Giovanni Pascoli e la Via Lattea
ROSA RONZITTI
Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea;
nel cielo infinito,
dar nuova dolcezza al vagito.
(Il fanciullino, cap. XIX)
1. Non deve stupire che il sublime poeta, così attento alla dimensione cosmica e astrale,
renda la Via Lattea una presenza importante del suo immaginario1, utilizzando tanto i nomi
della tradizione greco-latina (Via Lattea e Galaxia/Galassia) quanto denominazioni di chiara
origine popolare. Nel Pascoli, infatti, l’elevatissima cultura classica si fonde con l’attenta conoscenza del mondo e delle tradizioni contadine e, non da ultimo, con letture scientifiche mirate, come il volume Astronomie populaire del Flammarion, che servì al poeta per la stesura de
Il ciocco (Canti di Castelvecchio) in un momento storico in cui un certo “misticismo astrale”
tendeva a sostituire la visione meccanicistica e positivistica del cosmo2. Il testo dell’autore francese, pur fortemente basato su dati empirici e positivi, non rinunciava infatti a rappresentare
una terra e un sole sperduti nell’universo, éternel abyme, e a dar voce alla paura di urtare un
giorno un soleil éteint perdu comme un récif sur notre passage3, riflettendo un senso di piccolezza e smarrimento piuttosto che una fiducia cieca nella scienza e nella centralità dell’uomo.
2. Fondamentalmente la figuralità della galassia oscilla tra due poli: quello del latte e quello
del fuoco. Il primo, tolto l’incerto caso dell’omerico (ἐν) νυκτός ἀμολγῷ ‘il munto della notte’
(che potrebbe indicare il culmine della notte), inizia con sicurezza dal sintagma parmenideo
γάλα οὐράνιον (28 B 11 DK); il secondo si afferma grazie alla Meteorologia di Aristotele (parte
Cogliamo la definizione dal celebre articolo di Giovanni Getto, Giovanni Pascoli poeta astrale, in Francesco
Flora (a cura di), Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della
morte, Vol. III, 1962, pp. 35-73.
Sulla Via Lattea si vedano: Hermann Rotzler, Die Benennungen der Milchstrasse in Französischen, Basel: K. B.
Hof- und Universitätsbuchdruckerei von Junge & Sohn, 1913; Carlo Volpati, Nomi romanzi della Via Lattea, in
«Revue de Linguistique Romane» 9, 1933, pp. 1-51; Simona Musso, La Via Lattea dei Greci e dei Romani. Manilio, Astronomica, I 666-804, Vercelli: Edizioni Mercurio 2012; Rosa Ronzitti, Pertinenze linguistiche e filosofiche di un capolavoro pittorico, la rappresentazione della Via Lattea nella Fuga in Egitto di Adam Elsheimer
(1609), in «Lumina. Rivista di Linguistica storica e di Letteratura comparata» I/1-2 2017, pp. 129-158. A livello
più generale (con apparato scientifico e illustrazioni) cfr. anche Francesco Bertola, Via Lactea. Un percorso nel
cielo e nella storia dell’uomo, Cittadella: Biblos, 1995.
2
La fascinazione verso la religione delle stelle coincide con un momento di fertili ricerche accademiche sui “Caldei”; ne sia esempio l’articolo di Franz Cumont, Mysticisme astral dans l’antiquité, apparso nel «Bulletin de
l’Académie Royale de Belgique (Classe des Lettres, etc.)» 5, 1909, pp. 256-286, in cui si percepisce a ogni riga
l’ammirazione del grande studioso verso il culto degli astri, che dall’origine mesopotamica sarebbe passato senza
interruzione all’Iran e al pensiero platonico e neoplatonico.
3
Il volume fu letto nella traduzione italiana di Ernesto Sergent-Marceau (Milano: Sonzogno, 1887) secondo quanto
riporta Giuseppe Nava (a cura di), Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 1991, p. 141. Le citazioni sono qui tratte dall’originale francese Camille Flammarion, Astronomie populaire,
Paris: C. Marpon et E. Flammarion Éditeurs, 1880, p. 804 (le pp. 804-827 sono dedicate a Via Lattea, nebulose,
ammassi stellari, corrispondenti alle pp. 761-781 della traduzione italiana).
1
1
I, cap. viii), ma ha antecedenti pitagorici che il filosofo stesso riporta, per confutarli, allorché
espone le sue proprie (ed errate) teorie galassiogeniche (vd. infra).
Sono rispettivamente l’allattamento di Era (polo del latte) e la caduta di Fetonte (polo del
fuoco) a fornire la trasposizione mitica del modo in cui la candida striscia di stelle sarebbe
comparsa nel cielo notturno.
La notissima storia del latte sparso in cielo da Era durante l’allattamento del piccolo Eracle
parrebbe un’elaborazione dell’alessandrino Eratostene, catasterismo erudito che nasce forse dal
tentativo di spiegare l’antica metafora poetica del γάλα. Tale racconto, ampiamente diffuso e
variamente modulato dalle letterature greca e latina, non attrae l’attenzione di Pascoli, il quale
tuttavia mostra di conoscere e rielaborare da par suo l’identità tra latte e stelle in L’anima (Odi
e Inni)4. Qui, dopo aver rovesciato il rapporto tra vita e morte e sperando in un risveglio della
coscienza individuale nell’aldilà celeste, il poeta termina con un chiaro riferimento alla Via
Lattea (vv. 25-32):
Là stelle si uniscono a stelle:
son grappoli, nuvole, ammassi
di stelle e stelle e stelle,
crescenti ad un sospir che passi.
Là splendono le anime, intatte,
serene, con l’essere immerso
nella goccia di latte
che fluisce per l’universo.
È radicata in molte culture, si direbbe quasi un universale di pensiero, la convinzione che le
anime dei defunti salgano verso la Galassia attraversandola o fermandovisi: in base a ciò, essa
è vista di volta in volta rispettivamente come ponte, via o sede dei morti5. Titolo della poesia,
come risulta dall’Archivio Pascoli, doveva essere in prima battuta proprio Il cielo dei morti e
la penultima quartina, accennando al sospiro che accresce le stelle, intende senz’altro il momento in cui l’uomo, spirando (un sospir che passi), diventa anima astrale e raggiunge chi lo
ha preceduto. Siamo nell’ambito di un pensiero postplatonico che risale al Somnium Scipionis
di Cicerone, a Porfirio e al Macrobio del commento al Somnium.
L’ultima quartina si iscrive molto bene nel neoplatonismo porfiriano espresso dall’operetta
esegetica L’antro delle Ninfe (par. 28):
Per Pitagora le anime sono «popolo di sogni» che, egli dice, si riuniscono nella Via Lattea,
così chiamata dalle anime che, quando cadono nella generazione (ὅταν εἰς γένεσιν
πέσωσιν), si nutrono di latte. Per questo chi evoca le anime offre loro libagioni di miele
mescolato a latte: perché attratte dal piacere esse giungono alla generazione, e il latte
compare naturalmente insieme al loro concepimento.
Fu pubblicata per la prima volta sul «Marzocco» nel 1905 e quindi in raccolta nel 1906. Consta di 8 quartine di
novenarî e un settenario (9+9+7+9) a schema metrico ABaB. Ogni citazione di Pascoli si intende presa dall’edizione integrale di Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, 1968, 2 Voll.
5
Cfr. Luigi M. Lombardi Satriani – Mariano Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Palermo, Sellerio, 1996.
