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Consumismo, esclusione sociale, violenza. Versione aggiornata

Qualche politico ciarlatano, qualche imbonitore ideologizzato ci inducono a pensare che la nostra forma di società sia la migliore possibile. La più equa. Forse anche la più cristiana. Molti inoltre asseriscono che il motore dell'economia sia il consumo. E fanno di tutto perché si consumi il più tanto possibile, per il bene, dicono, dell'economia del paese. Ma è vero tutto ciò? E soprattutto: ha qualcosa ha che fare con i valori cristiani oppure assolutamente no? 1) Beni egoici La società dei consumi spinge costantemente in ogni modo, come via verso la felicità, all'acquisto dei prodotti che il mercato propone. Educato da ogni tipo di condizionamento mediatico all'idea che tutto ciò che si presenta come ottenibile sia un sacrosanto diritto ad avere, il singolo si convince facilmente che l'esercizio della sua libertà coincida con la realizzazione dei suoi desideri di consumo. Ogni ostacolo a questa soddisfazione viene interpretato come ostacolo alla libertà. Un diritto inalienabile, di fronte a cui tutto il resto passa in secondo piano. Pensare per sé, pensare a sé, nella costante ricerca della felicità consumistica, è l'orizzonte di valore della società moderna. La persona si abitua a considerarsi soprattutto soggetto di diritti di consumo. Meglio ancora, del diritto al possesso di cose ed oggetti acquisibili attraverso il potere economico, vale a dire il denaro. Ciò che conta può essere acquistato. Lo dice il mercato, lo dice la pubblicità, lo dicono i modelli che la società dei consumi propone costantemente. Questo bombardamento di suggestioni che pian piano divengono verità accettate da tutti, ovvie, naturali, oscura prepotentemente ogni altro valore che afferisca a visioni diverse dell'essere umano, a diverse concezioni della felicità, della relazione con gli altri, insomma, per dirla con la filosofia cristiana, a diverse concezioni del buono, del giusto, del bello. La dimensione della gratuità, ad esempio, che sta alla base della relazione umana di amore ed amicizia, non ha cittadinanza in questo sistema. Il fare, l'agire, l'esistere per motivi differenti dal tornaconto personale non sono compresi o vengono considerati con sospetto. La capacità di relazione con l'altro, la cui espressione somma consiste nell'amore, che è gratuita autodonazione, in questo modo si atrofizza e muore. L'uomo vive così in maniera sempre più egocentrica, narcisistica, intento ad una felicità solitaria ed equivoca, perché concentrata sui suoi desideri e sui suoi diritti al godimento di beni privatistici. "L'acquisizione dei beni materiali può condurre alla cupidigia, al desiderio di avere sempre di più e alla tentazione di accrescere la propria potenza... Avere di più, per i popoli come per le persone, non è dunque lo scopo ultimo. Ogni crescita è ambivalente. Necessaria onde permettere all'uomo di essere più uomo, essa lo rinserra come in una prigione, quando diventa il bene supremo che impedisce di guardare oltre. Allora i cuori s'induriscono e gli spiriti si chiudono, gli uomini non s'incontrano più per amicizia, ma spinti dall'interesse, il quale ha buon gioco nel metterli gli uni contro gli altri e nel disunirli. La ricerca esclusiva dell'avere diventa così un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale". 1 E', questo, un benessere che si può definire egoico. I beni egoici non sono da condividere. Sono essenzialmente privatistici, come gli ideali che ne stanno alla base. Si possono riassumere in quattro forme di desiderio: 1) desiderio di ricchezza, 2) desiderio di potere, 3) desiderio di prestigio/successo/celebrità, 4) desiderio di piacere. La loro affannosa ricerca trasforma la società intera in una folla di individui 2 in corsa per accaparrarsi il maggior numero possibile di oggetti. La corsa però implica anche una gara dove gli altri sono concorrenti,

Consumismo, esclusione sociale, violenza (versione aggiornata) Qualche politico ciarlatano, qualche imbonitore ideologizzato ci inducono a pensare che la nostra forma di società sia la migliore possibile. La più equa. Forse anche la più cristiana. Molti inoltre asseriscono che il motore dell’economia sia il consumo. E fanno di tutto perché si consumi il più tanto possibile, per il bene, dicono, dell’economia del paese. Ma è vero tutto ciò? E soprattutto: ha qualcosa ha che fare con i valori cristiani oppure assolutamente no? 1) Beni egoici La società dei consumi spinge costantemente in ogni modo, come via verso la felicità, all'acquisto dei prodotti che il mercato propone. Educato da ogni tipo di condizionamento mediatico all'idea che tutto ciò che si presenta come ottenibile sia un sacrosanto diritto ad avere, il singolo si convince facilmente che l'esercizio della sua libertà coincida con la realizzazione dei suoi desideri di consumo. Ogni ostacolo a questa soddisfazione viene interpretato come ostacolo alla libertà. Un diritto inalienabile, di fronte a cui tutto il resto passa in secondo piano. Pensare per sé, pensare a sé, nella costante ricerca della felicità consumistica, è l'orizzonte di valore della società moderna. La persona si abitua a considerarsi soprattutto soggetto di diritti di consumo. Meglio ancora, del diritto al possesso di cose ed oggetti acquisibili attraverso il potere economico, vale a dire il denaro. Ciò che conta può essere acquistato. Lo dice il mercato, lo dice la pubblicità, lo dicono i modelli che la società dei consumi propone costantemente. Questo bombardamento di suggestioni che pian piano divengono verità accettate da tutti, ovvie, naturali, oscura prepotentemente ogni altro valore che afferisca a visioni diverse dell'essere umano, a diverse concezioni della felicità, della relazione con gli altri, insomma, per dirla con la filosofia cristiana, a diverse concezioni del buono, del giusto, del bello. La dimensione della gratuità, ad esempio, che sta alla base della relazione umana di amore ed amicizia, non ha cittadinanza in questo sistema. Il fare, l'agire, l'esistere per motivi differenti dal tornaconto personale non sono compresi o vengono considerati con sospetto. La capacità di relazione con l'altro, la cui espressione somma consiste nell'amore, che è gratuita autodonazione, in questo modo si atrofizza e muore. L'uomo vive così in maniera sempre più egocentrica, narcisistica, intento ad una felicità solitaria ed equivoca, perché concentrata sui suoi desideri e sui suoi diritti al godimento di beni privatistici. "L’acquisizione dei beni materiali può condurre alla cupidigia, al desiderio di avere sempre di più e alla tentazione di accrescere la propria potenza... Avere di più, per i popoli come per le persone, non è dunque lo scopo ultimo. Ogni crescita è ambivalente. Necessaria onde permettere all’uomo di essere più uomo, essa lo rinserra come in una prigione, quando diventa il bene supremo che impedisce di guardare oltre. Allora i cuori s’induriscono e gli spiriti si chiudono, gli uomini non s’incontrano più per amicizia, ma spinti dall’interesse, il quale ha buon gioco nel metterli gli uni contro gli altri e nel disunirli. La ricerca esclusiva dell’avere diventa così un ostacolo alla crescita dell’essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale".1 E', questo, un benessere che si può definire egoico. I beni egoici non sono da condividere. Sono essenzialmente privatistici, come gli ideali che ne stanno alla base. Si possono riassumere in quattro forme di desiderio: 1) 2) 3) 4) desiderio di ricchezza, desiderio di potere, desiderio di prestigio/successo/celebrità, desiderio di piacere. La loro affannosa ricerca trasforma la società intera in una folla di individui2 in corsa per accaparrarsi il maggior numero possibile di oggetti. La corsa però implica anche una gara dove gli altri sono concorrenti, 1 Paolo VI, Populorum Progressio, nn 18-19, 1967. Cfr D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1950. “Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali” Papa Francesco, Fratelli Tutti, n.12, 2020. 2 1 avversari che, una volta battuti, devono trasformarsi in spettatori della nostra vittoria. Anche questa è in fondo una forma di successo: l'autoaffermazione sugli altri. A questa gara siamo talmente abituati che non ne percepiamo quasi neppure più il danno, l'aspetto diseducativo, disgregante. Chi vincerà, chi riuscirà ad ottenere il maggior numero di beni, soddisferà il suo ego, il suo narcisismo, soprattutto nel mostrare le cose in suo possesso e creando negli altri -fatti come lui- ammirazione ed invidia. Ovvero nel sentirsi finalmente parte di una classe superiore. Negli altri il mancato raggiungimento dei miti di successo porta ad una condizione di scontento che, se reiterata, provoca l'ingenerarsi di una condizione dell'animo che potremmo definire malcontento, frustrazione, amarezza, o più precisamente rabbia, rancore, risentimento. Con conseguenze sociali e politiche di non poco conto, come vedremo in seguito. 