I LUOGHI DELLA VERITA’
STORIA, CULTURA E SAPERI MEDITERRANEI
INTRODUZIONE
Definire le modalità con le quali, nella storia della filosofia, si è indagato il concetto del vero è
complicato, e richiederebbe notevoli capacità interpretative. Pare opportuno cominciare la
trattazione partendo da due criteri che possono valere, tematicamente, ad evidenziare la rilevanza
del concetto di verità: il primo è quello che, mettendo al centro il momento conoscitivo del verofatto, lo ricerca nei vari ambiti della conoscenza, l’altro è quello che dal concreto arriva al processo
della conoscenza, dando luogo alle concezioni pragmatistiche, utilitaristiche, realistiche, legate ai
temi della filosofia della storia. Ciò dovrebbe evidenziare come a fondamento di quel concetto ci
siano i tentativi che hanno criticato o negato i principi divini agenti come forza metafisica della
totalità, per volgersi alla capacità umana dell’agire, al modo del plasmare il mondo, alla possibilità
della creazione e della conoscenza della storia e della cultura: al vero conoscibile nella storia. Dopo
un breve accenno alla filosofia platonica, aristotelica e neoplatonica, va messo in evidenza che il
principio della convertibilità richiama un presupposto del pensiero cristiano, il principio che la
verità sia legata alla creazione divina. Ciò lega il vero-fatto al costruttivismo nel quale, soprattutto
sulla base dell’agostinismo, il concetto di conoscenza è stato accentuato fino al volontarismo.
Quindi, ad una concezione della verità come disvelamento dell’ordine immutabile della natura,
com’è concepito nella filosofia greca, si sovrappone quella medievale, che la considera come
intrinseca alla mente ed alla volontà divine, e a cui ci si deve adeguare. Tuttavia sarà la modernità
ad individuare una originale concezione della verità, a ritenere di poter conoscere la propria
creazione. E qui il concetto di verità segue il complicato rovesciamento del rapporto tra la
conoscenza ed il suo oggetto che si presenta dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Concepire la vita
come data dall’azione formatrice del soggetto vuol dire indagare la tendenza del vero a darsi come
esistente nella realtà, scorgere la verità nelle azioni. Si oltrepassa così la distinzione tra la ricerca
attiva e quella tesa all’indagine dei principi, poiché la creatività può essere accertata in relazione
alla verità, ad una categorizzazione che non è mai fissa, ma sempre contingente. Infatti, se concepita
dal suo interno, la concezione della verità mostra come non ci sia alcuna certezza immutabile, ma
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che i termini siano in continuo movimento, che comporta l’idea di un’apertura ad ogni possibilità,
sempre in divenire, nella storia, definibile solo in termini di rapporti, creazioni ed azioni. Posto in
questi termini, e superando sia la questione della conoscenza oggettiva, sia quella soggettiva, il
fulcro della problematica va individuato in tale concezione contingente della verità, ossia nel nesso
tra verità e creatività umana, nell’idea che non si possa conoscere tutto ciò che si pensa, così come
non si possa conoscere tutto ciò che provenga dal di fuori, ma che abbia senso e significato, ed
abbia conoscibilità solo ciò che si è creato. Nella varietà delle concezioni sulla verità, delle diverse
manifestazioni che stanno dietro la questione dell’espressione della verità nella creatività,
importante è stato il contributo di Vico: si conosce ed è vero solo ciò che si è fatto. La verità della
creazione è concepita come non difforme dalla storia, perciò Vico e il suo criterio di convertibilità
sono il fondamento del trascendentalismo su cui si fonda molta parte della riflessione moderna, tesa
a concepire la pensabilità e conoscibilità della storia, la pratica con cui l’uomo si crea e crea il
proprio mondo culturale. E tuttavia qui la questione si complica, poiché, per Vico, il vero deve
potersi accertare, deve cioè essere filtrato da un certo contingente, che deve a sua volta avverarsi.
Basandoci sull’analisi del vero-fatto in Vico, e dopo averne riscontrato le premesse nella filosofia
classica, si cercherà di mostrare come esso, dall’illuminismo, sia rilevabile in Kant e, seppur in
forme diverse, nell’idealismo, nello storicismo e nel neokantismo, nell’intenzionalità husserliana e
nell’ermeneutica gadameriana, in Habermas e nel costruttivismo. Infine, con riferimento all’homo
creator, si accennerà alla relazione tra verità e fattualità nello storicismo critico-problematico di
Piovani.
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ORAZIO
Il viaggio oraziano
Il piacere della ricostruzione sulla base dei documenti antichi non è una faccenda moderna: se si
vogliono ritrovare i classici del genere si deve ritornare all’Ottocento; in questo caso specifico
all’articolo di Desjardins del 1878. Dopo questa data ci sono stati commenti su questo genere di
testi, o anche chiarificazioni su vari punti: ma dopo tutto si può sostenere che non c’è una
sistematizzazione dell’insieme di tali testi, che adegui l’analisi storico-antiquaria e topografica al
livello dell’analisi filologico-letteraria. L’esposizione più adeguata a tal fine è quella del Desjardins,
un commento, pedissequo al testo, come una serie di note a margine per lettori attenti. La prima
tappa porta Orazio, insieme al retore greco Eliodoro, da Roma ad Aricia, per un itinerario di 16
miglia. Fino a Forum Appi, dove termina la seconda tappa, ci sono 27 miglia: Orazio descrive la
lentezza della marcia, che lo conduce a percorrere in due giorni la distanza che se ne compie in uno.
Il canale di Forum Appi cominciava tre miglia prima, a Tripontium, e si dispiegava per 19 miglia:
da ciò il nome Decennovius. Questa era ritenuta una successiva innovazione alla creazione della via
da parte di Appio Claudio, ma la scoperta di un miliario a Posta di Mesa con doppia numerazione
consente di correggere tale opinione: su di esso si leggono i nomi degli edili P. Claudio e C. Furio,
il primo dei quali è il figlio dello stesso Appio Claudio, come si evince dall’antichità del cippo. Il
Decennovius è menzionato anche dal geografo greco Stradone che afferma che presso Terracina,
verso Roma, la Via Appia è costeggiata da un canale, alimentato da stagni e fiumi: vi si naviga di
notte, imbarcandosi la sera per sbarcare la mattina e fare a piedi il resto del percorso, ma a volte
anche di giorno. Il battello è trainato da un mulo. La fonte di Ferocia, a cui Orazio si lavò,
alimentava l’acquedotto di Terracina, di cui sono stati ritrovati tratti di tubazione di piombo con
l’iscrizione reipublicae Tarracinensium. Mecenate, Cocceio e Fonteio Capitone, come sostiene
Desjardins, avevano scelto il viaggio via mare, per evitare la fatica, o perché alloggiavano in una
villa costiera. Non si potrebbe altrimenti spiegare l’appuntamento a Terracina, dove cioè, come
afferma Stradone, la Via Appia arriva al mare per la prima volta. Orazio e Eliodoro andarono al
porto, che aveva assunto la forma e le dimensioni che conserverà nel periodo imperiale: infatti, è
appurato che i lavori eseguiti si possano legare alla fondazione di una colonia triumvirale da parte di
Cn. Domizio Calvino, il console del 40 a. C., che s’insediò nella pianura ai piedi dell’antica città
volsca, e della quale si sono preservati svariati resti. Nella descrizione della marcia di tre miglia da
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Feronia alla città, Orazio usa il termine repimus, che vuol dire “ ci arrampichiamo”, suggestionato
dalla posizione dominante di Terracina. Questo stride, tuttavia, con le specificità del percorso, che si
dipana in piano, fino alle porte della città, e con il termine successivo subimus, dal quale si evince
che la strada passava al di sotto di Terracina. Non c’è motivo di adattare repimus, che va tradotto,
nell’accezione più comune del verbo, con “ ci trasciniamo”, per alludere alla fatica di una notte
insonne. Dunque, Orazio non si dirige per l’antico itinerario della Via Appia, che si arrampica sul
monte S. Angelo, ma quello più comodo che lo conduce al porto e da lì, passando sotto il Pisco
Montano, all’imbocco della via dei censori del 184 a. C., la via Flacca. Orazio non dice dove
trascorre la notte: forse in un albergo vicino alla città. A Fondi Orazio dedica un paio di versi per
deridere il provincialismo del magistrato locale, premuroso di mostrare a Mecenate la sua toga
pretesta, il suo laticlavio e le insegne del potere municipale, che celavano le sue origini modeste. Lo
si può identificare con un parente del M. Aufidio Lurco di Fondi che, secondo Svetonio, era nonno
materno di Livia, proprietario della villa di Sperlonga, passata forse a Tiberio mediante la madre. A
Formia la comitiva è ospitata a cena da Fonteio Capitone, mentre dorme a casa di L. Licinio
Marrone Murena: entrambi possedevano una villa a Formia, dove sei anni prima moriva Cicerone.
Dopo 17 miglia, alla comitiva si aggregano M. Prozio Tucca, Vario e Virgilio, provenienti da
Napoli. La giornata si chiude, dopo altre 10 miglia, in una stazione di posta presso il Pons
Campanus, a 17 miglia da Capua. A Caudium due buffoni, Sarmento e Messio Cicirro, gareggiano
in lazzi. Dopo Benevento si cambia strada; Orazio, infatti, prima di Canosa, menziona due tappe un
po’ oscure: Trivicus e un oppidulum non nominato. La Jannaccone ha dimostrato l’inesattezza
dell’identificazione tra Trivicus e Trevico sia topograficamente, sia toponomasticamente: infatti,
Trevico non può essere Trivicum, poiché il nome medievale è stato Vico della Baronia. Il percorso
tradizionale perde consistenza, e così anche l’identificazione dell’oppidulum con Asculum. L’unica
soluzione si può desumere da Stradone, laddove parla dei percorsi alternativi tra Brindisi e
Benevento: due sono le vie, una mulattiera, lungo la quale ci sono Egnazia, Celia, Netion, Canosa e
Herdonia, e un’altra via che passa da Taranto, che allunga di un giorno. Tale via si chiama Appia ed
è adatta ai carri. Anche se Stradone non spiega l’itinerario tra Canosa e Benevento, è evidente che la
via percorsa da Orazio sia la prima, la via Traiana. Quindi, si deve cercare l’oppidulum altrove, e in
ogni caso ad una distanza molto maggiore da Benevento, diciamo due tappe, la seconda delle quali
di 24miglia. Interessante è anche l’indicazione dei commentatori di Orazio, che situano Trivicum
tra Campania e Apulia: si pensi al confine successivo a Costantino, che è molto a est di Benevento:
l’Itinerarium Antonini definisce il confine tra le due regioni a Aequum Tuticum, nei cui pressi,
forse un po’ più a est, si può situare Trivicum; la sua localizzazione deriva dall’identificazione
dell’oppidulum che dista 24 miglia dal primo, misurabile lungo l’itinerario della via Traiana,
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descritto da Strabone. Ora, tra Benevento e Canosa una sola città corrisponde alla descrizione
oraziana, e cioè : una posizione nella pianura apula; la scarsità d’acqua; la distanza da Benevento
che copre due tappe di montagna, e quindi non molto lunga. La posizione in questione corrisponde a
Herdonia come già rilevato da Grasso nel 1893. Se Herdonia è l’oppidulum in questione, Trivicum
si trova 24 miglia prima: non è una stazione importante dato che non è menzionata negli itinerari; la
sosta avvenne del resto in una villa vicina. Il luogo è in un punto a 34 miglia da Benevento, 12
miglia dopo Aequum Tuticum, e cioè tra la mutatio Aquilonis, che si trova otto miglia dopo
Aequum Tuticum, e Aecae, 10 miglia più in là: quattro miglia dopo la mutatio, sei prima di Aecae.
Come sostengono Ashby e Gardner, le sorgenti di S. Vito sono le ultime prima della siticulosa
Abulia: l’oppidulum è più avanti. Il nome Trivicum potrebbe rappresentare un’antica mansio. Se
l’oppidulum è Herdonia si spiega anche l’altro elemento identificativo graziano, e cioè la bontà del
suo pane. I commentatori moderni di Orazio situano a Canosa la tappa successiva: il testo però ci
dice solo che qui Vario si separò dal gruppo, e lo fa in modo tale da farci intendere che l’itinerario
di quel giorno fosse più lungo. Infatti la tappa successiva, Rubi, è raggiunta solo dopo un longum
iter: ora, Rubi dista da Canosa solo 23 miglia, in pianura, anche se fangosa per la pioggia. Si deve
concludere che dopo l’oppidulum ci sia un’unica tappa fino a Rubi, e che la sosta di Canosa fosse
per il pranzo, oltre che per gli addii a Vario: Canosa, a 23 miglia da Herdonia, è a metà strada tra
quest’ultima e Rubi, cosa che conferma l’identificazione dell’oppidulum. In conclusione, le tappe
tra Benevento e Ruvo si possono così ricostruire: settima giornata Benevento-Trivicum; ottava
giornata Trivicum-Herdonia; nona giornata Herdonia-Rubi. Le tappe successive sono chiare: il
decimo giorno si chiude a Bari, l’undicesimo a Gnathia, il dodicesimo a Brindisi, termine del testo e
della via.
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Un angolo oraziano
Il periodo augusteo vede, dopo la morte di Orazio, la creazione della carta geografica nella Porticus
Vipsania del Campo Marzio, la carta di Agrippa nella quale è rappresentato l’orbis terrarum
romano. La geografia di Orazio si pone in tali termini: il richiamo al piccolo paesaggio italico delle
ville e dei luoghi poetici si alterna alla visione delle popolazioni più lontane dell’impero; e tra i due
termini si instaurano relazioni non scontate. Se già Pompeo, nel 61 a.C., aveva fatto rappresentare
nel suo corteo trionfale l’immagine del mondo, e Cesare si era fatto rappresentare con il mondo ai
suoi piedi, Augusto estremizzò l’universalismo romano all’inizio delle Res Gestae: Rerum gestarum
divi Augusti, quibus orbem terrarum imperio populi Romani subiecit. Il trionfo augusteo implicava
così, per i letterati, l’esaltazione del dominio romano: in tal senso l’inizio della Vita di Augusto di
Nicolao di Damasco. Anche Orazio fu in questo numero. Negli Epodi, all’epoca delle guerre civili, i
nemici di Roma sono evocati con terrore, e nel carme iniziale i movimenti di Mecenate per i gioghi
alpini e il Caucaso, o fino all’estremo golfo occidentale sono descritti in modo terribile, in
un’atmosfera di trepidazione prima della battaglia di Azio. Come dirà Orazio nell’ode ad Asinio
Pollione, non c’era luogo senza guerra. Ma nella Satira II 1, dopo Azio, non c’è trepidazione per la
vittoria: facendo cantare a Trebazio le gesta di Cesare invitto. Orazio non parla di Galli morenti e
Parti feriti o di Augusto alla conquista del mondo. Simili recusationes si ripetono; ma il rifiuto della
poesia epica non lo fa rimanere estraneo al trionfo dell’impero: essa avviene in un’altra forma. Nei
primi tre libri delle Odi, i Parti riappaiono, insieme agli Sciti, in I 19, in una nuova recusatio:
Orazio canta temi erotici, non gli Sciti o i Parti sui cavalli in fuga. C’è contrasto tra guerra e
simposio; e c’è una eco del Corpus Theognideum : gli dei vegliano sulla città, si può gioire, senza
temere le guerre dei Medi. In Orazio, tale ricerca di serenità che fa dimenticare la guerra è garantita
dall’impero vittorioso. Tuttavia, nonostante il disinteresse, gli Sciti, e i Parti, sono presenti nelle
Odi, e con loro i Britanni, gli Arabi, i Cantabri, i Daci, i Seri, gli Indi ecc.: le guerre che Roma
condusse nel mondo sono ricordate nelle odi augustee. Se in I 2 la guerra contro i Persae o Medi è
ancora l’auspicio del superamento delle guerre civili, le cui conseguenze si scaricano su Persiani e
Britanni, in I 35 Orazio invoca la Fortuna perché favorisca le spedizioni imperiali contro i Britanni
e in oriente. In tal senso l’ode a Valgio Rufo, nella quale con un rovesciamento del topos, è il
pubblico a compensare il privato. La natura è dominata dall’impero, l’orbis è regolato. In I 12
l’esaltazione della gens Iulia ha il suo acme nell’impero augusteo, come il regno di Zeus in cielo:
Augusto trionferà sui Parti, i Seri e gli Indi, reggerà con giustizia il mondo ormai felice. Roma
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impone le sue leggi sui Medi, estende il suo dominio fino agli estremi lidi; raggiungerà il confine
del mondo: così l’ode III 3, nella quale la recusatio finale è solo falsa modestia. Il tema della
corruzione dei costumi a Roma consente ad Orazio di continuare ad esaltare i selvaggi popoli del
nord, e a rappresentare Sciti e Geti come modelli, in anticipo al Tacito della Germania. Nelle parole
del Carmen Speculare, Parti, Sciti e Indi obbediscono a Roma, nella quale, insieme a Fides, Pax et
Honor, sarebbe ritornato il Pudor priscus e la neglecta Virtus. Ed esaltando le vittorie di Druso su
Reti e Vindelici, Orazio non parla della corruzione romana, ma omaggia la gens Claudia
descrivendo i figli come i padri, fortes nati fortibus et bonis; mentre per le vittorie del fratello,
Tiberio Claudio Nerone, compone un’ode che è un elenco di popoli dominati, come preludio al
trionfo dell’epoca augustea, in cui i popoli danubiani e del Tanais, i Geti, i Seri e i Persiani
obbediscono alla legge romana. La poesia di Orazio è collegata all’ideologia del dominio
universale. La creazione di elenchi di popoli, come ritualizzazione ossessiva, secondo Canali, è un
mezzo grazie al quale Orazio celebra l’impero, ripetendo il concetto di sottomissione a Roma. Il
concetto che, con efficacia ed efficienza di mezzi, è comunicato è che anche i popoli più lontani
sono dominati; gli Sciti sono superbi, ma nuper; e se la pericolosità del nemico è esagerata, anche
questo fa brodo per la propaganda. L’ode IV 14 tratteggia i vari popoli: i Vindelici ignoranti della
legge romana, l’implacidum genus dei Genauni, i Breuni veloces, asserragliati sulle Alpi, i Reti
immanis, i Cantabri mai domi, gli Sciti nomadi, il Nilo con le sorgenti nascoste, il Tigri rapidus,
l’Oceano popolato da animali misteriosi, i Galli impavidi della morte, la dura Iberia, i Sigambri
caede gaudentes. Ma questa congerie di popoli e luoghi esotici si interrompe nel verso finale: hanno
deposto le armi. Ciò che di più lontano c’era al mondo è ora di Roma; nella prosa di Nicolao di
Damasco Augusto conquista popoli dei quali non era noto il nome, né erano mai stati dominati. In
tale prosa l’epiteto prevale. Questo ci conduce alla recusatio. Orazio non vuole celebrare in forma
epica, ma la sua opera mostra che, in una forma più sottile, ha voluto farlo. In tal senso la recusatio
nell’ode IV 2: mentre si dichiara non degno per l’epica, unisce però la sua voce a Iullo, e
all’insieme degli elogi. Nicolet ha menzionato che l’uso che la poesia di ogni genere ha fatto dei
nomi propri, dei miti, della propaganda, dei trionfi, concludendo che ci sia una geografia di Virgilio,
di Orazio e di Ovidio. Orazio è conscio dei suoi mezzi , più sottili, in vista dell’obiettivo di
diventare il cantore dell’impero; e la sua consapevolezza emerge in tutta la sua opera. Nell’ode I
22,con tono scherzoso, Orazio sostiene che, come amante, può viaggiare dovunque senza subire
conseguenze. L’ode va considerata insieme a quella finale del libro II, dove Orazio immagina la sua
fama futura: trasformato in uccello di Apollo, il cigno poetico, sconfiggerà la morte e volerà sul
mondo. La prima parte del volo va da sud a nord: come immagine del cigno migratore, ha carattere
mitico, con il richiamo ad Icaro e agli Iperborei, e ricorda il volo sciamanico di Aristea di
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Proconneso come è descritto da Massimo di Tiro. Se i Colchi sono misteriosi, noti per Medea, i
Daci, i Geloni, gli Iberi e il Rodano si riferiscono alle spedizioni augustee tra Gallia Narbonense e
Spagna ad ovest e Danubio e Tanais a est; infatti dei Daci si afferma che celano il terrore delle
truppe marse: non solo geografia letteraria, ma un popolo rappresentato come suddito dell’impero,
con i Marsi rappresentativi del nerbo dell’esercito italico. In tal senso l’epiteto esperto riferito agli
Iberi: gli Iberi leggeranno Orazio perché sono sudditi di Roma, conoscono la cultura latina. C’è un
sottinteso: se la poesia sopravvivrà ad Orazio, e diverrà nota in tutto il mondo, ciò succederà perché
l’impero garantirà al suo vates, anche se di modeste origini, una diffusione senza confini,
espandendo la cultura latina in tutto il mondo; e in tal senso anche nell’ode III 4 , nella quale un
viaggio fantastico protetto dalla Musa si dipana sino ai confini estremi dell’impero, e prelude al
trionfo di Augusto. Nell’ode finale della prima raccolta lirica, Orazio lega l’eterna durata della sua
gloria alla sussistenza della cultura romana, in una clausola eterna che, per il tono esaltato del
carme, non va presa in modo scontato: finché il pontefice salirà con la vergine muta il Campidoglio.
Rispetto a II 20, però, in quest’ultima ode la fama di Orazio non si espande per il mondo: luogo del
trionfo è la regione natale, quella terra bagnata dall’Aufido dove è nato povero per divenire grande.
Il tono esaltato con cui Orazio descrive i suoi viaggi fantastici protetti dalla Musa stride rispetto alla
paura di fronte ai movimenti che si rileva nel resto della sua opera. Prima di Azio, Mecenate è nella
comitiva che accompagna Augusto a Brindisi, per la guerra, e Orazio vuole seguirlo per i gioghi
alpini e il Caucaso o fino all’ultimo golfo occidentale. Il quadro è tetro: Mecenate vuole affrontare
ogni pericolo per Cesare Augusto, e per Orazio il viaggio è labor. Una decina d’anni dopo, letterati
come Giulio Floro, Tizio, Munazio e Celso Albinovano seguono Tiberio Claudio Nerone in un
clima diverso, in una missione che avrebbe riordinato l’Armenia e pacificato i Parti. Orazio ricorda
l’avvenimento, e ricorda agli amici il compito di res gestas Augusti scrivere , e tramandare guerra e
pace dell’imperatore; ma Orazio non vuole questo ruolo di cortigiano, e rivendica la sua scelta di
vita. Il luogo che Orazio sente proprio è quello della villa: quella sabina; poi Tivoli, o la campagna
tarantina. Se un’ode come III 13 sembra uno schizzo di rappresentazioni sacrificali tra sorgenti,
boschi e tempietti tipici della pittura, lo spazio dei campi della villa ha un valore più esteso in
Orazio. In I 7, con la tecnica della Priamel si oppone Tivoli, tratteggiata con i suoi templi, boschi,
frutteti e torrenti, ai luoghi greci; un’opposizione in contrappunto a quella Tivoli accampamenti
militari: il paesaggio di Tivoli, descritto come una villa, rappresenta per Munazio Planco il luogo
del ritorno dalla guerra. Nell’ode II 6 in opposizione al viaggio presso i Cantabri o nelle Sirti,
Orazio, stanco di mare, strade e guerre, vuole ritirarsi a Tivoli, o nella campagna tarantina. In II 16,
dopo l’inizio che ricorda il mare, i Traci e i Medi, la voglia di quiete si realizza nei parva rura.
L’elenco è lungo; omaggiato il locus classicus, la satira II 6, si ricordi la presenza della villa nelle
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Epistole. La villa sabina, o quella di Tivoli che era luogo di villeggiatura della Roma bene, è per
Orazio un luogo della verità dello spirito. Il bosco delle Muse dell’ode I 1 si identifica con la villa, e
l’Arcadia diventa la villa in cui Orazio sta in compagnia di dotti amici. Il paesaggio poetico diventa
luogo della verità, come anche sostenuto dalla Troxler-Keller. Tivoli è la poesia di Orazio nell’ode
IV 3; mentre nell’ode IV 2 l’ape matina del poeta vola per la campagna di Tivoli. La scelta oraziana
della Musa tenuis , di contro l’epica, si ritrova nei parva rura, nel modus agri non ita magnus; vita
e ideale poetico coincidono e si trasformano nella rappresentazione, verisimile, della villa lontana
dalla città ma aperta alle Muse. Per Fraenkel l’ode III 4 è impressionante: dopo l’inizio pindarico,
l’invocazione a Calliope e l’evocazione del paesaggio fantastico delle Muse, i nomi di persone e
luoghi che erano poco chiari ai contemporanei di Orazio, come il Vulture, Acerentia, Bastia,
Forentum. Per La Penna è un’autobiografia carismatica che Orazio traccia, descrivendosi come
vates amato dagli dei e dalle Muse. Così, dopo l’evocazione della poesia tradizionale, Orazio,
descrivendo la sua iniziazione poetica, converte italicamente il modello. Se Esiodo parla
dell’Elicona, Orazio parla del Vulture, e descrive il suo mondo nativo, quello lucano. E se il pezzo
successivo autobiografico comincia con l’evocazione dei luoghi di villeggiatura della Roma bene,
ciò è connaturato all’ideologia della villa come luogo vero della poesia: Orazio lega la poesia ai
luoghi dei suoi dotti amici. La poesia oraziana leggera e raffinata non ha origine, come l’epica, nei
viaggi di guerra o diplomatici, ma nell’angulus in cui l’intellettuale si gode il suo otium. Il mondo
della villa è rappresentato da Orazio con tinte ideologiche che sono ascrivibili alla propaganda
augustea; la rivendicazione delle sue origini italiche, dai richiami alla terra d’origine
all’introduzione di modelli positivi come il padre o il rustico Ocello, dall’esaltazione dei Sabelli,
Marsi e Apuli alla citazione dei luoghi italici rispetto a quelli greci, va inserita in tale situazione.
Inoltre il vagheggiare graziano del suo angolo di mondo non solo è in opposizione, ma si lega al
trionfo dell’impero, politicamente ed esteticamente: se al nuovo regime augusteo il ripiegarsi in se
stessi era gradito, per Orazio era l’impero a garantire il poter coltivare il proprio orto. Dopo aver
citato Baia, Orazio ritorna alla sua vita; quindi, incomincia col tema del viaggio fantastico: con le
Camene, Orazio può, senza conseguenze, dirigersi verso il Bosforo, verso i deserti di Assiria, verso
i Britanni, verso i Concani, verso i Geloni, verso il fiume di Scizia. Riappaiono i luoghi delle
spedizioni augustee; e Augusto è citato, e quasi accomunato ad Orazio: le Camene consolano
l’imperatore di ritorno dalle guerre, che è accomunato a Giove. Augusto, Giove in terra, dominatore
del mondo, che permette ad Orazio di ritirarsi nella villa e di aver fama di poeta. Il figlio del liberto,
educato ai veri valori ma anche colto, diviene vates e, nella serenità della villa, si dedica alla poesia
che gli darà fama imperitura. Tra l’iniziazione in Lucania e la fama eterna, l’otium della pianura
sabina, di Tivoli, di Preneste, di Baia, si trova il punto di passaggio. Secondo Traina, l’angulus si
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allarga ai confini dell’impero, senza perdere il suo carattere protettivo. Dopo le guerre civili, e
l’aver sbagliato a parteggiare, Orazio vede nell’impero augusteo la possibilità di trovare uno spazio
sereno e realizzarsi come poeta, riscattando le sue modeste origini. Qualcosa resta irrisolta: dietro
l’Orazio poeta universale nella serenità della sua esistenza resta l’uomo nevrotico che ci dice, nelle
epistole I 11 e 14, di non trovarsi mai veramente bene, di essere logorato da una strenua inertia. Di
qui la citazione di Pallia, Aderenza o Banzi in modo pindarico; né differente è la vanità con la quale
il natus ad Aufidum cita il fiume delle sue origini, in tono aulico e con un epiteto come tauriformis,
in un trionfo augusteo che si svolge nel mondo intero, dall’Iberia alla Scizia.
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Geografia oraziana
La poesia di Orazio ha molti punti di interesse geografico: una precisa toponomastica, scorci
paesaggistici, richiami a fenomeni fisico-geografici, geografie speciali.La geografia della
percezione è il filo conduttore per svolgere l’analisi dell’opera oraziana per una realizzazione di una
carta geografica e del suo commento. Pertanto, si deve pur derivare dalla toponomastica oraziana
una carta geografica dell’Italia: una geocarta più simile ad una mappa mentale, poiché realizzata su
luoghi desunti dall’opera stessa di Orazio e perciò legata alla sua percezione dello spazio
geografico. In Orazio c’è la tendenza a rendere reali le immagini, i pensieri, i sentimenti con
richiami a luoghi geografici peculiari e quindi latori di particolari significati. Dopo tutto, Orazio,
anche quando è satirico, se la prende con persone rinomate per essere avare, dissolute, sfaccendate,
ecc., così che, pur nominando, la satira resta impersonale, tesa a castigare il difetto più della
persona: la citazione del personaggio dà maggior verità e incisività. Nel Carm. I 2, 39 il soldato che
fissa crudelmente il nemico ucciso è personalizzato in quello Marso, poiché famoso guerriero. Nel
Carm. I 31, la Sardegna evoca immagini di ricche messi, la Calabria di grassi armenti, Calvi di
famosi vigneti, così come le terre bagnate dal Liri simboleggiano campagne fertili. Nel succitato I
31, l’India è terra d’avorio, la Siria di profumati unguenti. Nel Carm. I 12, il canto di Clio rimanda
immagini di monti, di pianure, di boschi, immagini che si incarnano nei luoghi abitati dalle Muse: le
falde ombrose dell’Elicona, il Pindo, il nevoso Emo. Le Sirti caldissime o il selvaggio Caucaso o le
regioni bagnate dal fantastico Idaspe rimandano a luoghi lontani, pericolosi, inospitali: e tuttavia
raggiungibili senza conseguenze per chi, come Orazio, è integre vitae scelerisque purus. E così, nel
saluto al Secondo Libro delle Odi la fama di Orazio, più famoso di Icaro, riecheggerà per il mondo,
delimitato da luoghi e popoli lontani. E ancora: quello che cerca è a Ulubra se non manca la
serenità. In Orazio, inoltre, la toponomastica permette di accennare, seppur semplicemente, anche a
qualche geografia speciale, ad una geografia culinaria. In Ars Poetica , il miele sardo, mescolato a
semi di papavero, non è così buono.Il miele buono si produce in Calabria, dove Orazio però non ha
alveari. In Sat. II 4, 24-27, Aufidio mescola il miele col Falerno, vino forte, e sbaglia perché solo le
bevande leggere a stomaco vuoto bisogna assumere; si fa meglio a bere vino leggere con miele.