4
2
Chiara Simonini6 ha mirabilmente ricostruito i rapporti che collegano questo passo cruciale
a Proclo (In Plat. Remp. 2, pp. 128, 26-130, 14 Kroll) e Macrobio (In Somn. Scip. I 12 3). Per i
due filosofi tardoantichi, entrambi rifacentisi all’autorità di Pitagora, il latte è il nutrimento dei
neonati in quanto essi “cadono” dalla Via Lattea e si cibano del liquido che ricorda loro le
origini celesti: Porfirio rovescia invece il rapporto e fa derivare il nome Γαλαξίας dal primo
nutrimento assunto dalle anime incarnate. Notiamo, per inciso, che il concetto di ‘cadere nella
generazione’ è già usato da Porfirio in un paragrafo precedente (par. 10) per delucidare il pensiero eracliteo (quindi assai antico):
bisogna sapere che questi sono le anime che, planando sull’acqua, discendono nella generazione (τὰς εἰς γένεσιν κατιούσας). Di qui il detto di Eraclito «per le anime è piacere,
non morte, divenire umide»7.
Ha ragione la Simonini nel ricollegare questo insieme di credenze astrali ai testi incisi sulle
cosiddette Lamine Orfiche: tali preziose testimonianze, venute alla luce in un arco temporale
che va dalla prima metà dell’Ottocento ai giorni nostri in Grecia, Magna Grecia, Creta e Roma,
costituiscono un corpus di formule relativo a un culto di tipo orfico-pitagorico assai diffuso. Si
tratta di una sorta di breviario che accompagnava l’anima del defunto nel viaggio finale, promettendo la liberazione dal gravoso ciclo delle vite terrene: in una lamina di Petelia già nota
nel 1834 e pubblicata a più riprese da svariati studiosi, fra i quali Domenico Comparetti (che il
Pascoli ben conosceva)8, la natura astrale dell’anima è sancita dalla formula recitata dal morto
davanti ai ‘guardiani’ (φύλακες) dell’aldilà (rr. 6-7)9:
εἰπεῖν˙ «Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος,
αὐτὰρ ἐμοὶ γένος οὐράνιον …»
‘Di’: «Sono figlia della terra e del cielo stellato,
celeste è la mia stirpe …»’.
Oltre a ciò, due lamine auree scoperte nel 1879 e 1880 in Calabria e subito edite, contengono
espressioni e stilemi che compaiono anche ne L’anima.
Cfr. Chiara Simonini (a cura di), Porfirio, L’antro della Ninfe, Milano: Adelphi 2010 (ed. or. 1986), p. 75 per la
traduzione e pp. 216-222 per il commento.
7
Così in Porfirio. Nell’edizione canonica dei Presocratici il frammento eracliteo (B 77 DK) recita invece ‘per le
anime è piacere o (ἤ) morte divenire umide’, ma ἤ è una congettura del Diels (cfr. Hermann Diels – Walther Kranz,
Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch, Berlin: Weidmann, Vol. I, 1951, p. 168).
8
Su questo punto cfr. Luciano Bossina, I rapporti fra Italia e Germania nella filologia classica (1920-1940), in
Andrea Albrecht et alii, Die akademische »Achse Berlin-Rom«?, Berlin/Boston: Walter de Gruyter, 2017, pp. 229304. L’articolo del Comparetti, intitolato, The Petelia Gold Tablet, apparve in «The Journal of Hellenic Studies»
III, 1882, pp. 111-118.
9
Citiamo secondo Giovanni Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche, Milano: Adelphi 2001 (I A 2. Petelia,
pp. 67-72), ma si veda anche, a cura di Alberto Bernabé, il volume Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta.
II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, 2, München-Leipzig: Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 2005 (476 F, pp. 33-35).
6
3
La prima, commentata dal Comparetti nel 187910, proviene dal “Timpone Grande” di Thurii
e inizia con il verso11
ἀλλ’ ὀπόταμ ψυχὴ προλίπηι φάος ʼAελίοιο
‘Ma quando l’anima lascia la luce del sole’
che combacia con i vv. 9-10 de L’anima:
E dopo il fuggevole giorno
dell’unico piccolo sole …
Quanto al già citato finale dell’ode pascoliana
Là splendono le anime, intatte,
serene, con l’essere immerso
nella goccia di latte
che fluisce per l’universo
esso richiamerà la seconda parte del quarto rigo:
θεὸς ἐγένου ἐξ ἀνθρώπου˙ ἔριφος ἐς γάλα ἔπετες.
‘Dio divenisti da mortale: agnello cadesti nel latte’.
Del famosissimo ed enigmatico stilema ‘cadere nel latte’, ricorrente con varianti anche in
altre lamine (dove l’animale che cade può essere ariete e toro), sono state date numerose interpretazioni12. Una delle prime, che Pascoli avrebbe anche potuto conoscere, risale ad Albrecht
Dieterich. Il celebre storico delle religioni si addottorò infatti nel 1891 con una tesi dal titolo
De Hymnis Orphicis capitula quinque (Marpurgi Cattorum, Impensis Elwerti Bibliopolonae
Academici, pp. 96-97): qui l’oscurità della formula, di cui egli tuttavia intuì l’importanza, era
interpretata sia in riferimento al culto dionisiaco (ἔριφος, ἐρίφιος erano epiteti greci di Dioniso),
sia con l’idea che il latte rappresentasse la Via Lattea, in quanto luogo nel quale il mystēs tornava ad abbeverarsi, dopo la morte, come infante alle mammelle della madre. Questa prima e
interessante suggestione, in piena consonanza con i versi pascoliani (che sembrerebbero in effetti un avallo poetico di tale lettura critica), fu negata dieci anni dopo da Solomon Reinach
sulla «Revue Archéologique»13. Paradossalmente, la pars destruens del Reinach è inesistente:
non solo egli non ha elementi per mettere in dubbio la proposta del Dieterich, ma ne rafforza
Il commento, che subito individua il carattere “mistico” del testo, è contenuto in un lungo resoconto archeologico
di Giuseppe Fiorelli, Notizie degli scavi di antichità (seduta del 15 giugno 1879), in «Atti della R. Accademia dei
Lincei, Anno CCLXXVI 1878-1879, Serie Terza Memorie (Notizie degli Scavi)», Volume III, pp. 297-338, in
part. pp. 329-331.
11
Nell’edizione di Pugliese Carratelli la tavoletta è catalogata II B 2. Thurii (pp. 112-113); secondo l’edizione
Bernabé è 487 F (pp. 51-54).
12
Se ne veda un bilancio recente in Gérard Lambin, «Je suis tombé dans du lait». À propos de formules dites
orphiques, in «Gaia» 18, 2015, pp. 507-519.
13
Cfr. Solomon Reinach, Une formule orphique, «Révue de Archéologique», s. terza, XXXIX, 1901, II, pp. 202212.
10
4
anzi il peso, allorquando osserva che il verbo ‘cadere’ è usato da Euripide specificamente per
la migrazione delle anime defunte e che ‘capretto’ è anche nome di una costellazione che si
trova ai piedi della Via Lattea. Se l’intento del Reinach era di dimostrare che la formula alludesse piuttosto a un tuffo dell’iniziato in una vasca piena di latte, dobbiamo ammettere che egli
non vi è riuscito: non esistono tracce del rituale da lui ipotizzato né fonti antiche ben informate
sui misteri, quale per esempio Clemente Alessandrino, vi fanno cenno14. La citazione del passo
euripideo dell’Elena (1013-1016) mostra, al contrario, che credenze circa la “caduta” delle
anime in cielo dovevano essere ben diffuse nel mondo greco:
καὶ γὰρ τίσις τῶνδ᾽ ἐστὶ τοῖς τε νερτέροις
καὶ τοῖς ἄνωθεν πᾶσιν ἀνθρώποις· ὁ νοῦς
τῶν κατθανόντων ζῇ μὲν οὔ, γνώμην δ᾽ ἔχει
ἀθάνατον εἰς ἀθάνατον αἰθέρ᾽ ἐμπεσών.
