La narrazione
come incontro
Fabio Ciotti, Carmela Morabito
a cura di
MODERNA/COMPARATA
ISSN 2704-5641 (PRINT) - ISSN 2704-565X (ONLINE)
– 41 –
MODERNA/COMPARATA
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Gianni Venturi, University of Florence, Italy
La narrazione come incontro
a cura di
Fabio Ciotti e Carmela Morabito
FIR ENZE UNIVERSITY PR ESS
2022
La narrazione come incontro / a cura di Fabio Ciotti, Carmela Morabito. – Firenze : Firenze University
Press, 2022.
(Moderna/Comparata ; 41)
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ISSN 2704-5641 (print)
ISSN 2704-565X (online)
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ISBN 979-12-215-0045-5 (PDF)
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Sommario
Introduzione. La narrazione come incontro
Fabio Ciotti, Carmela Morabito
7
L’apporto delle neuroscienze rappresenta un punto di svolta per la
critica letteraria?
Raul Mordenti
15
Una nuova svolta negli studi letterari: la convergenza tra
computazione, cognizione ed evoluzione
Fabio Ciotti
19
Gli studi letterari cognitivi e lo statuto dell’interpretazione: un
tentativo di mappatura teorica
Marco Caracciolo
37
Perché si muore nei romanzi: l’ipotesi della simulazione dell’ordalia
Olivier Morin, Alberto Acerbi, Oleg Sobchuk
Dall’area di Broca al sensorio digitale, trasformazioni
antropologiche in atto e ‘cervelli in movimento’: una mente
incorporata in un mondo digitalizzato
Carmela Morabito
Narratività ed embodiment della voce
Alessandra Falzone
La narrazione come ‘testimonianza’. L’evoluzione dell’ascolto tra
filogenesi e ontogenesi dell’orecchio
Donata Chiricò
59
81
103
117
FUP Best Practice in Scholarly Publishing (DOI 10.36253/fup_best_practice)
Fabio Ciotti, Carmela Morabito (edited by), La narrazione come incontro, © 2022 Author(s), CC BY 4.0,
published by Firenze University Press, ISBN 979-12-215-0045-5, DOI 10.36253/979-12-215-0045-5
Identità narrativa e memoria autobiografica: prospettive per un
dialogo interdisciplinare
Martino Feyles
Overdose di storie. La narrazione senza fine dei social media
Paolo Sordi
129
141
Le narrazioni, nuove interazioni dei moderni. Lettura, cultura e
pratiche digitali come presidi di identità
Mario Morcellini
155
Indice dei temi
167
Indice dei nomi
169
Identità narrativa e memoria autobiografica:
prospettive per un dialogo interdisciplinare
Martino Feyles
1. I fondamenti della teoria dell’identità personale di Ricoeur
La nozione di identità narrativa compare già in Tempo e racconto (Ricoeur
1999), ma viene sviluppata in modo più sistematico in Sé come un altro, l’opera
in cui la riflessione di Ricoeur in intorno ai problemi del soggetto giunge alla
sua formulazione matura. Sé come un altro è un testo complesso, che si offre a
diverse letture, ma le tesi fondamentali alla base della riflessione di Ricoeur sono presentate fin dalle prime pagine in modo esplicito.
1) In primo luogo l’ermeneutica del sé evidenzia il carattere non immediato della posizione del soggetto: «la [inizio citazione] prima intenzione è di far risaltare il
primato della mediazione riflessiva sulla posizione immediata del soggetto, quale
si esprime alla prima persona del singolare “io penso, io sono”» (Ricoeur 2005).