Orazio, inoltre, menziona vini famosi, tipici di determinate zone, che andrebbero etichettati come
vini d.o.c.: Massico, Caleno, Albano, Falerno, Cecubo. Le Epistole I 15 e I 16, infine, contengono
note di geografia medica: nella prima, ad Orazio, che frequenta le terme sulfuree di Baia, il medico
di Augusto consiglia di curare i reumatismi con le acque fredde, come quelle di Chiusi, o di andare
11
a Gabio o in montagna; nell’altra, Orazio cita la sorgente vicina alla sua villa sabina, le cui acque
sono un ottimo rimedio contro il mal di stomaco e il mal di testa. Lo spazio vissuto ha nella poesia
di Orazio notevole importanza. Nel Carm. I 33, 7-9, prima che Foloe vada con brutto amante, è più
facile che in Puglia le capre vadano coi lupi: non che i lupi pugliesi siano brutti, ma solo perché
Orazio li vede ancora innanzi a sé ricordando l’infanzia, quando ci spaventa ed impressiona per i
racconti sulla ferocità dei lupi o per qualche disavventura personale. Venosa fu fondata nel 291
a.C., dopo l’ultima guerra sannitica, a presidio della via che porta a Taranto, ai confini tra la
Lucania e l’Apulia: Orazio stesso non sa se è Lucano o Apulo. Pugliese o Lucano che sia, Orazio,
l’istinto alla lotta gli è innato: gli deriva dall’incrocio tra popoli guerrieri e conquistatori romani, gli
deriva dalle sue origini, luogo natio percepito con l’orgoglio e l’amore di un carattere pugnace e
satirico. La Puglia, inoltre, ha un posto importante nella poesia di Orazio, non solo perché terra
legata, con la Lucania, ai ricordi d’infanzia, ma anche perché percepita come ponte verso l’est e la
Grecia: un luogo cruciale di collegamento tra Roma ed Atene. E in Puglia Orazio si imbarca per
Atene, dove, quando aveva vent’anni, va a perfezionare la sua formazione culturale. In Puglia
ritorna, diretto a Roma, con l’amnistia concessa dai triumviri ai seguaci di Bruto l’anno dopo la
battaglia di Filippi: un ritorno scosso da un naufragio prope litus Matinum, stando al Carm. I 28,
secondo cui Orazio immagina di essere sbattuto dalle onde del mare, morto, sulle coste di Mattinata,
dove è sepolto Archita. Nel Carm. III 27, 18-20, Orazio si rifà ad un’esperienza personale, che fa
credere che abbia avuto esperienza del mare Adriatico in tempesta: esperienza che non augura di
fare a Galatea in partenza, ma solo alle spose e ai figli dei suoi nemici. Orazio dice di aver corso
pericolo in mare quando stava naufragando presso Capo Palinuro: ciò non esclude che anche
un’altra volta, lontana nel tempo, abbia vissuto lo stesso pericolo, quando, cioè, ritornò in Italia,
dopo la battaglia di Filippi, dirigendosi verso la Puglia. La Puglia è ancora vista come ponte verso
la Grecia nel Carm. I 3, un’ode di augurio per un viaggio di Virgilio poi rinviato: l’augurio che di
tutti i venti Eolo lasci libero solo lo Japige, che, soffiando dalle coste pugliesi, favorisce la rotta
verso la Grecia nell’Adriatico, un mare, visto, qui come altrove, come tempestoso. E Brindisi è la
tappa ultima di un viaggio di Orazio del 37 a.C., per ragioni diplomatiche, con Mecenate ed altri
amici narrato nella Sat. I 5. Un altro aspetto della Puglia citato da Orazio, si riferisce a una
caratteristica geografica tipica della regione: l’essere arida e caldissima. Tuttavia, la visione di una
terra riarsa dal sole è edulcorata dalla presenza di grata armenta : segno di vita, laboriosità,
benessere, che addolcisce la natura aestuosa di questa zona rispetto alle Syrtis del Carm. I 22, 5,
anch’esse aestuosae e suscettibili di solitudine, pericolo e morte. Va rilevato che quegli armenti
Calabri erano soggetti alla transumanza verso i pascoli della Lucania, come menzionato da Orazio
in Epodi I 26-7 e frequente in altre subregioni della Puglia, come il Tavoliere, dove, in epoca
12
aragonese, sarà regolamentato, rispetto ai monti abruzzesi e molisani, con l’istituzione ai fini fiscali,
ad opera di Alfonso I, della Dogana della mena delle pecore in Puglia. Taranto è descritta da
Orazio in modo tenue e delicato: una campagna bella tanto da poter gareggiare con quella della sua
villa sabina, dove, dicas adductum propius fondere Tarentum. Orazio compone i suoi versi con
diligenza, come un’ape laboriosa: apis Matinae more. Lasciata Venosa, quindi, Orazio va col padre
a Roma; e qui lo scolaro diventa poeta, amico di uomini famosi. Meglio la campagna: per chi ha
fatto dell’aurea mediocritas un ideale di vita, è più saggio vivere lontano, con distacco, dai ritmi
cittadini, in serena compagnia di amici cari, senza pensiero alcuno godendosi con raffinatezza i
piaceri veri della vita così caduca. Spesso, quindi, Orazio si sofferma, soprattutto nelle Odi, in
raffinate descrizioni della sua villa sabina, dove, vicino ai villaggi di Mandela e di Varia, Mecenate
gli ha regalato una villa. Nel Carm. I 7 Orazio ci tramanda di Tivoli un quadro sereno, nel quale le
bellezze della natura si uniscono al mito: le cascate dell’Aniene, la grotta di Albunea, ninfa Sibilla
di Tivoli, il bosco di Tiburno, fondatore della città, i frutteti bagnati da ruscelli. I paesaggi descritti
da Orazio sono immagini di serenità campestre, sia quelli di contrade note, sia quelli idealizzati :
paesaggi sereni, italici, descritti in un clima di quieta laboriosità, resi delicati da danze di Ninfe e
Satiri in boschi freschi d’ombre e acque.
13
CRONACHE TRA PROPAGANDA E MEMORIA
Coscienza e storiografia nel Chronicon di Falcone di Benevento
L’edizione del Chronicon Beneventanum di Falcone di Benevento, a cura di D’Angelo, che è
ecdoticamente accurata, nonché munita degli strumenti necessari alla consultazione, si basa su
quattro manoscritti che riportano la cronaca, che, nella parte che si è preservata, descrive gli eventi
dal 1102 al 1140: i Barberiniani Latini 2330 e 2345 della Biblioteca Apostolica Vaticana, il San
Martino 66 e il suo descriptus, il San Martino 364, della Biblioteca Nazionale di Napoli. Nei secoli
XI, XII e XIII, lo sviluppo degli Stati nazionali genera una produzione atta ad esprimere queste
nuove realtà istituzionali (Storiografia dei regni). Essa opera da un’ottica nazionale, come quella
fiorita in Età Barbarica, ma non etnica (e in questo può ritenersi differente anche dalla storiografia
normanna). La cronaca di Falcone non può essere annoverata in nessuna delle due categorie.1 I
criteri ortografici sono scelti molto attentamente, e tengono conto del genere letterario al quale
appartiene la cronaca e della sua funzione, che intende comunicare contenuti fattuali: quindi,
secondo D’Angelo, i filologismi esasperati, alla ricerca dell’usus ortografico dell’autore, o di quello
di uno solo o anche tutti i testimoni della sua opera, che compromettessero la comprensibilità,
potrebbero risultare sterili. D’Angelo sposta il baricentro del suo interesse verso l’ambito linguistico
e letterario. Falcone è stato considerato il campione della fazione longobarda che lotta contro i
normanni che vogliono stabilire il loro dominio. Ma, forse, si deve considerare la cronaca di
Falcone come un’opera che vuole descrivere i tentativi di Benevento di rendersi autonoma sia dal
papa, sia dai normanni. Falcone appartiene alla fazione filopapale ed antinormanna, e, anche se
oscillando, nella sua cronaca descrive gli eventi dal proprio punto di vista. A Benevento ci furono
momenti di crisi. Crisi come quella del febbraio 1113, che portò alla scissione dei beneventani per
l’elezione del nuovo rettore, da scegliere tra Ansone e Landolfo Borello; o quella del 1114, che
condusse allo scontro tra i partigiani di Landolfo di Greca e quelli dell’arcivescovo Landolfo,
scontro che vide il trionfo della fazione popolare, ma che, dopo l’intervento di papa Pasquale II che
condusse alla cessazione delle tensioni autonomistiche della città. Il centro della narrazione di
Falcone è la tensione indipendentista, che, si incarnano nel discorso di Roberto di Capua alle forze
antiruggeriane accampate al ponte di San Valentino, vicino Benevento, nel luglio 1132. In questo
1
E. D’ANGELO, La letteratura latina medievale: una storia per generi, Viella, 2009, p.177.
14
discorso, uno dei tanti che, secondo la tradizione cronachistica notarile, sono riportati direttamente
da Falcone, si spinge sul sentimento di libertà, che, però, deve essere non solo conservata ma anche
accresciuta, anche a costo di sacrificare la casa, la famiglia e la vita. Falcone dà rilievo alle notizie
dei privilegi, concessi da ambo le parti, che esentavano Benevento dal pagamento dei tributi e le
riconoscevano uno statuto e un’autonomia eccezionali. Sintomatico è il cambiamento di giudizio su
Ruggero, che si è ravvisato nella sua cronaca. Anche nella sua descrizione degli eventi del 1132,
Falcone pur sapendo che i nemici del re avevano la ragione dalla loro, il suo giudizio su Ruggero
non fu interamente negativo, o perlomeno non nei termini che diverranno usuali nell’ultima parte
della cronaca.2 Ruggero è definito da Falcone peggiore di Nerone.
O dolor, et dictu terribile: sub colorato nomine Romanae Sedis Beneventanam civitatem, quae in vigore libertatis et in
Beati Petri fidelitate longe lateque permanserat, sub predicti regis Rogerii crudelitate, execrandae, ut ita dicam,
memoriae, submittere disponebant.3
Regem vero testamur eternum, iudicemque communem, Neronem crudelissimum imperatorem Paganorum in
Christianos stragem talem legimus non exercuisse!4
Il cambio di punto di vista, che avviene in connessione con la presunta concessione ai Beneventani
di un importante privilegio non è definitivo, ma legato alle dimostrazioni di benevolenza del re nei
confronti di Benevento. Infatti, se di Ruggero è lodata la saggezza strategica in battaglia quando è
alleato dei Beneventani, dello stesso sono condannate la rabbia nella profanazione del corpo di
Rainolfo di Puglia e l’imperizia nella promulgazione delle norme in materia monetaria, con cui si
obbligava l’uso dei ducati.
Rex vero, ut erat sapientis consilii, per montana quaeque et loca ardua castrametatur, et sic ducis vitabat prudentiam et
virtutem; unde dux ille vehementer condolens mente et corpore fremebat, quia cordis dolorem ostendere non poterat;
novissime apud Alifas moratur, existimans regem illum Alifis venire. 5
2
G.A.LOUD,Montecassino and Benevento in the Middle Ages: Essays in South Italian Church History,
Ashgate/Variorum,2000, p.369.
3
FALCONE DI BENEVENTO, Chronicon Beneventanum, 1133.13.13.
4
ibidem, cit., 1133.10.6.
5
ibidem, 1138.4.3.
15
Continuo, qui missi fuerant, civitatem regressi regis intentionem omnibus patefaciunt; et licet dolore commoti cives ex
tanta regis responsione, quatuor tamen militibus preceperunt ut, sepulcro fracto, cadaver ducis Rainulphi extraheretur,
et extra civitatem educerent ut, furore regis sedato, ad eos pacificus ingrediatur.6
Et mortali consilio accepto, monetam suam introduxit unam vero, cui "ducatus" nomen imposuit, octo romesinas
valentem, quae magis magisque erea quam argentea probata tenebatur; induxit etiam tres follares ereos romesinam
unam appretiatos. 7
La cronaca di Falcone, quindi, non va letta come il resoconto del conflitto tra i longobardi e i
normanni, ma, piuttosto, come un più ampio movimento di conquista di sempre maggiore
autonomia, che, così come rilevato da Vitolo, si può ritrovare in quasi tutto il Mezzogiorno. In tal
modo si può comprendere il rilievo che è dato da Falcone, enfaticamente, alla distruzione dei
vigneti beneventani, che rappresentano il sostrato economico sul quale la città fonda il proprio
commercio, fonte principale delle tensioni autonomistiche.
Eodem anno, Crescentius cardinalis, de quo superius mentionem fecimus, cum prefato rege Rogerio consiliatur, ut
vineae omnes Beneventanorum et possessiones incenderentur, excogitans terrorem Beneventanae civitati inducere, et
sic civitatem sub nefandi regis imperio subiugare.8
Falcone poi inserisce nella sua cronaca rimandi ai miracoli e al culto di Barbato, patrono della città.
Forse, con tali inserzioni, Falcone vuole difendere l’unicità di Benevento rifacendosi non alla
tradizione longobarda ma facendo di Benevento la città santa di un’area geografica interessata a
giorni difficili. Falcone, che fa parte del partito filopontificio, avversario di quello popolare guidato
dall’arcivescovo Landolfo, non può non estasiarsi di fronte alla cerimonia della traslazione delle
reliquie dei santi ritrovati, voluta e organizzata da Landolfo per accrescere la propria autorità. Le
reliquie tengono unita la collettività, ne rafforzano l’identità; la proteggono e la garantiscono, non
6
ibidem, 1139.10.3.
ibidem, 1140.4.3.
8
ibidem, 1133.10.1.
7
16
solo a livello spirituale, ma anche nella possibilità di salvezza e trionfo. La cronaca di Falcone va
vista da una nuova prospettiva. Essa si inserisce nel contesto della coeva produzione cronachistica
dell’Italia meridionale, ma necessita di una nuova interpretazione che non la collochi nella
storiografia statica o regressiva. Della storiografia etnica, nella quale secondo Resta, possono
confluire le opere di Amato di Montecassino e Goffredo Malaterra, Falcone rifiuta il monografismo;
e ideologicamente rifiuta l’etnicismo; non ci sono nella sua opera opposizioni etniche: i normanni
sono definiti sociologicamente, e i longobardi compaiono solo tre volte, e non oltre il 1114.
Dell’altra tipologia storiografica, quella definita dal Resta statuale, e nella quale rientrano
Alessandro di Telese e Romualdo Guarna, Falcone non condivide la reductio ad unum ruggeriana, e
non ha coscienza del regno. Non si può, quindi, definire la storiografia di Falcone antinormanna o
antiruggeriana; è più vicino alla tradizione cassinese, dal punto di vista dei contenuti, per il carattere
locale, e dal punto di vista formale, per la forma annalistica. Ideologicamente, infine, non c’è in
Falcone quella spiegazione globale razionale della storia, che è tipica della storiografia normanna.
L’opera di Falcone rientra nella storiografia cittadina, quella che si sviluppa nei comuni dell’Italia
settentrionale, ad opera di cronisti –notai. Le mansioni di Falcone, che, nella sua opera, si definisce
notaio del Sacro palazzo. La sua professionalità, dopo tutto, è evidente, a volte, anche nell’opera,
quando sono ricordate in dettaglio faccende di natura giuridica; ma la prassi della sua attività di
attestazione della pubblica fede traspare anche quando afferma che quello che descrive lo ha sentito,
lo ha visto.Frequentissimi sono i casi in cui Falcone, nella descrizione, usa la prima persona plurale,
o si rivolge al lettore, dicendogli che se fosse stato presente avrebbe potuto riferire meglio. A volte,
quando Falcone non era presente, riporta quanto gli è stato riferito da persone degne di fede.
Dunque, la prassi, acquisita con la sua professione, di corroborare con testimonianze quanto è
riportato incide anche sulla sua tecnica storiografica, che, in ciò, non è differente dagli altri cronistinotai. In tal senso anche la memoria è importante per la professione notarile e per lo storiografo per
corroborare o mettere in dubbio le testimonianze. In merito a quest’ultimo aspetto si deve ricordare
che, come risulta dalla contesa sulla nomina della badessa del monastero di Santa Maria, dagli atti
prodotti dal monastero risultava che la prima badessa era stata Labinia, ma Falcone interviene
affermando che era stata la seconda. La pervasività della prassi notarile, dopo tutto, è evidente
anche per l’uso di formulari notarili, così come è rilevato da D’Angelo. Ma ciò nulla toglie alla
volontà di Falcone di fare della sua cronaca un testo fruibile e piacevole. A volte, compaiono anche
talune dichiarazioni di falsa modestia, o di cortesia verso il lettore, o di ineffabilità. Così come
frequenti sono le figure retoriche, usate abilmente da Falcone, e le clausole ritmiche, che seppur non
usate sistematicamente, evidenziano momenti di partecipazione emotiva dell’autore. Tuttavia, la
descrizione degli eventi è limitata a Benevento. Quando raramente essa si sposta, come ad esempio
17
quando tratta dell’assedio di Ruggero a Napoli, ciò si spiega col fatto che Falcone era in quella città
esule da Benevento, in cui era prevalsa la fazione a lui avversa. Si sa del suo esilio perché è Falcone
a ricordarlo quando torna a Benevento nel 1137. Falcone era stato esule nel 1134, ossia quando lo
era stato anche Rolpotone. Ma ci si può chiedere perché non lo dica esplicitamente, così come per il
suo ritorno. Falcone si comporta diversamente in altre occasioni quando ricorda con partecipazione
le vicende di altri Beneventani meno influenti, come Pietro del Popolo o Giovanni di Lepore. E in
modo più enfatico, Falcone ricorda la sorte di alcuni pugliesi, pure costretti all’esilio nel 1133 da
Ruggero. Falcone non omette per modestia. Infatti, quando parla della sua nomina a giudice, non
lesina sui particolari: sono descritte tutte le fasi della sua elezione, della sua approvazione e della
comunicazione data al papa. Oppure, ogni volta che è riportata la notizia del ritrovamento e della
traslazione dei santi, Falcone non omette di dire che ha baciato le reliquie.
Unde in basilicam, quam Gualterius Tarentinus archiepiscopus pro sanctorum illorum dilectione construi fecerat,
magno cum honore et letitia predictorum sanctorum ossa collocata sunt, nobis videntibus et de illorum ossibus
osculantibus.9
Dunque, la ragione di ciò è nella volontà di Falcone di omettere, di dimenticare una parte poco
piacevole della sua storia e di quella di Benevento. Quasi si sorvola sul fatto che l’antipapa
Anacleto, sostenuto da Ruggero, entra a Benevento e si vendica dei suoi nemici radendo al suolo le
loro case: e forse tra queste c’era anche la casa di Falcone. La scarsità delle notizie nel periodo
1134-36 non si può spiegare col fatto che Falcone fosse altrove, perché, comunque, avrebbe potuto
avere notizie facilmente sulla sua città essendo forse a Napoli. Forse in Falcone c’è una spinta alla
condanna della memoria di quel periodo, che deve scomparire: un periodo che rappresenta
l’annichilimento dell’autocoscienza cittadina di Benevento. Invece la concessione dei privilegi alla
città è descritta da Falcone con viva partecipazione. Falcone partecipa alla gioia di quella
eccezionale concessione, resa possibile grazie anche a Dio, che protegge la santa e fedele città, sede
di reliquie. La gioia di Falcone è evidente per il passaggio subitaneo alla prima persona plurale. La
gioia ineffabile per il privilegio è quella dei messi beneventani, ma la liberazione è collettiva, della
città e di Falcone, come si evince ancora dalla prima persona plurale. E Falcone ancora esulta
insieme ai suoi concittadini. Il privilegio di Ruggero è ricopiato integralmente nella cronaca di
9
ibidem, 1129.2.2.
18
Falcone: ed è l’unica volta che succede una cosa del genere. Ma il privilegio, come sostiene Bruehl,
si rivela, un falso, esemplato su uno concesso dal re. Si deve capire ora se Falcone fosse a
conoscenza della mistificazione. Probabilmente ne era consapevole. Diversamente da quanto
avviene per la maggior parte delle cronache basso-medievali scritte da notai, quella di Falcone
aveva una certa circolazione. Essa, infatti, non rimase chiusa in un cassetto e non fu lasciata in
eredità, come successe per il lavoro del padre di Rolandino da Padova, ma fu modello e fonte per la
Chronica Sanctae Mariae de Ferraria. Purtroppo manca il proemio della cronaca di Falcone, che
avrebbe fatto capire meglio il senso di quest’opera, ma riprendendo ciò che ha sostenuto Giovanni
di Salisbury, quasi coevo di Falcone, nella prefazione della sua Historia Pontificalis, in cui sostiene
che tali cronache servono a corroborare privilegi; oppure ciò che ci dice Leone Morsicano, anche lui
coevo, sull’incarico affidatogli dall’abate Oderisio di esaminare attentamente i privilegi degli
imperatori e di sistemarli in una cronaca, oppure, ancora, la prassi, simile, rintracciabile in altre
coeve cronache con documenti. E tale funzione corroborante può essere riscontrata anche in
Falcone: certo non in tutta l’opera, perché essa non sembra prestarsi, complessivamente, a tale fine,
ma almeno nella parte relativa al privilegio di Ruggero. Certo è difficile pensare che Falcone abbia
ricevuto il compito di redigere la sua cronaca; dopo tutto, ciò non era successo neppure con Caffaro,
che in autonomia si era dedicato alla stesura degli Annali, anche se poi furono approvati e ratificati
dai consoli e dal Consiglio di Genova. E l’opera di Falcone non ha avuto pubblica lettura come
successe per quella di Rolandino da Padova. Ma i continui appelli al lettore, per quanto retorici,
potrebbero rimandare ad una fruizione ufficiale, o, perlomeno, all’aspirazione a diventarlo.
Nihil etenim lectoribus et audientibus proderit mendacia proferre, et vanitate repleta, cum tot, ut predixi,
vera habeantur quae, Domino favente, ad posteritatis memoriam ducere curamus. 10
E pure l’invocazione alla carità vostra, seppur non testimonia dell’appartenenza di Falcone allo
stato clericale, potrebbe essere rivolta ad un alto rappresentante delle istituzioni ecclesiastiche,
che, forse, governava Benevento, città sottoposta alla Santa Sede. Comunque, Falcone si
dedicò, anche senza richiesta specifica, alla stesura della sua cronaca, poiché colto e notaio,
10
ibidem, 1131.3.4.
19
quindi in grado di ricercare e testimoniare la verità: gli stessi motivi che hanno spinto altri
notai a scrivere cronache.
20
La propaganda nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli
Dopo nove anni di matrimonio infecondo, Enrico VI, imperatore della dinastia sveva, e
Costanza d’Altavilla, erede dei sovrani normanni dell’Italia meridionale, generarono il loro
primo ed unico figlio, quel Federico che l’ecumene cristiana avrebbe riconosciuto come
Cesare, l’imperatore che avrebbe compiuto i tempi: colui che, dai suoi sostenitori fu celebrato
come riunificatore dei regni orientali ed occidentali, ossia colui che, dai suoi denigratori, fu
rappresentato come l’Anticristo, la bestia demoniaca foriera di apocalisse.
Est futurus cesar, sic est vaticinatum,
Habebit imperium, regnum, monarchatum.11
Postea exsurget rex per H nomine. Et erunt sub illo bella, et 12 annis regnabit. Et post hunc surget rex
per F nomine, et veniens obtinebit, et
regnabit longo tempore, et veniet Romam, et captivabit eam, et non mortificabitur anima
eius in manu inimicorum ullis diebus vite sue. Set erit bonus et magnus, et gentem
christianam magnificabit, et ipse vivet multo tempore. Post hec vero surget alius rex
per H nomine; et de ipso H procedent duodecim H, et erit de genere Longobardorum
et Teutonicorum; et regnabit per annos centum. Tunc post eum exsurget rex H
nomine, Salicus de Francia. Tunc initium dolorum erit, qualis non fuit ab initio seculi.
Et erunt in diebus ipsius multe pugne et tribulationes multorum et sanguinis effusio et
terre motus per civitates et regiones, et terre multe captivabuntur, et non erit qui inimicis
resistat, quia Dominus iratus erit in terra. Roma in persecutione et gladio expugnabitur,
et erit deprehensa in manu ipsius regis. Et erunt homines rapaces, cupidi, tiranni,
odientes pauperes, opprimentes insontes et salvantes noxios. Eruntque iniusti et nequissimi,
et dominatores exterminii captivabuntur; et non est in terra, qui pro eis resistat et
eruat eos, propter malitias eorum et cupiditates. Et tunc exsurget rex nomine et
animo Constans; et ille idem Constans erit rex Romanorum et Grecorum. Hic statu
grandis, aspectu decorus, vultu splendidus, atque per singula membrorum lineamenta
decenter compositus, et ipsius regnum 122 annis terminabitur. In illis ergo diebus erunt
divitie magne, et terra habundanter dabit fructum suum, ita ut tritici modium denario
uno venundetur, modium vini denario uno, modium olei denario uno. Et ipse rex
11
GOTIFREDUS VITERBIENSIS, Gesta Friderici I et Heinrici VI imperatorum: metrice scripta ex edizione Waitzii,
Hannover, 1870, p.49, vv.95-96.
21
scripturam habebit ante oculos dicentem: Rex Romanorum omne sibi vindicat regnum
christianorum. Omnes ergo insulas et civitates paganorum devastabit, et universa ydolorum
tenpla destruet, et omnes paganos ad baptismum convocabit, et per omnia tenpla
crux Christi Iesu erigetur. Tunc namque preveniet Egiptus Ethyopiam manus dare Deo.
Qui vero crucem Iesu Christi non adoraverint, gladio punientur. Et cum completi fuerint
122 anni, Iudei convertentur ad Dominum, et erit ab omnibus sepulchrum eius gloriosum.
In diebus illis salvabitur Israel, et habitabit confidenter. In illo tempore surget princeps
iniquitatis de tribu Dan, qui vocabitur Antichristus. Hic erit filius perditionis, caput
superbie, magister erroris, plenitudo malitie, qui subvertet orbem, et faciet prodigia et
signa magna per falsas simulationes; deludet autem per artem magicam multos, ita ut
ignis de celo descendere videatur. Et minuentur anni sicut menses, et menses sicut
septimana, et septimana sicut dies, et dies sicut hora. 12
Il regno di Federico II (1198-1250) ci porta in un periodo successivo, ma che è in larga
parte il culmine di quello precedente. 13 La sua nascita non fu preannunciata dai segni
prodigiosi che anticiparono la nascita di Augusto, tuttavia essa fornì materiale per
leggende che sempre accompagnano gli eventi catalizzatori di gioiose speranze e
ataviche paure di ogni epoca.
Et quoniam ad haec ventum est, non ab re fuerit subtexere, quae ei prius quam nasceretur et ipso natali die ac deinceps
evenerint, quibus futura magnitudo eius et perpetua felicitas sperari animadvertique posset. 14
Costanza aveva sposato Enrico, molto più giovane di lei, piuttosto attempata, e aveva partorito
quando era quasi anziana.
Constanza, che gravida era rimasta, seguitando Enrico suo marito per andare in Alemagna, essendo ne la Marca di
Ancona, ebbe commissione dal marito che non andasse piú oltra, ma che tornasse ne li confini del reame per certi
movimenti che aveva inteso esser suscitati in quello; il perché essendo vicina al 60 parto e trovandosi ne la cittá di Iesi,
partorí un figliuolo maschio ne l'anno 1194, il quale dal nome de l'avo fu chiamato Federico. E perché essendo
attempata e passando cinquanta anni, niuno quasi credea che la fusse veramente gravida; et Enrico primo di tutti ne
era stato sospetto, imperocché subito che lui intese lei esser gravida, meravigliandosi di questo, volse averne certezza
12
GOTIFREDUS VITERBIENSIS, Pantheon, MGH, SS, XXII, ed. G.Waitz, Berlin 1872, p.146.
C.H.HASKINS, The Renaissance of the Twelfth Century, Harvard University Press, 1927, p.60.
14
SVETONIO, De vita Caesarum, Divus Augustus, 94.1.
13
22
da lo abbate Ioachino, il quale allora fioriva e aveva fama di spirito profetico, e l'abbate lo certificò lei esser gravida di
lui e li predisse che partoriria un figliuolo maschio e li successi tutti de la vita sua, e di lui predisse che aveva entro
pochi anni a morire nel territorio di Melazzo, che è vicino a Messina, e li interpretò alcune profezie de la Sibilla
Eritrea e di Merlino; per questa cagione, e per levar via la suspizione di ciascuno, fece Constanza, come prudentissima
donna, ponere un pavaglione ne la piazza pubblica di Iesi e in esso si condusse a l'ora del suo parto e volse che fusse
lecito a tutti li baroni e nobili, maschi e femine, andar lí a vederla partorire, a fine che ciascuno intendesse quello non
esser parto suppositizio.15
Questo fece diffondere la voce che il suo tardivo matrimonio le fosse stato imposto, dopo che era
stata strappata alla vita monacale, e che il figlio non fosse stato generato dalla coppia.
E quest'altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s'accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch'io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l'ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest'è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza».16
Da una parte, infatti, c’era chi diceva che Federico fosse figlio di un beccaio, o addirittura del
demonio; e, dall’altra, c’era chi, in contrasto alla diceria che Costanza avesse simulato il parto,
diceva che era stato partorito sulla pubblica piazza.
15
16
PANDOLFO COLLENUCCIO, Compendio de le istorie del regno di Napoli, Bari, Laterza, 1929, pp.59-60.
DANTE, Divina Commedia, Paradiso, III,vv. 109-120.
23
E in prima che 'l detto Arrigo si partisse da la Magna, avendo la Chiesa discordia con Tancredi re di Cicilia e di
Puglia, figliuolo che fu dell'altro Tancredi nipote per femmina di Ruberto Guiscardo, siccome nel capitolo ove
trattammo del detto Ruberto facemmo menzione, per cagione ch'egli, siccome dovea, fedelmente non rispondea del
censo a la Chiesa, e promutava vescovi e arcivescovi a sua volontà, in vergogna del papa e della Chiesa, il detto papa
Clemente trattò coll'arcivescovo di Palermo di torre il regno di Cicilia e di Puglia al detto Tancredi, e fece ordinare al
detto arcivescovo che Gostanza serocchia che fu del re Guiglielmo, e diritta ereda del reame di Cicilia, la quale era
monaca in Palermo, siccome adietro facemmo menzione, e era già d'età di più di L anni, sì·lla fece uscire dal
munistero, e dispensò in lei ch'ella potesse essere al secolo e usare matrimonio; e di nascoso il detto arcivescovo
fattala partire di Cicilla e venire a Roma, la Chiesa la fece dare per moglie al detto Arrigo imperadore, onde poco 87
appresso nacque Federigo secondo imperadore, che fece tante persecuzioni a la Chiesa, come innanzi nel suo trattato
diremo. E non sanza cagione e giudicio di Dio dovea riuscire sì fatto ereda, essendo nato di monaca sacra, e in età di
lei di più di LII anni, ch'è quasi impossibile a natura di femmina a portare figliuolo, sicché nacque di due contrarii, allo
spirituale, e quasi contra ragione al temporale. E troviamo quando la 'mperadrice Gostanza era grossa di Federigo,
s'avea sospetto in Cicilia e per tutto il reame di Puglia che per la sua grande etade potesse essere grossa; per la qual
cosa quando venne a partorire fece tendere uno padiglione in su la piazza di Palermo, e mandare bando che qual
donna volesse v'andasse a vederla, e molte ve n'andarono e vidono, e però cessò il sospetto.17
Questa era la situazione quando Pietro da Eboli, nella particula XLIII del Liber ad honorem
Augusti, celebrò la nascita di Federico II, il futuro imperatore. Su Pietro da Eboli, autore anche di
un’opera didascalica, il De balneis Puteolanis, che fu molto fortunato, anche grazie al
volgarizzamento, e di un poema epico-storico, che è andato perduto, non si sa molto. Egli, tuttavia,
compose il suo Carmen tra la fine del 1194, periodo in cui Enrico VI, padre di Federico, si
impadronì dell’Italia meridionale, sconfiggendo Tancredi, e il 28 settembre 1197, data in cui
l’imperatore morì. C’è una cesura tra i primi due libri, che descrivono la morte di Guglielmo II e la
successiva guerra per il trono siciliano, e il terzo, finale, libro, nel quale appare centrale il
cancelliere Corrado di Querfurt, e che, cambiando registro, è una trasfigurazione mistica di Enrico
VI. Questo cambio di tono, determinato da una richiesta del cancelliere, è, tuttavia, anticipato, alla
fine del secondo libro, dalla descrizione della nascita di Federico e dei suoi presagi, che dovevano
chiudere la linearità del Carmen, che aveva come tema la storia della dinastia regia siciliana da
Ruggero II al neonato futuro imperatore. L’opera doveva essere, infatti, composta da due libri,
poiché con l’inizio del terzo, quello ad onore d’Augusto, come si stabilisce all’inizio del libro, inizia
anche una serie di irregolarità nel codice: ciò dimostra che l’ultimo libro è stato composto dopo,
quando i primi due erano già stati copiati. Il Carmen di Pietro da Eboli è stato edito più volte. Esso
17
GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, Fondazione Pietro Bembo/ Ugo Guanda, Parma, 1991, pp.86-87.
24
fu scoperto dal geografo, economista, agronomo e statista Samuel Engel, che lo pubblicò a Basilea
nel 1746. Il lavoro di Engel fu ristampato da Gravier nel 1770 e da del Re nel 1845, che
l’accompagnò con una traduzione di Rocco.18 Una nuova edizione fu curata da Winkelmann nel
1874. All’inizio del ‘900 apparvero due lavori ecdotici di Rota e Siragusa. Infine, è stata riproposta
da Becht-Joerdens e Koelzer. L’opera di Pietro da Eboli è tramandata da un solo codice della fine
del XII secolo, nella Burgerbibliothek di Berna, il 120 II, che, interponendo testo e miniature,
descrive eventi coevi con un doppio registro, narrativo e figurativo. Dato l’uso di materiali pregiati
e la presenza di correzioni dello stesso autore, forse è lo stesso esemplare offerto in dono ad Enrico
VI. La nascita di Federico è salutata da Pietro da Eboli con la gioia che accompagna un
avvenimento inaspettato, ed è descritta con metafore botaniche bibliche. Dalla matura Costanza, è
generata la pernova palma, Federico, che già ha in sé i segni di suo padre, Enrico VI, ma è
addirittura migliore di lui. Madre e figlio sono palme, simbolo di gioia e trionfo, ma anche di
giustizia e vittoria.