‘Infatti di ciò vi è sanzione che si applica sia ai defunti
sia a tutti i vivi: la mente
dei morti non sopravvive, ma ha consapevolezza
immortale quando cade nell’etere immortale’.
Per bocca della sacerdotessa Teònoe, figlia di Proteo, Euripide esprime la stessa idea delle
lamine auree, idea che potrebbe se non dimostrare, almeno giustificare un’interpretazione astronomica del ἐς γάλα ἔπετες15.
Alla luce di una seconda laminetta di Thurii, pubblicata ancora dal Comparetti (1880)16, si
rafforzano ulteriormente i rapporti tra volo dell’anima e caduta nella Galassia:
κύκλου δ̕ ἐξέπταν βαρυπενθέος ἀργαλέοιο …
ἔριφος ἐς γάλα ἔπετον.
‘Sfuggii dal cerchio di pesanti sofferenze, terribile …
Capretto caddi nel latte’.
Cfr. per queste critiche Gérard Lambin, «Je suis tombé dans du lait»., cit., p. 509. A dire il vero, le varie prospettive non ci sembrano inconciliabili perché potrebbe sussistere un duplice binario: simbolico, secondo cui il
latte significasse la Via Lattea, e rituale, secondo cui l’iniziato dovesse bagnarsi (senza necessariamente immergersi del tutto in una vasca) con tale bevanda per alludere al viaggio astrale della sua anima.
15
Recentemente l’interpretazione astrale del Dieterich è stata rilanciata da Daniel J. Jakob, Milk in the Gold Tablets
from Pelinna, in «Trends in Classics» 2, 2010, pp. 64-76: egli sottolinea che l’ariete e il toro balzanti nel latte
come varianti/aggiunte al capretto sono anche nomi di costellazioni (in lamina di Pelinna II B 3., Pugliese-Carratelli, pp. 114-120 e 485 F Bernabé, pp. 43-51).
16
Cfr. Domenico Comparetti, in Notizie degli scavi di antichità (seduta del 16 maggio 1880), in «Atti della R.
Accademia dei Lincei, Anno CCLXXVII, 1878-1879, Serie Terza Memorie (Notizie degli Scavi)», Volume V,
1880, pp. 361-422, in part. pp. 403-410. Il reperto, proveniente dal Timpone piccolo, di trova al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, n. 111625; mm 51x36 (= II B 1. Thurii Pugliese-Carratelli, pp. 102-111 e 488 F Bernabé,
pp. 55-61).
14
5
Sfuggire al ciclo delle vite è un volo (ἐξέπταν), raggiungere il cielo è una caduta (ἔπετον).
La radice di πέτομαι e πίπτω, come ben si sa, è una, *pet-, che in greco si divide in due sottofamiglie enantiosemiche da noi altrove esaminate17 e la cui duplicità fondamentale è ben presente al grecista Pascoli, allorché, con straordinaria maestria, egli immagina la folle corsa cosmica del fanciullo in La vertigine (Nuovi Poemetti), vv. 25-2818:
Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
Getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
A un nulla, qui, per non cadere in cielo!
La prospettiva è cambiata: il cielo qui non è affatto la sede luminosa dell’anima, che si accende quando il sole cade (cioè muore agli occhi umani) e neppure il luogo indifferente di
Leopardi (cadde, ma il suo cader non vide il cielo, Paral. V 46)19, ma piuttosto un abisso oscuro,
dantescamente denominato cupo (La vertigine, vv. 13-14):
Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo …,
che è il modo con cui Dante chiama il baratro infernale (Inf. VII 10-12):
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo.
E cupo torna, come aggettivo di profondità e colore, tanto ne L’anima (la notte agli occhi
umani/ innumerevolmente cupa?) quanto, di nuovo, ne La vertigine (in quel cupo vortice di
mondi …). I due componimenti si concludono però in divergenza: ne La vertigine la caduta
cosmica termina con un annientamento di nebulosa in nebulosa e la fredda luce degli astri non
consola il nichilismo radicale e assoluto del poeta; il finale de L’anima, invece, coglie un momento (e)statico, puro: non vi è minaccia di generazione e la morte rappresenta il risveglio
sereno20 alla vera vita, tra il latte puro delle stelle.
Cfr. Rosa Ronzitti, Due metafore del caso grammaticale. Aind. víbhakti- e gr. πτῶσις. Preistoria e storia comparata, Innsbruck: Innsbrucker Beiträge zur Sprachwissenschaft, 2014, pp. 170-172.
18
Apparsa per la prima volta in «Rassegna contemporanea» del gennaio 1908.
19
Per l’importanza di questo esametro nella fondazione di un’epica moderna cfr. Enrica Salvaneschi, Lo screzio
dell’epica, in Mario Negri et alii (a cura di), Il lessico della classicità nella letteratura europea moderna, Vol. II:
Epica e Lirica, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2012, pp. 809-897, in
part. p. 809.
20
L’aggettivo pascoliano riprende le Metamorfosi di Ovidio proprio nel punto in cui inizia la descrizione della
galassia: Est via sublimis, caelo manifesta sereno (I 168); a loro volta le Silvae di Stazio (I 2 51) parlano di serenati
qua stat plaga lactea caeli, cfr. Simona Musso, La Via Lattea dei Greci e dei Romani, cit. p. 88. Su Ovidio si veda
nel paragrafo subito seguente.
17
6
3. L’anima vive volando/cadendo nella Galassia, l’anima muore volando/cadendo dal cielo
alla terra e lascia dietro di sé una pista bruciata, scia di stelle: è il mito di Fetonte, che rappresenta il “polo del fuoco” (vd. supra) e che nella Meteorologia Aristotele ricollega alla galassiogenesi riferendo detti altrui (I viii 345a):
Fra i cosiddetti Pitagorici gli uni affermano che essa (la Galassia) è la traiettoria di uno
degli astri precipitati quando avvenne la famosa caduta di Fetonte, altri che il sole una
volta percorreva questo cerchio, come se questo luogo fosse stato bruciato o avesse subito
delle conseguenze del genere in seguito alla traslazione del sole21.
Diodoro Siculo (V 23), d’altro canto, nel narrare di Fetonte per spiegare l’origine dell’ambra
dalle lacrime cristallizzate delle sorelle Eliadi, ritiene che la Galassia ebbe origine quando il
giovane figlio del Sole perse il controllo del carro paterno e, sbandando, bruciò una parte del
cielo22.
In sostanza tale mito celebrerebbe la memoria di un grande evento catastrofico accaduto in
tempi ancestrali: la consapevolezza di una sua lettura allegorica sarebbe stata custodita dai Pitagorici (e da Platone)23, laddove però nel mondo classico la fruizione della celebre vicenda di
hybris punita è soprattutto letteraria ed etica.