Per le filosofie del soggetto classiche, l’io è un dato immediato. Come è noto,
da Cartesio a Husserl, la sfera della coscienza è l’ambito dell’assoluta certezza
proprio perché l’esperienza soggettiva è un dato che conosciamo senza mediazioni. Se l’io è dato in un atto di auto-coscienza sembrerebbe necessario concludere che il soggetto conosce se stesso direttamente. Dal punto di vista di Ricoeur,
invece, l’identità personale non è affatto già data nell’immediatezza dell’auto-coscienza, ma è il frutto di una mediazione riflessiva. In questo senso si può dire che
l’io personale è costituito e in certo senso “costruito”. Questa interpretazione si riflette nella differenza linguistica tra il pronome personale «io» e il pronome riflessivo «sé», che compare nel titolo dell’opera di Ricoeur. Mentre nelle filosofie
Martino Feyles, Pontifical Lateran University, Italy, martinofeyles@hotmail.com, 0000-0002-7280-5655
Referee List (DOI 10.36253/fup_referee_list)
FUP Best Practice in Scholarly Publishing (DOI 10.36253/fup_best_practice)
Martino Feyles, Identità narrativa e memoria autobiografica: prospettive per un dialogo interdisciplinare,
© Author(s), CC BY 4.0, DOI 10.36253/979-12-215-0045-5.10, in Fabio Ciotti, Carmela Morabito (edited
by), La narrazione come incontro, pp. 129-139, 2022, published by Firenze University Press, ISBN 979-12215-0045-5, DOI 10.36253/979-12-215-0045-5
MARTINO FEYLES
del soggetto classiche, l’’io’ è l’origine assoluta di ogni azione, l’ermeneutica del
‘sé’ situa l’identità personale sul versante oggettivo: il sé è innanzitutto l’oggetto
di una conoscenza (conoscere ‘sé’) o di un processo costitutivo (costituire ‘se
stessi’) e non il soggetto dell’atto conoscitivo (‘io’ conosco).
2) La seconda tesi è altrettanto esplicita: si tratta – spiega Ricoeur – di «dissociare le due principali significazioni dell’identità, a seconda che intendiamo
per identico l’equivalente dell’idem o dell’ipse latino» (Ricoeur 2005, 76). Identità significa uguaglianza. La nozione di identità personale presuppone, dunque,
una certa uguaglianza del soggetto con se stesso.
La filosofia postmoderna, da Nietzsche in poi (Nietzsche 2003), ha moltiplicato gli argomenti contro questa auto-uguaglianza del soggetto con se stesso.
La grande letteratura del Novecento, da Pirandello e Proust, ha scandagliato in
profondità gli infiniti mutamenti dell’io individuale nel corso di un’esistenza. Ma
soprattutto, all’interno della scuola fenomenologica, pesa l’autorità di Heidegger, che demolisce l’antica concezione metafisica dell’anima. In Essere e tempo,
in effetti, la nozione di soggetto viene ricondotta alla categoria della «semplice
presenza». Pensare il soggetto come una «sostanza spirituale» che permane
identica nel mutare dei vissuti, significa pensarlo come un ente semplicemente presente che ha delle proprietà. Ma se è così, allora il soggetto non è diverso
dagli oggetti mondani. Solo gli oggetti hanno delle proprietà e possono essere
pensati come sostanze. La nozione di soggetto – che secondo Heidegger accomuna tutta la psicologia, l’antropologia e persino la fenomenologia di Husserl e
Scheler – comporta, dunque, una reificazione del se stesso. Proprio per evitare
questa reificazione, Essere e tempo caratterizza l’Esserci – e la parola ‘soggetto’
viene intenzionalmente abbandonata – come quell’ente che ha sempre ancora
da essere (Heidegger 2002). Questo significa che l’essere dell’Esserci è sempre
«aperto», a differenza dell’essere delle cose mondane. L’Esserci non è mai semplicemente ‘questo’ o ‘quello’, perché non è un oggetto a cui si possano applicare
dei predicati in modo definitivo. Ma se è così, bisogna allora rinunciare a ogni
identità? Se l’Esserci ha sempre ancora da essere, se la sua esistenza è sempre
aperta, ha ancora senso descriverlo in termini di ‘identità’? L’Esserci non sarà
piuttosto un flusso in perenne mutamento?
La distinzione che Ricoeur propone tra «idem» e «ipse» è una risposta a
questi interrogativi. Il paradigma dell’identità «idem» si applica agli enti semplicemente presenti e implica la possibilità di individuare un’identità oggettuale,
basata sulla permanenza nel tempo di un insieme di proprietà. Questo paradigma
non può essere applicato al sé, se non al prezzo di una sua reificazione. Ma per
Ricoeur esiste un altro modello di identità, che è individuato dal termine latino
«ipse» e che è fondato non sulla permanenza di qualità o proprietà, ma sul mantenersi di una decisione esistenziale. L’identità definita dal termine «idem» è
un’identità stabile e cosale. L’identità definita dal termine «ipse» è mobile e ha
un fondamento etico-esistenziale.
3) La terza tesi mette l’accento sul legame costitutivo tra identità e alterità
espresso in modo sintetico dal titolo Sé come un altro:
130
IDENTITÀ NARRATIVA E MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
Il nostro titolo suggerisce un’alterità che non è – o non è soltanto – un termine
di paragone, un’alterità quindi che possa essere costitutiva dell’ipseità stessa.