1a) Emulazione, ostentazione, antagonismo Il sociologo Thorstein Veblen aveva già analizzato questo meccanismo perverso nel nascente modello americano. Nella società dei consumi “il possesso di beni diventa una base convenzionale di rispettabilità. Il possesso della ricchezza diventa di per se stesso un atto meritorio. La ricchezza è ora essa stessa intrinsecamente onorevole e conferisce onore a chi la possiede”3. Da qui lo spirito di emulazione (del ricco da parte dei meno facoltosi), che fornisce i modelli cui tutti devono adeguarsi per vivere di quella stessa luce riflessa. “La classe agiata si trova alla testa della struttura sociale; e per questo il suo modo di vivere e i suoi criteri di valutazione danno il canone di rispettabilità per la comunità. Il risultato è che i membri di ogni strato accettano come loro ideale il modello di vita in auge nello strato immediatamente superiore e impiegano le loro energie nel vivere secondo questo ideale”4. Ma “per accattivarsi e conservare la stima degli uomini non basta possedere semplicemente ricchezza o potenza. Ricchezza e potenza devono essere messe in evidenza, poiché la stima è concessa solo di fronte all’evidenza”5. Il consumo è lo strumento per dimostrare la propria importanza sul piano sociale. Il consumo diviene il modo in cui la persona vuole mostrare agli altri la propria posizione all’interno della scala di valori della società capitalista. Si sa che solo così si riceveranno stima ed attenzione e perciò solo così si cercherà di sollevarsi dalla massa. Si farà di tutto per avere e mostrare le ultime novità in fatto di moda, cellulari, automobili e quant’altro possa passare per le incantatrici vie della pubblicità. Ed “è chiaro il sottinteso che deve trattarsi di un consumo di cose superflue. Nessun merito deriverebbe dal consumo del puro necessario”6. Il superfluo come stile di vita! L’esibizionismo come virtù sociale! Si tratta di un consumo vistoso, ostentato, a tutti i costi. Anche se spesso in realtà non se ne è all’altezza. “Si è arrivati al risultato che la vita domestica è relativamente meschina a paragone di quella parte evidente della loro vita che si svolge sotto gli occhi di tutti. Come seconda conseguenza, la gente nasconde abitualmente agli occhi del pubblico la sua vita privata. … e di qui, l’abitudine di riservatezza e di segreto che è una caratteristica così rilevante del codice di etichetta delle classi migliori di tutte le società”7. Come in ogni gara, questa corsa infinita al “consumo vistoso” presuppone un antagonismo radicale con tutti. Invidia-emulazione verso quelli che stanno più “sopra”, disprezzo verso quello reputati più “sotto” in questa insulsa classificazione. Mentre verso quelli di sopra non c’è possibilità di vendetta, o meglio l’invidia è sublimata nello sforzo di emulazione, quelli di sotto vanno a subire tutte le tensioni e le frustrazioni di questa lotta. Infatti lo scopo di questa gara è sentirsi ammirati, invidiati e provare la fatua percezione di superiorità e di potenza verso qualcuno. Meglio ancora, far percepire a qualcuno la sua impossibilità di arrivare allo “stadio” in cui ci si trova. A questo scopo si esercita sui deboli un potere mirato ad escludere, a far sentire il proprio potere nei loro confronti. La volontà di separazione diventa un modo per sottolineare la differenza. In tal modo nasce e si rafforza, quanto più diventa abituale e inconsapevole, il meccanismo dell’emarginazione e dell’esclusione sociale: una forma di disprezzo classista che si rivolge verso tutti coloro che incarnano modelli opposti a quelli della felicità consumista: i poveri, i bisognosi, i profughi, i rifugiati, gli indifesi8. Siamo al funerale della relazione costruttiva fra gli uomini, dell'ideale di comunità umana. 3 T. Veblen, La teoria della classe agiata, UTET, Torino, p.89. Id, p.127. 5 Id, p.94. 6 Id, pp 135-136. 7 Id, p.146. 8 Tanto più in quanto essi sono il simbolo vivente e perturbante di ciò che il consumista invece ricerca appassionatamente. Essi sono l’incarnazione dei terrori di chi ricerca l’ostentazione del benessere. Per questo, nella società consumista, il povero e il bi4 2 2) Spettacolo e spettatori Siamo immersi in una società fondata sull'esibizione. Esibirsi di fronte agli altri, emergere, identificarsi nei modelli che sono proposti come i reali parametri del successo è il fine della quotidianità di chi è vittima dei modelli del consumismo. "Se riuscirò, tutti gli altri saranno spettatori del mio successo". L'apparire, in questo caso, diviene, se possibile, ancor più importante dell'avere. O meglio, è una forma estremizzata dell'avere. Avere un'immagine ammirata da tutti è più importante che aver denaro ma restare nell'ombra. Questo è il motivo del successo di tanta TV spazzatura nella quale personaggi spesso senza arte né parte acquisiscono una parvenza di esistenza solo esclusivamente in quanto oggetto dell'obiettivo della telecamera9. Dunque, l’immagine si sostituisce alla realtà, o meglio crea la realtà nella quale si muovono milioni di persone. Possiamo esprimere meglio questa idea affermando che la realtà è stata progressivamente sostituita dallo spettacolo e che perciò la percezione del reale è venuta a coincidere con la visione dello spettacolo. La grande sacerdotessa di questo potente rito ipnotico collettivo è ancor oggi la televisione, affiancata dagli strumenti più recenti del mondo del web. Ciò che passa in televisione o sui cosiddetti “social media” esiste ed ha valore; ciò che non vi passa, no. La società dei consumi non può non essere manipolatrice: deve convincere che ciò che propone come buono sia tale e viceversa. Dunque, i media sono i suoi principali e più preziosi strumenti. La televisione è stato fino a ieri il più diffuso, efficace, asservito alle leggi del commercio. Oggi i nuovi canali di comunicazione via web fanno la parte del leone, soprattutto fra i giovani. L'assuefazione agli schermi ha trasformato la maggioranza della popolazione in spettatori, passivi fruitori, ed altri, la netta minoranza, in attori di questo grande spettacolo. Ma i registi di tutto questo stanno dietro le quinte... Guardando la vita attraverso gli schermi i consumatori cessano progressivamente di farne esperienza reale. Perché mai infatti, se la TV o i social media mi presentano la vita, me la spiegano, mi ci coinvolgono appassionatamente, perché si dovrebbe farne l'esperienza, ben più faticosa ed articolata, là fuori, rischiando sofferenze e delusioni? Si può vivere stando seduti comodamente di fronte ad un video, che della vita ci spiega tutto. Per questo lo spettacolo è in realtà il contrario della vita10. "Più egli (il consumatore) contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”11. Infatti, a forza di dipendere da modelli esterni per tutto ciò che concerne l'etica, l'estetica, la società, la politica, l'individuo perde anzitutto la capacità di discernere e decidere da sé. Senza ovviamente rendersene conto. L'individuo massificato tutto immagina, fuorché di esser massificato. Egli si offenderà alla sola insinuazione, difenderà le proprie idee e scelte come assolutamente libere e consapevoli. Questo è contemporaneamente drammatico e pericoloso. Drammatico perché si tratta di una vera e propria espropriazione della identità delle singole persone; pericoloso perché le si potrà far ragionare e pensare come si vuole, contro ogni evidenza contraria. Oggigiorno la difficoltà a ragionare correttamente è come una malattia che si diffonde sempre più. E se, come diceva Voltaire,“il sonno della ragione genera mostri”, bisogna correre immediatamente ai ripari. 3) L'informazione La televisione, regina dei media, ha il terribile potere di creare come quello di distruggere, di ricordare o di far dimenticare. Essa convince su ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, crea abitudini e luoghi comuni nei modi di pensare in maniera talmente consolidata da render cieca la sognoso vengono odiati con tanto accanimento, immotivatamente, adducendo pretesti di pericolosità e di danno del tutto insostenibili. 