Nel Ciocco (Canti di Castelvecchio), massima sintesi del pensiero astrale pascoliano24, tutta
la seconda parte del poemetto consiste in una riflessione sul destino della terra e dell’universo
che utilizza per un certo tratto la storia di Fetonte. Mai direttamente nominata ma chiaramente
allusa, fornisce lo spunto all’immagine del pianeta che, a guisa di carro impazzito, entra nel
sistema solare lasciando frammenti infuocati (II 61-78):
Ed incrociò con la sua via la strada
d’un mondo infranto, e nella strada ardeva,
come brillante nuvola di fuoco,
la polvere del suo lungo passaggio.
Ma niuno sa donde venisse, e quanto
lontane plaghe già battesse il carro
che senza più l’auriga ora sfavilla
passando rotto per le vie del Sole.
Né sa che cosa carreggiasse intorno
ad uno sconosciuto astro di vita,
allora forse su di lui cantando
Le traduzioni, con qualche modifica, provengono da Aristotele, Meteorologia, a cura di Lucio Pepe, Milano:
Bompiani, 2003.
22
Cfr. Simona Musso, La via Lattea dei Greci e dei Romani, cit., p. 94. Sull’ambra, di cui qui non trattiamo, cfr.
almeno Renzo Olivieri, Ricerche etimologiche e semantiche sulle denominazioni dell’ambra nelle lingue classiche, in «Rivista Italiana di Linguistica e Dialettologia» XVIII, 2016, pp. 85-104.
23
Nel Timeo (22c-d) Socrate distilla il mito in scienza, pur non accennando alla Via Lattea: ‘Quella storia che
presso di voi si racconta, vale a dire che un giorno Fetonte, figlio del sole …incendiò tutto quello che c’era sulla
terra … viene narrata sotto forma di mito, ma in realtà si tratta della deviazione dei corpi celesti che girano intorno
alla terra’.
24
Per la genesi de Il ciocco cfr. la ricostruzione accurata di Giuseppe Nava in Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, cit., p. 139 ss.
21
7
i viatori per la via tranquilla:
quando urtò, forviò, si spezzò, corse
in fumo e fiamme per gli eterei borri,
precipitando contro il nostro Sole,
versando il suo tesoro oltresolare:
stelle; che accese in un attimo e spente,
rigano il cielo di un pensier di luce.
Ci può essere davvero un’influenza del testo di Flammarion, che, nella bella traduzione italiana del Sergent-Marceau, risuonava con accenti di non minor angoscia:
Che cosa diventeremo noi? Urteremo noi qualche giorno un sole spento perduto come
uno scoglio sul nostro cammino?25.
Il raro verbo carreggiare, usato da Pascoli nel senso di ‘trasportare’ (transitivo)26, è ripresa
di un hapax dantesco (intransitivo) il cui retroterra mitico non lascia adito a dubbî (Pg. IV 72):
… la strada/
che mal non seppe carreggiar Fetòn …
La strada rappresenta ovviamente il percorso diurno del sole27 e la terzina ha un precedente
nel Convivio, quando Dante riporta le diverse opinioni dei filosofi sulla Galassia (II XIV 5):
E per la Galassia ha questo cielo similitudine grande colla Metafisica. Per che è da sapere
che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Ché li Pittagorici dissero
che ’l Sole alcuna fiata errò nella sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo
fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza dell’arsura: e credo
che si mossero dalla favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del [secondo del
suo] Metamorfoseos28.
Pascoli attinge pienamente alla fonte dantesca anche in L’ultimo viaggio. II. L’ala (Poemi Conviviali): qui carro e strada tornano, insieme, allorché Odisseo in persona osserva la costellazione
dell’Orsa Maggiore (ovvero il Grande Carro), le cui auree rote lievi sbalzar sulla/ tremola
ghiaia della strada azzurra. Detto carro, pur non essendo quello di Fetonte, procede sulla Via
Cfr. C. Flammarion, L’astronomia popolare, cit., p. 762.
Su tale verbo, attestato per la prima volta in una lettera fiorentina del 1291, cfr. la voce relativa dell’Enciclopedia
Dantesca a cura di Marco A. Cavallo, Vol. I: A-CIL, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 19842, p. 851 e Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Vol. II BALC-CERR,
Torino, UTET, 1962 [rist. 1980], p. 797. Altre attestazioni notevoli sono in Torquato Tasso, La fenice (Rime sacre
e morali): Quando dell’incendio i segni adusti/ nel Ciel lasciò, nel carreggiar Fetonte,/ sicuro il loco fu da quelle
fiamme. E ancora in Giovan Battista Marino (Le dicerie sacre: diceria terza, 1614), Non voglio che Fetonte od
Icaro la mia incauta temerità mi faccia, onde per sì alte e malagevoli vie venga a sinistrare il diritto sentiero, o,
carreggiando là dove per soverchio ardimento salsi, per poco accorgimento precipiti.
27
Cfr. p. es. tra i molti Natalino Sapegno (a cura di), Dante Alighieri, La Divina Commedia, Vol. II: Purgatorio,
Firenze: la Nuova Italia Editrice, 1979, pp. 40-41.
28
Si veda la voce Galassia a cura di Buti, Giovanni – Renzo Bertagni, in Enciclopedia Dantesca, cit., Vol. III: FM, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 19842, p. 85 e il mio Pertinenze linguistiche e filosofiche di un capolavoro pittorico, cit., pp. 148-149.
25
26
8
Lattea, immaginata come ghiaia azzurrina solcata da ruote. Stretta è la corrispondenza con il
medesimo luogo del Purgatorio appena citato: infatti, pochi versi prima di nominare Fetonte,
Virgilio, spiegando la posizione del sole, menzionava insieme Orse (costellazioni), ruote e carreggiate celesti (Pg. IV 64-66):
tu vedresti il Zodiaco rubecchio
ancora a l’Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio …
La terzina anticipa il successivo la strada/ che mal non seppe carreggiar Fetòn, il quale
Fetonte, appunto, fece uscire il sole dal cammin vecchio, provocando una catastrofe di dimensioni immani, che nell’Inferno era già stata ricordata come “cottura” del cielo (Inf. XVII 106108):
Maggior paura non credo che fosse
Quando Fetonte abbandonò li freni
perché ’l ciel, come pare ancor, si cosse29.
A testimonianza degli intarsi danteschi contenuti nel Ciocco stanno anche i versi II 160-163:
Io guardo là dove biancheggia un denso
sciame di mondi, quanti atomi a volo
sono in un raggio: alla Galassia …
terzina pascoliana che tutta rievoca una terzina del Paradiso (Pd. XIV 97-99) nella quale si
menzionano i dubbî dei saggi circa la vera natura della Via Lattea30:
Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi.
E dunque carreggia (v. 69) e biancheggia (v. 160), verbi in rima riservati dall’Alighieri alla
Galassia, sono ne Il ciocco preziose spie di quanto la visione cosmica del poemetto debba al
cielo della Divina Commedia.
Come abbiamo visto dalla citazione del Convivio, Dante riposa su Ovidio, che rappresenta
il più importante locus classico per il mito di Fetonte (l’ultima parte del libro primo e gran parte
del libro secondo delle Metamorfosi sono ad esso dedicati). Pascoli, a sua volta, ne trae ampia
ispirazione. Nelle Metamorfosi la narrazione si incentra sulla folle corsa dell’incauto giovinetto
attraverso il cielo sul carro paterno, sul rapido attraversamento delle costellazioni ‒signa mostruosi in agguato fra le plaghe dell’universo‒ e sul senso di terrore (gelida formidine, Met. II
Altre allusioni al mito in Pg. XXIX 115-120; Pd. XVII 1-6; XXXI 124-129.