Sé come un altro suggerisce fin dall’inizio che l’ipseità del se stesso implica
l’alterità ad un grado così intimo che l’una non si lascia pensare senza l’altra,
che l’una passa piuttosto nell’altra – come diremmo nel linguaggio hegeliano.
Al “come” vorremmo annettere la significazione forte, legata non soltanto ad
una comparazione – se stesso somigliante ad un altro –, ma ad una implicanza:
sé in quanto… altro (Ricoeur 2005, 78).
In questo modo Ricoeur situa la sua teoria al di là dei problemi a cui andava
incontro la fenomenologia husserliana concependo l’ego in modo solipsistico.
Una volta operata la riduzione fenomenologica, il soggetto guadagna un accesso
sicuro alla sfera dei vissuti immanenti, il cui contenuto è indubitabile. L’esperienza immanente è sempre caratterizzata da un costitutivo ‘esser mio’: è sempre
un’esperienza ‘in prima persona’. Ma uno dei problemi fondamentali che Husserl si trova ad affrontare è di spiegare in che modo, all’interno di questa sfera
soggettiva, si costituisca il rapporto con l’alterità dell’altro (Husserl 2002). I vissuti dell’altro non sono mai dati in modo immediato, non sono mai veramente
‘miei’. Tuttavia è un fatto che noi siamo sempre in rapporto con altri soggetti,
li comprendiamo e in una certa misura possiamo conoscere la loro esperienza.
Lo statuto di questa esperienza del rapporto con l’altro rimane problematico,
all’interno del sistema teorico husserliano.
Nella prospettiva di Ricoeur, invece, l’alterità è inclusa fin da subito nella definizione dell’identità personale. Questo significa che il soggetto conosce anche se
stesso come un altro e che, dunque, l’accesso all’esperienza ‘propria’ non è del
tutto differente all’accesso all’esperienza altrui1. Ma significa anche che l’alterità
entra in gioco fin da subito nei processi di costituzione del sé. In questo modo
Ricoeur riesce a tenere insieme diverse esigenze teoriche: a) rende ragione dei
dati empirici che la psicoanalisi di Freud evidenzia. Di fatto il nostro io empirico,
nelle sue disposizioni fondamentali, nei suoi meccanismi pulsionali, nelle sue
strategie di ricerca della soddisfazione, si costituisce nel rapporto con l’alterità
di altri soggetti, primi fra tutti i genitori; b) rende ragione del ruolo costitutivo del linguaggio nella strutturazione dell’esperienza. Il linguaggio che parliamo, dà forma a ogni nostra esperienza, ma questa lingua non è un’invenzione
soggettiva; è la ‘mia’ lingua, ma è anche nello stesso tempo la lingua degli altri,
una lingua di cui mi sono appropriato e che mi è stata consegnata da ‘fuori’; c)
accoglie come un dato acquisito le analisi heideggeriane relative al con-Esserci
(Heidegger 2002). Essere e tempo mostra che l’essere-nel-mondo è sempre necessariamente un essere-con-altri. Questo rapporto con gli altri appare ad Heidegger – e Ricoeur lo segue – più originario rispetto ai processi che portano l’io
ad individuarsi nella sua unicità: per potersi distinguere, bisogna presuppore un
1 Questo punto è evidenziato e argomentato in una prospettiva fenomenologica soprattutto
da Sartre 2011.
131
MARTINO FEYLES
rapporto con gli altri e dunque affinché il soggetto possa costituire il ‘proprio’
sé bisogna innanzitutto che sia in relazione con altri.
4) Infine Sé come un altro si presenta come un tentativo di mediazione. Le
grandi filosofie del soggetto – Ricoeur pensa soprattutto a Cartesio, Kant e Husserl – pongono l’io come fondamento assoluto della realtà. Contro questa assolutizzazione dell’io si levano le voci dei grandi contestatori del soggettivismo
moderno (soprattutto Hume, Nietzsche e Freud) che denunciano il carattere illusorio del soggetto. Si delinea così un’alternativa tra la divinizzazione dell’io e la
sua destituzione, in quanto mistificazione senza fondamento. Rispetto a questa
alterativa insoddisfacente, Ricoeur individua una via intermedia: l’io non è semplicemente un agglomerato caotico di vissuti che non hanno alcun centro; ma
non è nemmeno il soggetto assoluto, perfettamente trasparente e autocosciente,
che funge da fondamento di ogni sapere. «L’ermeneutica del sé si situa ad eguale
distanza e dall’apologia del cogito e dalla sua destituzione» (Ricoeur 2005, 79).