9 La TV ha il potere di far esistere come quello di cancellare la realtà, semplicemente ignorandola. Intere zone del mondo, intere popolazioni, enormi porzioni di storia, obliate dalla TV, cadono nella non esistenza per la massa ignorante. Un potere creativo e distruttivo straordinario. E pericolosissimo. Ciò che appare in TV esiste: il resto no. E' inevitabile che sia così. La storia, per esistere, deve essere raccontata da qualcuno. I fatti non raccontati, pur essendo accaduti, non vengono a far parte della coscienza e della cultura. 10 I cosiddetti "reality show", come dice il nome, cercano esplicitamente di raggiungere al massimo della credibilità questo obiettivo cioè la rappresentazione della realtà, ma è una contraddizione perché si tratta in ogni caso di una finzione. Esiste nei protagonisti la consapevolezza dello spettacolo e, spesso, il desiderio di vincere una somma in denaro, il che cambia non poco le cose rispetto alla realtà della vita quotidiana. 11 G. Debord, La Società dello Spettacolo, Viterbo 2007, p. 16, n°30. 3 maggioranza degli uomini12. La massa troverà in essa varie forme di verità in cui credere: di tipo estetico, etico, politico, storico.... Per raggiungere davvero tutti, però, per arrivare alle menti più piccole e rendere efficace questo gigantesco lavaggio del cervello, dovrà mirare in basso, ricercare la banalità, la superficialità, la semplificazione. E questo in tutti i settori: spettacoli, intrattenimento, film, musica e non ultimo, anzi soprattutto, l'informazione. Un tempo i promotori delle TV commerciali dicevano che la pubblicità serve per finanziare le TV... Oggi è chiaro invece il contrario. “Ci sono molti modi di parlare di televisione. Ma per quanto riguarda gli affari, siamo realisti: di base, lo scopo della televisione è di aiutare una multinazionale a vendere il suo prodotto. Ora, affinché un messaggio pubblicitario sia recepito, bisogna che il cervello del telespettatore sia predisposto. Scopo dei nostri programmi è di renderlo disponibile: il che significa svagarlo, rilassarlo, al fine di prepararlo, fra due spot pubblicitari. Ciò che noi vendiamo alla Coca Cola, ad esempio, è un intervallo di tempo in cui il cervello umano sia utilizzabile. Nulla è più difficile che ottenere questa predisposizione. Bisogna cercare costantemente programmi che funzionino, seguire le mode, cavalcare le tendenze, in una cornice che implica l’accelerazione, la moltiplicazione e la banalizzazione dell’informazione”13. L'informazione dunque va anch'essa nella direzione dell'annichilimento delle capacità critiche della persona. Essa -eccetto alcuni casi- mira, come abbiamo appena letto, alla banalizzazione della realtà ed alla sua circoscrizione ad una dimensione piccola, oseremmo dire provinciale. Un ampliamento degli orizzonti e la promozione di riflessioni critiche sarebbe assolutamente fuori luogo: potrebbe nuocere, potrebbe risvegliare dal mondo astratto. L'informazione è per lo più stereotipata e frammentata. Le notizie hanno un campo ristretto di indagine e subiscono una umiliante semplificazione ermeneutica. Il bombardamento ripetitivo ed ossessionante di notiziari ad ogni ora del giorno e della notte dà soltanto l'illusione dell'informazione attenta e puntuale. Ma non ne è altro che la pantomima, una frammentazione di eventi che impedisce -a chi non abbia già una certa cultura- la più semplice memoria anche solo a breve termine, che permetta di comprendere il senso di quelle immagini, di quelle notizie e di collocarle all'interno di un contesto ben preciso, di un vasto orizzonte storico. Delle origini di un conflitto di cui si parla ogni giorno attraverso cronache di morti ed attentati, delle sue ragioni, delle responsabilità storiche, il pubblico non sa quasi niente. Né è bene che lo sappia, se il fine -come abbiamo visto- è l'opposto di quello che dovrebbe essere. Dunque, la TV, come moltissimi giornali, settimanali, moltissime trasmissioni radio, video su Internet, restringono il campo visivo dell'opinione pubblica. Meno si pensa, meno si problematizza, più facilmente ci si adatterà al mondo dorato della pubblicità e dei falsi miti. La vigilanza, la capacità di discernere il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, sono virtù necessarie per chi voglia mantenere integro non solo il proprio cervello, ma la propria fedeltà al Cristo che è immagine di ogni uomo e di tutti gli uomini. "Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo" (Col. 2, 8). Questa è l'ammonizione che si ritrova ad ogni piè sospinto nel Nuovo Testamento. Il rischio di lasciarsi sedurre dai falsi profeti che promettono benessere e salvezze facili è sempre forte. Come è forte il rischio della pigrizia intellettuale, che non vuole scoprire verità scomode. Il cristiano che, in un mondo sempre più afflitto da forme macroscopiche di disumanità e di egoismo, vuole rimanere fedele al Cristo deve compiere uno sforzo non facile: "esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono" (I Ts. 5,21). Sono avvenute guerre terribili, genocidi, disastri ambientali che la TV non ha quasi neppure considerato nella sua scaletta di notizie, lasciando spazio alle più scontate panoramiche sugli esodi di massa per le vacanze, oppure sulla temperatura delle varie stagioni, o sulle velleità dei VIP. Il cristiano non può non domandarsi perché e non esserne preoccupato. 4) La realtà virtuale La comunicazione virtuale, un'opportunità inusitata di libertà e di dialogo, si è immediatamente trasformata in una ulteriore occasione di manipolazione e di imprigionamento dell'uomo in qualcosa di irreale, 12 Se la propaganda fascista, come quella nazista, a loro tempo riuscirono, senza i potentissimi mezzi odierni, a far accettare alle masse (anche se non nella totalità), leggi criminali come quelle razziali, a legittimare ideologie che miravano allo sterminio di interi popoli adducendo motivazioni pseudo-scientifiche, se tutto questo accadde con mezzi ben più poveri di quelli di cui disponiamo oggi, qual è il rischio che corriamo realmente oggi, in un tempo in cui la quasi totalità della popolazione è teledipendente o webdipendente, carente di modelli e fonti di informazione alternative? 13 Patrick Le Lay, (Amministratore Delegato di TF1), Intervista a microfoni spenti, Agenzia France Press 9 luglio 2004. 4 a-storico. La realtà virtuale sta in molti casi avendo la meglio sulla realtà del vissuto umano. 4a) Nuove identità Attraverso la rete, nell'illusorio mondo di Internet, spesso ci si immerge in qualcosa di meno deludente, di meno sofferente, di meno compromettente della realtà così come ci è data dalla presenza reale degli uomini e delle cose. Nel web c’è la possibilità di si ricostruire tutto, anche la propria identità personale. Nuovi mondi, nuovi paesaggi, nuovi incontri, tutti irreali e falsi, mascherati, come le identità di chi fa del web il suo nuovo mondo. La drammatica finzione della comunicazione. La solitudine non riconosciuta come tale di chi perde la propria identità insieme alla percezione del reale. Alla fine diventa più vero ed importante ciò che è virtuale, perché appunto meno compromettente. La comunicazione di massa attraverso la rete è una novità sociologica ed antropologica che deve far riflettere chi ha a cuore la sorte dell'uomo: evidentemente, il cristiano in primo luogo. La società crea un uomo sempre meno capace di vivere nel reale. Si sta creando un nuovo tipo di individuo: il dipendente dal virtuale, colui che in questa dimensione fittizia trova l'ambiente più adatto di (non) vita. Potremmo definirlo anche l'uomo giocherellone. Tempestato di prodotti tecnologici sempre nuovi e perfezionati, specialista della tastiera, l'individuo riesce sempre meno a comunicare con i suoi simili e trova surrogati della comunicazione attraverso il computer, si aliena giocando nei complessi scenari dei sempre nuovi e più surreali videogiochi14. L'individuo, profondamente frustrato dalla realtà che lo circonda, probabilmente anche sconfitto nella gara alla celebrità, si crea un mondo immaginario (perciò uno spettacolo) in cui egli stesso è finalmente protagonista oltre che spettatore. Qui, egli si veste di mille nuove identità, si immerge in mondi nuovi e più soddisfacenti di quello reale. Il futuro, sempre più incerto ed angosciante per un essere così indebolito dalla cronica malattia dell'irreale, è una dimensione lontana, che viene costantemente obliata attraverso il presente virtuale. L'unico progresso che ci si aspetta, in questo caso, è quello tecnologico, sempre più complesso, e di pari passo sempre più auto-isolante, escludente dal resto della comunità umana reale. Potremmo definirlo un bene super-individualizzante. In questo modo non esiste o non presenta più interesse il domani: o meglio, da esso si sperano sempre nuovi strumenti di distrazione per un eterno presente. Un grigio eterno ed astratto presente tecnologico, somministrato abilmente da chi avrà avuto interesse a creare una società massificata e passiva, pronta ad ingurgitare tutte le novità virtuali, che la renderanno assolutamente innocua perché disinteressata ed avulsa rispetto ai grandi problemi del mondo (ed anche alle grandi gioie e conquiste possibili). Mentre il mondo, quello reale, prenderà vie completamente diverse, forse disastrose. L'uomo massificato e contemporaneamente solo, di fronte al suo piccolo schermo, incapace di vedere e tanto più incapace di progettare il futuro, di elaborare utopie ed ideali che diano la forza e la speranza per riprendere a lottare, probabilmente non si accorgerà di nulla. Nemmeno di essere vicino alla fine. "Ma l'uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono" (Sal 49,21). 