfetto. Ma ti so dire che
quando ci si avvicina all'azione e alla comunione con gli
altri uomini, con uno spirito cosí preoccupato di sé
medesimo, l'azione ne può risultare solo stentata e
paralitica, e priva di quella ampiezza e generosità, e di
537
quel disinteresse per il suo medesimo successo, che solo
può condurre ad un successo solido e vasto. Perciò lo
spettacolo di un uomo come Severo, per cui l'azione non
è un dovere né un espediente, ma un bisogno, una
passione, diciamo pure una malattia; di un uomo che
deve lottare contro se stesso non per spingersi all'azione,
ma per ritrarsene; che in tale azione è talmente
immedesimato, da dimenticarsi di sé medesimo e quasi
dei fini dell'azione stessa, per vivere tutto in quella
comunione e auscultazione attiva dei suoi simili; uno
spettacolo di questo genere, devo dire, mi commuove e
mi esalta; e mi fa pensare che qui e non altrove, e non
negli stentati e intellettualistici moralismi, sia da
ricercarsi la vita piú vera e profonda. Sarà una malattia,
se volete; ma è una malattia che porta immensi frutti di
salute.
Commodo: Non dici se non ciò che penso anch'io; e il
mio apprezzamento per l'atteggiamento di Severo non è
retorico, ma profondamente sentito. Sarà forse perché
conosco troppo me stesso, ma il fatto è che oggi
l'atteggiamento opposto al mio mi è di gran lunga il piú
simpatico. Né mi nascondo che il mio interesse per
l'azione è, in qualche modo, fittizio e secondario, dovuto
piú a un ragionamento che a un istinto. Ma da tale
riconoscimento non ricavo alcun senso di umiliazione,
né alcuna conclusione di dovermi cambiare, e cercare di
essere diverso da quello che sono. Son fatto di questa
pasta; e con qualsiasi pasta, quando si sappia
manipolare, si possono fare delle ottime focacce.
538
Con ciò il problema è liquidato. È chiaro che
l'atteggiamento del «dare» è l'unico concepibile per un
uomo d'azione, e l'unico che possa rendere efficace
l'azione stessa. È chiaro che l'atteggiamento del
«ricevere» è caratteristico dell'uomo di pensiero, per cui
l'azione è un semplice strumento accessorio. È chiaro
anche che tu, Severo, sei l'uomo del «dare», e io quello
del «ricevere». Ma io non sono ancora contento. Sento il
bisogno di aggiungere che proprio in quanto uomo del
«ricevere» posso forse dire a voi, uomini del «dare»,
qualche cosa che potrebbe servirvi, se la voleste
ascoltare.
Non che io voglia sostituirmi a voi. Ma mi piacerebbe
starvi vicino, per essere sicuro che voi non finiate per
ascoltare soltanto voi stessi. Voi siete della gente che,
con attenzione, con acume, con disinteresse, vi
preoccupate di chiarire che cosa bisogna fare. È questo
il primo compito che vi si propone nella vostra opera di
comunione col mondo e di interpretazione dei suoi
bisogni. Ma, una volta deciso quale sia la cosa da farsi,
vi sembra assolutamente evidente che chi la deve
portare a compimento, siete voi stessi. Se cosí non
fosse, la vostra stessa comunione col mondo, il vostro
«dare» si ridurrebbe a nulla. Ora, io posso essere
pienamente d'accordo con voi sulla cosa da farsi; ma
sono evidentemente molto meno legato al fatto che gli
autori di essa dobbiate essere proprio voi. Vi ho detto
che sono l'uomo del ricevere, ma anche l'uomo che ha
un supremo interesse a che le cose «esistano» di per sé.
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Da quale procedimento psicologico derivi questo
interesse, abbiamo visto. Ma mi pare che, di fronte a
voi, esso possa esprimere in qualche modo la parola
della generalità degli uomini, cui interessa
essenzialmente che la cosa venga fatta, e per cui il
problema «da chi» ha molto meno valore che per voi.
Severo e Modesto: Ma non capisci che il «da chi» è
tutto? Che se la cosa è fatta da altri, non è piú la stessa
cosa?
Commodo: Lo capisco, lo capisco. Ma insomma,
voglio dire che il vostro interesse troppo appassionato e
personale, vi spinge a prepararvi troppo a fare le cose, e
troppo poco a che le cose vengano fatte. Io invece,
proprio perché il mio interesse è piú tiepido e riflesso,
non mi fermo tanto col pensiero all'azione del creare un
determinato stato di fatto, quanto allo stato di fatto
stesso; e sono tanto conscio delle difficoltà, che sono
pronto ad accettare che venga a crearsi per l'opera e col
concorso di gente che non sia voi, e nella quale io possa
avere, di per sé, minore fiducia che in voi. È, lo
riconosco, un atteggiamento piú da spettatore che da
attore; ma gli attori recitano, alla fine, per gli spettatori;
e non è inutile che ascoltino anche, a volte, la loro
opinione.
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