2. Argomenti filosofici a sostegno della teoria dell’identità narrativa
In che modo la teoria dell’identità narrativa risponde alle quattro esigenze
teoriche che Ricoeur segnala all’inizio di Sé come un altro?
1) In primo luogo è chiaro che l’identità narrativa è un’identità costruita e
non un dato immediato che il soggetto avrebbe già da sempre a disposizione.
Ovviamente gli eventi che sono significativi nel racconto di una vita non possono essere anticipati a priori e hanno un carattere di radicale contingenza. Questo
significa che la singolarità dell’identità personale dipende da una serie di accadimenti che solo in virtù di un’operazione di configurazione narrativa, cioè solo
in virtù di una mediazione, acquistano il loro significato. Ricoeur paragona questa operazione di configurazione all’immaginazione narrativa grazie alla quale
il narratore, nei racconti di finzione, costruisce i suoi personaggi. Ma l’accento
cade innanzitutto sulla priorità dell’intreccio: «il personaggio, diremmo, è esso
stesso costruito nell’intreccio» (Ricoeur 2005, 234). Dunque non c’è ‘prima’
un personaggio dotato di una certa personalità e ‘poi’ le vicende che gli accadono, quasi come se si trattasse di eventi che accidentalmente si riferiscono ad
un io già costituito. Al contrario l’identità del personaggio dipende dall’intreccio,
cioè dalla trama degli eventi e delle azioni. Allo stesso modo l’identità personale
non precede gli eventi di una vita, ma risulta da un’operazione in un certo senso
successiva, che è volta trovare un senso, a ‘costruire’ una coerenza, in una serie
di accadimenti di per sé contingenti.
La grande differenza tra la narrazione di finzione e il racconto autobiografico
è data dalla posizione dell’autore. Nel caso delle narrazioni di finzione il narratore – anche quando finge di non essere onnisciente – è sempre nella posizione
dell’autore, cioè nella posizione di colui che produce – inventandoli o raccontandoli – gli eventi stessi. Invece nel caso del racconto autobiografico il soggetto
è narratore e personaggio; ma non è nella posizione dell’autore. Si delinea così
una sorta di attività nella passività: «Elaborando il racconto di una vita di cui
non sono l’autore quanto all’esistenza, me ne faccio coautore quanto al senso»
132
IDENTITÀ NARRATIVA E MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
(Ricoeur 2005, 255). Gli accadimenti che definiscono l’ipseità del sé non sono nelle
mani del soggetto e in questo modo l’io non è più in una posizione di dominio,
nemmeno quando si tratta di ciò che gli è più proprio e più intimo, vale a dire la
sua stessa personalità. Nello stesso tempo, non potendo decidere la trama della sua
vita, il soggetto può però farsene in qualche modo ‘coautore’, configurandone il senso.
2) In secondo luogo è chiaro che questo processo di configurazione del senso di
una vita è per principio aperto. Da una parte questo significa che, fino a quando
l’individuo esiste, nuovi accadimenti possono intervenire, ridisegnando la trama
di un’esistenza. Dall’altra parte il carattere aperto dell’identità narrativa dipende
dalla possibilità di riraccontare in modo diverso la propria storia. Come accade, in
fondo, quando il paziente lavora con lo psicoanalista: una serie di eventi passati,
una serie che appare chiusa, viene riraccontata e ricompresa in modo diverso.
Questa ricomprensione modifica l’identità narrativa del paziente che si conosce
in modo diverso. In questo caso non si tratta semplicemente di riconoscere l’imprevedibilità dei destini umani, sempre aperti all’inaspettato; piuttosto si tratta di riconoscere che una storia apparentemente già scritta può essere riscritta.
Ora quello che vale nel contesto della psicoanalisi, vale in realtà per ogni
racconto autobiografico: «sul percorso noto della mia vita, posso tracciare
molteplici itinerari, tessere trame di più intrecci, in breve raccontare svariate
storie, nella misura in cui, a ciascuna manca il criterio della conclusione» (Ricoeur 2005, 254). In questo modo la teoria dell’identità narrativa risponde alle
esigenze teoriche fatte valere da Heidegger. Proprio perché l’Esserci non è una
sostanza, le cui proprietà possano essere definite una volta per tutte, il soggetto
deve sempre ancora diventare se stesso. Questo incessante aver da essere, questa incompiutezza esistenziale è il fondamento dell’apertura dell’identità narrativa. Poiché la mia storia non è mai compiuta, la mia identità può sempre essere
riconfigurata altrimenti.