4b) Modelli e copie La società dei miti di consumo implica sempre la banalizzazione della visione del mondo, come abbiamo detto più sopra: in poche parole, bisogna che la persona pensi il meno possibile ed in questo modo divenga sempre più passiva, incapace di trovare una identità ed un pensiero diversi da quelli indicati dai maestri della manipolazione mediatica. Il mondo del web rappresenta una occasione straordinaria di manipolazione in campo commerciale, oltre che politico-ideologico, soprattutto in riferimento ai giovani, per i quali rappresenta la principale dimensione di confronto e di comunicazione con gli altri. Quel che stiamo dicendo è sotto gli occhi di tutti ed è purtroppo ormai accettato come scontato. La prova sta nel sorgere ed affermarsi di nuove figure e neologismi: “influencer”, ad esempio, è un termine entrato nella normalità che ha anche acquisito un'aura di prestigio. Indica una persona di particolare personalità che svolge un ruolo squisitamente manipolatorio del gusto e dell'etica delle persone, dei giovani in particolare. Modelli di uomo, di donna, di comportamento, di abbigliamento, vengono inculcati 14 Espressione estrema di questa tendenza, che sta raggiungendo anche i giovani in Italia, è il fenomeno giapponese degli Hikikomori, quei ragazzi che si isolano definitivamente dal mondo chiusi nella propria stanza, utilizzando solo in computer come guida per l'accesso alla “realtà”. 5 dagli influencer nella testa dei “followers” (i giovani) in modo che divengano presto condizione di prestigio e considerazione sociale. E tutto ciò a prezzo di un potente colpo all'io individuale di coloro che ne subiscono l'influenza che, già fragili, avranno difficoltà a definire se stessi in maniera autonoma e a regolare le proprie relazioni con gli altri in modo originale ed indipendente. Invece di allarmare, questa novità è pacificamente accettata ed ammirata. In realtà, gli “influencer” sono divenuti i nuovi miti del mondo giovanile: non più attori, cantanti, musicisti (non parliamo di scienziati o letterati, quasi mai stati miti per nessuno), ma scaltri narcisisti che misurano il proprio successo in proporzione al numero di adepti che li seguono (followers). In piccolo, però, tutti possono in altro modo riscuotere un qualche successo mediatico, ottenere ammirazione e forse provocare quell'invidia che da sempre è uno degli obiettivi egoici di cui sopra. Si tratta di utilizzare i social media come costante attenzione su se stessi, su ciò che si fa, su dove si va, su cosa si mangia, attraverso fotografie e brevi messaggi. Sperando in molti(ssimi) “mi piace” sotto ogni immagine: ultima modalità di appagamento di un io fragile e narcisista. 5) Beni egoici ed esclusione sociale I beni egoici sono i cardini della nostra società e il motore dell'economia fondata sul consumo. Il consumismo funziona perché riesce a far leva sulla fragilità della persona, anzi la provoca e la sviluppa. Questa è portata ad identificarsi con ciò che possiede, perciò si sentirà di più se avrà di più e viceversa . Il trucco è quello di provocare nuove pulsioni per proporre sempre qualcosa di nuovo a cui la massa sia spinta ad acquistare. E’ evidente che questa prospettiva di consumo continuo non può che portare ad una profonda insoddisfazione, perché inesorabilmente nuovi beni si presenteranno come ulteriori promesse di nuova felicità, in un eterna spirale di ricerca. La martellante pubblicità finalizzata alla vendita di nuovi prodotti si basa infatti, più o meno esplicitamente, sul deprezzamento di quanto è andato bene fino ad ora (e che poco fa era “di moda”). Di fronte al “nuovo” che incombe, ciò che è stato finora utile e bello diventa immediatamente passato, vecchio, obsoleto e perciò ridicolo. “Vecchi” abiti, automobili, moto, cellulari, perfino acconciature, sono simboli di “vecchie” identità sociali, modelli “superati” di uomo o donna, si riferiscono a modi di essere e stili di vita che non destano più alcun interesse, quando non danno fastidio. In questo stato di cose, il numero degli esclusi da questa abbuffata consumistica non potrà che aumentare costantemente. In tal modo, questo modello iperconsumista, che identifica il valore delle persone con quel che posseggono, rivela la sua natura emarginante e discriminante. Chi sarà in grado di continuare a spendere per sempre nuovi prodotti e modelli potrà ritenersi ancora “in gara” o meglio sul palcoscenico del grande spettacolo della società consumista, ma i più non ce la faranno. La maggioranza sarà per lo più una massa di spettatori delle “fortune” altrui, talvolta rassegnata, talvolta livorosa ma per lo più comunque frustrata. “Nella nostra società l’adesione incondizionata ai precetti consumistici è la sola scelta possibile e l’unica che può procurare il certificato di idoneità, cioè di non esclusione”. Dunque “ i mercati sono i primi produttori di iniquità sociale” e “quella della produzione di consumatori è l’industria più dannosa che si possa trovare”15. A questo punto è evidente che i beni che abbiamo definito “egoici” si rivelano in se stessi fortemente discriminatorii. Non per nulla questo modello sociale è stato definito "criminogeno"16. Noi perciò definiremo questi “beni” come esclusivisti. Una società che idolatra i beni esclusivisti non potrà non diventare violenta e discriminatrice. “La società moderna: è essa stessa 'intensamente criminogena'. I suoi valori fondamentali sono infatti quelli dell’individualismo possessivo, della ricchezza, del potere, del successo, del prestigio esteriore, cioè valori e beni esclusivi il cui possesso o godimento esclude il possesso e il godimento da parte di altri, e che nulla hanno a che vedere con i veri valori per definizione inclusivi: l’amore, l’amicizia, la solidarietà, la ricerca spirituale”17. Incoraggiare atteggiamenti individualistici e consumistici in senso esclusivo, come a tamburo battente fa la pubblicità e come fanno i “social”, incarnati dei vari modelli di vip e di persone "di successo", come si dice, significa andare incontro ad una società sempre meno umana, sempre più incapace di considerazione dell'altro. 15 Z. Baumann, Homo consumens, Erikson, 2007, pp. 55, 40, 39. Cfr. L. L. Vallauri Modernité et Crimonogénèse, Vrin, Paris 1989. 17 Annalisa Melfi, in: Mediazione penale in ambito minorile, Corso di Formazione in Psicologia Giuridica, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense 2005 Associazione Italiana di Psicologia Giuridica AIPG, p. 35. 16 6 Per il cristiano questo modo di concepire il rapporto di se stessi con gli altri è del tutto inaccettabile. La persona umana conserva una sua dignità indipendentemente dallo status socioeconomico in cui viene a trovarsi. Il Cristo, nato e vissuto povero, testimonia in modo inequivocabile la sua distanza dalle illusioni di potenza conferite dal denaro o dalla schiatta. Ed in tal modo desidera che i suoi discepoli lo seguano. Il Cristianesimo è incompatibile con i modelli di identificazione fondati sul denaro e sul consumo. "E' un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini? Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è la fonte, potrebbe apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano"18. 