Perciò, tenendo in mano bastoni ornati, rami verdi e palme, innalzavano inni a colui che li aveva felicemente condotti
alla purificazione del suo proprio tempio. 19
Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.20
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e
lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma
nelle loro mani. 21
Il nome della madre Costanza è evocato nel suo omen al grado comparativo, con un procedimento
retorico, comune nel Medio Evo, che lo stesso Pietro da Eboli usa altre volte, e che, in ambiente
svevo, sarà usato per Federico, re pacifico e bagliore di fuoco, o per il suo protonotaro e logoteta
18
G. DEL RE,Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, vol. I, Napoli 1845, pp. 403-404.
II Mach., X, 7.
20
Ps.,XCII 13-14.
21
Apoc.,VII,9.
19
25
Pier delle Vigne, la vigna fertile sulle cui pietre è fondata la Chiesa imperiale. Costanza è
paragonata all’ulivo: simbolo di resilienza, ma anche, di fecondità e di pace.
Un certo Àlcimo, che era stato prima sommo sacerdote, ma che si era volontariamente contaminato al tempo della
rivolta, avendo capito che non si apriva a lui in alcun modo una via di salvezza e non vi era più la possibilità di
accedere al sacro altare, 4andò dal re Demetrio verso l'anno centocinquantuno, offrendogli una corona d'oro e una
palma, oltre ai tradizionali ramoscelli di ulivo del tempio. Per quel giorno restò tranquillo. 22
Pietro da Eboli presagisce per il piccolo Federico un futuro pieno di grandi eventi. In ciò,
l’ispirazione di Pietro da Eboli sembra venir fuori dalla famosa ecloga IV di Virgilio, la stessa che,
dall’epoca di Costantino fu interpretata come allegoria della nascita di Cristo. Questa misteriosa
ecloga celebra la nascita oltremodo attesa di un puer come simbolo di una nuova età dell’oro.23
Pietro da Eboli, infatti, non poteva non tenere presenti quei versi in cui Virgilio invoca la protezione
di Lucina per il fanciullo che condurrà all’età dell’oro. Per tutto il Medio Evo Virgilio ebbe fama di
mago e nume tutelare della poesia.
Che l’antico savio si cambi in mago è fatto di cui rari sono gli esempi, e quando accade ha luogo per puro cambio di
nome e in modo momentaneo; non v’ha antico che arrivi mai a quel largo e completo ciclo di leggenda biografica che
ebbe il Virgilio mago. Accadde bensì assai volte che uomini studiosi di matematica, meccanica, astronomia, astrologia,
fisica che sono le risorse della così detta magia bianca, o naturale, passassero per maghi ed anche per maghi diabolici
come accadde per Gerberto, per Alberto Magno e simili; ma la tradizione ed anche la leggenda letteraria che fece
Virgilio onnisciente non dimenticò mai il suo primo essere di poeta e come vediamo in Dante non lo ridusse mai ad un
fisico, astrologo, matematico capace di operar prodigi e fabbricar talismani ed altre simili opere magiche. Perché ciò
si producesse conveniva che su Virgilio esistesse un’idea speciale già elaborata presso il popolo indipendentemente
dalla letteratura; ed infatti le indagini sull’origine di quella leggenda rivelano chiaro che l’idea di Virgilio taumaturgo
e mago è di origine del tutto popolare, benché accettata poi nella letteratura per gli elementi affini che trovava già
preparati in questa.24
22
II Mach.,XIV 3-4.
J.B.MAYOR, W.WARDE FOWLER, R.S.CONWAY, Virgil’s messianic eclogue, London, 1907.
24
D.COMPARETTI, Virgilio nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze, 1941, vol.2 cap.1.
23
26
Pietro da Eboli si vanta delle sue opere antiche nello studio e fa precedere l’inizio della sua opera
con i versi virgiliani, oltre che con quelli di Ovidio e Lucano. Pietro da Eboli dice che il fanciullo
sarà migliore del padre, che ha combattuto per conquistare quello che il figlio avrà in pace, e che
sarà beato: in ciò entrando in consonanza con un verso graziano e, poi, con un’espressione del
preconium federiciano dell’epistolario di Pier delle Vigne.
Laetus in praesens animus quod ultra est
Oderit curare et amara lento
Temperet risu:nihil est ab omni
Parte beatum.25
Il verbo speculor usato da Pietro ha assunto valore economicistico, spiegato coi vantaggi che
avrebbero conseguito gli Arabi, non più costretti dalle angherie normanne, che si rifacevano su di
loro per pagarsi le spese di guerra. Ma forse il senso doveva essere un altro, e non molto difforme
da quello che al verbo davano Virgilio e Ovidio, gli autori amati da Pietro, cioè quello di osservare,
connotato con apprensione, perché gli Arabi si sarebbero sentiti minacciati dalla cristianità, che già
con Enrico VI stava organizzando una nuova crociata.
nec frustra signorum obitus speculamur et ortus
temporibusque parem diversis quattuor annum.26
Anche l’Egizio, dopo tutto, sospira, attendendo la liberazione dal dominio del Saladino. Tutto,
comunque, assume maggior significato, se si leggono i versi di Pietro come un vaticinio sibillino sul
tipo di quello riportato nel Pantheon di Goffredo da Viterbo, il coevo autore che più di ogni altro ha
influito su Pietro. Goffredo profetizza l’arrivo dell’imperatore della fine dei tempi. Questo
imperatore sottometterà al suo dominio il mondo intero, riportando, in tal modo, l’impero alla sua
antica estensione. Al vaticinio virgiliano se ne aggiunge un altro, quello sibillino; ma il quadro di
difformità di tradizioni profetiche si arricchisce con la citazione della terza visione di Daniele,
quella in cui si predice l’arrivo di un Messia che avrebbe liberato Israele.
25
26
HOR.,Carm., II 16, vv.25-28.
VERG., Georg., I 257-8
27
Settanta settimane sono fissate
per il tuo popolo e per la tua santa città
per mettere fine all'empietà,
mettere i sigilli ai peccati,
espiare l'iniquità,
stabilire una giustizia eterna,
suggellare visione e profezia
e ungere il Santo dei Santi.
Sappi e intendi bene:
da quando uscì la parola
sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme
fino a un principe consacrato,
vi saranno sette settimane.
Durante sessantadue settimane
saranno restaurati, riedificati piazze e fossati,
e ciò in tempi angosciosi.
Dopo sessantadue settimane,
un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui.
Il popolo di un principe che verrà
distruggerà la città e il santuario;
la sua fine sarà un'inondazione
e guerra e desolazioni sono decretate fino all'ultimo.
Egli stringerà una solida alleanza con molti
per una settimana e, nello spazio di metà settimana,
farà cessare il sacrificio e l'offerta;
sull'ala del tempio porrà l'abominio devastante,
finché un decreto di rovina
non si riversi sul devastatore».27
Popolo d’Israele che Pietro da Eboli rappresenta in Isacco e Giacobbe, cioè Israele, colui che
avrebbe dato inizio alla nazione ebraica, così come Federico avrebbe fondato il nuovo impero
d’Oriente ed Occidente. E, forse, Pietro coglieva il fatto che, così come Federico, anche Isacco fu
generato miracolosamente da una donna, Sara, in età avanzata.
27
Dan,.IX 24 ss.
28
Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. 28
Il mito dell’età dell’oro ha moltissime descrizioni nella storia letteraria, che la connotano
religiosamente, politicamente e filosoficamente.
Assistiamo qui a un supremo sforzo per liberare la storia dal destino astrale o dalla legge dei cicli cosmici e per
ritrovare, con il mito del rinnovamento eterno di Roma, il mito arcaico della rigenerazione annuale (e più
particolarmente non catastrofica!) del cosmo per mezzo della sua eterna ricreazione da parte del sovrano o del
sacerdote. È soprattutto un tentativo di valorizzare la storia sul piano cosmico, cioè di considerare gli avvenimenti e le
catastrofi storiche come vere combustioni o dissoluzioni cosmiche, che devono periodicamente porre fine all'universo
per permettere la sua rigenerazione. Le guerre, le distruzioni, le sofferenze storiche non sono più segni premonitori del
passaggio da una « età » cosmica a un'altra, ma costituiscono esse stesse questo passaggio. Così, a ogni epoca di pace
la storia si rinnova e, di conseguenza, comincia un nuovo mondo e, in ultima analisi (come abbiamo visto nel caso del
mito creato attorno ad Augusto), il sovrano ripete la creazione del cosmo. 29
Di quelle antiche Pietro da Eboli potè, forse, leggere solo quelle di Virgilio e di Ovidio: l’uno aveva
collegato quel mito ad Augusto, contribuendo allo sviluppo di una propaganda carismatica
dell’imperatore, poi diffusasi largamente; l’altro l’aveva collocato all’inizio dell’involuzione
dell’umanità, dandogli il carattere della primitività; entrambi, però, concepivano la ciclicità della
storia.
Huc geminas nunc flecte acies, hanc aspice gentem 6.788
Romanosque tuos. hic Caesar et omnis Iuli
progenies magnum caeli uentura sub axem.
hic uir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, diui genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arua
Saturno quondam, super et Garamantas et Indos
proferet imperium; iacet extra sidera tellus,
extra anni solisque uias, ubi caelifer Atlas
axem umero torquet stellis ardentibus aptum.
28
29
Gen., XVIII 11.
M.ELIADE, Il mito dell’eterno ritorno, Bologna 1968, p.175.
29
huius in aduentum iam nunc et Caspia regna
responsis horrent diuum et Maeotia tellus,
et septemgemini turbant trepida ostia Nili.
nec uero Alcides tantum telluris obiuit,
fixerit aeripedem ceruam licet, aut Erymanthi
pacarit nemora et Lernam tremefecerit arcu;
nec qui pampineis uictor iuga flectit habenis
Liber, agens celso Nysae de uertice tigris.
et dubitamus adhuc uirtutem extendere factis,
aut metus Ausonia prohibet consistere terra? 30
Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo,
sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat.
poena metusque aberant, nec verba minantia fixo
aere legebantur, nec supplex turba timebat
iudicis ora sui, sed erant sine vindice tuti.
nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem,
montibus in liquidas pinus descenderat undas,
nullaque mortales praeter sua litora norant;
nondum praecipites cingebant oppida fossae;
non tuba derecti, non aeris cornua flexi,
non galeae, non ensis erat: sine militis usu
mollia securae peragebant otia gentes.
ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis
saucia vomeribus per se dabat omnia tellus,
contentique cibis nullo cogente creatis
arbuteos fetus montanaque fraga legebant
cornaque et in duris haerentia mora rubetis
et quae deciderant patula Iovis arbore glandes.
ver erat aeternum, placidique tepentibus auris
mulcebant zephyri natos sine semine flores;
mox etiam fruges tellus inarata ferebat,
nec renovatus ager gravidis canebat aristis;
flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant,
flavaque de viridi stillabant ilice mella.31
30
31
VERG.,Aen.,VI 788 ss.
OV.,Metam., I 89-112.
30
Pietro, tuttavia, trovò altri esempi di rappresentazione dell’età dell’oro in molti autori medievali,
che la usavano per richiamare i fasti della Roma antica, per creare esercitazioni letterarie, p per
esaltarla filosoficamente come trionfo dell’innocenza. Le peculiarità di quella mitica età di pace
sono, tuttavia, rievocate da Pietro da Eboli non solo per la nascita di Federico II, ma anche in altri
due momenti della sua narrazione. Nel rincorrersi delle anafore, che caratterizza i momenti di
maggiore enfasi emotiva, si insiste sulla pace e sull’assenza di pericoli per l’uomo. La preghiera
finale si ammanta di u linguaggio simbolico tipico della tradizione panegiristica antica: la Phebi
soror è, forse, la vedova di Guglielmo, o forse Costanza, che è definita Luna in coppia col SoleEnrico, così come è Giunone come moglie del Giove-Enrico. In Ovidio, è difficile distinguere tra la
comparazione e l’assimilazione dell’imperatore con Giove.32 Nella descrizione dell’età dell’oro
Pietro confonde le due tradizioni culturali del Medio Evo: quella classica e quella biblica. Quasi non
rendendosene conto, Pietro, forse preoccupandosi solo della creazione poetica e retorica, fa seguire
la menzione dei tempi felici in cui regnava Salomone a quella dell’età dell’oro classica; forse, anche
qui ispirato da Virgilio, anche se in modo confuso, perché l’età di Giove è descritta, nella tradizione
letteraria, come quella che porta fatica ed ansie.
Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo dimittitur alto. 33
Nec tamen, haec cum sint hominumque boumque labores
versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque grues et amaris intiba fibris
officiunt aut umbra nocet. Pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda,
32
J.R.FEARS,Princeps a diis electus: the divine election of the emperor as a political concept at Rome, American
Academy, 1977, p.134.
33
VERG., Ecl., IV 6-7.
31
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Jovem nulli subigebant arva coloni;
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat: in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.34
Il tema della terra che produce spontaneamente i suoi frutti è stato attinto da Virgilio o da Ovidio.
Non rastros patietur humus, non vinea falcem;
robustus quoque iam tauris iuga solvet arator;
nec varios discet mentiri lana colores,
ipse sed in pratis aries iam suave rubenti
murice, iam croceo mutabit vellera luto;
sponte sua sandyx pascentis vestiet agnos.
<<Talia saecla>> suis dixerunt <<currite>> fusis
concordes stabili fatorum numine Parcae.
Adgredere o magnos (aderit iam tempus) honores,
cara deum subdoles, magnum Iovis incrementum!
Aspice convexo nutantem pondere mundum,
terrasque tractusque maris caelumque profundum:
aspice venturo laetentur ut omnia saeclo!
O mihi tum longae maneat pars ultima vitae,
spiritus et quantum sat erit tua dicere facta:
non me carminibus vincet nec Thracius Orpheus,
nec Linus, huic mater quamvis atque huic pater adstit,
Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo.
Pan etiam, Arcadia mecum si iudice certet,
Pan etiam Arcadia dicat se iudice victum.
Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem
(matri longa decem tulerunt fastidia menses)
34
VERG., Georg., I 118-28.
32
incipe, parve puer: cui non risere parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est.35
ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis
saucia vomeribus per se dabat omnia tellus36
Ma la descrizione della pace tra gli animali, che nei versi sulla nascita di Federico si rifà ancora alla
IV ecloga virgiliana, in questa esaltazione del regno di Enrico si rifà alla profezia di Isaia sul
virgulto di Iesse.
Il lupo dimorerà insieme con l'agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l'orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.37
Insomma, un filo unico lega le tre descrizioni dell’età dell’oro nel Carmen di Pietro da Eboli. La
strumentalizzazione a fini politici, il rimando ad argomenti contingenti si cela, nel testo, anche dove
Pietro da Eboli sembra seguire i paradigmi del mito e del topos. Nella tradizione imperiale l’aquila
rappresenta l’imperatore, e anche Pietro definisce in tal modo Enrico. Nel gergo sibillino, a cui
attinge Pietro, il leone è simbolo dell’imperatore. Anche nell’utilizzo dell’espressione nostra
vellera, in cui, metonimicamente si indica la proprietà del gregge, non sarebbe illogico vedere un
richiamo più ampio, ma puntuale, alla popolazione del regno: come bestie rapaci erano
rappresentati l’imperatore e i tedeschi dagli avversari e, una volta, anche dallo stesso Pietro sono
rappresentati nell’atto di tosare i Tancredini. Nel Carmen è definito aquila non solo l’imperatore ma
anche Marcovaldo di Annweiler, cinghiale Dipoldo di Schweinspeunt, grifone Corrado di Querfurt
35
VERG., Ecl., IV 39 ss.
OV., Metam., I 101-2.
37
Is., XI 6-7.
36
33
e, in una figura, si vede un cinghiale che azzanna una gru. Insomma, si utilizzano metafore e miti,
ma riferendosi ad un contesto politico contingente e come strumento di propaganda filosveva,
seguendo una prassi inaugurata da Goffredo da Viterbo, che ripropone il vaticinio sibillino
dell’imperatore della fine dei tempi, che avrebbe riunito Oriente ed Occidente proprio quando la
politica sveva si orienta verso più importanti pretese di dominio sull’impero bizantino. Vengono
ripresi , in uno spirito nuovo, i motivi della propaganda del tempo di Rainaldo di Dassel, come
apparirà più chiaramente nell’opera di Goffredo da Viterbo.38 Federico ed Enrico, con un’immagine
che nell’antichità, a volte, non era beneaugurate, sono rappresentati come due soli che illuminano la
notte: essi sono i nuovi Dioscuri, le divinità della luce, benefiche e salvatrici, che guidano gli
uomini.
Anaximander Miletus traditur primus Olympiade quinquagesima octava, signa deinde in eo Cleostratus, et prima
arietis ac sagittarii, sphaeram ipsam ante multo Atlas.
Nunc relicto mundi ipsius corpore reliqua inter caelum terrasque tractentur.
summum esse quod vocant Saturni sidus ideoque minimum videri et maximo ambire circulo ac tricesimo anno ad
brevissima sedis suae principia regredi certum est, omnium autem errantium siderum meatus, interque ea solis et lunae,
contrarium mundo agere cursum, id est laevum, ilo semper in dextra praecipiti.39
La metafora della luce portata da Federico ed Enrico è un tema topico diffuso presso la corte sveva,
ma essa attinge ad una tradizione più antica, che ha la sua origine nell’ideologia sacrale del Vicino
Oriente. Il sovrano è paragonato ad un sole che dà luce già in Stazio o in Menandro Retore, con il
quale, tra il III ed il IV secolo dopo Cristo, inizia la teorizzazione panegiristica.
Tertius horrentem zephyris laxauerat annum
Phoebus et angusto cogebat limite uernum
longius ire diem, cum fracta impulsaque fatis
consilia et tandem miseri data copia belli.40
38
P.LAMMA,Comneni e Staufer. Ricerche sui rapporti tra Bisanzio e l’Occidente nel secolo XII, 2 voll., Roma , 1957,
p.298.
39
PLIN., Nat., II 31-32.
40
STAT., Syl., IV 1-4.
34
Quest’immagine è usata dai panegiristi galli tardo-imperiali delle scuole d’Autun, Treviri e
Bordeaux, che descrivono la luce del sole che promana dai Cesari e dagli Augusti. Essa si
svilupperà nella propaganda costantiniana, passando al Panegirico di Corippo per l’ascesa al trono
di Giustino II nel 565 e alla produzione panegiristica bizantina dei Comneni, come, ad esempio,
quella di Michele Italico, Niceforo Basilare, o d’Eustazio di Tessalonica. Dipinti mostrano
Costantino mentre infilza il dragone del paganesimo.41 Forse, è proprio da quest’ultima tradizione
che Pietro da Eboli riprende le sue immagini solari: in essa si trova spesso, data la pluralità dei
regnanti, non strana per l’impero greco, la metafora bisolare o quella solare-lunare. Tuttavia, è
improbabile una derivazione diretta da questi modelli, anche se i contatti tra Italia meridionale ed
impero bizantino, nel XII secolo, erano molto frequenti. Un probabile punto d’incontro fu Eugenio
di Palermo, del quale è stata sostenuta l’influenza su Pietro. Anche Eugenio, infatti, rivolgendosi a
Guglielmo I, afferma che la luce del sole si offusca di fronte a lui e tramontando cede alla sua vista,
si rintana nella notte per la vergogna. Certo, Eugenio usa un’immagine comune: l’espressione luce
senza sera potrebbe rimandare al sole senza nube di Pietro, ma anch’essa è piuttosto comune.
Tuttavia, altri elementi, pure topici e diffusi, ma che si trovano in Eugenio, potrebbero far pensare
ad una lettura dell’opera da parte di Pietro; come il verso 29 dello stesso XXIV carme d’Eugenio,
che potrebbe essere stato presente a Pietro quando scriveva il verso 1379 del Carmen; o come la
descrizione dell’epoca felice del regno di Guglielmo, al quale è consentito mescolare le cose
inconciliabili, in cui si fa l’agnello commensale del lupo e il bue compagno di letto delle bestie
selvagge, accordando previdentemente e riunendo in una sola stirpe uomini diversi. Infine anche il
carme I d’Eugenio, sulla contingenza umana, potrebbe essere stato usato da Pietro nelle sue
descrizioni della fortuna, non tralasciando, tuttavia, che le speculazioni sulla sua varietà potevano
risalire, per mezzo d’Arrigo di Settimello, fino a Boezio. Dopo tutto la Fortuna, da sempre,
accompagna, nei panegirici, ogni gesto e ogni impresa del sovrano. La metafora solare usata in
Pietro da Eboli si connota in modo peculiare. Più volte Pietro da Eboli si richiama alle profezie
gioachimite, di Gioacchino da Fiore, cioè, che sosteneva una religiosità più mistica, quella
desecolarizzazione delle gerarchie ecclesiastiche che sarà ripresa da Francesco. C’erano stati
contatti tra Gioacchino ed Enrico VI, e forse l’abate profetico aveva profetizzato la nascita di
Federico. Dunque, quando Pietro da Eboli parla della sesta età nella quale regna un imperatore che
porta la pace come Enrico, che aveva come numero d’ordine un sesto, si deve pensare ad un
rimando, superficiale, alle speculazioni gioachimite sui tre status e le sette età, l’avvento dell’ultima
delle quali, che coincide con quello del terzo status, era considerato imminente e preparato dalla
transitorietà delle ultime due generazioni del secondo status e della sesta età. Per Gioacchino solo
41
A.ALFOELDI, The conversion of Constantine and pagan Rome, Oxford 1948, p.34.
35
nel terzo status sarebbe stato possibile, per mezzo dell’intelligenza spirituale, la conoscenza diretta
della verità divina donata dallo Spirito Santo, e si sarebbe assistito alla fondazione della chiesa
spirituale. Ma nel terzo status, in cui regneranno pace e giustizia, non c’è posto per il potere politico
e per l’imperatore: per Gioacchino la storia culmina con l’apoteosi della chiesa con il monachesimo.
Pur riscontrando consonanze superficiali con Gioacchino, tuttavia, Pietro da Eboli attinse ad
un’altra tradizione l’ispirazione mistica per la descrizione dell’imperatore che porta la pace sulla
terra, con la concordia e il benessere: la tradizione profetico-sibillina che, attraverso il punto di
incontro bizantino, si diffuse molto in Occidente. Il primo scritto profetico di questo tipo conosciuto
in Occidente fu quello dello Pseudo-Metodio, che, promovendo la restaurazione dell’impero
bizantino, annunciava l’avvento di un re dei greci e dei romani che avrebbe sconfitto gli arabi. Dopo
che questo re avrebbe deposto la corona sul Golgota, sarebbero venuti l’Anticristo e la fine del
mondo. In tal modo si espressero, alla metà del secolo X, Adsone di Montier-en-Der, ma senza
esaltare l’età della pace sotto l’ultimo imperatore, e la Sibilla Tiburtina, alla quale si attribuisce un
testo steso a Bisanzio nel IV-V secolo, e che fu portato in Occidente, dove fu adattato, nella forma,
ai diversi contesti ed alle diverse necessità della propaganda. Federico era visto come un salvatore,
ma un salvatore il cui ruolo era ora soggetto al castigo della Chiesa; una figura nella quale
l’Imperatore degli Ultimi Giorni si fondeva col novus dux della profezia gioachimita.42 Il re dei
romani e dei greci avrebbe sottomesso i popoli alla religione cristiana, per poi deporre la corona a
Gerusalemme; dopo di ciò la fine del mondo. Dunque, Pietro da Eboli potè leggere il testo della
Sibilla Tiburtina riportato da Goffredo da Viterbo. Ma quello ed altri testi apocalittico-profetici,
forse anche legati alle Crociate, si erano diffusi molto nell’immaginario collettivo. Proprio in un
ambiente legato alla corte sveva era nato il Ludus de Anticristo, che raccontava la fine dei tempi in
modo filoimperiale, collegando, in un rapporto causa-effetto, la rinuncia alla corona imperiale a
Gerusalemme e la venuta dell’Anticristo. Non molto prima che Pietro scrivesse il suo Carmen, poi,
Eugenio di Palermo tradusse la Sibilla Eritrea. Insomma, Pietro da Eboli si ritrovò alla confluenza
di una variegata tradizione mistico-profetica che, con le sue connotazioni teologico-esegetiche e
popolar-immaginifiche, dagli ultimi decenni del secolo XII, definì soprattutto quella parte
dell’Occidente più legata all’Impero. L’indulgenza di Pietro da Eboli verso le atmosfere mistiche
delle profezie è evidente, dopo tutto, anche nella particula XLIV del suo poema, dedicata ai presagi
del piccolo Federico. Non è importante sapere se il futuro imperatore abbia compiuto simili gesta,
ma solo che Pietro riporta questa storia considerandola come degna di essere ricordata, e
assegnandole un posto privilegiato nell’intero poema. Pietro vive in un’atmosfera piena di
aspettative profetiche. Non si sa, quindi, se il pesce sia stato donato, e, non si sa perché Pietro abbia
42
N.COHN, The pursuit of the Millennium: Revolutionary Millenarians and Mystical Anarchists of the Middle Ages,
Oxford University Press, 1970, p.112.
36
scelto uno Yberus come latore; né risulta possibile capire chi sia il magister che lo dispensa, né si
sa, dal testo, se egli glielo abbia servito o abbia anche istruito il futuro imperatore in quella
divinazione. La nascita di un grande personaggio è sempre accompagnata da presagi, auspici, sogni
premonitori che ne predicono le gesta; d’altra parte, anche il pesce è un simbolo che spesso, da
sempre, è associato alla vita, assumendo, poi, col cristianesimo, sensi mistici più precisi.
L’imperatore della fine, che porterà il nome, simbolo di pace, di Federico, in rapporto alle leggende
escatologiche che Federico II ebbero come protagonista, è, poi, accompagnato dalla simbologia
ittica, quando non è descritto come pescatore. La spiegazione che Pietro dà alla divisione del pesce
è mistico-imperiale. Quindi, anche in questo presagio Pietro si rifà ai vaticini sibillini che
annunciano l’avvento di un re dei romani e dei greci che avrebbe riportato l’età dell’oro. Il codice
del Carmen è stato scritto sotto il controllo di Pietro da Eboli, che lo corresse, lasciando, tuttavia,
versi incompleti, o metricamente inesatti. Ora, può nascere, però, il sospetto che questa particula,
non fosse considerata definitiva da Pietro, o, che essa possa essere un doppione, e, quindi, da riusare
in parte, o da eliminare. Forse, Pietro voleva scrivere ancora qualcosa: sorprende che nella
miniatura sulla nascita di Federico siano disegnate, tre palme, mentre più giù è raffigurata Costanza
che affida il piccolo Federico, già incoronato, alla moglie del duca di Spoleto, cosa che è spiegata
nella didascalia, ma di cui, invece, non se ne parla nel testo. Potrebbe essere, quindi, che Pietro
volesse scrivere ancora qualcosa e che le due particulae dedicate fossero ancora in divenire. Dopo
tutto, dopo i primi versi sui presagi di Federico, Pietro riprende l’esaltazione del piccolo Federico
usando termini non diversi da quelli della particula precedente. Pietro ricorda l’origine normanna e
sveva di Federico. Pietro invita Federico a vivere a lungo per vedere i suoi discendenti riempire il
mondo. Quella di Pietro da Eboli è un’opera complessa. Virgilio, Lucano e Ovidio, numi tutelari del
Medio Evo, sono scelti da Pietro come ispiratori e si capisce il motivo: il primo offrì l’epicità, il
secondo per la trattazione poetico-storica, il terzo per l’arte versificatoria. Nelle parti più elogiative
dell’opera di Pietro da Eboli, la cosa rilevante è la ripresa delle parti più misticheggianti della
politica sveva. La tensione verso l’ideologia imperiale che sfrutta gli elementi dell’immaginario del
popolo si rileva nell’utilizzo, dal 1157, dell’espressione Sacro Impero, un calco di Roma Sacra; ma
soprattutto nella canonizzazione di Carlo Magno, che il Barbarossa festeggiò il 29 dicembre 1165, il
giorno di David. In tal modo, il Barbarossa sancì la relazione, già affermata da Carlo Magno, tra il
fondatore dell’impero d’Occidente e il re biblico eletto da Dio, e tra se stesso e Carlo, proponendo,
allo stesso tempo, anche una continuità dinastica, la stessa riaffermata da Goffredo da Viterbo
storicamente. E proprio Goffredo da Viterbo, che con la sua teoria della translatio imperii offrì a
Pietro da Eboli il modello misticheggiante dei suoi elogi e del terzo libro del suo Carmen. Nulla di
simile c’era nella tradizione normanna dell’Italia meridionale, che si rifaceva alle virtù fisiche e
37
morali del sovrano. In una lettera scritta nel 1207 da un anonimo, che era nella cerchia
dell’arcivescovo Rainaldo di Capua, si descrive il piccolo Federico in quel modo. In una lettera di
Innocenzo III al re d’Aragona sono declamati i pregi di Federico, in vista del matrimonio con la
sorella. La descrizione di Federico di anonimo e quella di Ruggero di Alessandro di Telese seguono
modelli diversi da quelli di Pietro da Eboli: in quelle c’è il modello tardo-antico di Ausonio, che
vedeva in Graziano la purezza ascetico-monacale e l’ideale cavalleresco; un modello ancora attuale
per gli oratori bizantini dei Comneni. In Goffredo da Viterbo, invece, che ha in comune con Pietro
da Eboli, oltre ai rimandi ideologici e testuali, anche l’utilizzo del termine particula per le varie
parti dell’opera, e si può vedere l’associazione tra Enrico VI e l’aspettativa sibillina della pace e
dell’età dell’oro. Insomma, Pietro assume come modello la produzione storico-elogiativa filoimperiale, piuttosto che quella tradizionale. Così come in Goffredo da Viterbo l’esaltazione della
dinastia sveva è portata avanti in eterno con la ripresa della mitologia, della teologia, della
leggenda, in Pietro da Eboli lo stesso scopo si ottiene con la rivendicazione della legittimità di
Enrico, con il ricorso a un linguaggio allegorico e a una narrazione mistica.
38
Memoria e philosophia nell’Historia dello Pseudo-Jamsilla
L’Historia dello Pseudo-Jamsilla si può leggere in edizioni poco sicure ecdoticamente e l’autore è
ignoto. Muratori sostiene che l’opera sia stata scritta da due persone diverse. Egli appose alla storia
del Jamsilla il suo titolo odierno e scrisse le seguenti parole a continuazione di quella storia:
Adnectitur Anonymi Supplementum de Rebus gestis ejusdem Manfredi, Caroli Andegavensis et
Corradini Regum ab anno 1258 usque ad annum 1265. Del Re, pubblicandole nello stesso volume,
non lasciò insieme le due narrazioni, poiché non hanno carattere comune essendo i due autori
informati da principi diversi.43 L’autore inizia la sua opera nel segno della memoria e del ricordo.
Forse, in questo, si può vedere il segno di un cambiamento della concezione del tempo, introdotta
dagli studi dei testi aristotelici, secondo i quali il tempo assume nuovi significati in rapporto
all’eternità. Comunque, però, la memoria e la fama potevano avere senso solo se si concepiva che il
mondo e l’uomo fossero eterni e se il tempo significasse vita, cioè se la gloria del mondo fosse un
equivalente laico della beatitudine ultraterrena.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
E 'l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura
43
G.DEL RE,op. cit. , p.647.
39
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann'ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.44
Ad una tale questione si interessò Federico II, che lo rese oggetto di uno dei quesiti inviati al dotto
arabo Ibn-Sabin , e suoi rimandi si ritrovano nei documenti prodotti dalla cancelleria
dell’imperatore: soprattutto nel preconium di Pier delle Vigne; e in un componimento di Enrico di
Avranches. Ma anche Manfredi, le cui gesta sono il soggetto dell’Historia, è sensibile a tali
questioni di gloria ed eternità, perché è scritta a suo nome una lettera con la quale si accompagna
l’invio di talune traduzioni di Aristotele e di altri autori antichi. L’Historia è opera di un notaio.
Anche se si deve affermare che essa è lontana dalle cronache notarili successive, nonché dalle loro
tecniche. I temi trattati seguono lo schema dei panegirici e che era stato teorizzato nel III-IV secolo
dopo Cristo da Menandro Retore. Certo, l’autore dell’Historia non conosceva quelle teorizzazioni, e
neanche gli antichi panegirici del modello, ma, comunque, la riproposizione dell’organizzazione di
quei testi mostra l’esistenza di un genere ideologico e tecnico che, senza soluzione di continuità,
lega l’epoca tardo-antica con le età successive. Dopo tutto lo pseudo-Jamsilla segue lo schema
tematico del genere retorico panegiristico: prima tratta della nascita del personaggio, poi delle sue
44
DANTE, Inf., VI 88 ss.