Le varie e contrastanti teorie che rendono perplessi i sapienti sono quelle che Dante elenca nel Convivio subito
dopo aver menzionato Fetonte (vd. supra e, in extenso, Rosa Ronzitti, Pertinenze linguistiche e filosofiche di un
capolavoro pittorico, la rappresentazione della Via Lattea nella Fuga in Egitto di Adam Elsheimer (1609), cit.,
pp. 148-149).
29
30
9
200) che a poco a poco emerge allorché i cavalli diventano indomabili: ciò può aver suggerito
al Pascoli la potente immagine della terra che rotola impazzita fra gli astri31. Le leggi della fisica
astronomica hanno un correlativo psicologico, poiché corrispondono a sentimenti di angoscia
estrema che coinvolgono tutto il cosmo, terminando in un gigantesco scontro di mondi e costellazioni in volo, anzi caduta (II 216-218):
all’infinito lor volo li impenni,
anzi no, li abbandoni all’infinita
lor caduta: a rimorir perenni …
Nella stupenda immagine delle stelle cadenti, definite con sintagma anagrammatico tesoro
oltresolare, che rigano il cielo di un pensier di luce, cogliamo ancora un riferimento alle Metamorfosi, quando la morte di Fetonte è paragonata al cadere di una stella (Met. II 319-322) e il
giovinetto precipita (cade) come ne La vertigine:
Phaethon rutilos flamma populante capillos
volvitur in praeceps longoque per aera tractu
fertur, ut interdum de caelo stella sereno,
etsi non cecidit, potuit cecidisse videri.
4. La fantasia del Pascoli si alimenta anche della tradizione popolare: la Via Lattea è intesa
dal popolo ingenuo come processione di anime defunte, una delle quali può andare a cercare un
vivente per condurlo con sé. Su tale credenza si basa Suor Virginia (Primi Poemetti)32, storia
delle ultime ore di una monaca chiamata in cielo dalle undicimila vergini martirizzate di Santa
Ursula.
La fila di anime femminili, capeggiata da San Pasquale Baylon che bussa per annunciare la
morte, è descritta nella sezione V e ha tutte le caratteristiche della Via Lattea: è luminosa (con
le lampade fornite/ d’olio odoroso), si snoda in cielo bianca (colore mortuario), nastriforme,
esalante (camminando in fila;/ di bianco lino, come lei, vestite, V 3-4; … erano un nastro/
bianco, ondeggiante, a un alito, pian piano/ nel cielo azzurro tra la terra e un astro, V 7-9) e
passa come gli Ave a grano a grano/ d’una corona (V 10-11), finché Ursula stessa non batte
tre volte alla porta celeste per garantire l’ingresso della nuova arrivata: E in terra Suor Virginia
intese/ quei colpettini al grande uscio del cielo (V 21-22).
Raffinatissima appare la teoria delle giovani donne gigliate (E le dicean parole/ di sotto il
giglio che teneano in mano, V 11-12), per la quale non possiamo limitarci a rilevare la pur
evidente aderenza al gusto liberty del primo Novecento33 o a richiamare una poesia di Myricae
sui gigli34. In primo luogo la teoria delle vergini manifesta un chiaro influsso iconografico bizantino, ovvero il mosaico d’oro delle 22 vergini martiri rappresentato a Sant’Apollinare Nuovo
E probabilmente si legge qui anche un’eco del mito della giovenca Io perseguitata dall’estro: e rotolava tutta in
sé rattratta/ per la puntura dell’eterno assillo (II 11-12).
32
Il componimento, diviso in sei sezioni, apparve per la prima volta su «La Riviera Ligure» del gennaio 1903.
33
Sui rapporti fra il Pascoli e l’arte liberty cfr. Maurizia Migliorini, Strofe di bronzo. Lettere da uno sculture a un
poeta simbolista. Il carteggio Bistolfi-Pascoli, Nuoro: Ilisso, 1992.
34
Cfr. I gigli, in strofe saffiche di tre endecasillabi e un quinario, apparsa in MY5: emerge un rapporto privilegiato
tra il mondo dei morti e questi fiori, che escono ancora a biancheggiar (v. 10), come la Via Lattea de Il ciocco
(vd. supra).
31
10
in Ravenna (Fig. 1)35; in secondo luogo il passo presuppone e reinterpreta l’archetipo omerico
della ‘voce di giglio’ (Iliade III 151) e, cosa ancora più interessante, lega il giglio alla Via Lattea
come nella raccolta bizantina intitolata Geoponica (X secolo)36: solo in questo testo si attribuiscono al latte sparso da Era tanto la nascita della Galassia in cielo quanto quella dei gigli in
terra e viene creata una corrispondenza fra stelle e fiori sulla base del comune candore (XI
19,1):
Ἐμπλησθὲν δὲ τὸ βρέφος τοῦ γάλακτος ἀπέστησε μὲν τὸ στόμα τῆς θηλῆς, ἔρρει δ’ ὅμως
τὸ γάλα ἀφθόνως, καὶ τοῦ παιδὸς διαστάντος, ἐν οὐρανῷ τε διαχυθέν, τὸν λεγόμενον
γαλαξίαν ἀπειργάσατο, ἐν τῇ γῇ δὲ ἀπορρυὲν, καὶ τὰς βώλους δεῦσαν, ἄνθους τὸ τοῦ
κρίνου ἀνέδωκε προσεοικὸς τὴν χρόαν τῷ γάλακτι.
‘Il bimbo, sazio di latte, distolse la bocca dal capezzolo: scorreva il latte a profusione e,
essendosi ritratto il fanciullo, il latte versato in cielo produsse quella che è detta Galassia;
riversato a terra imbevve le zolle e produsse il fiore del giglio, simile per colore al latte’.
Le metafore che il Pascoli inanella nel descrivere la soave e inquietante processione di donne
morte sono altrettanti riferimenti a un mondo astrale rivissuto e rinominato che oscilla tra culture raffinate e credenze popolari e il cui confine con più elevate riflessioni scientifiche non è
netto. Si prenda, al v. V 8, quell’alito che sale al cielo: parola quanto mai cara al poeta, essa
riconduce alla sfera del respiro, dell’anima, ma anche al sottile e incorporeo trait d’union tra
vivi e morti rappresentato dal corteo luminoso di anime ascendenti. Subito viene in mente una
poesia fortemente emblematica, L’imbrunire (Canti di Castelvecchio): qui il Pascoli stabilisce
una serie di corrispondenze, un amoroso dialogo, fra terra e cielo, vivi e morti, pianeti e finestre,
case e stelle e infine, tra la Galassia e l’errante fumo d’ogni focolare, che ricopre lo spazio tra i
mondi come un grigio velo. La Galassia è fumo, nebbia e nube come in tanti iconimi popolari
del territorio romanzo37. E la metafora prosegue, poiché, nei versi conclusivi de L’imbrunire,
essa
si esala nel cielo, per la tremola serenità.
La terminologia impiegata sembra proprio una ripresa (eco, ri-creazione mnestica?) del lessico meteorologico di Aristotele, per il quale καπνός ‘fumo’ e ἀναθυμίασις ‘esalazione’ descrivono la natura delle masse di vapori che, scontrandosi con lo strato inferiore dell’etere, danno
vita ai vari fenomeni “meteorici”, tra i quali lo Stagirita, a torto, annoverava anche la Galassia.