6) La violenza ideologica Abbiamo appena detto che il mancato raggiungimento dei miti di successo porta ad una condizione di frustrazione e di scontento che si aggrava di pari passo con l'intensificarsi della proposta di miti di consumo esclusivisti e di modelli egoici in ogni dimensione del vissuto della persona. Se da una parte questo scontento, accompagnato dalla rassegnazione a non riuscire a raggiungere le mete promesse di successo può portare alla marginalizzazione e alla criminalità, dall'altra può assumere la forma di un atteggiamento di rancoroso risentimento nei confronti della vita e della società in generale, ma senza che se ne riesca a riconoscere la radice. L'individuo ed il gruppo sociale a cui appartiene e con cui condivide lo stesso sentimento di malcontento, subisce questa rabbia, ne è preda, e questa diviene per lui un modo di essere, una struttura mentale, una modalità di comportamento. La persona si sente ingiustamente trattata dalla vita, dalla società, dai politici in carica, dagli altri, da tutti quelli che egli ritiene semplicemente più fortunati di lui... Si sente perciò in credito nei confronti della vita e della società tutta. Impensabile, ovviamente, una analisi critica del tipo di quella che stiamo svolgendo sulla società, i suoi miti, gli eventuali valori alternativi per cui lottare e cambiare le cose. Seguendo Nietzsche, definiamo questa condizione come risentimento, da cui sgorga inevitabilmente la sete di vendetta. “L'impulso di vendetta è l'esito più proprio del processo di risentimento”19. Un impulso che però, nel nostro caso, non ha modo di esprimersi direttamente per la mancanza di un oggetto preciso su cui sfogare la propria violenza. Si tratta per lo più di un diffuso sentimento di rabbia verso la società in generale, le istituzioni, i partiti... Tutte entità piuttosto indefinite, difficili da coagulare in un oggetto preciso. E' “Il 'ressentiment' di quegli esseri cui è preclusa la reazione vera, quella dell'azione, e che possono soddisfarsi solo grazie a una vendetta immaginaria”20. In genere, infatti, il rancoroso è un soggetto carente di capacità critiche, incapace di analisi razionale della propria condizione. All'uomo del risentimento non resta perciò che crogiolarsi nel suo stesso rancore e rimuginare sulla propria malasorte, aumentando dentro di sé il potenziale di violenza che altri saranno capaci di far esplodere, indirizzare e sfruttare a proprio vantaggio. La frustrazione data dall'impossibilità di stare al passo con i miti del capitalismo, l'insoddisfazione che consegue alle mancate promesse di un benessere che è sempre stato presentato come un diritto assoluto per tutti, il rancore che cova sotto a questa serie di delusioni: tutto questo, quando non esplode in criminalità, diventa un carico d'odio potenziale a completa disposizione di chiunque sappia portarlo diventare a posizione politica, sappia trasformarlo in legittima opinione ed elevarlo a diritto democratico. Ma per riuscire a questo è necessario anzitutto trovare oggetti contro cui far sfogare il risentimento collettivo, questa ira che necessita di deflagrare in qualche modo. Dunque, bisogna offrire ai rancorosi dei capri espiatori, pur fittizi, occasionali, ma che bene servano allo scopo. Questi capri espiatori devono avere caratteristiche ben precise: essere inferiori come forze, come numero, come possibilità di rivendicare i propri diritti, in modo da essere facilmente aggredibili e perseguibili. Niente di meglio, storicamente in Europa, degli ebrei, dei migranti, delle minoranze culturali ed etiche, fino ad arrivare all'oggi dei poveri, migranti o meno, che chiedono aiuto. Allora finalmente la rabbia viene legittimata, la violenza che da tempo maturava all'interno dell'animo rancoroso può esprimersi liberamente, come giusta ricompensa per le frustrazioni sopportate. “Ma come, chiedete aiuto? Come vi permettete? Vorreste per caso derubarci della nostra 18 Paolo VI, Populorum Progressio n° 45, 1967. Max Scheler, Il risentimento, Chiarelettere, Milano 2019, p. 29. 20 F. Nietzsche, Genealogia della morale, n. 10. In questa opera Nietzsche tratta del risentimento come generatore della morale religiosa cristiana, ma la sua analisi di questa condizione esistenziale si presta ad analisi più ampie logicamente ineccepibili, come la nostra in queste righe. In realtà, è la storia a darci ragione. 19 7 precedenza ad ottenere ciò che chiediamo da tanto tempo, una fetta della grande torta della ricchezza che ci avevano promesso e di cui molti, solo più fortunati, si son già appropriati? Via di qui, ci siamo prima noi!”21. Questi sono i pensieri dell'uomo del risentimento, del rancoroso desideroso di una cieca vendetta. “Tutti coloro che soffrono sono terribilmente solleciti e ricchi di inventiva nel trovare pretesti per passioni dolorose; godono già del loro sospetto, del rimuginare su cattiverie e danni apparenti, frugano nei visceri del loro passato e del loro presente, alla ricerca di storie oscure e dubbie, dove possano liberamente crogiolarsi in un sospetto dilaniante e stordirsi al veleno della loro stessa perfidia - mettono a nudo le ferite più antiche, si dissanguano aprendo cicatrici ormai chiuse; trasformano in malfattori l'amico, la moglie, il figlio e tutti quanti sono loro più vicini. «Soffro: qualcuno deve averne colpa» - questo pensa ogni pecora malata”22. Ci sono stati ed esistono ancora oggi partiti e movimenti che nascono e prosperano sul risentimento, alimentano il rancore, potenziano l'odio ai fini di arrivare e al potere e di mantenerlo. 6a) Fascismi Il sociologo olandese Menno ter Braak, nel suo breve articolo “Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore”23 evidenziò con acutezza come le radici del nazismo peschino nel rancore delle classi meno abbienti, le quali peraltro sono parte ineluttabile, anzi essenziale del moderno sistema economico. “Il rancore è uno degli aspetti essenziali della nostra cultura, ne è parte integrante e vi è onnipresente”24 ed il fascismo, come il nazismo, ne rappresentano la espressione più totale e libera. Totale, per il fatto che si arriva tranquillamente a prospettare come parte integrante del programma la eliminazione di una parte dell'umanità e libera perché per proporre tutto ciò si adduce la libertà di espressione come parte integrante della democrazia. Se dapprincipio il rancore rimaneva una forza implicita, una potenzialità che non trovava strumenti di espressione e tantomeno capri espiatori di vendetta; se, insomma, il risentimento covava in molta parte della società, ora giunge alla sua piena espressione, liberando le sue terribili capacità. “Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti”25. Non è necessario un vero programma politico per dare la stura ai fascismi: bastano slogan altisonanti quanto stupidi e vuoti. Il popolo non deve solo essere rancoroso, ma ottuso, prevenuto, incapace di obiettività. Il bisogno di scaricare la propria aggressività contenuta così a lungo ora non deve avere ostacoli di sorta. La fregola della vendetta ha sempre la meglio sulla razionalità e sul pensiero. L'ignoranza infatti è l'altro ingrediente importante affinché possano affermarsi le ideologie del rancore. Ignoranza intesa in un senso ampio: mancanza di istruzione, mancanza di informazione, mancanza di capacità critiche. La mancanza di istruzione, oggigiorno, per noi consiste in una grave lacuna nella conoscenza della nostra storia del '900, del fascismo e della rimozione di memoria che che ne è stata fatta, con le conseguenze nefaste nella politica dell'intero dopoguerra fino ad oggi. Molte delle vicende terroristiche degli anni 70 e 80 sarebbero comprese sotto una nuova luce. La mancanza di informazione o meglio le campagne di disinformazione o di informazione pilotata sono lo strumento per eccellenza che permette di sfruttare l'ignoranza ammantandola di un falsa consapevolezza della realtà politica ed economica quando non addirittura di vere e proprie falsità utilizzate per aggredire, umiliare, oltraggiare minoranze o avversari politici. Di simili strategie la storia è ricca di esempi, ma non dobbiamo andare molto lontano dall'Italia recente per trovarne in abbondanza26. 21 Ricordiamo quel “prima gli italiani!”, leit-motiv del leader di un noto partito xenofobo italiano. Questo slogan, proprio per la sua rozzezza ed immediatezza comunicativa, contiene ambiguità linguistiche di non poco conto che, se serenamente analizzate, portano a riflessioni di grande importanza ed aiutano a dirimere “crampi concettuali” (Wittgenstein) diffusi nella testa della maggioranza delle persone. Anzitutto il concetto di “italianità”, che non dipende dalla lingua, dalla nascita, dalla religione, da un fantomatico ideale etnico (che per l'Italia in particolare è del tutto da escludersi), ma è solamente ed esclusivamente una definizione giuridica. 22 Ib, pp. 63-64. 23 Menno Ter Braak, Il nazionalismo come dottrina del rancore, Apeiron, Sant'Oreste RM, 2019. 24 Id, p. 26. 25 Papa Francesco, Fratelli Tutti, 2020, n. 45. 