3) In terzo luogo la teoria dell’identità narrativa implica l’evidenziazione del
ruolo costitutivo dell’alterità a diversi livelli. Ad un primo livello, il più evidente,
è chiaro che la mia storia è sempre intrecciata alla storia degli altri; esattamente
come la vicenda del protagonista di un romanzo, che non potrebbe nemmeno
svilupparsi senza gli antagonisti e i coprotagonisti: «le storie degli uni sono
inviluppate nelle storie degli altri. Intere fette della mia vita fanno parte della
storia della vita altrui, dei miei genitori, dei miei amici, dei miei compagni di
lavoro e di tempo libero» (Ricoeur 2005, 254). In questo senso l’alterità degli
altri soggetti è parte essenziale della mia identità narrativa e dunque della mia
personalità (Gallagher, Zahavi 2009).
Ma a un livello più radicale è tramite la mediazione del linguaggio e della cultura che l’alterità costituisce l’identità narrativa. Come ho già avuto di notare, la
lingua che parlo, che è anche la lingua in cui mi racconto, è una lingua di cui mi
approprio. Con la nozione di identità narrativa questa dinamica di appropriazione si radicalizza. Il soggetto che si racconta interpreta la propria vicenda sulla
base di modelli culturali e storici che riceve dal mondo della finzione narrativa – nel
senso più ampio che questa espressione può avere. Questo significa che ognuno si sceglie i propri eroi o i propri modelli etici di riferimento sulla base di un
133
MARTINO FEYLES
repertorio che ha una carattere contingente e storico (i modelli di vita che ho
a disposizione io, non sono quelli che poteva avere una donna nel mondo greco). Ma significa anche che la costruzione del senso della coerenza di una vita
si avvale delle risorse che la finzione letteraria mette a disposizione del soggetto (Bruner 2017): così, per esempio, la vicenda di Edipo insegna cosa vuol dire
un’esistenza ‘tragica’, quella di padre Kolbe cosa vuol dire il ‘sacrificio’, ecc. In
ogni caso, quali che siano i modelli etici e i paradigmi narrativi a cui facciamo
riferimento nel costruire la nostra storia, è certo che questi modelli e questi paradigmi ci raggiungono dall’esterno, non sono una produzione spontanea di un
soggetto etico che dà a se stesso le proprie norme.
4) Infine la teoria dell’identità narrativa rappresenta un tentativo di mediare
tra gli opposti estremismi del soggettivismo forte e del nichilismo della persona.
Da una parte è chiaro che, costruendo la propria identità, il soggetto si comprende
e dà un senso tendenzialmente coerente alla propria vicenda: in questo modo l’idea
che l’io sia solo un fascio caotico di sensazioni viene rigettata. Dall’altra parte
la nozione di identità narrativa implica l’idea che la personalità sia una costruzione e che la sua stabilità sia relativa. È significativo a questo proposito che un
fenomenologo come Gallagher consideri la teoria dell’identità narrativa come
una riproposizione della critica alla soggettività proposta da Hume (Gallagher
2000)2 e che Dennett (1992) abbia utilizzato l’idea di identità narrativa per negare che il sé abbia un’esistenza reale. Se l’io ha un’identità narrativa, significa
che la sua esistenza è finzionale, dipende da un’immaginazione narrativa. Nella prospettiva di Ricoeur l’immaginazione è una facoltà che ha un valore cognitivo e
gli oggetti finzionali non sono semplicemente degli oggetti senza alcuna realtà;
però è chiaro che sono oggetti che non hanno una realtà ‘obbiettiva’.
3. La memoria autobiografica: problemi aperti
Dopo aver analizzato gli argomenti filosofici che si possono portare a sostegno della teoria dell’identità narrativa vorrei considerare anche gli argomenti
empirici con i quali la si può supportare. A questo proposito la prospettiva di un
dialogo tra fenomenologia e scienze cognitive sembra particolarmente feconda.
All’interno del vasto campo degli studi scientifici sulla memoria, la nozione di
«memoria autobiografica» si è affermata da diversi anni. La memoria autobiografica viene generalmente definita come quella funzione mnestica «che concerne i ricordi che abbiamo su noi stessi e sulle nostre relazioni con il mondo che ci
circonda» (Baddeley 2011, 177). In altre parole, la memoria autobiografica è la
memoria che è legata al sé e all’identità personale. I neuroscienziati e gli psicologi della memoria hanno prodotto innumerevoli ricerche sperimentali intorno
2 «Hume suggests that the self consists of a bundle of momentary impressions that are strung
together by the imagination. In effect, an extended self is simply a fiction, albeit a useful one
because it lends a practical sense of continuity to life, but a fiction nonetheless. The narrative
theory of self is a contemporary reading of this view» (Gallagher 2000, 19).