Proseguendo nella lettura di Suor Virginia, notiamo le sottili suggestioni astrali insite nel
paragone tra ogni vergine morta e i grani del rosario, grani luccicanti perché illuminati dalla
candela che ciascuna vergine reca nella conca “bizantineggiante” di alabastro (V 5-6 e 10-11):
nelle pallide conche d’alabastro
35
Le vergini sono guidate da Sant’Eufemia, indossano vesti d’oro e veli candidi. Reggono ciascuna una corona e
dietro di esse sono istoriate 22 palme del martirio.
36
Ma i Geoponica hanno sicuramente un nucleo risalente al VI sec. d.C. e attribuito a Cassiano Basso (cfr. Simona
Musso, La Via Lattea dei Greci e dei Romani, cit., p. 38).
37
Sul tipo ‘nube’ cfr. Hermann Rotzler, Die Benennungen der Milchstrasse im Französischen, cit., pp. 38-47 e
Remo Bracchi, Le vie del cielo, «L’immagine riflessa» 16, 2007, pp. 145-160.
11
portando accese le lor dolci vite
…
passando, come gli Ave a grano a grano
d’una corona. …
La prima immagine parrebbe un’allusione all’anima di Cacciaguida, un’anima stella, un Fetonte senza precipizio (Pd. XV 16-24):
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì risplende;
né si partì la gemma dal suo nastro
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Si è appropriatamente pensato che l’ispirazione per la similitudine del foco venisse a Dante in
Ravenna dal mausoleo bizantino di Galla Placidia, chiuso da finestre alabastrine38: e così si
realizza una altro circuito dantesco-pascoliano, indubitabile, del resto, dato che la triplice rima
alabastro-astro-nastro è ripresa, con ordine invertito, nella quinta sezione di Suor Virginia (vd.
supra).
Anche grano si rivela parola-chiave per scendere nelle profondità dei testi, perché non solo
il cereale rappresenta sulla terra il ciclo della vita e della morte e l’elemento che nutre gli uomini
con il pane, ma è anche figura degli astri. Si pensi a i granai del cielo, ogni cui grano è un
mondo de Il ciocco (II 232). Nelle culture contadine, in base a quel principio delle corrispondenze prima evidenziato, l’intera vita dei campi è trasferita in cielo: la volta celeste è un’aia, le
stelle chicchi lucenti di grano, semi sparsi nel cosmo attraversando il quale precipita il fanciullo
de La vertigine:
quel seminio, quel polverio di stelle!
Il tema del ciclo del grano, fortemente sentito nei Primi e nei Nuovi poemetti, si fonde con
le suggestioni neoplatoniche e orientali che informano la visione finale de Il ciocco: come la
spiga muore e rinasce, come il grano si trasforma in pane e farina così i mondi collideranno e
andranno a seminare (II 212) di rottami il cielo, sicché il loro polverio (II 248) ‒che rima con
il seminio di La vertigine‒ potrà rivelarsi di nuovo fecondo.
Il cielo che Pascoli immagina come una grande aia trova ampio riscontro negli iconimi popolari. Rientra per esempio in questo campo figurale la famosissima sinestesia del Gelsomino
notturno (Canti di Castelvecchio) che allude alla costellazione delle Pleiadi:
Cfr. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Dante, Divina Commedia, Paradiso, Firenze: Le Monnier, 1988, p.
249.
38
12
la Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Il tipo ‘chioccia (con pulcini)’ per denominare le Pleiadi è quello di maggior diffusione,
dentro e fuori l’area romanza (e senz’altro in Toscana), con varianti quali ‘pulcinaia’, ‘gallina’,
‘pitta’, ‘covatrice’, ‘polla’39. Le Pleiadi rimandano però anche al ciclo del grano. È infatti molto
diffuso l’iconimo ‘setaccio’, ‘crivello’40, che per mutuazione indicherebbe in Lombardia anche
la Via Lattea41 e che comunque si rintraccia in varie parti del mondo, con due punti di addensamento: l’area baltica e del medio-Volga42 e l’India settentrionale: il nome sanscrito delle
Pleiadi, kr̥ttikā, ha probabilmente la medesima radice di lat. cribellum (da kr̥t- ‘suddividere,
tagliare’)43.
Il rapporto tra stelle e setaccio viene variamente spiegato dal folklore: in Lituania, terra in
cui le Pleiadi sono appunto denominate Sietas ‘setaccio’, si narra che i diavoli rubarono alla
Vergine il setaccio per la farina che, recuperato da San Marco, fu appeso al cielo ormai irreversibilmente danneggiato e deforme44. Se ne deduce che non di rado nelle culture agricole le stelle
sono concepite come farina sparsa in cielo e che il Pascoli recuperi, con il suo genio immaginifico, l’universo metaforico che sottende alla creazione di tali leggende, unendolo alle riflessioni
su morte e rinascita proprie invece di un pensiero filosofico strutturato.
5. Anche La morte del Papa (Nuovi Poemetti) è basata, e in modo ancora più esplicito, sulla
credenza che la Via Lattea sia la strada percorsa dalle anime durante l’ultimo viaggio. La protagonista, un’anziana contadina della Lucchesìa, è convinta di dover morire insieme al papa
Leone XIII, col quale condivide la data di nascita (2 marzo 1810).
La notizia dell’agonia papale induce la nonna a preparare le ultime cose per lasciare il mondo
in pace. Dopo aver mangiato con il figlio e un bisnipote e dopo aver disposto dei suoi pochi
averi e del funerale, ella si corica attendendo che il sagrestano giunga, seguìto da una processione di oranti (femminile, canora e luminosa come in Suor Virginia) nella quale già si prefigura
la Via Lattea (X 13-15 e 19):
[se vedesse alfine]
salir di qua e là tante stelline
salir cantando, con in mano un cero,
39
Pascoli usa Chioccetta ancora negli ultimissimi versi de Il ciocco (II 262) insieme a i Mercanti (Orione). Cfr.
Carlo Volpati, Nomi romanzi degli astri Sirio, Orione, le Pleiadi e le Iadi, in «Zeitschrift f. romanische Philologie»
LII, 1932, pp. 152-211 e in particolare 194-195; Paola Capponi, La stella perduta: le Pleiadi nella tradizione
mitologica e popolare, Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2010, pp. 130-135 e 157-166.
40
Cfr. Carlo Volpati, Nomi romanzi degli astri Sirio, Orione, le Pleiadi e Iadi, cit., soprattutto pp. 206-207: i punti
sono in Val di Non (crivel), Oneglia (seiasetto), Solaro, Mi (kavano).
41
Cfr. crivel a Castello e Villazzano (Trentino), in Carlo Volpati, Nomi Romanzi della Via Lattea, cit., p. 51, vicino
al crivel registrato in Val di Non per le Pleiadi (vd. alla nota precedente).
42
Cfr. Yuri Berezkin, The Pleiades as Openings, the Milky Way as the Path of Birds, and the Girl on the Moon:
Cultural Links across Northern Eurasia, in «Folklore. Electronical Journal of Folklore» 44, 2010, pp. 7-34.
43
Cfr. Marcello De Martino, Le divine gemelle celesti. Sacertà del fuoco centrale e semantica dell’aurora nella
religione indoeuropea, Lugano: Agorà & Co., 2017, pp. 796-797.
44
Cfr. Jonas Vaiškūnas, The Pleiades in Lithuanian Ethnoastronomy, in «Actes de la Vème Conférence Annuelle
de la SEAC», Warszawa-Gdansk: Dép. d’Anthropologie Historique, Institut d’Archéologie de l’Université de Varsovie: Musée Maritime Central, 1997, pp. 225-238.