26 Negli USA “QAnon” è una organizzazione che da sempre ha supportato Trump e non ha fatto altro che diffondere notizie false contro gli avversari ed a favore di deliranti teorie sulla supremazia americana del tutto incompatibili con un cervello minimamente razionale. Ovviamente sono soprattutto le classi povere a seguire e supportare questo movimento. In passato, fatale 8 Infine, l'ignoranza intesa come mancanza di capacità critiche, è data in fondo dal timore di dover cambiare idea e di trovarsi di fronte a nuove prospettive che potrebbero essere troppo difficili da valutare o imbarazzanti perché non componibili con ciò che fino ad oggi si è considerato indiscutibile27. Perciò, lottare contro le ideologie del risentimento non significa (solamente) rimediare alle ingiustizie sociali, in modo da togliere ragioni alla collera collettiva, ma soprattutto lottare contro l'ignoranza, nelle forme più svariate e complementari. Anzitutto attraverso una istruzione scolastica che sia collegata il più possibile con la realtà storica, scientifica, economica, della realtà in cui ci si trova immersi; poi, attraverso agenzie educative che si preoccupino della formazione integrale della persona, in modo da allenare i giovani all'esercizio della critica e della memoria storica; infine, -ma si tratta del primo e più importante momento educativo e formativo- il dialogo e il confronto in famiglia con adulti che accettino amorevolmente e sapientemente il loro ruolo di genitori e di testimoni dei valori inclusivi di cui sopra. 6b) La necessità del risentimento E' evidente che le ideologie del risentimento hanno tutto l'interesse a non sedare il rancore, altrimenti si priverebbero del carburante necessario per andare avanti e mantenersi al potere. Al contrario, dunque, bisogna incentivare l'odio, trovare sempre nuovi colpevoli, nuove vittime su cui convogliare l'aggressività del popolo in modo da poterla sempre cavalcare. L'ideologia della razza avrebbe permesso, una volta completata la “soluzione finale” contro gli ebrei, di trovare molti altri popoli da minacciare e perseguitare. Un compito senza fine. Quindi, non si tratta di risolvere i problemi. Nessun fascismo ha mai risolto alcun problema economico o sociale. Li ha drammaticamente peggiorati, gettando le nazioni in guerre tanto insensate quanto disastrose, spostando il miraggio della patria felice nell'aggressione di altre nazioni. Peraltro, la massa stupida trova il suo massimo piacere nell'odio più che nella risoluzione dei problemi sociali. “Quel che vogliono appassionatamente è vivere il loro risentimento senza alcun limite, con tutti i mezzi e le parole d'ordine che a tale scopo possono tornare utili”28. Il risentimento non ha più nulla a che vedere con quel senso di impotenza che si percepiva prima che l'ideologia dell'odio lo sdoganasse e gli desse una identità politica. Prima, al risentimento non era stata fornita una vittima, che gli permettesse di esprimersi come odio. Ora, odiare conferisce un esaltante senso di onnipotenza nel momento in cui lo si può esercitare su qualcuno come segno di superiorità, come arbitrio illimitato di vita e di morte. Ecco le ragioni di tanta crudeltà esercitata da uomini su altri uomini senza motivazione apparente. L'esercizio della violenza oltre ogni limite è “sublime” affermazione di potere dell'uomo su un altro uomo, di una nazione su di un'altra nazione, o più semplicemente di una casta su di un'altra casta, di un gruppo sociale su di un altro gruppo sociale. “L'odio è una fede”29, riassume splendidamente Sartre. 7) Risentimento vs rivendicazione A questo punto sorge spontanea una domanda: la contestazione sociale, il dissenso nei confronti dell'ingiustizia economica, l'istinto rivoluzionario, intendendo in tal modo generiche e magari anche violente rivendicazioni da parte delle classi più povere, possono essere interpretare come altrettante forme di rancore, senza necessariamente essere collocate all'interno delle molteplici varianti fasciste? In altre parole: che dire di altre forme di contestazione, anche violenta, provenienti ad esempio dall'intricato arcipelago della sinistra comunista? nel rafforzare pregiudizi letali contro gli ebrei furono i cosiddetti “Protocolli dei Saggi di Sion”, uno dei più clamorosi casi di falso storico. In Italia, il ventennio berlusconiano non avrebbe potuto reggere senza l'appoggio di tre reti televisive e tre quotidiani di proprietà familiare, oltre i periodici con quote di maggioranza. 27 Al tempo dell'invasione statunitense dell'Iraq, quando ormai -anche se troppo tardi- era divenuto evidente che il presidente G:W: Bush aveva costruito le proprie motivazioni all'attacco su falsità create ad arte, nacque un movimento, ovviamente di area repubblicana, che si chiamò “Noi non vogliamo sapere”. Chiudere gli occhi, anche di fronte all'evidenza, comporta meno sforzo della accettazione della realtà. “L'uomo sensato cerca penosamente, egli sa che i suoi ragionamenti sono soltanto probabili, che altre considerazioni subentreranno a metterli in dubbio; non sa mai molto bene dove va; è "aperto", può passare per esitante. Ma ci sono invece alcuni che sono attratti dalla stabilità della pietra. Vogliono essere massicci ed impenetrabili, non vogliono cambiare: vogliono adottare un modo di vita in cui il ragionamento e la ricerca non abbiano che una parte subordinata, dove si cerca solo quello che si è già trovato, dove si diventa solo ciò che si era”. (J.P. Sartre, L'antisemitismo, Ed Comunità, Milano 1954, p. 42). 28 Menno ter Braak, Op.cit, p. 48. 29 J.P. Sartre, Op. cit, p. 42. 9 Credo che sia una domanda legittima e molto interessante, che nasce dall'esigenza di fare piazza pulita di un luogo comune che tende a mettere sullo stesso piano non dico il comunismo, ma l'analisi marxista e la lotta di classe con le espressioni del rancore di cui abbiamo parlato più sopra. Se è vero che il comunismo ha assunto molto facilmente, in tutte le forme in cui si è presentato, le caratteristiche e le dinamiche del rancore e quindi dell'oppressione delle minoranze, dello sterminio, insomma della violazione sistematica dei diritti della persona umana, è altrettanto vero che l'analisi marxista conserva una sua validità in quanto anzitutto teoria economica e non mera strategia di manipolazione di massa. La sua elaborazione nulla ha a che fare con il rancore ottuso appena descritto cui è sufficiente, anzi necessaria, l'indicazione di un colpevole, un qualsiasi gruppo sociale, su cui sfogare ciecamente la propria collera. In questo caso la razionalità anche solo economica dista mille miglia. Senza addentrarci in una descrizione della critica marxista all'economia capitalista e delle strategie di lotta conseguenti secondo i fondatori, vogliamo qui fare delle riflessioni filosofiche sulla differenza radicale che soggiace fra le due forme di rivendicazione e sui loro obiettivi. Per fare questo, ci serviremo delle preziose riflessioni sull'idea di rivolta elaborate da Albert Camus che ci paiono del tutto appropriate anche se egli non condivise mai il progetto del materialismo dialettico30. Dunque, utilizzando Camus per le nostre riflessioni, non cadiamo in contraddizione, bensì garantiamo un equilibrio che ci eviti la facile etichetta di potenziali comunisti. 7a) La rivolta Ciò che potremmo definire “giusta rivendicazione sociale” assomiglia molto al concetto di rivolta elaborato da Camus: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Qual è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma, questo “no” afferma l’esistenza di una frontiera. In certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere”31. La rivolta nasce dalla reazione ad un diritto violato, conculcato, infranto. Si parla qui di diritti fondamentali: al lavoro, ad una giusta retribuzione, alla salute, alla casa, alla libertà di opinione, alla professione di una religione, al voto e così via. Una simile rivendicazione non ha nulla a che fare con il rancore di cui sopra. Al contrario, mentre il rancore deriva dall'invidia di ciò che non si ha, qui tutto parte da una alta considerazione di sé. “Il risentimento, a seconda che cresca in un animo forte o debole, si fa arrivismo o acredine. Ma, in ambedue i casi, si vuole essere altri da ciò che si è. (Il risentimento è sempre risentimento contro se stessi). L’analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista una natura umana, come pensavano i Greci e contrariamente ai postulati del pensiero contemporaneo. Perché rivoltarsi se non s’ha, in se stessi, nulla di permanente da preservare? S’invidia ciò che non s’ha, mentre nella rivolta l’uomo difende ciò che egli stesso è”32. La rivolta è dunque cosa