40
gesta, per concentrarsi, infine, sull’esaltazione delle sue virtù. Vediamo come lo pseudo-Jamsilla
descrive le virtù dell’imperatore. Si è visto che, nell’inizio dell’Historia , Federico è descritto come
saggio e generoso, e che, per mezzo di tali virtù, dia lustro all’impero; un tema che riprende un
topos del genere panegiristico, poiché lo si ritrova anche in alcuni dei Panegyrici Latini, scritti tra il
III e il IV secolo dopo Cristo. Tuttavia, la saggezza è un impedimento che trattiene Federico dal fare
cose più importanti di quelle che fece. Certo la frase in cui si sostiene ciò non è chiara; e non
sembrava chiara nemmeno al Muratori, che, la riteneva corrotta. Muratori la corregge così: la
filosofia fu un impedimento che trattenne Federico dal fare cose più importanti di quelle che fece.
Lezione accolta anche dal Gatti, che, nella traduzione che accompagna il testo di Del Re, così
traduce: e certamente cose molto maggiori avrebbe fatto, se avesse potuto obbedire ai moti del suo
cuore senza il freno della filosofia. Comunque stiano le cose il significato della frase sembra chiaro,
soprattutto per l’espressione senza il freno della filosofia, non interpretabile in modo positivo; ma
anche per l’utilizzo di cose molto maggiori, che assume più significato se si considera che il più
antico ed autorevole manoscritto dell’opera dello Pseudo-Jamsilla lega quel comparativo ad
un’abbreviazione poco chiara, che potrebbe, tuttavia, essere risolta con quam invece che con
quoniam. Si deve ora capire perché lo pseudo-Jamsilla caratterizza negativamente la filosofia di
Federico. L’ereditarietà della virtù, che è stata postulata all’inizio della cronaca, trova riscontro
quando si inizia a parlare di Manfredi che è colui che più di ogni altro figlio di Federico ne segue
l’esempio: proprio per questo è il prediletto, come è confermato anche dalla ripetizione dei pronomi
possessivi sua e suis riferiti all’aula e ai documenta di Federico. Dopo tutto, l’ereditarietà della
virtù in Manfredi, e non in altri, è rilevabile e contrario da ciò che è stato detto prima sul
primogenito Enrico: egli si ribella al padre, che è paragonato a colui che vede le viscere venir fuori
di sé. Certo, anche gli altri figli sono degni di Federico.45 Manfredi, insomma, è colui che è
destinato a succedere a Federico per volontà divina, anche se di nascita non primogenito: ma le
sacre scritture descrivono in Giacobbe e Salomone le prefigurazioni della sua sorte e della sua
ascesa al trono.
Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco, due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo, rossiccio e
tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù;
fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant'anni quando essi nacquero. 46
45
46
G.DEL RE,op. cit. p.651.
Gen., XXV 24-6.
41
E Manfredi è identificato con Federico, sul cui nome si crea un caleidoscopio di retorismi e giochi
di parole, tipici della dettatoria dell’epoca. Manfredi è definito principe filosofo.47 Anzi, quando si
descrivono le virtù di Manfredi, si afferma che la natura lo aveva reso un ricettacolo di tutte le
grazie.48
Manfredi acquisisce in eredità la sapienza paterna. Infatti, nella lettera che accompagna l’invio allo
studium di Parigi di alcune traduzioni di Aristotele e di altri autori antichi, che è tradita
nell’epistolario di Pier delle Vigne e che è attribuita a Federico II, ma che fu inviata da Manfredi nel
1263, è riassunta la passione, nutrita fin dall’infanzia, per lo studio e la conoscenza. L’autore
sembra, sempre, non solo teso a giustificare l’ascesa al trono di Manfredi, ma anche voglioso di
dimostrare che l’unico scopo del principe sia di tenere unito il Regno e proteggerlo: anche a costo di
farsi da parte, come quando torna dalla Germania Corrado, laddove, per l’affetto verso il fratello e
per il bene del futuro dello stato, Manfredi ne subisce le offese.49 Anche quando deve punire i
ribelli, egli lo fa solo per correggere il popolo.50 Perché, con un rimando al proemio delle
Costituzioni Melfitane e alle arenghe di alcuni documenti prodotti dalla cancelleria imperiale e del
Papa, ha compreso quale sia il segreto per governare bene. Lo pseudo-Jamsilla non afferma che
Federico abbia regnato senza conoscere tale segreto, o che abbia causato la dissoluzione del Regno;
ma la citazione della sua saggezza, se da una parte viene subito dopo quella della distruzione, da lui
voluta, di talune città, dall’altra è legata solo ad una funzione dottrinale, dato che si afferma che la
sua perspicacia fosse rivolta principalmente alla scienza naturale.51 La sapienza di Manfredi è
funzionale al governo. Dopo aver parlato di Roboamo, figlio di Salomone, che, respingendo i
consigli degli anziani, aveva frammentato il regno d’Israele, lo pseudo-Jamsilla esalta Manfredi
perché ascolta e richiede i consigli, a differenza di Federico. La filosofia di Manfredi è positiva,
quella di Federico negativa. Ora, siccome la filosofia scientifica di Federico è un vizio mentre
quella politica di Manfredi è un merito, si deve capire perché lo pseudo-Jamsilla la pensi così.
L’opera dello pseudo-Jamsilla è una specie di rapporto sugli avvenimenti che hanno senso solo per
la politica interna del Regno, perché non menziona nessun evento al di fuori di tale ambito
geografico. L’obiettivo è di presentare Manfredi disposto a venire a patti col papa. L’ipotesi è
evidente soprattutto nella descrizione degli eventi successivi all’assassinio del legato del Papa
Borello d’Anglona, il 18 ottobre 1254, in cui lo pseudo-Jamsilla libera da ogni responsabilità
Manfredi. Egli, nonostante le offese subite da Borello, non si vendica e, quando sa della sua morte,
47
48
G.DEL RE,op. cit. p.652.
G.DEL RE,op. cit. , p.650.
49
G.DEL RE,op. cit. p.659.
50
ibidem, op. cit. p.654.
ibidem, op. cit. p.649.
51
42
se ne dispiace.52 Ma, ovviamente, la situazione era diversa, dato che, invece, le altre cronache
concordano nel sostenere la volontà di Manfredi di uccidere Borello e nel ricordare la violenta
reazione del papa. Manfredi non ripudiò Federico II e il suo ricordo.53 Dunque, è evidente lo scopo
dello pseudo-Jamsilla di scagionare Manfredi e il papato da ogni responsabilità nella guerra che
distrusse il Regno. Considerato ciò, non è assurdo pensare che l’Historia dello pseudo-Jamsilla sia
stata scritta per scopi politici, anche se forse è esagerata l’ipotesi che essa sia un rapporto ufficiale,
un documento notarile, diretto al papa da Manfredi per corroborare la sua incoronazione. Manfredi
non avrebbe affidato ad un’opera storiografica la giustificazione della sua condotta. Non che la cosa
non sia possibile: le cronache notarili dell’Italia settentrionale lo dimostrano. Probabilmente
l’Historia dello pseudo-Jamsilla è il riflesso della politica diplomatica di Manfredi, che, troppo
debole per sconfiggere il papato, provò ad ottenerne la benevolenza. La filosofia di Federico era
considerata, da una certa parte politica guelfa, eretica. Dopo tutto, ad esempio, il punto di vista
dell’autore della Vita Gregorii IX non è isolato e si può dire che egli si faccia latore di opinioni più
diffuse ed ufficiali: il che rende più rilevante la sua posizione. Federico era accusato di aver
pronunciato affermazioni blasfeme contro Mosè, Maometto e Cristo, e di aver negato la verginità
della Madonna. Nelle fonti federiciane non se ne trova traccia: l’imperatore nega di aver detto cose
simili. Tuttavia, si diffondeva l’immagine eretica di Federico: a ciò contribuirono i successivi
manifesti papali e, forse, non fu scevro da responsabilità lo stesso Federico, che, a volte, contribuì a
farla sviluppare. Tale rappresentazione fu riproposta anche nelle epoche successive, e fu, poi,
eternata nel X canto dell’Inferno di Dante. Alcuni contemporanei, come frate Salimbene de Adam,
non furono mai favorevoli all’imperatore. In Salimbene è chiaro il fine denigratorio: Federico è
tanto più degno di biasimo, quanto più è dotato di qualità eccezionali. L’unico testo, dai tratti
encomiastici, che sembra prodotto in un ambiente vicino alla corte e che esalta la cultura di
Federico è un rhythmus di Terrisio di Atina. Sempre legato all’ambiente federiciano, ma prodotto in
periferia, è il De regimine et sapientia potestatis di Orfino da Lodi, un personaggio di cui,
comunque, non si sa molto, tranne che fu giudice presso Federico di Antiochia e, poi, presso
Riccardo Teatino, figli di Federico II. Gli uomini della sua cerchia o della sua amministrazione non
citano la sapienza di Federico: non si trovano simili argomenti né nel preconium di Pier delle
Vigne, né nel componimento di Giorgio di Gallipoli in cui Roma si rivolge a Federico. E anche nei
testi di autori coevi periferici o non se ne parla, come nella predica elogiativa di Nicola da Bari, o lo
si fa solo molto vagamente, come nei componimenti dei trovatori che si aggregarono al corteo del
giovane Federico che andava in Italia per essere incoronato imperatore, o in quelli di Enrico di
Avranches. Federico teneva in gran considerazione lo studio e la conoscenza. E la cosa è
52
53
ibidem. op .cit., p.671.
E.PISPISA, Medioevo meridionale: studi e ricerche, Intilla 1994, p.167.
43
confermata da una lettera scritta nel 1207 da un anonimo, che forse faceva parte della cerchia
dell’arcivescovo Rainaldo di Capua, nella quale si descrive la sete di conoscenza inestinguibile di
Federico. Il mito positivo della cultura di Federico è stato elaborato soprattutto in Toscana, dove
c’era sia un attivo ghibellinismo, sia un guelfismo anticuriale, laico: corrente alla quale appartenne
Dante che definì Federico “loico e clerico grande”. Tali tendenze furono l’ambito di ricezione
privilegiato del messaggio che veniva dalla corte dell’imperatore svevo e contribuirono alla
diffusione della sua immagine mistica. Testimonianza della diffusione del mito della cultura di
Federico la offre Brunetto Latini, che nel suo Tresor , caratterizza l’imperatore come uomo di gran
cuore, saggio e letterato, conoscitore di molte lingue. Tale rappresentazione si ripercosse su
Giovanni Villani, che, pur mettendo in risalto il fatto che fosse ingrato perché non riconosceva la
Chiesa come madre, ma come nemica, perseguitandola, tuttavia lo descrive dicendo che regnò per
trent’anni, e fu uomo di gran valore, saggio; sapeva il latino, il volgare, il tedesco, il francese, il
greco e l’arabo, e virtuoso, generoso e cortese, prode in armi e temuto.54 Ricordano Malispini disse
di Federico che era saggio, e sapeva il latino e il volgare, il tedesco , il francese, il greco e l’arabo.
Pandolfo Collenuccio, dopo aver descritto fisicamente l’imperatore, aggiunge che fu molto saggio,
esperto di arti meccaniche, dotto in lettere, conoscitore di molte lingue.
Ebbe grandissimo sentimento naturale e fu prudente sopra tutti li uomini, perito artefice di tutte le arti meccaniche, a
che lui per ventura ponesse la fantasia. Dotto in lettere, ebbe piú linguaggi, però che parlava in lingua italiana, latina e
vulgare, in lingua germanica, lingua francese, lingua greca e lingua saracinica. Magnifico, liberale e magnanimo,
grandissimo rimuneratore de' benefici e di uomini fedeli, severissimo vendicatore de la perfidia; per tutte le nobili cittá
del regno di Puglia e de l'isola di Sicilia fece fare nobilissimi edifici che saria superfluo a raccontarli: ma tra li altri in
Abruzzo la cittá de l'Aquila, in Napoli il castello di Capuana, la torre e il ponte di Capua, il castello di Trani, in
Toscana il castello di Prato e la rocca di San Miniato, in Romagna la rocca di Cesena, di Bertinoro, di Faenza e di
Cervia, palazzi e chiese per tutto. Compose molte leggi ad onor de la fede cristiana e conservazione de la libertá
ecclesiastica e per la sicurezza d'Italia e in favore de l'agricoltura e de li naviganti e in favore de li studenti e letterati,
de li quali fu sommamente amatore: le quali leggi tutte sono inserte e approbate in un libro di ragion civile chiamato
codice Iustiniano. Fece compilare un libro di legge approbato, e che per li Studi si legge, chiamato l'Uso de' feudi,
ovvero Decima collazione, e similmente in un altro libro le Constituzioni del Regno. Fece tradurre quello che sino a
questi nostri tempi si è letto e legge per li Studi de le opere di Aristotile, e di medicina di lingua greca e arabesca, e
mandolle a presentare allo Studio di Bologna, come per le sue Epistole appare. Instituí lo Studio universale in Napoli
con molti privilegi, li quali ho letti e veduti, e lí convocò dottori di tutte le facoltá. Ebbe appresso di sé sempre uomini
dotti, tra li quali fu ancora suo generale giudice de la corte Roffredo beneventano nostro iurista, le cui opere ancora si
leggono. Fu valoroso ne l'arme e invitto di animo; ma quello che a grande e sol vizio li fu imputato ebbe, che fu troppo
54
GIOVANNI VILLANI, op. cit., pp.275-6.
44
amatore di femine, et ebbe molte concubine e avea con seco una gregge di bellissime gioveni. E sopra modo si dilettò di
falconi.55
E l’elenco degli autori che celebrano la sua cultura è lungo, basti pensare a Riccobaldo da Ferrara, a
Francesco Pipino, ai commentatori di Dante. Per la sapienza di Federico è stata compiuta la stessa
operazione approntata per la sua nascita, che qualcuno si inventò pubblica, sulla piazza di Jesi, per
tacitare le voci di coloro che negavano la discendenza dell’imperatore da stirpe legittima.56
L’argomento della cultura del sovrano è un topos comune nella produzione encomiastica. Quasi
tutti gli imperatori antichi vollero sembrare colti; Carlo Magno, che era abbastanza ignorante, fu
esaltato da molti autori della sua cerchia non solo come mecenate, ma addirittura come fonte di
conoscenza; Federico I Barbarossa, il nonno di Federico II, era definito come forte e sapiente. Sulla
necessità della cultura per i sovrani si intrattenevano anche gli Specula principis. Le affermazioni
dello pseudo-Jamsilla sono il riflesso indiretto dello scarso peso funzionale della cultura
dell’imperatore negli ambienti vicini alla sua corte. L’Historia in alcuni codici è trascritta come
anonima e in altri è riportata come opera di Nicola de Jamsilla; e con l’attribuzione a tale autore fu
stampata dal Muratori. La scelta editoriale del Muratori fu, tuttavia, già nella seconda metà
dell’Ottocento, messa in dubbio dagli studiosi. Infatti, in età sveva non ci sono personaggi di nome
Jamsilla; inoltre, alcuni esemplari di quella cronaca hanno un’intestazione dalla quale si evince che
siano copie esemplare da un antigrafo posseduto dai Jamvilla. Dunque, si è concluso che il nome
Jamsilla, al quale è legata la cronaca, sia la corruzione di Jamvilla, cognome di una famiglia venuta
in Italia meridionale con Carlo d’Angiò, e che questo è il nome del proprietario dell’esemplare dal
quale furono tratte altre copie, non quello dell’autore. Poiché la cronaca sembra essere opera di un
notaio seguace di Manfredi ben informato sugli eventi tra il 1253 e il 1256, Schirrmacher ha
ipotizzato che l’autore fosse il notaio Nicola da Brindisi; mentre Papasso propose il nome del notaio
Nicola da Rocca. Karst, invece, nel 1898, concluse che l’autore della cronaca sia Goffredo da
Cosenza, perché più volte, e spesso con rilievo, egli è ricordato nell’opera; inoltre, sono riportati
discorsi diretti quando Goffredo è ricordato come fisicamente presente; infine, Cosenza, patria di
Goffredo, è esaltata con toni celebrativi. Ma l’ipotesi di Karst è stata criticata da Fuiano. Infatti,
Fuiano fa notare che alla fuga di Manfredi i secretari non presero parte, perché essi erano a
Spinazzola per restarvi fino a nuovo ordine. I possibili autori sono: Belprando di Cosenza, notaio
presso Federico II e Corrado IV e poi, forse, canonicus Cusentinus, nel 1267, arcivescovo di
55
56
PANDOLFO COLLENUCCIO, op. cit., p.78.
GIOVANNI VILLANI, op.cit., pp.246-47.
45
Cosenza nel 1276 e morto nel 1278; Giacomo da Poggibonsi, notaio di Pandolfo di Fasanella,
capitano generale della Toscana e, poi, nel 1258, camere domini pape notarius; Nicola da Rocca,
maestro di arte dettatoria e notaio delle cancellerie di Federico II, Corrado IV e Manfredi, ma
anche, per un po’, vicino al papa; Rodolfo da Poggibonsi, notaio di re Enzo, di Federico II, di
Corrado IV e di Manfredi, ma, nel 1257, anche del cardinale diacono Ottaviano, e, dal 1263 al
1268, del re Alfonso di Castiglia. Tra questi, appare il nome di Nicola da Rocca, che fu proposto da
Papasso come quello dell’autore dell’Historia, e che, per la produzione prosastica di interesse
retorico, potrebbe essere identificato con lo pseudo-Jamsilla; dopo tutto ci sono anche delle sue
lettere a Goffredo di Cosenza, e l’amicizia tra i due potrebbe spiegare la frequenza con la quale
quest’ultimo è nominato nell’Historia.
46
Austerità e creatività nel Chronicon di Domenico da Gravina
Da quando Arnaldi ha pubblicato il suo lavoro sui cronisti della Marca Trevigiana, è stato riservato
sempre maggior interesse a quella tipologia storiografica elaborata dai notai principalmente nei
comuni dell’Italia centro-settentrionale. A dire il vero, Arnaldi, esaminando il corpus di cronache
prodotte in epoca ezzeliniana, non aveva intenzione di fondare i canoni e di definire i tratti distintivi
di un genere cronachistico-notarile. Chi ha parlato di notai-cronisti è stato Zabbia. Il lavoro di
Zabbia, Notai-cronisti nel Mezzogiorno svevo angioino. Il Chronicon di Domenico da Gravina, non
è un’analisi del testo di Domenico da Gravina, perché esso è osservato da un punto di vista del
confronto con i modelli di composizione di altre opere, anche provenienti da ambienti ed epoche
diverse, quali quelle di Buccio di Ranallo, di Riccardo di San Germano, di Angelo Tummulillo, di
Giovanni Aylino, di Pietro Avario e di Conforto da Costoza. Certo, elementi comuni alle diverse
compilazioni dei notai-cronisti sono rilevabili, anche se si deve distinguere tra le cronache prodotte
nelle città dominanti, che veicolano la propaganda anche con il riordino della documentazione
pubblica, e quelle prodotte nelle città dominate, che, invece, celano maggior interesse per la storia
locale o personale. Nelle cronache dell’Italia meridionale sono tipici i rimandi autobiografici, che
non indicano una chiusura in se stessi degli autori, ma sono la spia del legame tra cronisti e ceti
eminenti cittadini. I notai, infatti, appartenevano principalmente alle famiglie notabili delle
universitates , a quei gruppi di boni homines che sin dai secoli centrali del Medio Evo
sottoscrivevano i documenti e a cui era delegata la produzione della documentazione autentica:
quindi, come si evince dal confronto con i coevi libri di famiglia, naturale era la loro propensione a
monopolizzare la conservazione della memoria delle proprie vicende familiari, che determinavano
anche quelle dell’intera comunità cittadina. Ma il notaio investito della propria dignità dal sovrano,
nel dedicarsi al lavoro di cronista, non poteva non tener presente e indagare il contesto politico del
Regno, che comunque determinava anche le vicende locali. Insomma, l’opera di Zabbia,
analizzando il Chronicon de rebus in Apulia gestis di Domenico da Gravina e inserendolo nel
contesto della produzione dei notai-cronisti del Mezzogiorno, parte da una premessa necessaria:
delle oltre duecento cronache composte in Italia nel XIV secolo, circa un quarto è stato composto da
notai. Zabbia, già nell’introduzione, riconosce la varietà delle forme letterarie , che vanno dalla
prosa ai versi; dei modelli narrativi, aulici o memorialistici; dei temi, che dipendono dal contesto
storico-politico; delle tipologie, che vanno dalla storia universale alla cronaca cittadina. Ci sono
solo somiglianze negli esiti narrativi tra i cosiddetti notai-cronisti e non si può parlare di un genere a
parte. Rolandino Patavino dice che è stato indotto a scrivere una cronaca dal padre, il quale gli
aveva anche lasciato le note che aveva raccolto nella sua vita, ma, poi, ricorda anche che la spinta
47
decisiva gli era venuta da ecclesiastici. Il Chronicon di Domenico da Gravina è acefalo, e quindi
non si sa se la narrazione fosse preceduta da un prologo, dove gli autori danno spiegazioni sul loro
punto di vista. Resta aperta la questione del motivo che lo ha indotto a scrivere e, a ricopiare in
bella. Dopo tutto, la cronaca di Domenico non riporta gli avvenimenti disponendoli secondo
l’ordine della prassi notarile, ma li riorganizza sulla base di necessità di una più organica
esposizione: per Sorbelli, il Chronicon dovrebbe essere definito racconto. Inoltre l’opera è stata
compilata in due momenti diversi. La prima parte è stata scritta nel giugno-luglio 1349 e forse a
Bitonto, dove Domenico si era ritirato con la famiglia. Lo stesso Domenico, nella lamentazione
sulla morte di Andrea d’Ungheria, dice di essere esule, cosa avvenuta verso la metà del 1349, ed
esprime il timore di non riottenere i propri beni, mentre nel 1350, li riebbe tutti dopo la discesa del
re d’Ungheria. Inoltre, Domenico dice che suo figlio Filippo, nato durante l’invasione di Roberto di
San Severino e di Rogerone, quindi nell’aprile o nel maggio del 1349, non ha ancora due mesi. La
seconda parte del Chronicon, invece, è stata scritta alla fine del 1350 o all’inizio del 1351. A
conferma della diversità dei tempi in cui Domenico scrisse il suo lavoro intervengono altri elementi.
Il Chronicon, infatti, è suddivisibile in due parti, così come fa Zabbia nella sua analisi. Nella prima
parte ci sono anche digressioni sulla situazione pugliese e sulle vicende di Giovanni Pipino, conte
palatino di Altamura, ma il centro della narrazione è sulla corte di Napoli e sui cortigiani, descritti
come lupi che divorano il Regno, per poi concentrarsi sul racconto dell’assassinio di Andrea e sulla
punizione dei colpevoli. La seconda parte, invece, che inizia con la partenza di Ludovico
d’Ungheria, venuto nel Regno per vendicare la morte del fratello, è dedicata alla descrizione della
situazione pugliese, ed in particolare a Gravina, nella ricostruzione delle cui vicende ha rilievo lo
stesso Domenico, che è uno dei maggiori sostenitori della fazione filo-ungherese. Dunque, nella
seconda parte, Domenico è uno dei protagonisti della narrazione. In Domenico c’è una tendenza
all’autobiografia, ma come riverbero di un contesto storico e politico più ampio. Ciò si rileva nella
prima parte, riguardo al passo sull’assassinio di Andrea, nel quale, alla descrizione della
scelleratezza, Domenico fa seguire una digressione lamentosa sulla sua sorte, accomunando i suoi
dolori a quelli del Regno e dei suoi sudditi. La lamentazione comincia con la rivelazione della causa
della disgrazia in cui si trova il Regno: la sua gestione è stata affidata a donne e fanciulli,
coinvolgendo, forse, nella critica anche Andrea, di cui Domenico, aveva descritto la morte con toni
compassionevoli. Il registro espressivo, forse, è un po’ infantile nella richiesta di Domenico di
conoscere quale delitto tanto grave abbiano commesso lui o i suoi familiari per subire tutto questo.
Fa sorridere l’affermazione finale che mal comune è mezzo gaudio, ma il tono è esaltante, i periodi
si susseguono in un vortice fino alla serie finale delle tre citazioni ravvicinate. Domenico ha voluto
fare opera letterariamente più creativa: un tentativo che non è rilevabile sempre nell’opera, ma che
48
si vede in taluni momenti di maggior senso storico, che divengono momenti di maggior intensità
emotiva. La descrizione dell’assassinio di Andrea è preparata da diverse anticipazioni che
raffigurano Andrea, agnellino tra lupi, come destinato a morte certa. Il racconto, in cui si trova il
modo di inserire il tema fiabesco dell’anello che protegge dal ferro e dal veleno, è ben articolato,
quasi contrappuntistico. Ad esempio, in Giovanni Villani, non c’è una descrizione così vivace
dell’assassinio di Andrea.
In questi tempi e anno, regnando nel regno di Puglia Andreas figliuolo di Carlo Umberto re d'Ungheria, il quale avea
per moglie Giovanna figliuola prima reda di Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto, a·ccui dovea succedere il
reame per lo modo e ordine, come adietro in alcuno capitolo facemmo menzione; il re Ruberto con dispensagione del
papa e della Chiesa avea diliberato che fosse re dopo la sua morte. E aspettavasi di presente d'esere coronato del
reame di Cicilia e di Puglia, e ordinato era in corte per lo papa uno legato cardinale che 'l venisse a coronare. Invidia
e avarizia di suoi cugini e consorti reali, i quali vizi guastano ogni bene, collo iscellerato vizio della disordinata
lussuria della moglie, che palese si dicea che stava inn-avoltero con meser Luigi figliuolo del prenze di Taranto suo
cugino, e col figliuolo di Carlo d'Artugio, e con meser Iacopo Capano, e collo assento e consiglio, si disse, della zia
sirocchia della madre, e figliuola fu di meser Carlo di Valos di Francia, che·ssi facea chiamare imperadrice di
Gostantinopoli, che anche di suo corpo non avea buona fama, e del suo figliuolo meser Luigi di Taranto, cugino
carnale della reina per madre, di lui secondo cugino, il quale si dicie ch'avea affare di lei, ed era in trattato di torla per
moglie con dispensagione della Chiesa per succedere d'esere re dopo Andreas; e dissesi ancora che 'l duca di Durazzo
suo frate l'assentì, ch'avea per moglie la sirocchia della moglie, acciò che se·lla prima morisse sanza reda a·llui
succedesse il reame. Per questi suoi consorti e cugini della casa reale, si disse che con ordine della moglie e séguito
delli infrascritti traditori, se vero fu come corse la fama piuvicamente, ordinarono di fare morire il detto giovane
innocente re Andreas. Ed essendo il detto re Andreas ad Aversa colla moglie al giardino di frati del Murrone a diletto,
e nella camera colla moglie nel letto, di notte tempore, a dì XVIII di settembre, con ordine e tradimento de' suoi
ciamberlani e alcuna cameriera della moglie, a petizione dell'infrascritti traditori, il feciono chiamare che·ssi levasse
per grandi novelle venute da Napoli. Il quale con conforto della moglie si levò, e uscì fuori della camera; e di presente
per la cameriera della reina sua moglie li fu riserrata la camera dietro; ed essendo nella sala Carlo d'Artugio e il
figliuolo, e 'l conte di Tralizzo, e certi de' conti della Leonessa e di quelli di Stella, e mesere Iacopo Capano grande
maliscalco il quale si dicea palese ch'avea affare colla reina, e due figliuoli di meser Pace da Turpia, e Niccola da
Mirizzano suoi ciamberlani, fu preso il detto Andreas e messogli uno capresto in collo, e poi spenzolato dallo sporto
della detta sala sopra il giardino, essendo per parte di detti traditori ch'erano in quello preso e tirato pe' piedi tanto
che·llo strangolaro, credendo sotterrarlo nel detto giardino, ch'altri nol sapesse; se non ch'una sua cameriera ungara il
sentì, e vidde, e cominciò a gridare, onde i traditori si fuggiro, e lasciaro il corpo morto nel giardino. Tale fu la repente
morte del giovane e innocente re, che non avea se non XVIIII anni, per li falsi traditori. Fu recato il corpo a Napoli e
sopellito co' reali, e·lla moglie ne fece piccolo lamento, a ciò ch'ella dovea fare; e quand'elli fu morto, non ne fece
cramore né pianto come quella che·ssi disse palese e corse la fama ch'ella il fece fare. E uno meser Niccola ungaro
balio del detto re Andreas, passando per Firenze, che n'andava in Ungheria, il disse a nostro fratello suo grande
49
acconto a Napoli, per la forma per noi iscritta di sopra, il qual era uomo degno di fede e di grande autorità; onde seguì
poi molto male come inanzi si farà menzione. Ma ella, cioè la reina, pure rimase grossa d'infante di VI mesi, o·llà
intorno; di cui si fusse ingenerato, dicea ella del re Andreas. 57
La vivace raffigurazione è costruita sul confronto tra la malvagità diabolica dei traditori, sempre
iniqui e l’ingenuità del povero duca, fanciullo d’aspetto, ma virile nel tentativo di difendersi, e quasi
angelico per i capelli biondi più volte menzionati da Domenico. La calma indifferenza con la quale
alla fine è caratterizzato l’atteggiamento degli assassini trova, inoltre, un rimando in quello più
affannato di Giovanna, loro complice. Ma trova anche un contrappunto nell’ansia timorosa della
nutrice di Andrea, che, quando sente il baccano dell’aggressione, si alza dal letto, si affaccia alla
finestra e chiede aiuto urlando. La digressione dà più enfasi all’episodio, ma da Domenico stesso fu
avvertita come troppo esulante dalla linea generale della cronaca, o forse come esagerata nella
ricercatezza formale. Domenico si è allontanato dalla materia trattata per un motivo emotivo; ma
ora deve obbedire alle leggi della cronaca. Chissà se Domenico ha seguito il cuore solo nella
digressione o anche passando ad uno stile di scrittura più austero; e se con dictamen volesse, quindi,
intendere solo la prassi descrittiva o anche l’elaborazione espressiva. Comunque, Domenico
enuncia la sua tecnica storiografica: quello che ha ascoltato dai testimoni lo riporta in ordine, senza
omettere niente, ma, come se fosse stato rimproverato per aver fatto una digressione, abbrevia
l’esposizione. Allora, la volontà di Domenico è quella di riportare notizie e descrivere avvenimenti
in modo misurato, senza fronzoli stilistici ed orpelli retorici. Nella descrizione dell’assedio del
castello di S.Erasmo a Napoli e della sua presa da parte delle truppe di Giovanna , Domenico si
concentra sui particolari che danno vivacità alla scena. Si potrebbe ritenere che Domenico sia più
ricco di particolari e metta più cura nel riportarli quando narra di qualche evento a cui lui ha
partecipato direttamente o di cui ha avuto notizie precise dai testimoni. Manon sempre è così: ad
esempio, sull’imboscata presso Ascoli Satriano nella quale morirono 500 cavalieri di Luigi di
Taranto, Domenico, pur citando le sue fonti, i testimoni Iacono Cicco di Cristoforo e Corbello di
Altamura, non fa digressioni, anche se l’avvenimento gli offre l’occasione per mutare la cronaca in
opera letteraria. Occasione che coglie quando riporta in discorso diretto il dialogo, avvenuto per
interposta persona, tra il Voivoda Stefano e Corrado Lupo, o quando riporta, il discorso al popolo
del giudice Martuccio, dopo aver prima riferito che egli stesso, aveva dovuto volgarizzare per
l’assemblea alcune epistole, che non sono riportate. Le inserzioni di discorsi diretti, non possono
avere, allora, il fine di rendere più oggettiva la cronaca, ma solo di vivacizzarne il tono:hanno
57
G.VILLANI, op. cit., pp. 416 ss.
50
funzione letteraria, dato che, invece, lettere ed atti ufficiali, che ogni tanto sono citati, non sono mai
trascritti, diversamente dalla prassi, circa un secolo dopo, della prima versione della cronaca di
Riccardo di San Germano. Una funzione letteraria, che, tuttavia, Domenico cerca di reprimere.
Quando Domenico narra qualcosa di rilevante o in cui è coinvolto, il cronista fa posto al letterato.Il
giudice, nel giudizio contro Martuccio, ricorda Pilato, quello descritto da Luca.
Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte.
Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà».58
E anche la risposta implacabile degli accusatori, che ringhiano come bestie, ricorda quella dei
sacerdoti e del popolo che condannarono Cristo.
Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse:
«Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!». 59
L’anatema finale contro chi vuole spargere il sangue di un innocente è una citazione da Matteo, ed è
paragonabile alla crocifissione di Cristo.
E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli».60
Domenico confessa di non aver visto la scena del supplizio di Martuccio ma di aver sentito le
relazioni dei testimoni. Domenico rivendica l’autenticità del racconto, dicendo di averlo sentito da
chi vi aveva assistito. Eppure, alcuni particolari, non possono non essere che il frutto della creazione
artistica dell’autore: così Domenico trasforma i morsi di coloro che volevano divorare Martuccio
nei morsi delle tenaglie, salvando i nemici, bestiali nella loro crudeltà, dall’infamia del
cannibalismo; e chiudendo, inoltre, la descrizione della tortura, non omette i particolari delle
menomazioni di Lorenzo Maccarelli, a metterne in risalto la subumana malvagità, che gli fa
58
Luc., XXIII 22.
Matth., XXVII 22-23.
60
Ibidem, XXVII 25.
59
51
confondere la viva carne con la morta legna da ardere. Ma di nuovo, come accade ogni volta che
l’austero cronista si lascia andare alla creatività, la coscienza di Domenico riporta la narrazione a un
livello terreno, più funzionale. Forse a spingere Domenico a scrivere la sua cronaca è stata la
volontà di far ricordare agli altri, con l’indelebilità della scrittura, le vicende alle quali, in modo più
o meno diretto, ha partecipato. Domenico vuole ottenere memoria eterna con la sua opera. Questo
grazie alla virtù eternatrice della creatività letteraria; perché Domenico, anche se frenato dalla
tensione verso una più austera prassi scrittoria tipica della professione notarile, coltivò la non
confessata aspirazione nel fare letteratura e a conquistare, con la sua opera, quel surrogato laico
della beatitudine eterna celeste, che è la gloria immortale eterna.
52
RIVOLUZIONE/CONTRORIVOLUZIONE
La Basilicata di fine Settecento
Provincia autonoma, con capoluogo Matera, dal 1663, la Basilicata confinava con la Capitanata e la
Terra di Bari a nord e nord-est, con la Terra d’Otranto e il mar Jonio ad est, con la Calabria Citra a
sud, con il mar Tirreno, il Principato Citra ed Ultra a sud-ovest ed ovest. Il suo territorio, montuoso
e per un quarto coperto da boschi, si estendeva per circa 10000 kmq., bagnati dai fiumi Bradano,
Basento, Agri e Sinni, tutti che sboccano nel mar Jonio, e da molti torrenti, che erano anche delle
vie di comunicazione, in un sistema viario che, ancora a fine Settecento, constava di 400 chilometri
di strade, in ogni caso non carrozzabili e con 91 centri abitati isolati. Una strada che collegava
Napoli con Cosenza e Reggio Calabria, toccava Lagonegro. Da tale strada si dipanava, all’altezza
del fiume Sele, una diramazione che da Campagna, attraverso Castelgrande e Muro Lucano,
arrivava ad Atella. Costruita in tre anni, lungo un percorso di 47 miglia, essa, che era la prima strada
lucana messa a ruota, era progettata per aprire una via più facile da Salerno al Tavoliere, alternativa
alla strada regia di Puglia, condizionata dalle alture di Ariano. Era previsto, con un’altra
diramazione della strada di Calabria, un collegamento con Potenza, attraverso Auletta e Vietri, ma,
a fine Settecento, tale percorso si era fermato al Marmo. Su tale territorio difficile viveva una
popolazione di 385282 abitanti, suddivisa in 128 luoghi, fra terre, città e casali.61 Matera con i suoi
12300 abitanti era il centro abitato più popolato della provincia, dove solo altri tre luoghi, Rionero,
che era casale di Atella, e le città di Avigliano e Potenza arrivavano ad una popolazione fra gli 8000
e i 9000 abitanti, quasi al limite, quindi, della soglia minima per l’inclusione nella fascia delle città
medie del Mezzogiorno.62 Per la Basilicata, ad esempio, è stato rilevato che nella valle del Bradano
gli insediamenti, a partire dai primi rilievi collinari, sono arroccati e presentano una tipologia fatta
di case a schiera, legate le une alle altre, quasi a creare una barriera e costituendo così una forma
spontanea di difesa. Nella Montagna Potentina hanno, a loro volta, rilievo paesaggi urbani fatti di
61
62
Cfr. L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, presso V-Manfredi, Napoli 1802.
ibidem
53
case povere nei materiali, caratterizzate solo dal fatto di appoggiarsi le une alle altre, di essere
addossate le une alle altre quasi a formare una parete continua; e i paesi, arroccati nella loro povertà
edilizia, presentano spesso un castello, magari in rovina. La valle del Basento ha la particolarità di
non avere nessun insediamento in piano, perché i centri abitati sono tutti nascosti lungo i monti che
la circondano, sicché a volte solo un occhio attento può cogliere un paese che si affaccia quasi a
spiare chi transita lungo la valle. A Pisticci ci si presenta più che altrove la caratteristica serie di
case a schiera a un piano, legate le une alle altre in file parallele, che dalla parte alta del paese vanno
succedendosi verso il basso, nella più semplice e spontanea architettura contadina. A Balvano come
a Brienza la mole soverchiante di una rocca-castello con case di spontanea cultura contadina ai suoi
piedi ripropone il rapporto di protezione-dipendenza tra signori e vassalli. Nella Valle del Sinni la
parte più bassa è un susseguirsi di paesi sui crinali, i quali, avvicinandosi al mare, diventano sempre
più stretti, si assottigliano, formando delle barriere naturali di grande suggestione. Senise ha la
forma di un triangolo e le case si succedono in file regolari dall’alto in basso, con un sistema
difensivo determinato, sui bordi esterni di questo triangolo, dalla fusione di più abitazioni.63 A
ridosso dei summenzionati centri urbani ne seguivano altri quattro con popolazione di poco più di
7000 abitanti e dieci tra i 5000 e i 6000, mentre tutti gli altri stavano molto al di sotto, con 68
luoghi, tra terre e casali, che non arrivavano a 3000 abitanti. Come nella gran parte del
Mezzogiorno, tali piccoli centri abitati erano caratterizzati dall’assomigliare a dormitori contadini
più che a poli di attrazione cittadina, tra l’altro distanti ed isolati gli uni con gli altri, come era
evidenziato nelle delibere dei parlamenti locali. Esemplare, al riguardo, è una delibera sulla Terra di
Moliterno, i cui amministratori e cittadini chiesero di essere inclusi da Salerno, città meglio
collegata rispetto a Matera. Solo 16 dei succitati 128 luoghi della provincia di Basilicata non erano
soggetti a giurisdizione feudale, che ancora a fine Settecento comprendeva l’ottantasei per cento
della popolazione, una percentuale che nel Regno era inferiore solo a quella del Molise e del
Principato Ultra. Per di più alla rendita feudale la Basilicata contribuiva per il quarantadue per
cento, rispetto al 26-28% del Molise, il 23-26% della Calabria Citra, il 22-25% della Capitanata, il
venti per cento della Calabria Ultra e del Principato Ultra, il diciotto per cento della Terra d’Otranto
ed Abruzzo Citra, il quindici per cento della Terra di Lavoro, Principato Citra ed Abruzzo Ultra,
meno del dieci per cento della Terra di Bari. Cosicché la provincia di Basilicata, pur evidenziando ,
in percentuale, un reddito pro-capite inferiore alla media del Regno, era al terzo posto per i redditi
unitari feudali per vassallo, mentre poco rilevante era il reddito da possedimenti liberi ed allodiali.
Nella Terra di Bari la borghesia aveva relegato ai margini il potere feudale. Il quale, invece,
opprimeva ancora la provincia di Basilicata, dove la borghesia era poca cosa, in contesti socio63
G. GALASSO, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Guida Editori, 2009, p.52.
54
economici ancora condizionati nella loro crescita proprio dalla presenza feudale. Su un territorio
provinciale poco urbanizzato la presenza di circa cinquanta famiglie feudali, alcune tra le più
potenti del regno, incideva sulla giurisdizione, rendendola un intreccio di poteri e privilegi
economici, giurisdizionali, politici e fiscali. Ancora per tutto il Settecento il baronaggio costituiva
l’unico gruppo sociale abbastanza omogeneo e compatto la cui forza, sostenuta e rinsaldata da
privilegi politici e giurisdizionali, aveva anche una reale base economica.64 I Carelli di Piperno
erano proprietari di molti immobili e trasformavano i loro introiti in una fitta rete di prestiti.
Tommaso Mazzaccara, duca di Ripacandida, era proprietario di molti beni urbani e rurali, oltre che
titolare di vari prelievi feudali. D’altra parte,tra gli sparuti borghesi, in alcune realtà locali si
distinguevano singoli proprietari di notevoli estensioni terriere, case, greggi, impegnati in attività di
affitti, di appalti, arredamenti, nonché a volte nell’uso disinvolto dell’amministrazione pubblica. Si
trattava di magnifici che insieme alla pratica dell’erosione della grande proprietà feudale avevano
allargato i loro possedimenti con l’acquisto di beni di piccoli commercianti, modesti artigiani,
poveri contadini, costretti a vendere per debiti o per gli alti costi di esercizio le loro modeste quote
di terra. Erano queste, comunque, circoscritte situazioni locali nel contesto socio-economico
connotato, nell’assetto quantitativo e qualitativo della proprietà, da grande presenza di feudatari ed
enti ecclesiastici, cui seguivano nobili benestanti, alcuni professionisti e massari, ampie fasce di
contadini e braccianti. La borghesia era composta da professionisti, affittuari di rendite e negozianti
che era venuta in primo piano sulla scena economica dato lo scarso sviluppo del ceto medio
campagnolo.65 Ancora abbastanza debole, quindi, era la presenza del ceto civile che, se altrove si
era fatto strada con l’esercizio delle professioni liberali, dell’usura, dell’amministrazione delle
casate feudali, in Basilicata era condizionato nella sua crescita da una società rurale e da
un’economia con pochi sbocchi, quasi di sussistenza. In Basilicata la borghesia non si differenzia
dalla massa del popolo per mancanza di spazio in una società essenzialmente rurale e in
un’economia senza circolarità, senza sbocchi, di pura sussistenza. L’unico ceto che si differenzia
dalla massa amorfa del popolo è il ceto ecclesiastico.66 Quasi tagliata fuori dalle grandi vie che
collegavano Napoli alle province, e con poche possibilità di comunicazioni interne, che avvenivano
solo a dorso d’asino o cavallo, per sentieri che si snodavano lungo dirupi, con fiumi senza ponti e
torrenti lasciati a se stessi, la Basilicata era una provincia agricola e pastorale. In molte comunità
locali, si accentuarono, a fine Settecento, conflitti sui diritti di proprietà, che coinvolsero Università,
baroni, cittadini conduttori o fruitori, in un particolare, ma progressivo processo di individualismo
64
A. MASSAFRA, Una stagione degli studi sulla feudalità nel Regno di Napoli, in Fra storia e storiografia. Scritti in
onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry e A. Massacra, Bologna 1994, p.119.
65
R. VILLARI, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna , Laterza, 1961, p.108.
66
A. CESTARO, Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno, Napoli, 1978, p.146.
55
agrario, che fu presente nei condizionati contesti agrari della Basilicata. Importanza rivestiva la
pastorizia, l’allevamento del bestiame, che contava su ampi pascoli e boschi. Rilevanti erano le
poche attività commerciali, che avevano come riferimenti marini i due piccoli sbocchi doganali di
Maratea e Rocca Imperiale, sul Tirreno e lo Jonio, mentre i pochi scambi e commerci interni
avvenivano in fiere periodiche legate a festività religiose. Di natura familiare e destinate a
soddisfare bisogni locali, erano le attività secondarie in alcune località, come la lavorazione della
lana, della canapa, del cotone e la concia delle pelli, soprattutto a Montemurro e Lauria, o anche i
lavori in ferro, come ad Avigliano, Ruoti, Lagonegro, Spinoso, Sarconi, nonché lavori in terraglia,
tintorie, cappelli, tappezzerie, stoffe, come a Ferrandina. Un peso rilevante era esercitato sulle
singole comunità dal ceto ecclesiastico, molto numeroso, soprattutto per la diffusa presenza, in una
rete di 2377 enti ecclesiastici, della chiesa ricettizia, una struttura di origine laicale, centro della
locale attività agricola.67 Nel panorama pur ancora incerto delle origini, che comunque vanno
rapportate al frammentarismo e al particolarismo istituzionale del Medioevo meridionale, un dato
certo è la diffusa presenza,agli inizi dell’età moderna, di chiese ricettizie nelle aree rurali e più
interne del Mezzogiorno, lungo una zona continua comprendente la fascia appenninico-adriatica
meridionale. Era un tipo di chiesa, questa, che allignò nel Mezzogiorno perché meglio
corrispondeva a quell’accentuata tendenza a forme di vita microeconomiche, di pura sussistenza,
chiusa e indigena, che fu la caratteristica dominante di tutta l’organizzazione del territorio
meridionale dal basso medioevo sino all’Unità. Tanto che la storia della Chiesa nel Mezzogiorno è
in buona parte storia di chiese ricettizie, che ebbero un ruolo primario non solo nella storia del clero
meridionale, ma nella storia della società meridionale.68 Infatti, la fitta rete di rapporti economici
che fittavoli, massari, contadini avevano con la chiesa ricettizia, che per la gestione del suo
patrimonio non differiva da un’azienda, non solo rendeva indipendente il clero paesano, lo rendeva
esperto più nei censi e nelle decime che nel culto divino, ma gli dava anche un senso di immunità
morale e civile. Scriveva Anzani nella relazione ad limina del 1752 che il clero di Caggiano è più
numeroso ed immorale del clero di tutti gli altri paesi della diocesi di Satriano.69 Le stesse norme
emanate da Ferdinando IV nel 1797, per evitare, nel percorso che portava a divenire partecipante,
che la preferenza all’anzianità inficiasse il merito, non mutarono la struttura della chiesa ricettizia.
Tali norme prevedevano concorsi per il vicario curato e prove scritte per gli aspiranti alla
partecipazione, ma non modificarono la struttura delle chiese ricettizie curate, perché queste
conservarono la loro struttura laicale.70 Il clero ricettizio, sinonimo nel Mezzogiorno e in Basilicata
67
A. CESTARO, op. cit. pp.165-66.
A. LERRA, Chiesa e società nel Mezzogiorno. Dalla “ricettizia” del sec. XVI alla liquidazione dell’Asse
ecclesiastico in Basilicata, Venosa 1996, p.7.
69
G. DE ROSA, Vescovi popolo e magia nel Sud, Guida 1971, p.38.
70
A. CESTARO, op. cit. p.114.
68
56
di clero litigioso, di clero geloso della propria roba, disobbediente verso i vescovi e che concepiva
la religione come una rendita, aveva come obiettivo la fruizione di beni e rendite della massa
comune e della propria quota capitolare, con lo scopo di poterla trasmettere alla propria famiglia.71
Un obiettivo che era perseguito attraverso un’accurata attenzione, collettiva e individuale, alla
gestione patrimoniale, che di solito vedeva direttamente impegnati i sacerdoti, oltre che nella
conduzione diretta di parte dei beni, nella stipulazione di contratti ed accordi vari, nella riscossione
di censi e fitti, nonché nella collocazione di capitali, in una logica di conduzione quasi aziendale
della ricettizia, particolarmente attenta, perciò, all’andamento del suo bilancio ed ai possibili introiti
personali. Significativamente, le assemblee capitolari a più lunga ed attiva partecipazione erano
proprio quelle con all’ordine del giorno argomenti relativi alla gestione di beni e rendite. Il cui peso
d’esercizio, assolutamente prioritario e prevalente rispetto a pur diffuse esigenze di cura delle
anime, era annualmente ripartito fra i vari partecipanti con turnazioni bonariamente concordate o
elezioni nei relativi incarichi. Per giro forzoso e con prestazione gratis, solitamente a metà agosto,
era ricoperta dall’ultimo sacerdote ordinato, e in mancanza per elezione, la carica di procuratore
generale che, a capo dell’Azienda clerale con alle dipendenze il sagrestano, aveva il compito di
esigere censi ed affitti annualmente maturati, nonché di far fronte alle spese necessarie per la
sagrestia. Sempre che si trattasse di fitti annuali, egli stesso poteva, inoltre, procedere alla
stipulazione diretta di contratti su eventuali beni di massa comune resisi liberi, per i quali, invece,
ogni decisione andava assunta dall’assemblea capitolare nel caso di affitti pluriennali. 72 E proprio il
legame patrimoniale e locale con tali chiese spiega le resistenze del clero verso tutto ciò che potesse
minarne la struttura, l’ostinazione con la quale i preti partecipanti-porzionari difesero l’autonomia
delle loro chiese, la loro attenzione per la locale amministrazione, nel progressivo instaurarsi di un
rapporto tra clero e potere civile, che aveva visto il proprio partecipante-porzionario guardare a
Napoli più che a Roma, il suo essere realistico e non del Papa. Si consideri, inoltre, che con il
Concordato del 1741, che sancì l’evoluzione in senso anticurialista dei rapporti Stato-Chiesa, si
consentì finanche la trasformazione delle chiese parrocchiali in ricettizie, con facoltà di annettere ad
esse altre chiese e benefici purché i beni da ecclesiastici ritornassero nella natura e stato laicali, da
conservarsi in perpetuo.73 La copertura, nel 1792 e nel 1797, delle sedi vescovili vacanti, con
l’accordo del 1791 tra il re e il papa, dopo un lungo dissidio, determinò nelle diocesi alcune novità,
conseguenti a rilevanti, nuove presenze vescovili, che, ad esempio, nella diocesi di Potenza, con
Andrea Serrao, comportò l’assenso regio a riscrivere le norme degli assetti statutari dei locali
capitoli clerali ricettizi. In ogni comunità locale quello ecclesiastico era un ceto che, pur
71
G. DE ROSA, op. cit. pp.36-37.
A. LERRA, op. cit. p.28.
73
ibidem, p.39.
72
57
differenziato al suo interno, per percorsi formativi e funzioni, svolgeva già un ruolo autonomo tra
baroni e contadini e pastori, diversamente dal ceto civile che in Basilicata non si differenziava
ancora dal popolo, se non a livello di nuclei ristretti o singole individualità.74 Gli ordinamenti
istituzionali-amministrativi ancora ancorati a statuti ed usi localistici, nonostante gli indirizzi di
controllo e coordinamento, su e fra Università, promossi dal governo centrale nella seconda metà
del Settecento, in un contesto di trasformazioni delle stesse Università a livello amministrativo e
territoriale, non favorivano un rinnovo del potere. Del resto il corporativismo fondativo degli statuti
ricettizi dei capitoli clerali comportava poca circolarità e poche possibilità di ascesa per coloro che
erano esclusi dal gruppo di famiglie titolari di diritti elettivi. Certo, più avanzati erano aspetti e
processi istituzionali-amministrativi e socio-economici che caratterizzavano i pochi centri abitati
più popolati della provincia di Basilicata, ma anche in questi casi, in ogni caso, la direzione del
potere economico e politico locale era in mano a pochi e ristretti gruppi di famiglie nobili e di
grandi proprietari terrieri che, quindi, come nel resto del Mezzogiorno, avevano anche il controllo
delle locali, seppur limitate, funzioni urbane.75 Tale situazione fu un terreno di incubazione di
focolai di tensione sociale, che negli ultimi decenni del XVIII secolo si accentuarono in molti centri
abitati della provincia, sfociando in manifestazioni di popolo contro i soprusi feudali, per la
riduzione dei pesi fiscali, l’occupazione delle terre, nonché a volte contro le stesse elezioni nelle
magistrature locali o anche contro talune scelte amministrative. La sensibilizzazione ai principi di
libertà e giustizia si intensificò dopo la Rivoluzione francese, ad opera di alcuni borghesi illuminati
e studenti universitari che a Napoli si riunivano nell’Accademia di chimica di Annibale Giordano e
Carlo Lauberg, o alle lezioni universitarie di Mario Pagano, nonché alle riunioni dell’abate Antonio
Jerocades. A questi incontri, insieme a giovani studenti della Loggia dei Liberi Muratori di
Avigliano, si ritrovavano esponenti radicali di altre Logge massoniche lucane, come il sacerdote
Francesco Antonio Pomarici di Anzi, capo del gruppo massonico a Napoli, Vincenzo Verga e
Vincenzo Sarli di Abriola, affiliato, quest’ultimo, alla massoneria dal cognato Nicola Sassano, alto
dignitario della Loggia dei Liberi Muratori di Trivigno, e Deodato Siniscalchi di Lavello.
Progressivamente, nell’ambito della veicolazione culturale del tempo, l’iniziativa di intellettuali e
studenti universitari contribuì a diffondere, anche nei centri abitati più interni della provincia,
principi ed obiettivi della repubblicanizzazione, come l’ispirazione liberale del 1789 e quella
giacobina del 1793. Si tenga presente che dei tremila giacobini sfuggiti a Napoli e nelle province
alle inchieste dopo la congiura di Lauberg del 1794, 107 avevano operato in Basilicata, in molti dei
cui centri abitati il Preside della Regia Udienza Alessandro De Coquemont e il suo avvocato fiscale
avevano rilevato manifesto interesse alle novità. I giacobini erano: Vincenzo Sarli di Abriola, i
74
75
A. CESTARO, op. cit. pp.145-46.
A. SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino 1997, p.166.
58
Guerrieri di Calvello, i Cavallo e i Perrone di Pietrafesa, i Taurisano di Sasso di Castalda, i Cassini
di Castelsaraceno, gli Zagara di Salandra, i Belmonte di Stigliano, gli Albisinni di Rotondella, i
Mobilio di Caldera, i Fortunato di Senise, i Rinaldi di Lagonegro, i Tamburrino di Vaglio. Si
sottrassero all’inchiesta: gli Albanese di Tolve, i Siani e gli Addone di Potenza, i Venetucci di
Picerno, i Rossi e i Votta di Marsico, i Cicciotti e i D’Errico di Palazzo S. Gervasio, gli Alicchio di
Oppido, i De Cesare e i Giannone di Craco, i Sassano di Trivigno, i Mennuni a Genzano, i Marotta
e i Vita a Trecchina, i Basile a Cancellara. Ad Avigliano c’erano il domenicano Girolamo Gagliardi
e Giustiniano Gagliardi, i Corbo e i Vaccaro, i Palomba. A Rionero in Vulture, dove al grido di “
che pagamenti e fiscali. Che Regia Corte: volimo fa come li francise” , il 15 dicembre 1793, un
gruppo di cittadini riuscì a far impedire l’elezione dei deputati del Catastino, per determinare una
tassa fra i cittadini per i pagamenti alla Regia Corte, spese fiscali ed altro. Sempre negli anni
precedenti il 1799, sempre più diffusi furono anche in Basilicata i sintomi della crisi economica e
politica che investiva il Regno, già colpito da un calo di credibilità per la monarchia borbonica, cui
si accompagnava una frattura tra intellettuali e corona, tra dirigenti e masse dell’esercito.
59
Rivoluzione e repubblicanizzazione
Dopo la proclamazione, il 21 gennaio 1799, della Repubblica napoletana, da parte dei repubblicani
che si erano impadroniti della fortezza di Castel S. Elmo, dove proprio un lucano, l’aviglianese
Francesco Paolo Palomba, figlio di Giustiniano, avrebbe issato la bandiera repubblicana francese,
prima di essere colpito da una fucilata da parte di uno dei Lazzari che si opponevano alle truppe
francesi, guidate dallo Championnet, arrivato a Napoli come liberatore e sostenitore dei patrioti. In
sintonia temporale con gli eventi nelle vicine aree provinciali, in molti centri abitati della provincia
di Basilicata furono innalzati alberi della libertà e costituiti nuovi governi municipali democratici e
repubblicani già a febbraio, prima ancora, cioè, dell’arrivo dei commissari democratizzatori. Il
dramma che si svolse nel Mezzogiorno in quei mesi del 1799 fu vissuto con uguale intensità sia
nella capitale che nelle province. In ogni comune era stato piantato l’albero della libertà. 76 Il
Governo Provvisorio della Repubblica napoletana, il 26 gennaio 1799, tre giorni dopo la sua
costituzione, con le Istruzioni generali ai Patrioti, manifesto programmatico della Repubblica, le
cui basi erano l’Uguaglianza e la Libertà, per dare dovunque, nelle province, uniformità alla
macchina politico-amministrativa si sollecitavano patrioti e cittadini, oltre che a svolgere attività di
proselitismo e, dunque, di diffusione del verbo rivoluzionario, ad organizzare in ogni parte del
Regno in cui batta il cuore per la libertà delle Municipalità, senza attendere l’ordine del Governo e
l’arrivo dei Commissari, che sarebbero stati destinati
nelle varie province per consolidare la
rivoluzione. Una sollecitazione a concorrere ai voti del Governo e renderne utile l’influenza era
rivolta ai sacerdoti perché il Vangelo raccomandava l’uguaglianza e la fraternità. E, in attesa di un
quadro normativo completo, che avrebbe trovato piena ed organica formulazione legislativa il 21
piovoso, era indicato di non ammettere nelle magistrature popolari che partigiani noti e zelanti per
la causa del popolo e dell’uguaglianza, nonché di nominare dei giudici di pace per mantenere
76
A. SPAGNOLETTI, op. cit. , p.34.
60
l’unione tra le famiglie e tra i cittadini, comunque eleggendo uomini onesti e virtuosi. Dopo aver
messo in evidenza la necessità che nelle diverse comunità fossero organizzate delle guardie
nazionali affinché i cittadini fossero agli ordini per mantenere i loro diritti, vegliando sui fautori
della tirannia, per favorire una concretizzazione degli indirizzi governativi si prometteva la
precedenza negli impieghi civili e militari oltre che nei tribunali agli uomini generosi che avessero
preceduto i loro concittadini nel promuovere la libertà. Coloro, poi, che avessero voluto conservare
il loro impiego avrebbero dovuto servire la Repubblica con zelo e dichiararsi lealmente ed
apertamente per la rivoluzione. Solo il 9 febbraio, quando la municipalizzazione era dovunque,
nelle province, in una fase avanzata, sulla base delle succitate istruzioni provvisorie, sarebbe stata
emanata la legge sulle facoltà delle Municipalità e sui limiti delle loro giurisdizione. Allora il
governo della Repubblica napoletana, ritenendo fondamentale per la propria attività il soccorso
delle Autorità locali, sollecitava l’attivazione delle Amministrazioni Municipali, ma ridefinendone
assetti e funzioni. In ciascun comune sarebbe stato nominato un aggiunto all’ufficiale municipale.
Nello stesso tempo, si precisava che i luoghi con popolazione inferiore ai cento abitanti sarebbero
stati accorpati a quelli più vicini, costituendo così un solo comune. In ogni caso, ogni Municipalità
avrebbe avuto un Segretario, di sua nomina, ed un Commissario di governo, di nomina governativa.
Alle amministrazioni municipali era delegata la vigilanza su tutte le rendite pubbliche, e le proprietà
nazionali, la cura della pubblica sicurezza, l’organizzazione e la direzione della forza Nazionale
sedentaria, la vigilanza sugli agenti della contribuzione indiretta, l’ispezione su tutti gli stabilimenti
delle scienze, delle arti, e del commercio, la vigilanza sulle case d’educazione e di pubblici
soccorsi. Le Municipalità avrebbero dovuto corrispondere solo con le amministrazioni
dipartimentali, eccetto i casi d’urgenza o dovendo indirizzare lamentele al governo sulle autorità
superiori. Ogni dieci giorni il Commissario di governo avrebbe dovuto comunicare per iscritto
all’amministrazione dipartimentale leggi ed ordini ricevuti, nonché un resoconto di tutte le
operazioni e deliberazioni delle Municipalità. Sempre il 9 febbraio, con un altro provvedimento
legislativo era regolamentata la formazione delle Amministrazioni Dipartimentali e dei Corpi
Elettorali. Era rinviata la convocazione delle Assemblee elettive, affidando nel frattempo le nomine
al Commissario di Governo, che a sua volta sarebbe stato nominato dal Comitato centrale. Il
Governo Provvisorio della Repubblica napoletana con i provvedimenti legislativi del 9 febbraio
aveva definito un sistema istituzionale-amministrativo periferico dipendente, con la rete dei suoi
commissari, dal potere centrale e, dall’autorità militare francese, con l’intenzione di garantire le due
funzioni fondamentali della riscossione delle imposte e del mantenimento dell’ordine pubblico. Ma,
si trattò di una scelta che, per il suo centralismo e la distanza da ordinamenti e usi delle singole
realtà locali, non avrebbe permesso né il controllo, né un raccordo politico-amministrativo con le
61
province che, tra l’altro, furono stravolte anche nei loro territori con il ridisegno legislativo della
nuova rete istituzionale-amministrativa, incentrata su Dipartimenti, cantoni, comuni. Degli undici
Dipartimenti in cui fu diviso il territorio della Repubblica napoletana, il nono, quello del Bradano,
con capoluogo Matera, comprendeva 200 centri abitati, accorpati in 12 cantoni. Rispetto all’ex
provincia di Basilicata, il nuovo Dipartimento del Bradano si caratterizzava, territorialmente, per la
sua estensione verso nord-est, fino al mar Adriatico, compensata, però, con l’assegnazione del
territorio a sud del fiume Agri al Dipartimento del Crati, del cantone di Melfi al Dipartimento
dell’Ofanto e del cantone di Muro al Dipartimento del Sele. Ma, si sarebbero presto visti i limiti di
una tale articolazione istituzionale-amministrativa, che avrebbe creato gelosie e malcontenti per
aver fissato capoluoghi in comuni che non erano sedi di Udienza, né di percettorie provinciali, con
conseguente sospensione del provvedimento per la sua ineseguibilità. Con il secondo governo della
Repubblica napoletana, presieduto da Abrial, il provvedimento sarebbe stato revocato, per la scelta,
secondo i nuovi indirizzi governativi, di uniformare il numero dei Dipartimenti a quello delle
vecchie province, mantenendo la loro estensione e i loro confini, mutando solo i nomi e con
l’aggiunta del Dipartimento di Napoli. Il manifesto politico-programmatico trovò in Basilicata un
terreno di penetrazione, contribuendo a galvanizzare i patrioti, ma allertando, ora, seppur per
obiettivi diversi, nobili e borghesi, aprendo speranze fra i ceti più poveri, suscitando
preoccupazione, ma anche interesse nei contesti clerali, che erano differenziati fra articolate
posizioni vescovili, del clero partecipante-porzionario, oltre che di quello precario. Con il Decennio
francese, nel quadro dello sgretolamento dell’impalcatura ecclesiastica, strettamente legato alla
frantumazione del sistema feudale, rimase compromessa la base di forza delle ricettizie, in modo
particolare l’autonomia delle rendite della massa comune, la sua capacità di autofinanziamento, il
mantenimento delle immunità e le esenzioni delle gabelle. Infatti, furono allora colpite le rendite di
fondi e censi, furono aboliti i patronati, che erano spesso il sostegno maggiore delle chiese; le
rendite dei luoghi pii laicali, gestite fino ad allora dalle parrocchie, furono devolute agli istituti di
beneficenza dipendenti dal Ministero dell’Interno.77 L’attivismo della Basilicata in tale contesto
rivoluzionario sarebbe stato considerato un titolo di merito politico. Di particolare valore politico fu
la prima comparsa rivoluzionaria il 19 gennaio ad Avigliano, la cui Municipalità fu costituita il 5
febbraio, dopo giorni di anarchia, ed a conclusione di un’assemblea di cittadini di ogni ceto sociale,
presieduta da Carlo e Giulio Corbo. I quali misero in evidenza come col nuovo governo si era
acquistata la libertà promettendo che gli Aviglianesi si sarebbero divisi le difese baronali.