13
una fila di donne e di bambine.
…
Quante candele c’erano al sogliare!
E lo sguardo della morente trapassa dalla terra al cosmo. Alzando gli occhi negli ultimi attimi, la nonna riconosce da sola il percorso da intraprendere (XI 1-9):
E levò gli occhi, e ravvisò la strada,
nel cielo azzurro, tra le stelle ardenti
bianca ma quasi molle di rugiada,
la tacita sul sonno delle genti
strada di Roma. Un tratto ne lucea
nel breve spazio in mezzo ai due battenti:
un sentieròlo con una macea,
lassù nel cielo: un pallido biancore
presso le stelle di Cassiopea.
‘Strada di Roma’, insieme a ‘Strada di San Giacomo’, è forse l’iconimo popolare della Galassia più diffuso sul territorio romanzo45, già assunto in poesia dall’abate Zanella nel suo Milton e Galileo (1868, I 170-172), che il nostro pare qui aver presente:
In cielo
v’ha di stelle una via, che via di Roma
disser le genti46.
Di per sé il tipo ‘strada/via di Roma’ sembra maggiormente attestato sul versante adriatico
dell’Italia, ma la sua presenza in area còrsa (Cargese e Porto Vecchio) e le varianti toscane Via
Romana fanno pensare a un’estensione territoriale molto più ampia. La denominazione era comunque presente anche nei dialetti romagnoli e quindi di certo nota al Pascoli47.
In accordo a una lingua che rispecchia intimamente i pensieri e le percezioni di un’anziana
e umile contadina, la strada celeste è poi definita un sentieròlo, un vïotterello; nel lessico familiare e dialettale della donna, tuttavia, il poeta inserisce citazioni coltissime: il sentieròlo che è
breve spazio in mezzo a due battenti ha di nuovo dietro di sé la mitologia pitagorica e neoplatonica della Galassia come porta delle anime48. La metafora stessa del sentiero richiama un
Cfr. Carlo Volpati, Nomi romanzi della Via Lattea, cit., p. 8 e passim (la carta dell’Atlante Italo Svizzero, purtroppo assai scarsa e lacunosa con soli 24 punti rilevati, è poco utile, cfr. Karl Jaberg – Jakob Jud, Sprach- und
Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen: Bern, 1928-40, II 362). Su San Giacomo di Compostella, santuario cattolico galiziano che nel Medioevo divenne centro di intensi pellegrinaggi, si vedano anche Luigi M.
Lombardi Satriani – Mariano Meligrana, Il ponte di San Giacomo, cit., p. 70 e ss.
46
La citazione è còlta dal Getto in Giovanni Pascoli poeta astrale, cit., p. 67. Per il Getto Milton e Galileo rappresenta il più notevole tentativo di poema cosmico prima de Il ciocco.
47
Cfr. Carlo Volpati, Nomi romanzi della Via Lattea, cit., pp. 25-26 e Manlio Cortelazzo, Convergencies and
Divergencies (Based on Alm Material), in Braj B. Kachru et alii (eds), Issues in Linguistics. Papers in Honor of
Henry and Renée Kahane, Urbana Chicago London: University of Illinois Press, 1973, pp. 114-125, in part. p.
116.
48
La credenza è ricordata da Porfirio (Da antro Nympharum 28, vd. supra). Sulle porte celesti si veda anche anche
Simona Musso, La Via Lattea dei Greci e dei Romani, cit., p. 66 ss. Le porte celesti, immagine ingenua a livello
popolare, hanno invece nel pensiero astronomico una precisa localizzazione nei punti in cui la Galassia interseca
obliquamente i segni solstiziali di Cancro e Capricorno, rispettivamente porta della discesa agli inferi e della salita
al cielo. Macrobio, riprendendo Porfirio, espone tale dottrina nel suo commento al Somnium Scipionis (I 12 1).
45
14
celebre ascendente maniliano che il Pascoli non poteva non conoscere: ac veluti virides discernit semita campos, quam terit assiduo renovans iter orbita tractu ‘e come un sentiero, che la
ruota rinnovando il passaggio logora con traccia continua’ (Astronomica I 705-706). Sono, questi, due esametri di un lungo brano in cui Manilio passa in rassegna tutte le teorie galassiogeniche a lui note, senza distinzione tra mito e scienza, comprendendo tanto il mito di Fetonte
quanto le credenze pitagoriche sull’anima astrale.
La tormentata sensibilità pascoliana vede però il sentiero circondato da muriccioli in rovina
(con una macea)49. La strada percorsa dalla processione di anime e dal Papa stesso, che nello
stupendo finale del poemetto vi incontrerà la nonna –entrambi tornati bambini–, si rivela proprio l’alta sui burroni dell’Infinito ignota Galaxìa. Burrone, baratro (La vertigine) e borro (Il
ciocco) sono parole predilette per rappresentare la profondità assurda del cosmo, uno spazio
senza appigli, pieno di buchi, cava ombra (Il ciocco II 19) come la caverna platonica della non
conoscenza. Val la pena di ricordare che nella Meteorologia aristotelica χάσματα τε καὶ βόθυνοι
si aprono nella vòlta celeste per contrazioni dell’aria condensata (I 5, 342a), sicché il cielo sublunare immaginato dallo Stagirita non è affatto omogeneo, bensì disseminato di voragini che
compaiono e scompaiono secondo la contrazione dell’aria, un percorso fatto di trappole lontano
dalla serenità cristallina dell’etere, un paesaggio dissestato che Pascoli traspone a tutto il cosmo.
6. Ne La pecorella smarrita (Nuovi poemetti), composizione in terzine che il Getto giudica
fra le più significative della poesia cosmica50 –collocata poco dopo La morte del Papa–, si trova
un altro accenno, indiretto ma suggestivo, al tema dell’aia celeste. Un frate in attesa del Natale
alza lo sguardo verso la volta stellata ed è travolto dalla visione dei baratri profondi/ colmi di
stelle … ./ Mucchi di stelle,/ grappoli di mondi, nebbie/ di cosmi51. Di fronte agli abissi celesti
egli ha netta la percezione della terra come nullità piena di male, foglia secca … scheggia,
grano, favilla. Non lo consola il quadretto natalizio di capanne, monti e pastori zufolanti che
avanzano verso di lui (III 13-15):
In cielo e in terra tremulo uno sciame
era di luci. Andavano al lamento
della zampogna, e fasci avean di strame.
È la terza volta che incontriamo la figuralità processionale: in Suor Virginia e La morte del
papa abbiamo rilevato come l’idea di un corteo luminoso che si snoda fra cielo e terra rimandi
strettamente alla Via Lattea e alle anime-stelle. In Suor Virginia si tratta di vergini soavi e
canore, qui di pastori con la zampogna che scendono dai monti. Ogni vergine reca un lume, un
giglio e una conca di alabastro; ogni pastore52 reca un fascio di paglia tagliata e una lanterna.
Suggeriamo un sottaciuto legame tra giglio e paglia, nel senso che anche la paglia è uno dei
grandi comparandi della Via Lattea in numerose culture antiche e rurali estese dalla Sardegna
fino all’Asia centrale. Si tratta di un Leitmotiv famoso: quello del furto celeste di un mannello
Si tratta di un toscanismo per maceria.
Cfr. Giovanni Getto, Giovanni Pascoli poeta astrale, cit., pp. 68-70.