ben diversa dall'odio rancoroso. L'odio può avere aspetti che lo fanno assomigliare all'etica della rivolta, come certi funghi velenosi assomigliano a quelli eduli, ma si tratta di atteggiamenti del tutto opposti. Il che non significa che la rivolta non sia manipolabile al punto da trasformarsi in odio rancoroso, volontà di sopraffazione, arbitrio dell'uno sull'altro. Ma in questo caso è una mutazione genetica. Bene ha fatto questa distinzione lo stesso Camus, separando la dimensione etica della rivolta dalla dinamica della rivoluzione e della dittatura così come si è realizzata nelle forme storiche del comunismo. Lo sterminio di milioni di persone, l'oppressione della dissidenza, l'omicidio come strumento politico nulla hanno a che fare con ciò di cui stiamo parlando e sono drammatiche strategie politiche che vanno ben oltre i confini dei vari fascismi. Spesso si è sentito dire che il comunismo sovietico altro non fu che una forma di fascismo, ma non si può e non si deve creare confusione giocando con le parole. Chiarire il significato delle parole è ciò che qui tentiamo di fare, a partire dalla loro origine. Dunque, la rivolta, che qui definiamo più genericamente anche rivendicazione di diritti, si pone anzitutto come difesa di qualcosa di universale, presente in tutti gli uomini e che li rende uguali. Ha un aspetto di altruismo assente nella dinamica dell'invidia. Il rancore che sta alla base della costruzione dell'agire fascista può creare agglomerati di rancorosi, ma è cosa ben diversa dallo spirito comunitario che anima la ri30 E' noto che questo gli costò l'amicizia con Sartre e l'ostracismo da parte dei comunisti francesi, a quel tempo tutti schierati con Stalin. 31 A. Camus, L'uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1981, p. 17. 32 Id, p. 22. 10 volta. Il cameratismo non ha nulla a che fare con la comunità. Al contrario, la rivolta implica la solidarietà: nel suo porsi, nella difesa di un diritto, nella disponibilità al sacrificio individuale, l'uomo si scopre comunità, svela l'universalità dei valori che propone. “Il moto di rivolta non è, nella sua essenza, un moto egoista. Nella rivolta, l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Mi rivolto, dunque siamo”33. Nel risentimento si cerca la vendetta, si gode nel provocare il dolore nell'oggetto del proprio rancore. Nella giusta rivendicazione, si intendere difendere una dignità condivisa, che si trova in ogni uomo. La vendetta passa in secondo piano, la rivolta “si limita a rifiutare l’umiliazione, senza chiederla per altri”34. 8) Il povero nella società consumista In una siffatta società -la nostra- il povero è reietto per molti motivi, tutti dipendenti dai modelli imposti dalla società stessa. Vediamo di esaminarne qualcuno. 1. Il povero è l’antitesi dei modelli “di successo” ammanniti dai media. La sua presenza è antiestetica perché testimonia il fallimento rispetto a quei “valori”. Egli perciò è l’incarnazione di ciò di cui si ha paura -l’indigenza- ma reca fastidio anche perché è il perturbante di una visione della realtà così come la vorremmo: rosea ed innocua, quasi virtuale. Essendo il mezzo televisivo ed il web divenuti forgiatori del nostro immaginario e dei nostri “valori” sociali, mediatori della nostra visione dell’esistenza, va a finire che, quando ci si affaccia alla quotidianità, cerchiamo in essa solo quel che ci è stato indicato come buono o che assomiglia al già visto virtuale. La povertà ed il dolore degli uomini sono certamente presenti in TV, ma per lo più in modo tale che lo spettatore non riesca a comprenderne le cause. Questo è comprensibile, giacché questo sforzo di analisi comporterebbe una seria critica della società contemporanea -in stridente contraddizione con le finalità del mezzo televisivo. Piuttosto, vengono presentati come eventi nefasti che possono colpire tutti quasi per un destino ostile e di cui al massimo aver commiserazione. Presentati come modelli antitetici a quelli del benessere e del successo consumistico, funzionano semplicemente come rafforzativo di questi, come spinta ulteriore al loro raggiungimento. La reazione buonista alla realtà del dolore e della povertà è inefficace quanto l’indifferenza, perché in entrambi i casi non viene messo in questione l’assetto della società in cui vengono generati. L’immagine di un bimbo denutrito e malato può commuovere, ma raramente crea indignazione verso il sistema economico globale di cui è conseguenza e di cui facciamo parte troppo spesso inconsapevolmente e passivamente. La seria considerazione delle cause della povertà e del disagio, dell’emarginazione, dell’esclusione e più ancora, della fame e della povertà planetarie, metterebbe in discussione l’intero sistema di cui l’informazione ufficiale è parte. La mediazione della TV o del mezzo informatico, infine, non fa fare la vera esperienza della realtà così com’è, ma desta solo l’emozione dell’immagine. La realtà vera è molto più complessa. Come non si vivono relazioni d’amicizia e di amore attraverso un film, così non si sperimenta la vita in TV. In questo caso, il povero e l’indigente rappresentano il “principio di realtà” contro quello sognante e virtuale dell’uomo “distratto”. Dunque, l’incontro con la povertà ed il dolore è molto più destabilizzante e critico di quanto ci si aspetterebbe. Ecco perché troppo spesso ci si trova impreparati a questo incontro e di conseguenza si cerca semplicemente di evitarlo o, peggio, di occultare il povero, farlo sparire dall’orizzonte, renderlo invisibile, punirlo se si rende visibile35. 33 Id, pp. 20-22.27. Id, p. 22. 35 In alcuni comuni italiani si è proposto di rendere reato la ricerca di cibo nella spazzatura ed il dormire sulle panchine dei giardini pubblici la notte o, ancora, di multare i barboni per accattonaggio. La solidarietà e l’accoglienza, virtù di un tempo, sono disvalori nella società dell’egoismo e della corsa al denaro. Alcuni parlamentari hanno proposto di sparare sui profughi che approdano sulle nostre coste, in fuga da terribili situazioni di guerra e di fame o di oppressione politica. Il sindaco di una ricca città del Nord Est italiano ha proposto di mettere agli immigrati un berrettino con orecchie da coniglietto e poi aprire la caccia. E’ interessante, per non dire inquietante, come queste persone non trovino la minima contraddizione tra queste idee e la loro difesa del Cristianesimo di fronte alla “minaccia musulmana”. 34 11 2. Il povero, agli occhi degli intelligenti, rappresenta un appello quando non un’accusa. Un appello alla fraternità, alla solidarietà, ai più elevati valori umani e, ancor più, religiosi. A quei valori che tutti quanti, troppo spesso per convenzione, diciamo di condividere e perseguire. Il povero è la prova del fuoco di tanto parlare. Pone implicitamente una domanda: “Sei capace, dopo tanto dire, di fare, di aiutare, di condividere?” In mezzo a tanto bombardamento mediatico che professa il diritto al consumo senza limiti, che assolve l’egoismo più bieco come virtù economica, spesso ci troviamo incapaci di formulare un pensiero diverso, di provare ad immaginare di fare un uso del nostro tempo e del nostro denaro opposto a quello verso cui ci spinge la corrente, quasi fossimo vittime di una ineluttabile forza gravitazionale. Perché aiutare il povero? Perché rinunciare al “benessere” che “mi spetta”? Questa domanda, improponibile per un cristiano -dedito alla promozione di beni inclusivi- denota la perdita di ogni fondamento morale della vita, l’oblio del senso di appartenenza all’unica famiglia umana, l’abolizione della percezione della fraternità che unisce gli uomini in un’unica famiglia in Gesù Cristo. E tutto questo, in nome del denaro, a causa dei modelli prevalenti di individualismo consumista. “Che responsabilità ho io verso questo o questi bisognosi?” “Perché la loro presenza deve procurarmi scrupoli morali che intralcino l’uso del mio denaro, del mio tempo per me solo?” A questi interrogativi non c’è risposta convincente a partire da una mentalità consumista ed individualista. Certamente, è impossibile trapiantare un idea cristiana di umanità, una concezione fraterna del proprio rapporto con gli altri uomini, una visione solidale della vita, in ciò che le è assolutamente opposto. Chi si identifica nei modelli di successo del denaro e del consumo considererà quantomeno eccentrica l’idea di “sacrificare” i propri beni, il proprio tempo, financo la propria preghiera, ad altro che non se stessi e sarà ancor più portato a mal tollerare l’umanità povera e bisognosa in quanto perturbatrice della propria quiete consumista. 