134
IDENTITÀ NARRATIVA E MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
a questa specifica funzione mnestica, tanto che ormai si può dire che lo studio
della memoria autobiografica è un ramo specializzato all’interno del più generale campo teorico della psicologia della memoria. Nonostante ciò, la definizione
della nozione di ‘memoria autobiografica’ rimane per molti versi problematica,
anche all’interno della comunità scientifica. Baddeley, una delle voci più autorevoli quando si tratta di psicologia della memoria, lo ho notato più volte: «I do
have qualms about the amorphous nature of the concept of autobiographical
memory» (Baddeley 1992, 13). Si può addirittura dubitare – secondo Baddeley – che la memoria autobiografica abbia «sufficient coherence to be regarded
as a topic in itself» (Baddeley 1992, 17).
Il problema da cui nascono queste perplessità è chiaro: la memoria autobiografica è una funzione cognitiva specifica? è diversa dalle altre forme di memoria?
Attualmente non sembra che ci siano evidenze sufficienti per dimostrare che
esiste un’area cerebrale specifica a cui possa essere attribuita questa funzione in
particolare. Per molti versi la memoria autobiografica sembra coincidere con la
memoria episodica. Tulving – a cui viene riconosciuta la paternità della distinzione tra memoria episodica e memoria semantica – più volte associa la parola
«autobiographical» alla memoria episodica: mentre la memoria semantica sarebbe caratterizzata dalla «cognitive reference», la memoria episodica sarebbe
definita dalla «autobiographical reference» (Tulving 1972). La memoria semantica non ha una dimensione soggettiva: ‘ricordarsi’ il nome della capitale della
Svezia equivale a ‘sapere’ qual è questo nome. Questo sapere non è legato in modo necessario a una particolare esperienza soggettiva. Quando ho scoperto che
la capitale della Svezia è Stoccolma? Non lo ricordo, ma ‘ricordo’, cioè ‘so’, che
le cose stanno così. Al contrario tutti i ricordi episodici (‘mi ricordo l’incontro
con Tizio, ieri’) hanno una dimensione percettiva e implicano un riferimento
soggettivo, perché implicano soggetto percipiente3. Ora, questo riferimento soggettivo può essere interpretato come un riferimento autobiografico?
La domanda non è così semplice come potrebbe sembrare e produce un certo
imbarazzo anche tra gli scienziati. I problemi in particolare sono due:
a) In primo luogo non tutti i ricordi episodici sembrano avere rilevanza dal
punto di vista autobiografico. Questa considerazione, apparentemente banale,
conduce a quello che vorrei chiamare – se mi si concede l’irriverenza – ‘il paradosso del dentifricio’. Tutte le mattine io mi lavo i denti. Da almeno un mese
uso lo stesso dentifricio. Ho dunque percepito almeno trenta volte il tubetto del
dentifricio e l’ultima volta poche ore fa. Eppure in questo momento non sono in
grado di ricordare con certezza se la marca del dentifricio che uso è Mentadent
o Colgate. Come è possibile? La risposta – ovvia – è che si tratta di un episodio
del tutto irrilevante. Ma questa irrilevanza pone un serio problema: come si stabilisce che un’esperienza è ‘irrilevante’ o, al contrario, ‘rilevante’? È esattamente
intorno a questa domanda che si costruisce la differenza tra memoria episodi-
3 Ho analizzato la distinzione tra memoria episodica e memoria semantica dal punto di vista
fenomenologico in Feyles 2012.
135
MARTINO FEYLES
ca e memoria autobiografica. I ricordi autobiografici non sono quelli che hanno un
riferimento soggettivo (tutti i ricordi episodici ce l’hanno), ma quelli che hanno una
‘rilevanza’ nel processo di costituzione dell’identità individuale.
b) Il secondo problema è che, per quanto il legame posto da Tulving tra memoria episodica e memoria autobiografica appaia intuitivo, ci sono alcuni elementi della memoria autobiografica che sembrano avere una dimensione semantica più
che episodica. Come si chiama mia moglie? Qual è l’indirizzo di casa mia? Come si chiama l’università per cui lavoro? Una persona che non fosse in grado di
rispondere a queste domande sarebbe un soggetto che ha nello stesso tempo dei
deficit di memoria e dei deficit identitari. È chiaro però che la risposta a queste
domande non mette in moto la memoria episodica, ma la memoria semantica. La
memoria autobiografica, dunque, non può essere concepita semplicemente come un sottoinsieme della memoria episodica, e nemmeno come un sottoinsieme
della memoria semantica, perché sembra piuttosto situarsi all’incrocio tra le due.