51
Il personaggio si ispira a un corrispondente del Pascoli, il padre Teodosio Somigli di San Detole, e ad alcuni
dubbî da lui espressi sul valore del messaggio cristiano alla luce delle nuove teorie sull’infinità dei mondi.
52
Si noti che in Suor Virginia San Pasquale Baylon, che devìa dalla sua strada per bussare all’uscio della moritura,
era in vita un pastore e quindi le vergini sono ora il gregge (IV 7) da lui condotto in cielo.
49
50
15
di paglia che, sparsa in cielo, avrebbe formato la Galassia53. Il corpus di iconimi e leggende
sulla paglia astrale è copiosissimo, ma diffuso a livello popolare e orale piuttosto che colto e
letterario. Le denominazioni sul territorio italiano sono:
(b)ía dessa ƀádza (dessa ƀálla), Sardegna
pagghie de sande Petre, Puglia (Molfetta)
Fuori dall’Italia:
mangad zaḥasar ‘strada di paglia’ (Etiopia, lingua gəʽəz)
pimoit ente pitoh ‘strada di paglia’ (copto)
abrid b-ualim ‘il cammino di paglia’ (varietà berbere)
ṭarīq al-tibn ‘sentiero della paglia’ e darb al-tābānīn ‘sentiero dei portatori di paglia tagliata’
(arabo colloquiale)
šeḇīlā d-teḇnā ‘strada di paglia’ (siriaco)
yardgołi het ‘percorso del ladro di paglia’ (armeno classico)
tɛrmanuköli čǝnapar ‘strada del ladro di paglia’ (armeno orientale, Karabakh)
rāh-e kā̌hkašān ‘via del tirapaglia’ (persiano)
saman-oǧrısı ‘ladro di paglia’ (turco osmanlɩ)
baba cu pajle ‘vecchia con le paglie’ (romeno, Maramureș)
kumova/ kumoskva slama ‘paglia del padrino’ (serbo, croato, macedone)
popova slama ‘paglia del prete’ (bulgaro)
τὸ ἄχυρο τοῦ παπᾶ ‘paglia del prete’ (neogreco).
Il mitologema è registrato con numerose varianti e sicuramente precristiano, nonostante la
recenziorità di tutte le attestazioni: lo dimostra sia una rara testimonianza armena che attribuisce
il furto di paglia a una divinità armena (il dio indoiranico Vahagn)54 sia una leggenda egizia (o
greco-egizia) riportata nel 1643 dal padre gesuita Athanasius Kircher, secondo la quale Iside,
fuggendo da Tifone (Seth), gli avrebbe gettato fra le gambe un mannello di paglia, generando
e nominando la Via Lattea:
Riprendo in questo paragrafo alcuni temi già apparsi in «Ereticamente» 1-03-2019 nel mio contributo intitolato Simbolismi pagani e cristiani della Via Lattea nel quadro “La fuga in Egitto” di Adam Elsheimer (1609).
54
Il testo modernizzato (che si legge in James R. Russell, Zoroastrianism in Armenia, Cambridge (Mss.): Harvard
University Department of Near Eastern Languages and Civilizations and National Association for Armenian Studies and Research, 1974, p. 170) è il seguente: “Certain of the earliest men of the Armenians said that during a bitter
winter (i xist jmeṙayni), Vahagn, the ancestor of the Armenians, stole straw (gołacʽaw zyardn) from Baršam, the
ancestor of the Assirians, which [straw] we have become wont in science to call the Trail of the Straw thief
(yardgołi het)”. La notazione stagionale (‘il rigido inverno’) lascia immaginare che la paglia trafugata servisse ad
accendere il fuoco e dà una coloritura “prometeica” al mito armeno.
53
16
Fingunt enim (scil. Aegyptii) Typhonem Isidis fugientis fasciculum aristarum sibi obiectum in caelo dispersisse, unde & plagae illi (cioè alla Galassia) via straminis nomen in
hunc diem mansit55.
Nelle versioni cristianizzate il furto della paglia è compiuto o subìto da personaggi magicoreligiosi quali santi, padrini e preti. In Romania una certa Santa Vinire, ovvia cristianizzazione
di Venere (cioè Iside), avrebbe addirittura trafugato la paglia al proprio figlio, San Pietro56.
Sul polo alto della riflessione scientifica, tornando quindi alla fondamentale Meteorologia
aristotelica, troviamo che paglia, stoppie e campi, a causa della facile infiammabilità, sono volentieri utilizzati per chiarire con esempî concreti diversi tipi di fuochi celesti, tra cui le stelle
cadenti e altri fenomeni meteorici difficili da identificare ma sicuramente generati da combustione atmosferica (I VII, 344a):
Quando … una scintilla si incontra con un tale stato di condensazione dell’esalazione, se
tale scintilla non è così forte da infiammare velocemente ed in gran quantità, né tanto
debole da estinguersi subito … si produce una stella chiomata, la cui forma dipende da
quella assunta dall’esalazione: se questa è infatti uniformemente estesa si avrà una cometa, se è estesa in profondità si avrà una stella barbuta. E proprio come tale moto sembra
essere la traslazione di una stella, se si avrà una stasi sembrerà che vi sia una stella fissa;
un fenomeno simile si verificherebbe cacciando una torcia in un gran mucchio di paglia
o lasciandovi cadere una piccola scintilla (οἷον εἴ τις εἰς ἀχύρων θημῶνα καὶ πλῆθος
ὤσειε δαλὸν ἢ πυρὸς ἀρχὴν ἐμβάλοι μικράν): la caduta di stelle si manifesta in modo
analogo.
7. Se, come abbiamo detto, la parola del poeta è scandaglio, specillo, sonda, nel Pascoli essa
si immerge profondamente nel mondo classico e nel mondo contadino per trarne una materia
antica e sempre nuova. Ma il tutto è reinterpretato secondo uno spirito inquieto che cercava
nella contemplazione del cosmo una risposta al dolore proprio e dell’umanità. La speranza di
una rinascita astrale domina sì poesie come L’anima e Il ciocco, informate da un pensiero neoplatonico e palingenetico, epperò il sentimento del poeta sconfina facilmente nella paura
dell’abisso infinito e nella tragedia del male universale (La vertigine, La pecorella smarrita).
La Via Lattea stessa assume quindi valenze molto diverse: accoglie le anime e la fa rinascere;
è testimonianza della hybris fetontea che provoca catastrofi di mondi innocenti; è strada fatta
di morti in processione, soavi forse, ma agghiaccianti.
Nell’opera del Pascoli le distinzioni tra colto e popolare, élitario e collettivo sono annullate,
come se egli tornasse alle fonti comuni del pensiero umano prima che esso si diversificasse in
mitologia, religione, scienza e credenze: similitudini, metafore e denominazioni della Via Lattea pascoliana fanno rivivere nel momento della creazione poetica millennî di riflessioni e leggende pregresse che ci restituiscono un immaginario davvero affascinante e sfaccettato.
Athanasius Kircher, Prodromi et Lexici Copti Supplementum, Lingua Aegyptiaca Restituta. Opus Tripartitum,
Romae: Sumptibus Hermanni Scheus 1643, caput V, p. 560. La fonte del mito non è riportata.
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Cfr. Albert Schott, Walachische Märchen, Stuttgart und Tübingen: J.G. Cotta 1845, p. 285
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Fig. 1. Sant’Apollinare Nuovo (Ravenna), navata sinistra: la processione delle vergini martiri (VI sec. d.C.).
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