Presidente della nuova amministrazione repubblicana aviglianese, fu eletto Nicola Maria Corbo, che
era tra i più grandi mandriani della provincia di Basilicata, fittuario di gran parte delle difese feudali
77
A. LERRA, op. cit. p. 43.
62
del principe Doria. Ma, il 2 febbraio, dopo sanguinosi scontri locali tra fazioni, era stata costituita la
Municipalità democratica a Tito, presidente della quale fu eletto l’avvocato Scipione Cafarelli, di
antica famiglia gentilizia. Il giorno dopo, in pubblico parlamento presieduto, in piazza del Seggio,
dal vescovo Serrao, furono eletti i membri della Municipalità di Potenza, dove il 23 gennaio,
durante una manifestazione di popolo, tra grida di “ Francia dentro e Ferdinando fuora”, erano stati
rovesciati stemmi ed autorità del governo reale. Anche il nuovo governo locale potentino,
presidente del quale fu eletto, su proposta del vescovo Andrea Serrao, il vicario diocesano ed
arciprete della cattedrale Domenico Maria Vignola, nativo di Vietri di Potenza, si caratterizzò per
una composizione sociale mista. A Cancellara, destituiti gli amministratori, a partire dal capoeletto
Giuseppe Pelosa, in pubblico parlamento fu eletto presidente Saverio Gaetano Basile e segretario il
fratello. A Tolve, dove si organizzò subito la Guardia Civica ad iniziativa di Domenico Albanese,
fratello di Oronzo, rilevante fu il ruolo svolto da Rocco Gennaro Balsamo, già segnalatosi come
organizzatore di una manifestazione popolare contro il governatore regio Giacinto Ribas. A Vaglio,
Daniele Carbone, l’anno prima, guidando una manifestazione popolare, era riuscito a prevalere sulle
famiglie nobili, che si riferivano all’arciprete Matteo Catalano, filomonarchico. A Castelmezzano, a
causa dei contrasti messi in atto dal sacerdote Nicola Auletta, fu possibile costituire il nuovo
governo municipale solo il 12 febbraio, quando, in pubblica assemblea, fu eletto presidente
Giovanni D’Amico, uomo di campagna illetterato. Negli stessi giorni altre Municipalità, anch’esse
espressione di assemblee, si costituirono, ad Albano, a Brindisi, a Trivigno e a Calvello, la cui
nuova amministrazione fu presieduta da Diego Falcone, furiere della milizia provinciale, moderato
rispetto al sacerdote Saverio Di Ruvo. Ad ovest di Potenza, al confine col Principato Citra, dove
alla costituzione delle Municipalità si accompagnavano anche iniziative filomonarchiche dirette da
Gerardo Curcio, Alessandro Schipani e Rocco Stoduti, rilevante fu la costituzione dei nuovi governi
repubblicani a Picerno e a Muro. Tra i promotori e primo presidente della Municipalità di Picerno,
che per metodo e scelte amministrative, Cuoco avrebbe considerato tra i più importanti esempi di
autogoverno democratico, fu Saverio Carelli, nobile.78 A Muro, dove un’apertura al nuovo era
emersa da alcuni anni anche nell’ambito ecclesiastico, prima della costituzione, in pubblico
parlamento, della nuova Municipalità, aveva operato un Comitato repubblicano, presieduto da
Giovanni Martuscelli. Nella diocesi di Muro, di particolare valore è la Municipalità che l’8 febbraio
si era costituita a Balvano, allora Principato Citra. Qui in pubblico parlamento, nella piazza S.
Caterina, gran parte del clero capitolare ricettizio fu eletto anche nel governo della nuova
Municipalità, presidente della quale fu il sacerdote Michele Di Jacovo. Nell’area del VultureMelfese, che si sarebbe caratterizzato per la convivenza di realtà locali a più solida presenza
78
V.CUOCO, Saggio storico, pp.344-45.
63
giacobina e repubblicana radicale, come Ruvo e S. Fele, con altre ascrivibili al più generale
processo di municipalizzazione moderata, rilevante fu la repubblicanizzazione di realtà locali più
densamente abitate, come Melfi e Venosa, nonché di altri centri vicini o confinanti con la Terra di
Bari, come Palazzo, Spinazzola e Montepeloso. Un ruolo rilevante nella repubblicanizzazione di
Montepeloso ebbe il vescovo Michele Arcangelo Luppoli che, in una lettera pastorale al clero e al
popolo, aveva illustrato la bontà delle nuove idee, evidenziando che diversamente dalla propaganda
borbonica i francesi non volevano distruggere la religione cristiana. Lo stesso Luppoli fu presente,
in piazza Castello, alla piantagione dell’albero della libertà, con in cima coccarda e berretto frigio,
nonché all’assemblea per l’elezione della nuova municipalità democratica e repubblicana,
presidente della quale fu eletto Giacomo D’Amati. A Matera, la Municipalità fu eletta solo il 10
febbraio, tre giorni dopo che il Governo provvisorio della Repubblica napoletana aveva comunicato
agli uffici dell’Udienza l’ordine di democratizzare la provincia e all’indomani delle decretazioni che
ridefinivano il contesto istituzionale-amministrativo periferico. Sostenuta dall’arcivescovo
Cattaneo, a capo della nuova Municipalità di Matera, furono eletti professionisti che avevano
sostenuto le cause dei poveri presso l’Udienza e i Tribunali Provinciali, nonché canonici locali. Lo
stesso giorno, dopo una manifestazione popolare, fu costituita la Municipalità a Tursi, da dove fuggì
il marchese Giulio Cesare Donnaperna, filomonarchico, che con la famiglia si rifugiò a Colobraro.
A Montalbano, il 2 febbraio era stato piantato l’albero della libertà, in una manifestazione di popolo
guidata da Luigi Lo monaco, fratello di Francesco e cugino di Nicola Fiorentino, impegnato nella
repubblicanizzazione delle vicine Università. Nella prima metà di febbraio piantagioni degli alberi
della libertà e costituzione di Municipalità interessarono anche alcuni dei centri abitati più interni
del Lagonegrese, da Sant’Arcangelo a Carbone, repubblicanizzata il 2 febbraio, a Latronico, a
Lauria, a Roccanova, a Chiaromonte, a Castelsaraceno, ad Episcopia. Un comune quest’ultimo, nel
quale ebbe effetto trainante l’adesione alla repubblicanizzazione dello stesso barone Brancolassi,
che il giorno della prima convocazione del nuovo parlamento si presentò in piazza portando la
coccarda, evidenziando che egli non era più barone, ma cittadino, che rinunciava alla giurisdizione,
e che se fosse venuto qualche francese l’avrebbe accolto. A Lagonegro fu lo stesso sindaco Rinaldi
a convocare il parlamento per nominare i membri della Municipalità, presidente della quale fu eletto
il sacerdote Nicola Tortorella. Il periodo tra la svolta centralistica conseguente alle decretazioni del
9 febbraio in materia elettorale, negli assetti e nel ruolo dei nuovi governi locali, e l’arrivo
dell’Armata cristiana e reale del cardinale Ruffo in Basilicata, nella seconda metà di aprile, è
definito da ulteriore estensione del processo di repubblicanizzazione dei Municipi, ma ad opera di
commissari democratizzatori, persone che inviate da Napoli non conoscevano il popolo, né erano
note, o di amministratori, spinti dallo spirito di conservazione del potere, con conseguente
64
costituzione, dunque, di nuovi governi senza consenso, quando non imposti; dal contemporaneo
estendersi, a partire dal Lagonegrese occidentale, di iniziative filoborboniche e sanfediste di
derepubblicanizzazione; dal progressivo accentuarsi di contrasti nelle prime Municipalità tra
moderati e radicali.79 A Rotonda, al confine tra Basilicata e la Calabria Citra, il 10 febbraio, il
concittadino commissario Andrea Bianchemani, che era rientrato da Napoli, cercò dalla sella del
suo cavallo di nominare ufficiali, presidente e deputati del nuovo governo municipale. A
Miglionico, il 12 febbraio, l’albero della libertà fu piantato solo dopo che il governatore Giovanni
Caporale di Tricarico ebbe notificato con bando ai cittadini l’ordine di democratizzazione, sotto
pena di fucilazione. A Moliterno fu lo stesso capoeletto Michele Arcangelo Parisi, filoborbonico, a
far proclamare il Governo Municipale, mantenendo il controllo sull’amministrazione locale. Del
resto, solo il 3 marzo fu eletta la Municipalità di Rionero, ad iniziativa degli stessi amministratori,
preoccupati dei loro commerci, essendo circondati da paesi democratizzati. Come era prevedibile,
dato il contesto, sorsero conflitti nelle varie realtà locali. Tali stato di conflitto ebbero terreno fertile
in contingenze locali, oltre che nell’andamento degli eventi più generali, dalle deluse aspettative per
l’attività legislativa del governo della Repubblica napoletana da una parte, dall’altra per le notizie
che sin dalla prima fase accompagnarono l’iniziativa sanfedista del cardinale Ruffo in Calabria.
79
V.CUOCO, op.cit., p. 419.
65
Controrivoluzione e derepubblicanizzazione
A trarre vantaggio dei dissidi interni ai nuovi governi municipali repubblicani fu l’azione politica
filomonarchica organizzata, esercitata ad ovest dal vescovo di Policastro Ludovico Ludovici,
membro della Reale Arcadia e ad est dal commissario regio Filippo Antonio Durante, che aveva la
sua base a S. Chirico Raparo, e dal marchese Giulio Cesare Donnaperna. Il quale, come
amministratore di circa 40000 ducati, assegnati alle Università della provincia di Basilicata per la
leva del 2 settembre 1798, aveva stabilito rapporti con molti amministratori locali, oltre che con gli
uffici dell’Udienza, e il Regio Percettore per la provincia di Basilicata, Nicola de Cesare di
Spinazzola. A Lagonegro l’albero della libertà, divelto il 5 febbraio e ripiantato pochi giorni dopo,
fu di nuovo divelto dal popolo che, aizzato dal governatore filoborbonico Barbati, da metà febbraio
passò a svaligiare la posta, intercettando la corrispondenza spedita dal governo della Repubblica
napoletana in Calabria. Del resto, a Sant’Arcangelo, pochi giorni dopo, il 24 febbraio, una protesta
popolare contro il rifiuto dei locali amministratori alla spartizione delle terre demaniali, che era
stata attuata, invece, a Tursi, ebbe esito cruento. Nei giorni seguenti, la parte moderata,
maggioritaria nel governo municipale, aderì all’iniziativa dell’agente del principe di Stigliano,
Simone Izzo che, insieme al delegato di Durante, Francesco Marotta di Roccanova, promosse lo
scioglimento della Municipalità e l’adesione alla causa monarchica il 5 marzo. Il marzo, dopo tutto,
ad iniziativa di Durante era stata sciolta la Municipalità di S. Chirico Raparo e l’indomani divelto
l’albero della libertà a Chiaromonte. Il primo marzo, nel Lagonegrese occidentale, un contingente
esterno di controrivoluzionari , guidati dal capitano della guardia reale Oronzo Maronciello, aveva
occupato Maratea, mentre a Lagonegro, controllata dal governatore filoborbonico Barbati, dinanzi
al timore di un arrivo dei francesi, fu decisa, in pubblico parlamento, la costituzione di una truppa
civica cristiana, per difendere la causa comune, contro il nemico che si stava avvicinando. Per la
rilevanza dei centri abitati interessati e il ruolo socio-istituzionale degli insorgenti, tali eventi
segnarono, nel Lagonegrese, una svolta filomonarchica con conseguente sviluppo di ulteriori,
66
particolari forme di rivolta popolare, mentre consistenti nuclei di forze repubblicane erano presenti
in alcune delle più piccole comunità locali, da Carbone e Castelsaraceno, a Roccanova, a S. Martino
d’Agri, a Missanello, le cui forze repubblicane concorsero a respingere, il 5 marzo, presso Sarconi,
controrivoluzionari a nord-ovest dell’area dopo le occupazioni di Marsiconuovo e Marsicovetere.
Nel frattempo, il nucleo portante del movimento repubblicano operante nel Potentino e nel VultureMelfese aveva concorso al ripristino della Municipalità a Potenza, dopo il piano di restaurazione
monarchica basato sull’assassinio, il 24 febbraio, del vescovo Andrea Serrao e del reggente del
seminario diocesano Antonio Serra. Due figure, queste, nel nuovo contesto politico-istituzionale e
socio-religioso, distintasi la prima per il suo percorso di allontanamento dalla monarchia borbonica,
la seconda espressione di una realtà formativa che proprio il Serrao aveva connotato di un’apertura
al nuovo. In un’atmosfera di torbidi, infatti, mitigati da una processione per la Reliquia del Sangue
di Cristo promossa dal clero per ispirare idee di pentimento, pace e pubblica quiete, il 27 febbraio si
riuscì, grazie all’intervento di truppe repubblicane provenienti dai comuni vicini, a ripiantare, in
Piazza Sedile, l’albero della libertà, ricostituire la Municipalità ed una nuova Guardia Civica, il cui
comando fu affidato a Basileo Addone, nobile. Ad Avigliano, il fallito tentativo del commissario
organizzatore Antonio Maria Salvatore, chiamato da Muro, e i suoi contrasti nel governo
municipale, tra amministratori favorevoli o contrari alla spartizione delle terre feudali, anche dopo i
primi ritocchi alla composizione della Municipalità e della Guardia Civica, indussero dirigenti
repubblicani come Girolamo Gagliardi e i fratelli Vaccaio a rientrare da Napoli, il 23 marzo, per
pacificare i contrasti, e rilanciare la Municipalità. L’occupazione delle terre promesse, attuata il 25
marzo, da parte di circa seicento cittadini, fu accompagnata da un riassetto della Municipalità e
della Guardia Civica, per avere rappresentanze istituzionali-amministrative che fossero espressione
degli indirizzi riformatori. Allo stesso modo per iniziativa diretta dei locali governi municipali di
prima o seconda costituzione trovarono risposta le rivendicazioni dei contadini in alcune realtà
repubblicane, come a Picerno, Pietragalla e Castelgrandine.80 In molti altri centri municipalizzati
tali conquiste furono accompagnate da contrasti cruenti tra governanti, nonché tra questi e i
contadini, guidati, come a Pisticci, da esponenti di primo piano del movimento repubblicano, che si
erano radicalizzati. A Matera, il 6 marzo, dopo un susseguirsi di iniziative antirepubblicane, sotto
gli occhi della guardia civica era stato tagliato l’albero della libertà, mentre l’indomani, in pubblico
parlamento, era eletta la nuova amministrazione, presieduta dal nobile Giulio Malvinni-Malvezzi.
Negli stessi giorni iniziative antirepubblicane e filomonarchiche, accompagnate da abbattimenti
degli alberi della libertà, scioglimenti delle Municipalità e conseguenti piantagioni della croce, si
susseguirono nel Materano, da Pomarico a Grassano a Miglionico, mentre a Ferrandina e a Pisticci
80
V.CUOCO, op.cit., pp.344-45.
67
contadini e repubblicani radicali, occupavano terre demaniali e feudali, dopo scontri cruenti. Già a
metà marzo, quindi, quando il cardinale Ruffo era ancora in Calabria, il contesto politicoistituzionale della provincia di Basilicata, evidenziava una consistente presenza di forze
repubblicane e Municipalità solide nel Potentino e nel Vulture-Melfese, ma articolate nelle altre
aree, con progressivo processo di derepubblicanizzazione. In gran parte delle realtà locali, infatti, i
poveri, sempre più delusi nella loro fame di terra, oltre che per le mancate scelte amministrative
locali e centrali, si ricollocavano in ambito antirepubblicano, insieme, ma con scopi opposti, con
nobili e grandi proprietari, a loro volta timorosi di perdere, soprattutto a causa degli indirizzi
amministrativi più radicali dei nuovi governi municipali, le loro posizioni di potere. A tale contesto
socio-istituzionale, sempre più definito da particolari situazioni di autoscioglimento di
pseudogoverni municipali repubblicani e accompagnato da un progressivo susseguirsi di focolai di
rivolta sociale sul territorio, va rapportata la decisione politica presa a fine marzo da parte di patrioti
delle più solide Municipalità del Potentino-Vulture-Melfese di costituire una Lega o Patto di
Concordia, con lo scopo di aiutare l’avvento delle nuove idee e di difendersi dal nemico,
impedendo, immediatamente, il ricongiungimento delle truppe del capitano borbonico Gerardo
Curcio di Polla con quelle del cardinale Ruffo, che stava terminando anche la realizzazione della
Calabria Citra. Uniti per la difesa comune, avrebbe scritto Cuoco, mettendo in evidenza
l’importanza di un tale atto di solidarietà politica.81 Il 2 aprile, in virtù di tale Patto, truppe del
Potentino fecero convergere su Tolve più di quattrocento uomini, sventando il tentativo di
filomonarchici locali e di quelli provenienti da S. Chirico e Grassano, già realizzate, di abbattere
quella Municipalità, che era tra le più importanti dell’area. Il 5 aprile le stesse truppe, dopo aver
messo in fuga controrivoluzionari del casale di S. Chirico, riconquistandolo, proseguirono per
Oppido, stabilendovi una nuova maggioranza repubblicana radicale. A metà aprile repubblicani
provenienti da Avigliano ripristinavano la Municipalità di Pescopagano, mentre altre truppe
coordinate da Oronzo Albanese respingevano, a Vaglio, filomonarchici di Grassano. Il 18 aprile,
forze repubblicane di Picerno, Muro, Avigliano e Potenza conquistavano Tito e Pietrafesa, dove nei
giorni precedenti avevano fatto scorribande truppe sanfediste provenienti dal Vallo di Diano, cui si
erano aggregati filomonarchici di Pietrafesa, guidati dal sacerdote Donato Antonio Vallano. Nel
frattempo, avanguardie sanfediste provenienti dalla Calabria, comandate dal canonico D’Epiro,
erano arrivate, a metà aprile, a Matera, che da oltre un mese si era autorealizzata, mentre il governo
del fu Dipartimento del Bradano ed ora nuovamente di Basilicata si riuniva ad Altamura. I materani,
che nei giorni precedenti avevano temuto l’arrivo dei francesi, tanto da scappare, andarono incontro
ai salvatori in processione con la statua della Bruna. Il 21 aprile, da Cassano, a mettere in evidenza
81
V.CUOCO, op.cit., p.461.
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la particolarità del contesto della Basilicata sarebbe stato lo stesso cardinale Ruffo che, in procinto
di lasciare la Calabria e di marciare verso la Basilicata, esprimeva con realismo al ministro Acton
una serie di possibili condizionamenti sugli esiti del suo percorso. La codardia dei tarantini, diceva
Ruffo, senza fucili, insieme alla riluttanza dei calabresi a lasciare la loro terra, non permettevano di
assumere disposizioni vigorose, né di poter moltiplicare la truppa, anche per aver dovuto spedire
rinforzi a Polla e a Campestrino, oltre che tener impegnata molta gente per spostare i prigionieri. Si
avvicinava la raccolta e i calabresi non volevano abbandonarla. Preoccupato e confuso per la
difficile condizione militare, alla quale si aggiungeva il non potersi tenere sulla difensiva per
aspettare i russi, non conoscendone i mezzi, oltre che per non perdere terreno e denaro, il cardinale
comunicava ad Acton che, confidando in Dio, sarebbe andato avanti, seppur in un nuovo contesto
territoriale e senza ufficiali. Comunque, anche alla consapevolezza delle difficoltà che sarebbero
sorte dal nuovo contesto va riferita la scelta strategica del cardinale Ruffo di muoversi lungo la
Basilicata orientale, avendo a destinazione Matera, già realizzata, evitando il Potentino, forte nucleo
dei repubblicani. Il cardinale aveva affidato al vescovo di Policastro Ludovico Ludovici, come
generale, il compito di unire tutti i suoi generali, fiducioso, egli, che un vescovo fosse adatto a
tenerli uniti. Il 30 aprile da Poliporo, dove l’Armata Cristiana e Reale sostò per tre giorni, il
cardinale Ruffo, dopo aver premesso che le cose non erano migliorate, tranne che per la presunta
realizzazione di Salerno, comunicava ad Acton di non aver approvato la spedizione di Curcio e
Schipani per Salerno prima d’aver conquistato Potenza, nella convinzione che le città di mare non
avessero bisogno di guarnigioni, mantenendosi fedeli per timore delle bombe. In merito ai
prigionieri, il cardinale, adducendo come esempio il comportamento dei francesi, che non erano
stati severi, metteva in evidenza l’utilità tattica di disunirli, non mancando il tempo per punirli,
facendo credere che ci fossero più classi di prigionieri e che la massima punizione consistesse nel
perdonarli. Facendo perno sulla Calabria, si doveva farvi sbarcare il Re con mille inglesi di
Messina, puntando poi su Benevento come centro del Regno, dove la gente accorrerebbe in folla a
vedere il Re che riprenderebbe così Napoli senza colpo ferire. Un sogno, questo, sul quale il
cardinale insisteva in una seconda lettera dello stesso giorno, incentrata sul ricorso alla clemenza,
insieme al perseguimento della simulazione, come via per la veloce riconquista del Regno senza
versare il sangue. Le riflessioni del Ruffo vanno lette nel contesto della strategia che prospettava ad
Acton in questa nuova fase, che era definita, da difficoltà, da lentezza nell’arrivo di rinforzi, da poca
incisività d’azione, in special modo in quelle aree repubblicane più solide, che ad est si
imperniavano su Altamura e Gravina e ad ovest nel Potentino. Ci voleva arte, perché non c’era
forza. Auspicata, a sostegno della sua tesi, la storia della Francia, nella quale tra i perdonati c’erano
capi di partito che andarono contro i re, si chiedeva se non si potesse disporre di feudi da promettere
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a coloro che fossero tornati all’ovile. Si trattava di una strategia, dettata da una lettura realista del
contesto, richiamata la quale il Ruffo ribadiva la volontà di andare avanti seppur in luoghi
sconosciuti e senza fucili per la lentezza dei trasporti da Messina. Elaborato e comunicato il piano
di breve e medio termine, Ruffo lasciava Poliporo per conquistare Altamura per poi prendere
Potenza e Gravina, e andare avanti per unirsi con gli abruzzesi e con l’altro sbarco a Manfredonia di
russi e turchi. Con un insperato aumento di sanfedisti, anche lungo la fascia jonica, il cardinale
proseguì per Ischinzana, Bernalda e Montescaglioso, arrivando il 4 maggio a Matera, dove fu
accolto in processione da sacerdoti, frati, cittadini, amministratori e magistrati. Il primo maggio, nel
corso del passaggio per Ischinzana, che dal 1795 era feudo del marchese filoborbonico Giulio
Donnaperna, soldati del cardinale Ruffo, comandati dal capitano calabrese Pensabene, pensarono
bene di inoltrarsi anche nel vicino centro abitato di Montalbano, dove faticosamente, tra gli altri,
riuscì a fuggire Luigi Lomonaco, fratello di Francesco, grazie ad un nascondiglio in casa di Carlo
Troyli tra un cassone e un telaio domestico. Il 3 maggio, a Bernalda, prima di partire per Matera, via
Montescaglioso, già realizzata, il cardinale celebrò una messa solenne nella Chiesa Madre. A
Matera, durante una permanenza di cinque giorni, il cardinale insieme al fratello, commendator
Francesco, che col titolo d’ispettore, dirigeva gli affari della guerra e delle finanze, ricevette molte
suppliche, adottando vari provvedimenti. Nel frattempo, però, non c’erano i fucili, attesi da oltre
due mesi. Nella mente del cardinale era centrale, accanto alla strategia, la riconquista del Regno,
seppur convinto che il contesto poteva giocare, in breve tempo, a favore della causa monarchica se
solo si fosse deciso di ricorrere alle bombe e al perdono generale. In effetti, la difficoltà, tra
giacobini e repubblicani, era ben chiara al Ruffo, se scriveva che i giacobini accusavano i francesi
di averli abbandonati. E di rimando i francesi rispondevano che i giacobini non si impegnavano
molto nella ribellione. Ruffo ipotizzava che sarebbe stato diverso se fossero arrivati i russi, così da
facilitare l’unione con gli abruzzesi, con conseguente possibilità di trascurare Tricarico, Tolve,
Potenza e Vaglio, percorrendo la via più comoda. Cosicché il 9 maggio, dopo cinque giorni di festa
a Matera, dove erano confluiti, anche dai più lontani centri della provincia, insorgenti
filomonarchici e sanfedisti, ingrossando il fiume della controrivoluzione, il cardinale, confortato dai
successi di Curcio nel Potentino, mosse, con circa diecimila uomini, verso Altamura, che il Governo
della Repubblica napoletana aveva affidato al Generale della Repubblica Felice Mastrangelo di
Montalbano e all’alto commissario civile del Dipartimento del Bradano, ora di Basilicata, Nicola
Palomba di Avigliano. In un giorno, in assenza dei rinforzi francesi, la città fu conquistata dalle
forze sanfediste, che la saccheggiarono. Nello stesso periodo, sulla base della strategia di
Ruffo,truppe sanfediste guidate da Curcio si erano dirette dal Vallo di Diano verso il Potentino,
sconfiggendo il primo maggio sul Marmo forze repubblicane provenienti da Muro, il tre
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riconquistando Tito, il dieci Picerno, che, dopo lungo assedio, fu saccheggiata e devastata, con
l’uccisione di settanta patrioti, venti dei quali donne, che si batterono strenuamente. 82 Conquistata
Picerno, alla cui tenace resistenza avevano collaborato patrioti dai comuni vicini, ai sanfedisti del
Curcio, che avevano riportato successi, si aprirono le porte dei Municipi di Avigliano, Muro e
Potenza. E mentre nei giorni seguenti, in un’atmosfera di caccia all’uomo, il generale Curcio
stabiliva una fortezza a Potenza, punto di raccolta di proseliti e pentiti, Ruffo, confortato dalla
buona riuscita del suo piano, ritornava in Basilicata, arrivando in trionfo il 27 maggio a Spinazzola,
il 28 a Venosa ed il 29 a Melfi, che era ancora ribelle. Ma qui egli fu ricevuto dal vescovo, dal clero
secolare e regolare, nonché dalla popolazione, la quale mentre il giorno prima era in festa per la
Repubblica, il giorno dopo acclamava il nuovo venuto, che si stabilì nella curia. Da Melfi, il 5
giugno, il cardinale si diresse verso Napoli, via versante Adriatico, avendo Curcio trionfato. Era
chiusa la stagione rivoluzionaria e repubblicana che, pur nella sua complessità sociale e territoriale,
aveva assunto carattere eccezionale anche a livello istituzionale, soprattutto rispetto ad altre realtà
provinciali.
82
V.CUOCO, op.cit., p. 345.