Viewed in this way, autobiographical memory is not a special system, but rather
refers to the use of general memory processes to store and retrieve information
about the rememberer. This need not of course necessarily be so; it is an
empirical question as to whether the same or separate systems are involved
when remembering events about oneself (Baddeley 1992, 20).
La questione empirica se la memoria autobiografica sia il prodotto di un sistema mnestico separato rimane aperta. Ma rimane aperta anche la questione
circa la specificità dal punto di vista funzionale della memoria autobiografica:
«è un tipo di memoria a sé stante? Sì e no. Essa è basata sui sistemi di memoria
episodica e semantica di cui abbiamo già parlato» (Baddeley 2011, 177).
4. Memoria autobiografica e identità narrativa
I due problemi che ho evidenziato individuano il terreno di un possibile dialogo tra la teoria fenomenologica dell’identità narrativa e lo studio sperimentale
della memoria. La posizione delineata da Ricoeur in Sé come un altro e soprattutto
in Tempo e racconto si fonda su una rilettura della teoria aristotelica del racconto.
La Poetica spiega chiaramente che la differenza che passa tra un semplice resoconto
di fatti e un racconto vero e proprio è legata alla capacità del narratore di scegliere gli
eventi che sono significativi. In questo senso Omero è un grande narratore innanzitutto perché sa scegliere quello che è ‘rilevante’ e quello che non lo è. Infatti Omero non racconta tutto quello che è accaduto a Ulisse nella sua vita, a differenza di
quei poeti mediocri che hanno creduto che per raccontare le vicende di Ercole
o Teseo fosse necessario riportare l’elenco completo dei fatti noti sulla loro esistenza (Aristotele 2010, 65). La capacità narrativa si configura così – per Ricoeur
che legge Aristotele – come una funzione cognitiva fondamentale che scopre e in
un certo senso produce un senso in una serie altrimenti casuale di accadimenti.
Questa teoria della narrazione risolve in partenza il problema della distinzione tra memoria autobiografica, memoria semantica e memoria episodica.
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IDENTITÀ NARRATIVA E MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
Invece di postulare un sottosistema localizzabile a livello cerebrale o una funzione mnestica specificamente diversa, che registra e codifica alcuni elementi
e non altri, si potrebbe ipotizzare che la memoria autobiografica sia una costruzione basata da una parte sulla capacità narrativa dell’immaginazione e dall’altra sul materiale fornito dalla memoria episodica e dalla memoria semantica.
Questa costruzione, essendo narrativa, sarà necessariamente il risultato di una
selezione orientata in vista di un certo scopo pratico. L’identità di un soggetto
è definita (anche) dagli scopi pratici che il soggetto si pone. Ognuno di questi
obbiettivi esistenziali mobilita l’intelligenza narrativa che lavora su differenti
materiali mnestici. In questo senso la domanda ‘chi sono io?’ ammette risposte diverse se lo scopo pratico che prendo in considerazione è la soddisfazione
affettiva o la realizzazione lavorativa. In un caso sarà rilevante il racconto delle
vicende che hanno portato al concorso che mi ha attribuito il titolo di ‘professore’; nell’altro caso sarà rilevante la vicenda dell’incontro con la donna che poi
ho sposato. Lo stesso materiale mnestico episodico e semantico sarà dunque riorganizzato in due narrazioni differenti e l’identità personale del soggetto sarà
ogni volta ridefinita in relazione ai diversi contesti in cui il soggetto avverte l’esigenza di comprendere se stesso e dunque di raccontarsi. Questo approccio, lo
si vede bene, si sottrae al ‘paradosso del dentifricio’. Rispondere alla domanda
‘chi sono io?’ o ‘chi sei tu?’, significa sempre raccontare una storia; ma un individuo che rispondesse a tale domanda cominciando il suo racconto dalla marca
del suo dentifricio sarebbe – al netto del possibile umorismo – un soggetto con
evidenti problemi di identità. Il suo deficit, però, non sarebbe innanzitutto un
deficit della memoria episodica o semantica, ma un deficit di quella che Ricoeur chiama «intelligenza narrativa» (Ricoeur 2005, 234). Il problema dunque
si risolve perché si sposta: la questione non è più comprendere in che modo distinguere la memoria autobiografica dalla memoria episodica e semantica, ma
comprendere che cos’è l’intelligenza narrativa e che basi può avere questa facoltà
dal punto vista della psicologia e della neuroscienza.