3. L’identificazione in modelli basati sull’avere e sulla possibilità di acquistare sempre più è sostenuta ed incoraggiata dal sistema capitalistico, il cui carburante è il consumo continuo e i cui nemici mortali sono la sobrietà ed il risparmio, sdegnosamente definiti “stagnazione economica”. In questo contesto, dunque, il povero non ha alcuna utilità sociale. “Nella società dei consumatori i poveri sono un peso morto e una presenza totalmente improduttiva. Così, per la prima volta nella storia i poveri sono divenuti un puro e semplice onere sociale, senza alcun merito che possa compensare i loro vizi. Non avendo nulla da offrire, non possono ripagare i servizi che ottengono dalla società. Sono, quindi, un cattivo investimento, una pura perdita, un buco nero che ingurgita qualsiasi cosa gli si avvicini senza restituire nulla, se non fastidi. … I poveri sono del tutto inutili e nessuno ha bisogno di loro: tolleranza zero. Meglio sarebbe se bruciassero le loro tende e se ne andassero per sempre. … Poiché i poveri sono indesiderati e indesiderabili, possono essere abbandonati senza rimorsi.”36. Il povero, l’immigrato, il bisognoso diventano perciò il capro espiatorio di tutti o quasi i mali della società: disoccupazione, criminalità, perdita delle proprie radici e tradizioni…. Si adotteranno tutti i mezzi per demonizzare il povero e l’indigente. In tal modo, si cercherà di ottenere, purtroppo spesso con successo, che l’attenzione dell’opinione pubblica venga distratta dai veri problemi del paese, convogliando la profonda frustrazione del popolo provocata dai modelli consumistici di cui sopra non verso la società che li propone e che li incoraggia, ma verso quelli che al contrario proprio non ne possono nulla di tutto ciò e che spesso hanno già subito sulla loro pelle i dolori di guerre, dittature, disastri ambientali, fame. Non per nulla i partiti fascisti si definiscono sempre nazionalisti conferendo a questo termine, peraltro di per sé già molto ambiguo, un carattere squisitamente xenofobo. Ma i fascismi fanno finta di non sapere che “non bisogna confondere la difesa e la promozione della propria identità nazionale con l’insana ideologia del nazionalismo, che induce al disprezzo degli altri. Un conto, infatti, è il giusto amore per il proprio paese, ed altra cosa è il nazionalismo che pone i popoli in contrasto tra loro. Esso è profondamente ingiusto, perché contrario al dovere della solidarietà, e provoca reazioni e inimicizie in cui maturano i germi della violenza e della guerra”.37 36 Z. Baumann, Homo consumens, Erikson, 2007, p. 57. Giovanni Paolo II, Udienza generale 11 ottobre 1995, n. 5. Cfr anche don Milani, Lettera ai cappellani militari toscani, 11 febbraio 1965: “Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo 37 12 Per il cristiano il volto del povero è il volto del Cristo. A partire da questo asserto, tutto il resto viene di conseguenza. Su questa base, egli opererà una seria e profonda critica dei fondamenti della società in cui si trova a vivere ed operare. E non sarà difficile arguire che l’economia, la democrazia, la cultura e quant’altro rappresenti la struttura e l’organizzazione della comunità umana non debba, non possa produrre povertà e che all’indigenza dei molti non si possano opporre deboli ragioni fondate su un'idea fatalista delle leggi economiche. La società democratica e l’economia dovrebbero essere sicuri baluardi contro la povertà, a difesa dei deboli e non il contrario. Non devono diventare fattori produttivi di esclusione e di malessere, come invece sono oggi. Democrazia e liberalismo economico non sono sinonimi, anche se il secondo utilizza in modo seducente il termine “libertà”. Stanno agli antipodi e la prima deve vigilare sul sistema economico per temperarne gli aspetti deleteri che creano conflitto e sperequazione. Il cristiano sa che, secondo l’insegnamento di Gesù, “non si può servire Dio e il denaro” (Mt 6, 24):“Ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragione d'essere che il sevizio della persona. Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare (…) Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che qui viene messo in causa”. Infatti, “se ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina”.38 9) Beni inclusivi All'opposto di quanto detto fin qui, stanno i beni non egoici, non esclusivi. Li definiremo inclusivi. Sono tutti quelli che si possono acquisire senza limitare o danneggiare gli altri: meglio ancora, quelli che implicano un cammino insieme agli altri uomini, all'interno di una crescita comune. Tutto ciò che agevola la comunicazione, favorisce l'incontro con l'altro, permette una conoscenza sempre più ampia della realtà e del mondo è un bene inclusivo. Le capacità artistiche, la cultura, la riflessione etica, l'educazione alla vita comune, al senso di responsabilità sociale, il naturale potenziamento degli aspetti relazionali della personalità. Vengono definiti Beni Inclusivi perché contemplano essenzialmente la relazione con l'altro, sia nel loro realizzarsi, sia perché implicano la condivisione. I Beni Inclusivi più elevati sono quelli contenuti nel messaggio cristiano: l'amicizia, l'amore, la ricerca della giustizia, la solidarietà sociale. Valori che oggi scarseggiano e che in ogni settore della vita civile dovrebbero essere coltivati e perseguiti. Anzitutto nella scuola. Si tratta di sostituire l'"io" con il "noi". Sostituire beni egoici con beni comuni. Educare a ragionare in termini di comunità piuttosto che di solitario e sterile individualismo: “L'uomo deve pur decidersi una volta ad uscire d'un balzo da se stesso”39. La fede cristiana ha in se stessa gli antidoti alle tendenze “egoiche” di cui sopra, per una educazione ai beni inclusivi. 1) Il senso di fraternità con ogni uomo, in cui il credente riconosce un suo fratello e ravvisa l’immagine stessa del Cristo, che lo porta ad identificarsi nella grande famiglia umana prima ed al di qua di ogni altra identificazione successiva (nazione, etnia, religione, genere sessuale, ecc.) 2) Da qui nasce quella solidarietà con i più poveri e bisognosi, tipica del messaggio cristiano, che si pone in netto contrasto con tutte le forme di discriminazione create dalle dinamiche antagoniste della nostra società 3) L’amore per il dialogo, che deriva dall’alta considerazione dell’altro come uomo e perciò portatore di valori. Il cristiano infatti è per antonomasia uomo di dialogo perché consapevole che il “logos” divino, vale a dire la ricchezza dell’amore divino e della sua verità si trova sparsa in ogni dove. La fede è la luce alla quale si riconosce e si valorizza la verità di cui ogni uomo è scintilla. 4) Il senso del bello in opposizione alla pulsione al possesso. Il desiderio di possesso infatti nasce dalla volontà di esibirsi attraverso l’oggetto posseduto, mentre il bello porta in se stesso il proprio significato. Non esprime la ricchezza o l’agiatezza o la fama di qualcuno, ma esige di essere condiviso da tutti in quanto bene di tutti e per tutti. Innalza lo spirito ad ideali superiori cui si ispira necessariamente in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. 38 Paolo VI, Populorum Progressio, 1967, n. 58. Benedetto XVI, Messaggio “Urbi et Orbi” del 25 dicembre 2008. Cfr anche Papa Francesco, Fratelli Tutti, 2020, n. 105: “La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l'umanità”. 39 Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 88, 2020. 13 Solo coltivando questi valori si potrà ricostruire una società vivibile. “Solo se cambiano gli uomini, cambia il mondo e, per cambiare, gli uomini hanno bisogno della luce proveniente da Dio, di quella luce che in modo così inaspettato è entrata nella nostra notte.”40 10) Conclusione “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo!”41. L'ammonizione di Paolo suona ricca di significato, in questo contesto. Si tratta di essere consapevoli del divario che esiste fra ciò che propone "il mondo" e ciò che propone il Cristo. Il cristiano non può piattamente e superficialmente pensare che la società in cui vive, per il solo fatto che esistano le chiese e da sempre si pronuncino giaculatorie di tipo cristiano, sia fondata su valori cristiani. Quando non si tratta di superficialità, l'equivalenza: società moderna-società cristiana, è solo frutto di gretta demagogia. Molti hanno interesse a far passare il modello occidentale come un modello "cristiano", da porre in conflitto con altre culture. Ma tutto ciò non regge alla luce del Vangelo e dei fatti stessi. 40 41 Benedetto XVI, Omelia della notte di Natale 2008. Rom 12,1. 14
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