71
Rivoluzione e controrivoluzione
Centro abitato più popolato della provincia con i suoi 12300 abitanti, Matera aveva fatto registrare,
nel Settecento, uno sviluppo del suo spazio urbano, con la costruzione di nuove strutture, pubbliche
e private. Accanto al ruolo fondamentale di poche famiglie nobili e di grandi proprietari di beni
rurali ed urbani emergevano, soprattutto all’ombra della proprietà ecclesiastica, la presenza di una
borghesia professionale, che si stava differenziando dal restante corpo sociale, fatto di braccianti,
contadini, piccoli artigiani. Anche a Matera, però, come in altre città del Mezzogiorno, nonostante
l’allargamento della rappresentanza istituzionale anche al popolo, le modalità d’elezione degli
amministratori erano tali da garantire in ogni caso, anche per tale rappresentanza, eletti graditi ai
nobili, che avevano incarichi e funzioni nella Regia Udienza. La presenza della quale, per le sue
funzioni di controllo politico e giudiziario, dava a Matera un ruolo rilevante nei rapporti con Napoli
oltre che nel contesto provinciale. Invece, la città di Potenza, che di lì a poco, nel riassetto
istituzionale-amministrativo del Decennio francese, con legge dell’8 agosto 1806, sarebbe divenuta
nuovo capoluogo della provincia di Basilicata,, a fine Settecento, ancora soggetta a giurisdizione
feudale e, con i suoi circa 9000 abitanti, come altri centri cittadini del Mezzogiorno a basso tasso di
funzioni urbane, si caratterizzava, in ogni caso, come realtà socio-economica dinamica. Nel XVIII
secolo, infatti, in un contesto ancora agricolo, era emersa la proprietà privata e la borghesia agraria,
formatasi, anch’essa, all’ombra della proprietà ecclesiastica, per un complesso gioco di strategie
familiari e patrimoniali. Allo stesso tempo, rilevanti mutamenti si verificavano nell’assetto dello
spazio urbano, che, tenendo fermo il solido nucleo strutturale dell’edilizia religiosa e nobiliare, si
caratterizzava per nuovi interventi di accorpamento e frazionamento nell’edilizia esistente, con
parallelo allargamento del borgo fuori le mura cittadine. Sulle limitate funzioni urbane, in
particolare sull’assetto e la direzione politico-amministrativa dell’Università potentina, decisivo era
il peso del locale feudatario, conte Loffredo, e dei nobili, che nell’amministrazione avevano cinque
eletti su sette. La Municipalità eletta a Potenza il 3 febbraio del 1799, diretta dal vescovo Serrao,
72
che presiedette, in piazza del Seggio, il pubblico parlamento, fu tra le prime in Basilicata, sulla base
delle istruzioni generali ai patrioti emanate dal Governo provvisorio della Repubblica napoletana il
26 gennaio, prima, dunque, dell’invio dei commissari democratizzatori e del quadro normativo che
avrebbe trovato piena ed organica formulazione legislativa il 21 piovoso. In sintonia con i primi
indirizzi del Governo provvisorio della Repubblica napoletana, il nuovo governo locale potentino si
caratterizzò, nel suo iniziale assetto amministrativo, per una composizione sociale mista, dai grandi
proprietari agli artigiani, resi solidi da una decisiva presenza clerale, vicina a Serrao, a base della
cui posizione c’era stato un progressivo allontanamento dalla monarchia borbonica più che la
fiducia nella causa giacobina, seguendo ideali di riforma religiosa e morale. A Matera, invece, dove
gli stretti rapporti con Napoli avevano condizionato le spinte repubblicane, la Municipalità fu
costituita solo il 10 febbraio, a tre giorni di distanza dalla comunicazione, da parte del Governo
provvisorio della Repubblica napoletana agli uffici dell’Udienza, dell’ordine di democratizzare la
provincia. Cosicché il 9 febbraio, in coincidenza con l’emanazione dei decreti legislativi sul nuovo
quadro normativo istituzionale-amministrativo centrale e periferico, anche dagli uffici dell’Udienza
di Matera, partirono corrieri per democratizzare la provincia, con il mandato, dinanzi ad eventuali
resistenze, di fare ricorso alle intimidazioni. A Matera, nel frattempo, in sintonia con manifestazioni
svoltesi in altri centri abitati, soprattutto del Potentino, già repubblicanizzati, fu piantato in piazza
l’albero della libertà, fu esposta, dalla finestra del palazzo dell’Udienza, la bandiera tricolore, e tutti
i cittadini portarono la coccarda, mentre, allo stesso tempo, erano abbattute le immagini reali,
nonché demolita la statua di Carlo III, che era sulla porta della casa comunale. L’indomani,
preceduta da varie riunioni nella curia, per pacificare i contrasti per le elezioni, fu eletta, in pubblico
parlamento, la Municipalità, diretta dall’arcivescovo Cattaneo e alla presenza dei magistrati
dell’Udienza. I quali ebbero un peso decisivo nel nuovo governo locale, a partire dal presidente, che
fu l’avvocato dei poveri presso il tribunale provinciale Fabio Mazzei. La nuova amministrazione,
della quale facevano parte grandi proprietari, avvocati e canonici, provocò fin da subito il malumore
del duca Giulio Malvinni-Malvezzi, le cui mire alla carica di presidente, nonostante il suo
dichiararsi repubblicano, si sarebbero collegate all’opposizione di altri galantuomini, anch’essi
risentiti per l’esclusione, e, per motivi diversi, di gruppi sociali più deboli, delusi nelle loro speranze
di cambiamento da un atteggiamento attendista da parte dei nuovi amministratori, condizioni,
queste, di ancoraggio, anche, per iniziative controrivoluzionarie, che non si fecero attendere. La
Municipalità di Matera, già nata in ritardo e solo su sollecitazione diretta del Governo della
Repubblica napoletana, come esito, quindi, di un percorso obbligato, nei suoi soli 24 giorni di vita,
anche per i contrasti per la sua composizione, non riuscì ad occuparsi di nulla se non della pubblica
annona e della guardia civica, tutto a spese dei cittadini, tra rivolte popolari che, pensando di aiutare
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fattivamente i nuovi amministratori non mancarono di raccogliere la legna nelle terre comunali
usurpate, essendo convinti che fossero state ricondotte nell’alveo del regime legittimo di terre aperte
a tutti. In seguito ci furono iniziative antirepubblicane, alimentate anche dalle notizie dell’azione del
cardinale Ruffo. Cosicché, il 6 marzo, sotto gli occhi della guardia civica, fu tagliato, dall’Udienza,
l’albero della libertà, furono issate le bandiere regie, mentre nella cattedrale, presente il vicario
diocesano Martino Marano, si cantò il Te Deum, con processione di clero e popolo. Il 7 marzo fu
costituita in pubblico parlamento la nuova amministrazione, presieduta dal nobile Giulio MalvinniMalvezzi. La presenza, in tale governo locale, di quattro cittadini della precedente Municipalità non
riuscì, in ogni caso, a frenare la svolta restauratrice di tale amministrazione, che fu segnata da
nuovi, disordini, estorsioni, ed occupazione di terre, mentre molti cittadini e lo stesso caporuota, col
pretesto che fossero giacobini, furono incarcerati, mentre molti altri, fuggirono a minaccia della
vita. Fra questi anche l’ex presidente Fabio Mazzei, nonché l’avvocato fiscale ed un uditore
dell’Udienza, compreso il preside Raimondo Blanch. Nel frattempo a Potenza, la costituzione della
cui Municipalità era stata espressione di una larga base sociale, oltre che prodotto di concause
legate anche a locali nuclei massonico-giacobini, i pur tragici eventi controrivoluzionari del 24
febbraio non riuscirono a cancellare l’esperienza repubblicana, pur condizionandone la successiva
attività. Tre giorni dopo, in un’atmosfera di disordini, si riuscì, soprattutto per il concorso di forze
repubblicane dai comuni vicini, a ripiantare, in piazza del Seggio, l’albero della libertà rieleggendo,
in pubblico parlamento, una nuova Municipalità, alla cui presidenza fu eletto l’ex sindaco Giosuè
Ricciardi, mentre il comando della nuova Guardia Civica fu affidato a Basileo Addone, che con il
fratello Nicola era stato tra i protagonisti del ripristino della repubblicanizzazione. Rideterminata
nella rappresentanza istituzionale e nell’assetto di governo, su basi moderate, la Municipalità
potentina, fu ora, sempre più caratterizzata, da ordinaria gestione amministrativa. Un indirizzo
politico-programmatico, questo, vistoso se raffrontato alle Municipalità contigue, soprattutto per la
non assegnazione delle terre feudali e demaniali ai contadini. Insieme ad altre sei Municipalità del
Potentino quella di Potenza fu, invece, impegnata dal protagonista, a fine marzo, dinanzi alla
derepubblicanizzazione in altre aree della Basilicata, nella costituzione della Lega o Patto di
Concordia, con lo scopo di un raccordo strategico tra le forze repubblicane per poter fronteggiare
attacchi antirepubblicani. Il 30 aprile da Poliporo, dopo le lettere del 27 dalla Terra di Rocca
Imperiale, il cardinale Ruffo scrisse ad Acton di non approvare la spedizione di Curcio e Schipani
per Salerno prima d’aver preso Potenza. Una lettura comparata, quindi, del contesto politicoamministrativo di Potenza e Matera nel 1799 in un momento come quello dell’arrivo del cardinale
Ruffo e dell’Armata Cristiana e Reale nel Dipartimento di Basilicata, evidenzia, a distanza di tre
mesi dall’avvio della repubblicanizzazione, da una parte una realtà politico-amministrativa, come
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quella di Potenza, ancora repubblicana, seppur frenata, per la nuova composizione del governo, in
provvedimenti riformatori, dall’altra Matera, da due mesi autoderepubblicanizzata, né più sede del
governo dipartimentale, costretto a riunirsi ad Altamura, dove, tra l’altro, si rifugiarono molti
materani. Matera, insomma, era realista, sede festosa del cardinale Ruffo, dal 4 al 9 maggio,
quando, ospite in casa del sindaco, ricevette suppliche, adottò provvedimenti, assumendo
informazioni sulla vecchia amministrazione, ed in particolare sugli autori della demolizione della
statua di Carlo III. La sera del 7 maggio lo raggiunse, da Taranto, il commissario realista De Cesare,
con alcune centinaia di uomini armati. Il 9 maggio, da Matera, alla cui difesa era preposta una
guardia civica di 100 uomini, più altri rimpatriati, Ruffo con al seguito circa diecimila uomini,
anche materani, mosse verso Altamura che capitolò ai sanfedisti. Nel frattempo, le truppe di Curcio,
che dai primi di maggio avevano riconquistato, tra eroiche resistenze e scontri cruenti,i municipi del
Potentino occidentale,, il 18 maggio, dopo aver superato la resistenza blanda di alcune truppe
repubblicane, occuparono Potenza che, nonostante gli impegni assunti, fu anch’essa incendiata e
saccheggiata. Il presidio di Curcio costò un aumento del deficit di bilancio. Di lì a circa un anno
l’indebitamento fu tale da indurre gli amministratori a più prestiti forzosi, anche tra i cittadini
benestanti. L’Udienza di Matera perseguì molti patrioti e molti ne espatriò. Ci furono quattro
condannati all’espatrio e alla confisca dei beni, due furono esuli in Francia, partecipando, poi, alla
campagna d’Italia. Sei, fra i carcerati, compreso l’ex sindaco Giosuè Ricciardi, furono giustiziati a
Matera il 15 marzo del 1800. Quattro, invece, furono i rei materani, fra i quali anche l’ex presidente,
l’avvocato Fabio Mazzei, tutti indultati. Il ruolo politico dei dirigenti repubblicani avrebbe avuto il
suo peso, di lì a poco, tra le motivazioni della scelta, legata alla maggiore centralità territoriale,
della città di Potenza, come nuovo capoluogo della provincia di Basilicata. Il che, a livello locale,
ha avuto diffuse sottolineature, alcune delle quali hanno collegato tale scelta a prima del 1799, altre
hanno considerato basilare il periodo repubblicano. Fra i centri abitati più popolati della provincia,
la Terra di Moliterno contava a fine Settecento all’incirca cinquemila abitanti, per la maggior parte
addensati, ad oltre ottocento metri di altitudine, sul declino di due colli. Il suo territorio di circa
20000 tomoli, in prevalenza seminativo, incolto e boschivo, confinava a nord con quelli di
Tramutola, a nord e a nord-est con quelli di Saponara, allora nel Principato Citra, Sarconi e
Castelsaraceno, a sud con quelli di Lauria e Lagonegro, ad ovest con quelli di Lagonegro e
Montesano, quest’ultimo in Principato Citra. Fra le più rilevanti terre lucane ancora soggette a
giurisdizione feudale, Moliterno rientrava nel feudo di Girolamo Maria Pignatelli. Il contesto
economico locale era prevalentemente agricolo e pastorale, ma andavano emergendo nuclei sociali
dediti alla lavorazione della lana e dei formaggi. Attività, queste, che, sebbene in misura minore,
erano presenti anche in altri centri abitati dell’alta Val d’Agri, per i migliori collegamenti con
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Salerno, Napoli e la Terra di Lavoro, con la strada che immetteva nella valle del Tanagro e in quella
del Sele. Dopo tutto, proprio per i migliori collegamenti, oltre che per la maggior sicurezza, il
Parlamento della Terra di Moliterno, aveva motivato la volontà di aggregazione con Salerno, date le
difficoltà di raggiungere Matera. Come in altre aree della Basilicata, tra la fine di gennaio e gli inizi
di febbraio del 1799, in sintonia con gli eventi napoletani, anche in vari centri abitati della Val
d’Agri si piantarono gli alberi della libertà, con l’elezione di nuovi governi municipali repubblicani.
Con normalità scorreva, nel frattempo, la vita amministrativa a Moliterno, dove non mancavano
filorepubblicanismi, soprattutto ad iniziativa dei fratelli Giuseppe e Michele Arcangelo Del Monte,
familiari di Felice Mastrangelo di Montalbano e dell’avvocato Domenico Cassini, discepolo di
Domenico Tampone. Sindaco e capoeletto erano da un decennio Giuseppe Albano e Michele
Arcangelo Parisi. Di fronte al vento repubblicano si dimisero. Il giudice di allora, Gallotti, rimase
per i quaranta giorni della Repubblica Municipale. Il Parisi, astuto, tollerò lo stato di fatto solo per
evitare mali maggiori al paese; ragion per cui, ottenne con modi furbi, che l’albero della libertà
fosse piantato in piazze minori. Ma, appena si seppe della marcia del cardinale Ruffo, nonché degli
eventi controrivoluzionari a Potenza ed altrove, invitò Rocco Stoduti e gli consegnò la Repubblica.
Dopo tutto, proprio perché clandestina ed innocua, la municipalità repubblicana moliternese si era
sottratta alle attenzioni controrivoluzionarie esterne che avevano interessato i comuni vicini. Sulla
collina del Seggio si tenne l’incontro tra Stoduti, l’arciprete, il giudice Gallotti, Mastrangelo ed
Orlando, sindaco e capoeletto. L’accordo che ne seguì prevedeva che non ci fosse nessun
saccheggio e nessun arresto; di abbattere gli alberi e di piantare la croce; un Te Deum pro Rege; le
dimissioni del sindaco, il restare in carica del capoeletto, l’elezione del Cassini come sindaco; le
truppe dello Stoduti fuori dal paese; l’assistere dello Stoduti al Te Deum con pochi altri soldati.
Avvenne tutto come pattuito. Fu festa grande e si organizzò un banchetto. Ma lo Stoduti non voleva
tornare a casa a mani vuote. Il Parisi si accordò con lo Stoduti per quattromila ducati prelevandoli
dalla collettoria delle rendite per la fabbricazione della Chiesa Madre. A sera inoltrata lasciò
Moliterno carico di soldi e di ogni ben di Dio. Finiva così la repubblica clandestina di Moliterno.
Dei dodici moliternesi inclusi tra i rei di Stato nessuno fu incarcerato mentre Paolo e Vincenzo
fruirono dell’indulto. Del resto, avrebbero subito iniziali atti di sequestro altri cinque cittadini, oltre
all’ex principe Girolamo Pignatelli. Il quale era esule in Francia già prima della caduta della
Repubblica napoletana e aveva chiesto di restarvi per motivi di salute. Comunque non vi è traccia di
suoi collegamenti politici con la realtà moliternese. Dove, fra l’altro, fino al 1806, la vita andò
avanti con piena calma, tranne che per l’assassinio dell’armiere Michele Grippi, il 12 ottobre del
1800, unico fatto di sangue conseguente alla Repubblica moliternese del 1799.
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Restaurazione e oltre
Alla caduta della Repubblica napoletana seguì, in modo cruento, a Napoli e nelle province, la
reazione borbonica che, con il tradimento delle capitolazioni del 21 giugno, mostrò il suo scopo di
estirpare il giacobinismo dal Regno, eliminando fisicamente i repubblicani, oppure incarcerandoli
ed esiliandoli. La Giunta di Stato a Napoli e i commissari regi, con il nome di visitatori nelle
province, ebbero il compito di ripulire il regno dai nemici del re e dell’altare, scopo che fu
perseguito con la ricognizione e conseguente processo sommario per chi avesse promosso,
alimentato e partecipato alla rivoluzione giacobina.
Quarantamila cittadini, a dir poco, erano minacciati della pena suprema, e maggior numero dell'esilio; col quale si
castigavano tutti gli ascritti a' club, i membri delle municipalità, e gl'impiegati della milizia, benché non combattenti. E
infine, chiamando colpevoli anche le guardie urbane, coscritte, senza il concorso della volontà, per forza di magistrati
e di legge, il re diceva giusto il loro imprigionamento, e necessario a liberarle il suo perdono. La Giunta di Stato nella
città, i commissari regi, col nome di «visitatori», nelle province, punirebbero i rei, «tenendo in mira di purgare il regno
da' nemici del trono e dell'altare». Furono visitatori il cavalier Ferrante, il marchese Valva, il vescovo Lodovici, i
magistrati Crescenzo de Marco, Vincenzo Marrano, Vincenzo Iorio. Ad ogni visitatore fu dato un compagno ne' giudizi;
si che tribunale di due giudici pronunziava della vita, della libertà, de' beni di numerosi popoli. III. Così prestabilite le
scale de' delitti e delle pene, con legge detta in curia «retroattiva», perciocché le azioni la precedettero; e scelti a
grado i magistrati, bisognavano le regole del procedimento. Quelle de 'nostri codici non bastando al segreto ed alla
brevità, furono imitate le antiche dei «baroni ribelli della Sicilia»; ed erano: il processo inquisitorio sopra le accuse o
le denunzie; i denunziatori e le spie validi come testimoni; i testimoni ascoltati in privato, e sperimentati, a volontà
dell'inquisitore, co' martori; l'accusato solamente udito su le domande del giudice, impeditegli le discolpe, soggettato a
tortura. La difesa nulla; un magistrato, scelto dal re, farebbe le mostre più che le parti del difensore; il confronto tra
l'accusato e i testimoni, la ripulsa delle pruove, i documenti e i testimoni a discolpa, tutte le guarentigie della
innocenza, negate. Il giudizio, nella coscienza dei giudici; la sentenza breve, nuda, sciolta dagl'impacci del
ragionamento, libera come la volontà; e quella sentenza inappellabile, emanata, letta, eseguita nel giorno istesso. Ma
per quanto le forme fossero brevi, essendo assai maggiore la voluta celerità delle pene, il re nominò altra Giunta, detta
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dei generali; e, ad occasione, in città e nelle province, tribunali 165 temporanei e commissioni militari, le quali sul
tamburo, «ad horas et ad modum belli», spedissero i processi e le condanne. Tali asprissime leggi dettava il re,
quando, al terzo giorno dopo l'arrivo, scopri da lunge un viluppo che le onde spingevano verso il vascello; e, fissando
in esso, vide un cadavere, tutto il fianco fuori dell'acqua, ed a viso alzato, con chiome sparse e stillanti, andare a lui
quasi minaccioso e veloce; quindi, meglio intendendo lo sguardo, conosciute le misere spoglie, il re disse: —
Caracciolo! — E, volgendosi inorridito, chiese in confuso: — Ma che vuole quel morto? — Al che, nell'universale
sbalordimento e silenzio de' circostanti, il cappellano pietosamente replicò: — Direi che viene a dimandare cristiana
sepoltura. — Se l'abbia, — rispose il re, e andò solo e pensieroso alla sua stanza. Il cadavere fu raccolto e sotterrato
nella piccola chiesa di Santa Maria la Catena in Santa Lucia; e, volendo spiegare il maraviglioso fenomeno, fu visto
che il corpo, enfiato nell'acqua, non più tenuto a fondo dal peso di cinquantadue libbre inglesi (misurate dal capitano
Tommaso Hardy, comandante del vascello, dove con Nelson stava il re imbarcato, testimonio e narratore a me stesso di
que' fatti), si alzò nell'acqua, e per meccanico equilibrio ne uscì dal fianco, mentre vento di terra lo sospingeva nel
mare. Parve che la fortuna ordir volesse lo spavento e i rimorsi del re; ma quegli benché credulo e superstizioso, non
mutò costume. Tante leggi tiranniche e fatti atroci risuscitando le furie della plebe, videsi a' dì otto di luglio nella
piazza medesima della reggia ardere un rogo, gettare in esso cinque uomini viventi, e poi che abbrustoliti (precipito il
racconto) gustar le carni. E stava il re nel porto, seco Acton e Nelson, due armate nel golfo, il cardinale in città, le
milizie russe ai quartieri, i capi della Santa Fede per le strade, o per fino presenti al sacrifizio. Quella enormità
inorridì le genti, e fu l'ultima della plebe; ma peggiori se ne preparavano sotto il nome di leggi. Avvegnaché, ricevute in
quei giorni medesimi da Palermo le liste di proscrizione, colà compilate dalla regina, consultando i registri antichi, le
delazioni delle spie nella Repubblica, le successive, gli odi propri e del suo ministro principe di Castelcicala, il re
prescrisse che i tribunali di maestà cominciassero i giudizi. Penavano carcerati nella sola città trentamila cittadini; e
poiché le antiche prigioni erano scarse, come ho detto, a tante genti, servirono al crudele ufficio i sotterranei dei
castelli ed altre cave insalubri, alle quali, per martirio maggiore, s'interdissero le comodità più usate della vita, letto,
seggia, lume, arnesi da bere o da nutrirsi; perciocché supponendo nei prigionieri disperazione di vita, coraggio
estremo, estremi partiti, vietavano i ferri, i vetri, i metalli, le funi; visitavano i cibi, ricercavano le persone. Preposti
alle carceri furono uomini spietati, dei quali fierissimo un certo Duecce, uffiziale maggiore nell'esercito, già pieno
d'anni, padre di molti figli, per ventura d'Italia straniero perché nato svizzero. Egli più che gli altri inaspriva i martori
delle catene, del digiuno, della sete, delle battiture; tornando in suo e a merito le costumanze orribili de' tempi baronali
o monastici. Seguiva per ferocità al Duecce il colonnello De Gambs, preside alle prigioni di Capua, e pari ad esso
Scipione Lamarra, generale di esercito, non che altri parecchi, allora oscuri, e dei quali la istoria debbe scordare i
nomi. IV. Ma pure a sollievo de' prigionieri, come a spavento del re e de' suoi ministri, stavano le incertezze d'Italia:
cioè squadre francesi ancora in Roma ed in Toscana; Genova guardata da presidio forte per numero di legioni,
fortissimo del suo capo general Massena; il Piemonte corso da Lecourbe; Macdonald con oste numerosa presso ad
unirsi al generale Moreau; e in somma eserciti combattenti, e la fortuna, sebbene inchinasse ai troni, ancora sospesa,
o, quanto ella suole, mutabile. Perciò a' tribunali di Stato furono date due liste di nomi: de' condannabili a morte, e di
quelli tra loro per i quali non sarebbe eseguita la sentenza prima del regio beneplacito; questi erano i capitolati. Ma
per due soli, prevalendo l'odio alle prudenze dell'avvenire, la eccezione fu trasandata, e si viddero pendere dalle forche
il generale Massa, autore delle capitolazioni, ed Eleonora Pimentel, donna egregia, poetessa tra i più belli ingegni
d'Italia, libera di genio, autrice del Monitore napoletano, ed oratrice facondissima nelle tribune de' club e del popolo.
Avvisate le Giunte de' voleri della regina e del re, cominciarono l'iniquo uffizio; prima e sollecita quella detta di Stato,
la quale congregavasi nel monistero di Monte Oliveto; e, sia per mostra d'infaticabile zelo, sia per più grande orrore o
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spavento, l'infame concilio giudicava nella 166 notte. Stabilirono, per tener viva la tirannide, scrivere in ogni giovedì le
sentenze, pubblicarle al dì appresso, eseguirle nel sabato; a' soli delle capitolazioni condannati mutava il re la pena di
morte in ergastolo perpetuo dentro la fossa di Santa Caterina, nell'isola della Favignana. Questa isola dei mari di
Sicilia, AEgusa de' Latini, e fin di allora prigione infame per i decreti dei tiranni di Roma, s'erge dal mare per grande
altezza in forma di cono, del quale in cima sta fabbricato un castello. E dal castello, per iscala tagliata nel sasso, lunga
nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta, da scarpello incavata, che per giusto nome chiamano
Fossa. Ivi la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; è grave il freddo, l'umidità densa; vi albergano animali
nocevoli; l'uomo, comunque sano e giovine, presto vi muore. Fu stanza di nove prigionieri, tra' quali più noti il principe
di Torella, grave d'anni ed infermo, il marchese Corleto della casa dei Riari, l'avvocato Poerio, il cavaliere Abbamonti.
V. Comincio racconto più doloroso: avvegnaché dopo le battaglie della Trebbia e di Novi perdute da' Francesi, vidde il
governo delle Sicilie il pieno trionfo dell'antico sul nuovo; e rompendo gli estremi ritegni della politica (perciocché non
ne aveva della coscienza), stabilì di non più attenuare alcuna pena; e da quel punto, confermando tutte le sentenze di
morte, non altro restò a' capitolati che allungar la vita di alcuni giorni come in agonia, nella spaventevole cappella de'
condannati. Erano morti Oronzo Massa ed Eleonora Pimentel; successe Gabriele Manthonè, che dimandato da
Speciale quali cose avesse fatte per la repubblica: — Grandi, rispose; non bastevoli: ma finimmo capitolando. — Che
adducete, replicò il giudice, in vostra discolpa? — Che ho capitolato. — Non basta. — Ed io non ho ragioni per chi
dispregia la fedeltà dei trattati. — Andò sereno alla morte. Seguì a Manthonè Nicola Fiano, che, fortunato nel
processo, non era colpevole di morte; ed in quelle stesse barbare leggi mancava materia alla sentenza, ma per i
comandi venuti di Sicilia dovendo egli morire, caso e malvagità diedero aiuto alla Giunta. Il giudice lo chiamò dal
carcere, e, appena visto, disse: — Sei tu? — E prescrivendo che fosse sciolto delle catene, rimasti soli: — Ah, Fiano,
soggiunse, in quale stato io ti rivedo! quando insieme godevamo i diletti della gioventù non era sospetto che venisse
tempo che io fossi giudice di te reo. Ma vollero i destini per mia ventura che stesse in mie mani la vita dell'amico.
Scordiamo in questo istante io il mio uffizio, tu la tua miseria; come amico ad amico parlando, concertiamo i modi
della tua salvezza. Io ti dirò che dovrai confermare e che tacere per aver merito e fede di veritiero. — Fiano di
maraviglia e di amicizia piangeva; Speciale (egli era il giudice) lo abbracciava. E così, come quei volle, l'altro disse; e
lo scrivano registrò le parole, che ebbero effetto contrario alle promesse; perciocché il traditore fece negare le cose
certe nel processo, confessare le ignote; e l'infelice andò a morte per i suoi detti. Egli era stato in giovinezza compagno
a quel malvagio nelle lascivie della vita. Francesco Conforti, uomo dottissimo, scrittore ardito contro le pretensioni di
Roma, legislatore nella Repubblica, pericolava della vita. Gli scritti suoi eran perduti, ma pregato da Speciale a
ricomporli, gli fu detto che in gran conto si terrebbero i presenti servigi e i passati. Ebbe miglior carcere e solitario; si
affaticò dì e notte a vendicare dal sacerdozio le ragioni dell'impero; e, compiuto lo scritto, lo die' al suo giudice. Il
quale aprì allora il processo; e, pochi giorni dopo il servigio, gli diede in mercede la morte. Tali fatti e la disperazione
del vivere spinsero i prigionieri a partiti estremi. Un tal Velasco, di forza e di persona gigante, schermendosi nelle
risposte al giudice Speciale, sentì da quel barbaro la minaccia che al dì seguente, in pena del mentire, lo farebbe
strozzare sulle forche. E Velasco: — Nol farai, — replicò; né compiuta la parola, si avventò al nemico, e
strascinandolo alla finestra, sperava che, abbracciati, precipitassero insieme. Lo scrivano presente lo impedì, ed
accorrendo alle grida gli sgherri della Giunta, Velasco andò solo al precipizio. Il conte di Ruvo, svillaneggiato dal
giudice Sambuti, ruppe le ingiurie, dicendogli: — Se fossimo entrambo liberi, parleresti più cauto; ti fanno audace
queste catene: — e gli scosse i polsi sul viso. Quel vile, impallidito, comandò che il prigioniero partisse; e non appena
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uscito, scrisse la sentenza che al dì vegnente mandò quel forte al supplizio. Egli, nobile, dovendo morir di mannaia,
volle giacere supino per vedere, a dispregio, scendere dall'alto la macchina che i vili temono.83
Nel contesto di tale azione repressiva, per la provincia di Basilicata, che tra i quattro visitatori
generali fu affidata al marchese Giuseppe Maria della Valva, poi sostituito dal marchese della
Schiava, presso l’Udienza di Matera fu esaminata la posizione di 1307 rei di Stato, oltre duecento
dei quali, durante il periodo repubblicano, avevano avuto esperienze di governo locale: 54 erano
stati presidenti di Municipalità e 163 membri, per periodi e con motivazioni varie. Come per i rei di
Stato di Basilicata, differenziata fu anche l’estrazione sociale e la professione di tali amministratori,
a conferma degli assetti misti dei ceti dirigenti che seppur per poco misero in moto il quadro
politico-amministrativo locale, in particolare dove si erano costituite municipalità, che ebbero il loro
nucleo nel Potentino. Come nelle altre province, rilevante fu, comunque, la presenza dei proprietari,
variamente legati alla terra. Molti di tali rei di Stato, fra i quali non mancavano vittime di delazioni
prodotte dall’odio che, mentre favoriva il delatore, non assolveva chi aveva ricoperto ruoli
istituzionali per volontà del popolo,riuscirono a nascondersi e a fuggire, evitando il carcere e la
confisca dei beni. Ben 228 furono, invece, i condannati all’”esportazione”, all’”estraregno” o allo
“sfratto” dai Reali Domini, fra i tre e i venticinque anni e, in alcuni casi, anche a vita. Tra i
processati, furono sette i rei di Stato che il tribunale di Matera condannò a morte. Essi si aggiunsero
agli altri sette più noti rei di Stato giustiziati a Napoli dalla Suprema Giunta di Stato, tra il luglio del
1799 ed il febbraio del 1800: l’avvocato Nicola Carlomagno di Lauria, il medico Felice
Mastrangelo di Montalbano Jonico e il sacerdote Nicola Palomba di Avigliano, l’avvocato e
matematico Nicola Fiorentino di Pomarico e il provinciale dei Carmelitani, professore
nell’Accademia militare, Michele Granata di Rionero, lo studente universitario in medicina
Cristoforo Grossi di Lagonegro. Si trattò di un massacro, che stupì il mondo civile e addolorò
l’Italia, come scrisse, quasi un secolo dopo, Giustino Fortunato, a commento della prima lista di
vittime che Francesco Lomonaco aveva pubblicato nel 1800, nel contesto della nuova stagione
politica in Italia all’indomani di Marengo. Gli esuli provenivano principalmente da Muro, Stigliano,
Tolve, Avigliano, Grassano e Picerno, realtà locali dove la durezza dei contrasti socio-politici, e in
parte anche familiari, incise profondamente sulla gestione della fase restauratrice. Esemplare, al
riguardo, fu il caso di Muro, dove l’atmosfera di ritorsioni che seguì al periodo repubblicano
produsse una feroce repressione, già localmente, fra gli oltre trecento compromessi, rinchiusi nella
torre del castello e nel salone del carcere civile. In tale contesto, la ricognizione da parte del
visitatore generale della provincia, avrebbe condotto all’inclusione tra i rei di Stato di 115 cittadini
83
P. COLLETTA, Storia del reame di Napoli, UTET, Torino, 1975, pp. 164-66.
80
murasi, 35 dei quali esiliati. Tranne che per due di essi, che malati di tifo morirono nel carcere di
Salerno, gli altri, insieme agli esiliati delle carceri di Matera, furono portati a Marsiglia, porto di
mare degli esuli. Accomunati dalle destinazioni che definirono la presenza degli esuli meridionali in
Francia in questo periodo, furono in molti, poi, anche tra i patrioti lucani, a partecipare alle vicende
che caratterizzarono la legione italiana al seguito di Napoleone in Italia. Ma, mentre a Milano nella
seconda Cisalpina dalla riflessione sulla tragedia del 1799 si elaborava il programma politico sul
quale costruire la nuova stagione politica e patriottica, a Napoli e nelle province imperversava,
anche con sentenze fatte prima del giudizio, una feroce repressione contro chi avesse partecipato
all’esperienza repubblicana, accompagnata dall’epurazione dagli uffici amministrativi e dalle
magistrature.84 Per di più, in varie realtà locali all’azione di bande che, spacciandosi per truppe
regie, avevano continuato a saccheggiare, si erano aggiunte faide interne che si protraevano
nell’anarchia. Il popolo voleva il sangue; lo stesso volevano i ceti medi; tutto era condito da rancori
personali e familiari. Tra le iniziative in tal senso, si consideri la vicenda che coinvolse il vescovo
della diocesi di Montepeloso Michele Arcangelo Lupoli, che aveva partecipato alla
repubblicanizzazione, ma a fine aprile, timoroso del nuovo sviluppo degli avvenimenti, si era
allontanato dalla diocesi, mentre una delegazione di cittadini, a nome del comune, e di canonici, a
nome della curia, avrebbe raggiunto ad Altamura il cardinale Ruffo per fare atto di sottomissione.
Rientrato in diocesi il 3 agosto, in un clima di accuse incrociate, anche tra i moderati e i radicali
repubblicani, che lo coinvolse direttamente, soprattutto per la sua successiva posizione
filomonarchica, Lupoli si riallontanò a metà gennaio, dopo aver tentato di pacificare gli animi con
una missione affidata ai Redentoristi di Caposele, anch’essi costretti ad allontanarsi dopo pochi
giorni, ufficialmente per il freddo, ma in realtà per l’atmosfera infernale prodotta dai facinorosi e
dai congiurati. Il 18 marzo del 1800 Lupoli, che aveva tentato di esporre le sue ragioni prima al
visitatore della Valva e poi al re, fu incarcerato a Napoli, come reo di Stato, prima in Castel Nuovo
e poi in Castel S. Elmo, dopo un processo istruito dal tribunale di Matera su documentazione inviata
dal Governatore e Giudice montepelosino Giovanni Lichelli. Solo il 21 giugno del 1802, nel
contesto della nuova atmosfera politica caratterizzata dal ritorno del re a Napoli e da sempre più
stretti rapporti con la Chiesa e con il clero, Lupoli, riabilitato, avrebbe ottenuto di poter ritornare
nella sua diocesi, dove sarebbe rientrato nei primi giorni di luglio accolto con gioia dal clero e dal
popolo. Il tribunale di Matera, a nome del re, avrebbe affidato alla curia locale il compito di
informare mensilmente sulla condotta dei giudici locali, sul personale della corte e sul feudatario.
Una vicenda, quindi, questa vissuta da Lupoli che, pur nella sua particolarità, evidenzia l’atmosfera
difficile dei vari contesti locali, dove, tra l’altro, c’erano situazioni di anarchia ed episodi criminali
84
V.CUOCO, op.cit., pp. 490-91.