D’altra parte se la teoria dell’identità narrativa può contribuire a chiarire
alcuni problemi legati alla nozione di memoria autobiografica, è vero anche il
contrario e cioè che la psicologia della memoria ci offre argomenti empirici cogenti per correggere alcuni limiti della posizione di Ricoeur. Vorrei menzionare
brevemente due argomenti che mi sembrano significativi. In un articolo ormai
classico, Neisser, distingue cinque tipi di «self-knowledge» corrispondenti ad
altrettanti «essentially different selves»: «ecological self, interpersonal self,
extended self, private self, conceptual self» (Neisser 1988, 35). Non posso discutere il problema della corrispondenza tra questa articolazione e il punto di
vista fenomenologico, perché sarebbe necessario un articolo a parte. Mi interessa però rilevare l’allargamento di orizzonte che l’articolo suggerisce in relazione alla teoria dell’identità narrativa. Nell’articolazione proposta da Neisser
la memoria autobiografica corrisponde all’extended self. Ma questo livello, che è
specificamente narrativo, non è l’unico livello in cui il problema dell’identità si
pone. Accanto all’extended self, c’è un ecological self che corrisponde al soggetto
come centro dell’esperienza percettiva, un private self che corrisponde al sogget137
MARTINO FEYLES
to come intreccio di sentimenti privati e un interpersonal self che corrisponde al
soggetto come interlocutore di una relazione affettiva.
Questo suggerisce che la dimensione narrativa non è l’unica dimensione in cui
l’identità si costituisce. La risposta alla domanda ‘chi sono io?’ implica certamente una narrazione in cui io sono il protagonista. Ma implica anche un corpo vivo
che percepisce in un certo contesto ambientale, che sente se stesso, che prova
piacere, dolore, sentimenti, che è il centro di una trama di relazioni affettive.
Quello che è significativo è che queste esperienze si situano a un livello diverso rispetto all’identità narrativa, perché rimandano a una dimensione preverbale. Su questo punto la teoria di Ricoeur non è del tutto convincente, perché tende
a spostare la questione dell’identità su un piano in cui la soglia del linguaggio è già
stata varcata. Possiamo dire che la posizione di Sé come un altro rimane per certi versi logocentrica.
In realtà l’io che percepisce, che sente se stesso, che si relaziona agli altri non
è un io che si conosce tramite la mediazione di un linguaggio verbale (anche se
ovviamente percezioni, sentimenti e relazioni possono essere espressi anche in
un linguaggio verbale). Per questo nei più recenti sviluppi della fenomenologia
si tende a integrare la posizione delineata da Ricoeur, affiancando al sé narrativo
un minimal self, che in qualche modo riassume le dimensioni della personalità
evocate da Neisser. Quello che è essenziale è che questo minimal self non è costruito tramite la mediazione del linguaggio verbale ed è un io che è dato nel presente,
mentre l’identità narrativa implica sempre una continuità temporale:
Although continuity of identity over time is a major issue in the philosophical
definition of personal identity, the concept of the minimal self is limited to
that which is accessible to immediate self-consciousness (Gallagher 2000, 15).
Probabilmente è qui, in questo minimal self, che si può trovare l’ultimo appiglio ontologico della teoria del sé. Il corpo vivo, con le sue emozioni, i suoi impulsi,
la sua singolare esperienza percettiva, resta il luogo in cui l’identità narrativa si
articola. Questa è la ragione ultima per cui non posso decidere in modo del tutto arbitrario in che modo voglio raccontare la mia storia: in teoria potrei anche
raccontare agli altri che io sono Napoleone, ma rimane il fatto che il mio corpo
non ha percepito alcuna scena della battaglia di Waterloo; potrei anche raccontare agli altri che sono una bella ragazza nel fiore degli anni, ma il mio corpo
smentisce questo racconto; infine potrei convincermi di essere una persona mite
come San Francesco, ma le mie emozioni continuerebbero a raccontare un’altra
storia. In questo senso l’identità narrativa è certamente una costruzione finzionale, ma la libertà dell’immaginazione narrativa è saldamente ancorata alla realtà di
un corpo che sente e percepisce, prima ancora di potersi dire.
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