81
verso cui l’azione di governo non riusciva a svolgere un ruolo adeguato per mancanza di personale
e per lo sbandamento di quello esistente, anche perché spesso si era mostrato peggiore del male
proprio il ricorso alla forza. Rilevante, al riguardo, fu quanto rispetto alle comitive di ladri che
facevano scorribande a S. Fele evidenziava l’ex presidente della Municipalità di Avigliano Nicola
Maria Corbo, che ora era di nuovo fittuario, insieme col fratello Francesco ed il cognato Giustiniano
Gagliardi, su diverse difese ricadenti nell’antico Stato feudale di Melfi. Per annientare tali comitive
furono incaricate varie squadre ma queste essendo più ladre ed assassine degli stessi ladri non solo
non le annientarono ma per procurarsi denaro avevano a loro volta infestato il territorio
saccheggiando tutte le case di campagna del feudo di Lagopesole e delle vicinanze, per cui furono
più cruente e ladre dei ladri stessi. L’indulto del 30 maggio 1800 e la pace di Firenze del 1801, che
concorsero a liberare dal carcere o a far ritornare a casa molti esiliati, solo in parte frenarono le
rappresaglie e le vendette, in un contesto provinciale che la restaurazione regia aggravò invece di
risolvere, deludendo le speranze di chi, come il ministro Zurlo, impegnato nel riordino delle finanze
e dell’amministrazione aveva auspicato il ritorno alla normalità. Giuseppe Zurlo fu il più
interessante e moderno personaggio della prima restaurazione borbonica.85 Tutto era nel caos. In
Basilicata lo stesso processo di restaurazione delle amministrazioni locali che aveva vissuto un
particolare momento politico-sociale, fu definito da odi, contrasti, soprattutto fra quei
filomonarchici che, ritenendosi garanti degli indirizzi assunti dal governo della restaurazione e
temendo che i repubblicani avrebbero, prima o poi, esercitato un’influenza nella vita cittadina, ne
avrebbero voluto la definitiva estromissione. D’altra parte da parte del popolo, che insieme alla
burocrazia e al clero, nel contesto della restaurazione, suscitavano sempre più attenzione del
governo, si evidenziava il duraturo, forzato, ruolo esercitato, nelle realtà locali, da ceti e famiglie
benestanti per il potere locale. La popolazione di Rocca Imperiale, ad esempio, già in un esposto al
visitatore marchese della Valva del 17 novembre 1799, aveva protestato contro le elezioni svoltesi il
15 agosto, in un parlamento pieno di intrighi, dato che da sempre gli amministratori erano scelti tra
quattro o cinque famiglie e tra persone del feudatario, che aveva derubato la popolazione,
approfittando del pubblico potere; di conseguenza si appellava al re, che aveva bandito il
dispotismo dei baroni, ed ai suoi ministri. In effetti, nel contesto del progressivo affermarsi di un
indirizzo governativo basato su una politica antifeudale che si rifaceva al riformismo settecentesco,
non tralasciando di premiare i baroni fedeli, in varie università i galantuomini sollecitavano i
parlamenti a presentare nei tribunali regi esposti contro il feudatario. In alcune di tali iniziative non
mancò l’appoggio delle magistrature regie, nel contesto, in ogni caso, di una politica antibaronale
contraddittoria, fondata sull’applicazione del diritto feudale, cui a volte si accompagnava una prassi
85
P. VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962, p.364.
82
di mediazione giudiziaria tra baroni e comuni. Rilevanti furono, in alcuni contesti locali, come ad
esempio ad Avigliano negli anni 1802-1803, rivolte di contadini che, diversamente dagli esiti delle
loro rivendicazioni nel 1799, ora in autonomia occuparono e coltivarono i campi, rivendicando
l’uso delle risorse che i borghesi avevano osteggiato. La tolleranza del governo, che è rilevabile
nella prima fase della restaurazione verso le rivolte popolari che anche in Basilicata ebbero nella
carestia del 1802 un fattore d’innesco, è ancora da legare agli ultimi vani tentativi riformatori del
ministro Zurlo, oltre che al caos e alla crisi delle stesse strutture giudiziarie e di polizia. Da
un’inchiesta fatta condurre nel 1802 dallo Zurlo, risultò che nell’ultimo decennio la superficie
coltivata si era oltremodo ridotta, con una diminuzione di circa tremila versure. 86 Dal punto di vista
della più generale azione repressiva, va evidenziato come, nonostante il nuovo indulto emanato per
il ritorno del re da Palermo, con dispaccio dell’11 gennaio 1803 fossero date nuove disposizioni per
la prosecuzione dei giudizi contro i cittadini coinvolti nei fatti del 1799. Nel frattempo, mentre tra
stridenti contrasti e varie difficoltà si promuoveva una politica di risanamento finanziario sotto la
direzione del Consiglio delle Finanze affidata a Luigi de’ Medici e, in campo giudiziario, le vecchie
magistrature riassumevano la difesa dello status quo, il Regno era portato alla guerra da una politica
estera di ostilità all’Inghilterra e di diffidenza verso la Francia napoleonica. Infatti, il progressivo
succedersi da parte della Corte di iniziative contraddittorie con l’auspicata neutralità segnò la
rottura della pace con Firenze. L’8 febbraio1806 l’esercito francese, comandato dal generale
Massena, entrava nel territorio napoletano, mentre la reggenza, pronta a tutto pur di evitare il
ripetersi degli eventi del 1799, mandò suoi plenipotenziari a firmare la cessione del Regno. Il 14
febbraio avanguardie francesi entravano, senza colpo ferire, a Napoli, dove, l’indomani, il 15,
Giuseppe Bonaparte, non ancora re, fu accolto con tutti gli onori. Siffatti sviluppi aiutano a capire
perché la conquista francese nel 1806 fu così facile.87 Rispetto al 1799 non solo era mutata
l’immagine dei conquistatori, politicamente e ideologicamente meno temuti, oltre che militarmente
più forti, ma era anche cambiato l’atteggiamento dei napoletani, in tutti gli strati sociali.88 Non
diversamente fu nelle province, dove si sarebbero mostrati di scarso tenore i tentativi di resistenza ai
francesi in marcia verso la Calabria, dove si era ritirato quello borbonico.89 Lungo il percorso,
infatti, locali iniziative di filoborbonici si verificarono tra il Principato Citra meridionale e la
Basilicata occidentale, in alcuni casi, come a Lagonegro, anche con molto sangue versato. In ogni
caso, in pochi giorni con la battaglia combattutasi a Campotenese, sul versante sud-occidentale del
Pollino, si ebbe la definitiva dispersione delle truppe borboniche, con conseguente diserzione di
86
P. VILLANI, op. cit. , p.295.
ibidem, pp.50 ss.
88
ibidem
89
ibidem
87
83
molti ufficiali, gran parte dei quali sarebbe poi passata al servizio dell’esercito napoletano
riorganizzato dai francesi.90 Giuseppe Bonaparte, venendo da Napoli, sostò il 7 aprile a Lagonegro e
il giorno dopo a Rotonda. Di ritorno da Reggio, dove il 17 aprile ricevette il decreto imperiale che
lo elevava al trono, il re Giuseppe Bonaparte il 5 maggio visitò Matera, rientrando a Napoli in
trionfo il 10, via Gravina, Foggia, Caserta.91 Ma, nel frattempo, nel periodo tra il maggio e l’agosto
del 1806 si procedeva all’instaurazione del nuovo regime, era ridiscussa la tranquillità del Regno,
per l’iniziativa antifrancese degli anglosiculi e dei filoborbonici, che ripresero coraggio soprattutto
dopo la riconquista della Calabria.92 L’8 agosto del 1806, in un contesto di casuale, ma rilevante
coincidenza dell’intreccio tra violenza e riforma promossa da Giuseppe Bonaparte, Massena, che
era stato mandato in soccorso di Régnier con latri seimila uomini, sbaragliò le truppe borboniche a
Lauria, che fu incendiata e saccheggiata, e dove morirono circa mille persone. 93 Si trattava del
primo esempio terribile della volontà di Giuseppe Bonaparte di imporre un nuovo ordine.94 Un
indirizzo, questo, che egli perseguì anche contro le ribellioni locali, che continuarono ad
intrecciarsi, in una nuova atmosfera di guerra civile, con il riproporsi di contrasti, odi e rivalità che
la rivoluzione e la repressione del 1799 avevano fatto deflagrare. 95 Dopo tutto la decisione di
Napoleone di inserire il Regno di Napoli nel Grande Impero e di affidarne il trono al fratello
maggiore comportava l’occupazione militare, ma allo stesso tempo l’estensione a quei territori delle
istituzioni e delle leggi, che erano l’esito della Rivoluzione e delle successive revisioni
napoleoniche.96 Dopo tale processo riformistico, la Basilicata, avrebbe accelerato il suo percorso
verso quel nuovo ordine di tempi e cose ancorato a quella strana guerra sociale del 1799 che
avrebbe dato il via a quella nuova stagione politica che vide come protagonista un’intera
generazione, quella entusiasta delle novità francesi e restata sulla scena nazionale fino al 1821, nella
quale il democratismo prevalse sul liberalismo.97
90
ibidem
ibidem
92
ibidem
93
ibidem
94
ibidem
95
ibidem
96
ibidem
97
V.CUOCO, op.cit., pp. 24-47.
91
84
VICO E IL VERO/FATTO
Il vero-fatto in Vico
La teoria del vero-fatto è fondamentale nella filosofia di Vico, cosicché non sorprende il fatto che
tutti gli studiosi del pensiero vichiano si siano occupati di essa proponendone originali
interpretazioni.
Alla mia affermazione della originalità e modernità del criterio gnoseologico, contenuto nella formola vichiana della conversione del vero col
fatto, è stato opposto da alcuni recensenti cattolici che quella dottrina è
bensi vera, ma non originale del Vico, e tutt'altro poi che moderna, perchè
prettamente scolastica. Se a me è parso diversamente, gli è perchè sono digiuno di scolastica. Veramente si potrebbe qui domandare come si faccia ad essere di fatto
ignoranti della scolastica , non dico (che questo si comprenderebbe) delle
sue molteplici varietà e della selva intricata delle sue distinzioni, ma, nientedimeno, del suo criterio gnoseologico fondamentale, che è stato il punto
di partenza del pensiero moderno e che perciò sembra torni impossibile ignorare a chiunque si sia procurato i primi rudimenti filosofici. Ma poiché giova
temere sempre di essere ignoranti, e persino credersi più ignoranti di quel
che si sia in effetti, faccio volentieri , per mia parte , atto di umiltà. 98
98
Cfr. B. CROCE, Le fonti della gnoseologia vichiana, Napoli, Giannini, 1912.
85
Elaborato in un contesto interessato alla questione del facere e all’esperienza sensibile, il criterio
della conversione del vero col fatto si dipana in tutta la sua forza teorica nel De antiquissima e
permarrà nelle opere successive pur con delle correzioni che ne hanno permesso un uso originale. In
particolare va evidenziato che i primi abbozzi dell’assioma di Vico, sono nella prima Orazione
inaugurale , nel 1699, e nel 1708, nel De nostri temporis studiorum ratione. Nel primo testo, in
merito al motto delfico “conosci te stesso”, Vico mette in evidenza il carattere divino dell’animo,
che è immagine riflessa di Dio: come si arriva alla conoscenza di Dio con la contemplazione di tutto
ciò che Egli ha creato e che è contenuto in questo universo, così si arriva alla conoscenza del
carattere divino dell’animo con la comprensione della sua razionalità, per cui esso eccelle, in acume
e rapidità, in memoria e capacità. Conoscere se stessi vuol dire per Vico conoscere la propria
eccellenza. Conoscere se stessi equivale a conoscere il proprio animo. Infatti il corpo è come un
vaso dell’anima; solo ciò che è fatto dall’animo è fatto da se stessi.99 Mentre Dio si effonde
nell’universo, l’animo nel corpo umano, ma entrambi sono liberi e non contenibili nelle parti che li
contengono: Dio, infatti, è attivo, è il creatore della natura, mentre l’animo è produttore ed è il Dio
creatore delle arti. Nel De ratione Vico vede i limiti dell’analisi e della critica, che negano il
verisimile e il senso comune sostituendoli con la ricerca di un criterio razionale e vero che lascia al
soggetto la coscienza di essere pensante, inabile ad attingere alla scienza di sé, poiché la coscienza
non può raggiungere il livello della conoscenza delle cause del proprio essere. Inoltre, sempre lì,
dove sin dall’inizio nasce la polemica contro la pretesa di superare i limiti della natura imperfetta
umana, Vico, polemizzando con Cartesio, nota il disinteresse del metodo moderno per la morale, in
particolare per quella parte attinente all’indole dell’animo umano e alla vita civile, all’eloquenza
ecc. E ciò perché, rispetto alle verità certe dello studio della natura, tale campo è contingente,
sottoposto all’arbitrio, al caso, alla scelta, e quindi incerto.
Quare si eius disputationis, summis dignae philosophis, illa pars vera est: linguis ingenia, non linguas ingeniis formari;
hanc novam Criticam, quae tota spiritalis videtur, et Analysim, quae Matheseos subiectum, quantum ex se est, omni
prorsus corpulentia exuit, uni in Orbe Terrarum Galli vi suae subtilissimae linguae excogitare potuerunt. Cum haec
igitur omnia ita sint; eloquentiam suae linguae parem ab una sententiarum veritate, tenuitateque, et deducta ordinis
virtute commendant. Nos vero lingua praediti, quae imagines semper excitat: unde uni Itali Pictura, Sculptura,
Architectura, Musica omnibus Orbis Terrarum nationibus praestiterunt: quae actuosa semper, auditorum mentes in res
longe dissitas, et remotas vi similitudinum transfert: unde Itali post Hispanos acutissimi nationum: quae in genere
dicendi ornato, et amplo, nempe Herodoteo, Liviano, Ciceronianoque Guicciardinios; in grandi, ac vehementi, sive
99
G. VICO, Orazioni inaugurali: Su i fini degli studi adatti alla natura umana, I fini politici, Il fine cristiano, Le
Monnier, 1941, pp.70-71.
86
Thucydideo, Demosthenico, ac Sallustiano alios; in Attica elegantia Buccacios; in novo Lyricorum genere Petrarchas;
qui fabularum granditate, et locutionis facilitate Homerum referunt, Ariostos; qui maiestate sententiarum, et divinis
numeris Virgilium exprimunt, Torquatos numerat, et recenset; linguam, quibus partibus potissimum beatissima est, non
excolemus? Igitur qui neque in Physicum, neque in Mechanicum eruditur; sed ad Rempublicam, vel Foro, vel Senatui,
vel sacris Concionibus instituitur; in hisce studiis, qua methodo traduntur nec puer, nec diu immoretur: Geometriam
per formas ad ingeniosam rationem addiscat: Topicam excolat: et de natura, de homine, de republica libero, ac
nitidiori disserendi genere in utramque disputet partem; ut quod probabilius, verisimiliusque in rebus sit, amplectatur:
ut ne in summa nostri sint scientiores antiquis, et nobis sapientiores antiqui: nostri veriores antiquis, et nobis
eloquentiores antiqui: sed ita sapientia, et eloquenza aequemus, ut scientia superamus antiquos. 100
Tipico è il discorso sulla poesia, che si rifà a un vero ideale universale con finzioni poetiche e
seguendo il metodo geometrico, per cui se la geometria sintetico-intuitiva di Vico si serve del
criterio vero-fatto, ne deriva che anche le finzioni poetiche ricadano sotto lo stesso criterio. Se i
filosofi e i poeti ricercano il vero, i primi lo ricercano con i concetti, i secondi con i detti poetici,
ossia allontanandosi dalle forme comuni del vero, per crearne altre migliori e lasciano la natura
incerta per seguire quella costante: si attengono al falso, per riuscire più veri.
Et methodus geometrica quam plurimum ad confingenda mendacia poëtica conducit: nempe ut tales per omnem fabulae
tractum perpetuo gerantur personae, quales semel principio inductae sunt: quam artem Homerus omnium princeps, ut
tradit Aristoteles, docuit: et, ut idem Philosophus animadvertit, sunt quidam a consequente paralogismi: ut, Daedalus
volat, si alatus est. Quare ea recte confingere nequeunt, nisi qui satis recte norint alia aliis attexere, ut a primis
secunda, a secundis porro tertia consequi natura videantur. Quamobrem acute, neque citra verum quis dixerit:
eiusmodi mendacia eos invenire tantum posse, qui vera philosophiae optime sciunt. Id egregie praestant Geometrae,
qui ex falsis praemissis, et datis suae vi methodi a /62/ consequenti vera conficiunt. Et finem quoque, qui hodie maxime
celebratur, nempe verum in idea, sive ex genere, in Re Poëtica adprime utilem arbitror. Neque enim in ea sum
sententia, Poëtas falsis praecipue delectari: quin affirmare audeam, eos aeque ac philosophos ex instituto vera sequi.
Nam Poëta delectando docet, quae severe Philosophus: uterque docet officia: uterque mores hominum describit:
uterque ad virtutes excitat; et a viciis abducit: sed Philosophus, quia cum eruditis rem habet, id disserit ex genere;
Poëta vero, |82| quia cum vulgo agit, sublimibus personarum, quas fingit, factis, dictisque, tamquam exemplis
quodammodo excogitatis persuadet. Quamobrem Poëtae recedunt a formis veri quotidianis; ut excellentiorem
quamdam veri speciem effingant: et naturam incertam deserunt, ut naturam /63p / constantem sequantur: atque adeo
falsa sequuntur, ut sint quodammodo veriores. Rigor hic humanarum actionum, ut quis in omnibus, et per omnia sibi
constet, optime a Stoicis, quibus Recentiores respondere videntur, docebatur. Unde ii merito suae Stoicae sectae
Principem asserebant Homerum, qui Aristoteli princeps poëticorum mendaciorum est artifex. Quapropter per quas
ipsas caussas nostrum studiorum finem prudentiae civili obesse docui; eum Poëticae conducere iudicarim. Nam
100
G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione, ISPF 2012, p.25.
87
Prudentia in humanis actionibus vestigat verum uti est, etiam ab imprudentia, ignorantia, libidine, necessitate, fortuna:
Poësis tantum ad id verum spectat, uti natura, et Consilio esse debet. Et Recentiorem Physicam Rei Poëticae
commodam esse existimarem: nam Poëtae phrases bona ex parte usurpant, quibus naturales rerum caussas explicant;
sive in dictionis poëticae admirationem, sive in antiquae possessionis argumentum; quod antiquissimi Poëtarum physici
fuerint. Unde illa sanguine cretus, pro genito: abire in auras, pro mori: ignis circa praecordia fervens, pro febri:
concretus in aëre vapor, pro nube: excussus nubibus ignis, pro fulmine: terrae umbrae, pro nocte; omnes temporis
partes Astronomorum definitionibus descriptae: et metonymia caussae pro effectu apud eosdem tantopere celebrata.
Igitur quando recentior Physica sensibiliores caussarum imagines a Mechanica potissimum, qua utitur, tamquam
instrumento, describit; ea commodius Poëtas novarum genere locutionum instrueret. 101
Si può sostenere che contro Cartesio, il quale fa cominciare la filosofia nel cogito e nell’idea chiara
e distinta capace di fondare la certezza della conoscenza prescindendo dalle tradizioni, dall’autorità,
dalla natura sensitivo-fantastica e diffidando dell’esperienza e della spontaneità dell’intelletto,
contro tale atteggiamento razionalistico e meccanicistico, capace di elaborare il mondo solo per
mezzo di un’idea astratta e geometrica, e che concepisce la fisica conoscibile solo se concepita
come una macchina i cui oggetti sono già determinati, già fatti, insomma contro l’uomo astratto
Vico si rifà all’uomo concreto, che agisce in un contesto conoscitivo che, partecipando di quello
divino, permette di rendere vera la realtà, e quindi si muove dalla scienza alle discipline
umanistiche. Con il rifiuto del modello cartesiano va messo in evidenza il fatto che Vico si rifà sia
ad una metafisica platonica, sia ad una concezione del fare costruttivistica che concepisce la verità
come prodotta, scienza e non coscienza.
E cosí la guisa vera di ciascheduna cosa è da rivocarsi a Dio; e per conseguenza i generi sono non per universalitá, ma
per perfezzione infiniti; e questo essere il brieve e vero senso del lungo ed intricato Parmenide di Piatone; e questo
intendimento doversi dare alla famosa «scala delle idee», onde i platonici pervengono alle perfettissime ed eterne.
Confermo ciò dagli effetti, numerando strettamente i beni che le idee, i mali che gli universali portano all’umano
sapere. Pruovo che le forme fisiche sono formate dalle metafisiche; e, poste al paragone, queste vere, quelle false si
truovano; queste simulacri ed apparenze, quelle salde ed intere. Ma, perché gl’impronti portano evidenza di sé,
raziocinio di ciò che significano: perciò, mentre io considero la mia forma particolare posta nel mio pensiero, non ne
posso dubitare in conto alcuno; ma, addentrandomi nella forma metafisica, trovo esser falso che io penso e che in me
pensa Dio; e cosi intendo in ogni forma particolare esser l’impronto di Dio. Ma, riflettendo che i generi sono nelle
scuole detti «materia metafisica», osservo esser ciò detto sapientemente, se il detto in questo sentimento si prenda: che
la forma metafisica consista in esser nuda di ogni forma particolare, cioè a dire che ella riceva tutte le particolari
forme con tutta la faciltá ed acconcezza; e quindi raccoglio la forma a cui debba il saggio conformar la sua mente.
101
ibidem, p. 26.
88
Prosieguo il cammino e pruovo che vera, anzi unica causa è quella che per produrre l’effetto non ha di altra bisogno,
come quella la qual contiene dentro sé gli elementi delle cose che produce, e gli dispone, e sí ne forma e comprende la
guisa, e, comprendendola, manda fuori l’effetto. Questa definizione della causa, non istabilita in metafisica, ha fatto
cader molti in moltissimi errori, che hanno opinato Dio oprar come un fabro e le cose create esser d’altre cose cagioni,
e non piú tosto parti delle guise che comprende la mente eterna di Dio.102
Finalmente, la Provvidenza vichiana, cioè la razionalità e oggettività della storia, che
osserva logica diversa da quella che le viene attribuita
dalle individuali immaginazioni e illusioni, prese un nome
più prosaico, ma non mutò carattere, nell'astuzia della
ragione, formolata dallo Hegel ; e fu spiritosamente e cervelloticamente ritradotta nella popolare astuzia della
specie dello Schopenhauer, e, poco spiritosamente sebbene assai psicologicamente, nella cosi detta legge wundtiana dell'eterogenesi dei fini.
Sono, come si vede, quasi tutte le idee capitali della
filosofia idealistica del secolo decimonono, che si possono
considerare ricorsi di dottrine vicinane. Quasi tutte, perché ve n' ha poi qualcuna della quale nel Vico si trova
non il precorrimento ma l'esigenza, non l'addentellato ma
la lacuna da riempire; e per questa parte si ha non pili il
ricorso ma il progresso del secolo decimonono sopra di
lui, e dal coro gli sorgono contro voci discordanti di ammonimento o di rimprovero. La distinzione vichiana dei due
102
G. VICO, Risposta del signor Giambattista Vico…, Risp. I, xii, ISPF,2006.
89
mondi dello spirito e della natura, a entrambi i quali era
applicabile il criterio gnoseologico della conversione tra
vero e fatto, ma al primo applicabile dall'uomo stesso perché quel mondo è opera dell'uomo, e perciò da lui conoscibile, e al secondo da Dio creatore, e perciò inconoscibile
all'uomo, non fu accettata dalla nuova filosofia che, più
vichiana del Vico, dell'uomo semidio fece Dio, sollevò la
mente umana a spirito universale o Idea, e la natura spiritualizzò e idealizzò e, come prodotto anch'essa dello spirito, tentò d' intendere speculativamente nella « Filosofia
della natura ». 103
Pur fedele alla metafisica tradizionale che concepisce la conoscenza della verità legata a una
struttura eidetico-contemplativa, ad una scienza dell’ente, Vico aderisce all’impostazione cristiana e
pone la questione di una fondazione delle scienze dell’uomo basata sulla possibilità di conoscere, e
quindi di reputare vero, quello che si è prodotto.
Idea compíta di metafisica è quella nella quale si stabilisca l’ente e ’l vero, e, per dirla in una, il vero Ente, talché non
solo sia il primo, ma 1’unico Vero, la meditazion del quale ci scorga all’origine e al criterio delle scienze subalterne; e
che questo unico Vero si fermi contro i dogmatici, se mai in altra cosa il ripongono, e contro gli scettici, che non
ammettono vero alcuno; — vi si tratti dell’idee che empirono tutte le pagine della metafisica platonica, e degli
universali, materia perpetua della metafisica aristotelica; — e, perché in questa scienza si va investigando la prima
causa, vi si fondi quale la sia; — e, trattandovisi delle cose eterne ed immutabili, vi tenga il maggior e miglior luogo il
ragionamento delle essenze e della sostanza, e vi si dimostri qual sia quella del corpo, quale quella della mente, e,
sopra all’una e all’altra, qual sia la sostanza che tutto sostiene e muove. E, perché questa e la scienza che ripartisce i
propri soggetti o le particolari materie a tutte le altre, da lei si derivino le prime definizioni nelle matematiche; i
principi nella fisica; le proprie facoltá, per usar bene la ragione, nella logica; 1’ultimo fine de’ beni, per unirvisi, nella
103
Cfr. B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, Bari, Laterza 1922.
90
morale. Queste sono tutte le linee che abbozzano il disegno di una intera metafisica, nella quale, come per buona
proporzion del disegno, richiedesi che, scrivendosi da cittadino di repubblica cristiana, le materie si trattino
acconciamente alla cristiana religione. Le origini delle voci volgari latine mi han messo avanti questo disegno, sopra il
quale ho cosi meditato. Primieramente stabilisco un vero che si converta col fatto, e cosi intendo il «buono » delle
scuole che convertono con l’«ente», e quindi raccolgo in Dio esser 1’unico Vero, perché in lui contiensi tutto il fatto; e
per questo istesso Iddio è il vero Ente, ed a petto di lui le cose particolari tutte veri enti |208| non sono, ma disposizioni
dell’Ente vero. E, facendo servire questa sapienza de’ gentili alla cristiana, pruovo che, perché i filosofi della cieca
gentilitá stimarono il mondo eterno ed Iddio sempre operante ad extra, essi convertivano assolutamente il vero col
fatto. Ma, perché noi il credemo creato in tempo, dobbiamo prenderlo con questa distinzione: che in Dio il vero
Giambattista Vico si converta ad intra col generato, ad extra col fatto; e che egli solo è la vera Intelligenza, perché egli
solo conosce tutto, e che la divina Sapienza è il perfettissimo Verbo, perché rappresenta tutto, contenendo dentro di sé
gli elementi delle cose tutte, e, contenendogli, ne dispone le guise o siano forme dall’infinito, e, disponendole, le
conosce, ed in questa sua cognizione le fa. E questa cognizione di Dio è tutta la ragione, della quale l’uomo ne ha una
porzione per la sua parte (onde fu detto da’ latini «animal partecipe di ragione»); e per questa sua parte non ha l’i n t
e l l i g e n z a , ma la c o g i t a z i o n e del tutto, che tanto è dire non c o m p r e n d e l’infinito, ma bene il può a n d a
r r a c c o g l i e n d o . Formata questa idea di vero, a quella riduco l’origine delle scienze umane, e misuro i gradi
della lor veritá, e pruovo principalmente che le matematiche sono le uniche scienze che inducono il vero umano, perché
quelle unicamente procedono a simiglianza della scienza di Dio, perché si han creato in un certo modo gli elementi con
definir certi nomi, li portano sino all’infinito co’ postulati, si hanno stabilito certe veritá eterne con gli assiomi, e, per
questo lor finto infinito e da questa loro finta eternitá disponendo i loro elementi, fanno il vero che insegnano; e
l’uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di linee e di numeri, opera talmente in quello con l’astrazione,
come Iddio nell’universo con la realitá. Per la stessa via procedo a dar l’origine e ‘l criterio delle altre scienze e
dell’arti. Quindi confuto non giá l’analisi, come voi ragguagliate, con la quale il Cartesio perviene al suo primo vero.
Io l’appruovo, e l’appruovo tanto, che dico anche i Sosi di Plauto, posti in dubbio di ogni cosa da Mercurio, come da
un genio fallace, acquetarsi a quello «sed quom cogito, equidem sum». Ma dico che quel «cogito» è segno indubbitato
del mio essere; ma, non essendo cagion del mio essere, non m’induce scienza dell’essere. Poi mi volgo contro gli
scettici, e li meno lá dove gli sforzo a confessare darsi la comprensione di tutte le cause, dalle quali provengono gli
effetti che sembra loro vedere : la qual comprensione delle cagioni tutte io pongo per primo vero. 104
Si stabilisce così una specie di nesso circolare tra la metafisica e il fare fondato sull’idea che, per
evitare il depauperamento che un punto di vista metafisico comporta per la questione del facere, è
necessario introdurre una metafisica progettata sulla debolezza del pensiero umano, che non elimina
la differenza tra l’ente supremo e la realtà, e che è capace di dare all’uomo le conoscenze che si
producono nel fare. La concezione umana di Vico si alimenta dalla consapevolezza di non poter
conoscere la struttura tradizionale della verità, ma di dover produrre il proprio vero, per cui la
debolezza della mente umana gli permette solo di conoscere in modo limitato, sulla base cioè della
capacità compositiva e riproduttiva, del suo genio. Infatti in ogni caso scire vuol dire comporre gli
104
G. VICO, op. cit., ISPF, 2006.
91
elementi delle cose, ma mentre Dio crea le cose e può intelligere , per cui, diversamente dal
demiurgo che plasma le cose estrinsecandole, Dio genera e crea, la mente limitata e geniale
dell’uomo fa e sa pensare, riunendo gli estremi , senza collegarli tutti. Quindi è partecipe e non
padrona della ragione. Tale posizione, che esprime la distinzione e la partecipazione, la tensione
dell’umano verso il divino, nel De antiquissima è resa con una similitudine capace di distinguere
l’immagine solida, che è nella mente divina, dal vero umano monodimensionale. Si può avere
scienza di tutto ciò che è creato, ossia si può possedere il genere, o forma, del farsi della cosa, dove
la forma può sia venir fuori dal mondo metafisico, sia corrispondere alla conoscenza umana delle
cause, ossia la conoscenza di verità misurate sulla norma del suo vero, dove provare per causa una
cosa equivale a farla. La capacità umana di fare si esprime con la mente che conoscendo produce
cose fittizie; la mente umana crea le verità, desumendole da un’ipotesi, mentre quella divina crea
verità assolute. Quindi il genio è stato dato all’uomo per conoscere, ossia per fare. Il genio grazie
alla sua capacità di comporre gli elementi sulla base di una misura, e quindi negando un processo di
corrispondenze semplici, rimanda alla necessità di un rapporto trascendentale della mente con
l’assoluto, che introduce al mondo della storia come insieme di razionalità e immaginazione e
consente di concepire la metafisica di Vico come una metafisica della produzione e dell’azione del
pensiero, quindi di tipo filosofico-trascendentale, tesa a rendere possibile nelle scienze un fare che
trova la verità. C’è un rovesciamento della metafisica antica a favore di un nuovo paradigma
fondato sul fare e sull’agire, sull’atto e sulla funzione, che desostanzializza il mondo e la natura a
favore di una filosofia della mente capace di trovare la verità nel farsi delle cose, come si originano
e si formano. Se per rapportarsi con la varietà delle vicende umane, per conoscere la storia, si deve
essere come Dio, cioè, per rivelare la struttura interna della storia si deve avere una complessità di
pensiero alla quale l’uomo non può aspirare, umanamente, tale mondo contingente può essere
attinto solo definendo un criterio metodico e gnoseologico capace di penetrarvi, ordinando cioè i
frammenti del passato e la varietà delle azioni umane, ricercando le cause e i corollari dei fatti,
organizzando la conoscenza storica a partire da un criterio normativo che consideri principalmente
l’uomo.Vico, nel Diritto universale e nella Scienza nuova, rende l’uomo autonomo da Dio, in una
storia ideale eterna. L’estensione del criterio della convertibilità nel mondo deve, infatti, realizzarsi
con il passaggio dal vero al certo e viceversa, ossia la verità accertandosi crea un circolo fondato
sulla conversione tra il vero e le sue oggettivazioni nel quale sono legittimati il diritto e la filologia.
Con un processo comparativo e mettendo in evidenza la funzione ermeneutica della nuova scienza,
Vico si introduce nella fondazione di una scienza riconducibile all’azione dell’uomo, dove da una
parte i filologi si occupano delle cose e della loro storia, mentre dall’altra i filosofi ne studiano le
cause e gli effetti, che è poi il progetto di una nuova arte critica fondata sull’unione tra filosofia e
92
filologia. Tuttavia, alla convertibilità vero-fatto, alla riflessione sulla capacità di arrivare alla verità
nella riflessione sulla struttura del fare umano, si sostituisce la nuova relazione vero-certo, nella
quale tali due momenti si uniscono per la capacità di conformazione del diritto all’effettualità,
quella certa arte che, con la storia e la filosofia, forma la giurisprudenza e che è capace di
accomodare il diritto ai fatti. Il certo si differenzia dal vero-fatto, poiché esso non è più né un
attributo della verità, né è paragonabile al cogito cartesiano, che fa della certezza della propria
esistenza il criterio stesso della verità, ma si converte come elemento strutturale che ricerca nel vero
il proprio criterio normativo, in una distinzione di livelli autonomi e nella quale il mondo prodotto
dall’uomo ha dignità metodologica e gnoseologica. Molti sono i tempi a seconda delle storie che si
vogliono ricostruire. Ciò che la topologia respinge è la concezione ingenua, a-critica,
dell’oggettività storica, e del tempo obiettivo: del passato che sta lì, pieno di fatti accaduti, che
andrebbero solo ritrovati; ritrovare e sistemare secondo il loro ordine oggettivo. Contro tale
metafisica ingenua e acritica della storia, che, ignara di sé, domina nello storicismo e nella
storiografia filologica che tradisce il suo nume tutelare, quel Vico di cui si ricorda il detto che
philosophia ac philologia ab heroica lingua geminae hortae erant , ma non l’altro che le prove
filologiche hanno l’”ultimo luogo” rispetto a quelle filosofiche; la scienza nuova diventa così una
specie di montaggio-smontaggio-rimontaggio creativo che sola può fondare l’agire umano.105 In
ogni caso, è nella Scienza nuova che, in due gruppi di “Degnità”, Vico indica i fondamenti del vero
e i fondamenti del certo.
È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale
uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell'umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse
modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne' proverbi, che sono
massime di sapienza volgare, l'istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per
tanti diversi aspetti significate. Questa lingua è propia di questa Scienza, col lume della quale se i dotti delle lingue
v'attenderanno, potranno formar un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi, di
cui abbiamo dato un saggio particolare nella Scienza nuova la prima volta stampata, ove abbiamo provato i nomi de'
primi padri di famiglia, in un gran numero di lingue morte e viventi, dati loro per le diverse propietà ch'ebbero nello
stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel qual tempo le nazioni si formaron le lingue. Del qual vocabolario
noi, per quanto ci permette la nostra scarsa erudizione, facciamo qui uso in tutte le cose che ragioniamo. Di tutte
l'anzidette proposizioni, la prima, seconda, terza e quarta ne danno i fondamenti delle confutazioni di tutto ciò che si è
finor oppinato d'intorno a' princìpi dell'umanità, le quali si prendono dalle inverisimiglianze, assurdi, contradizioni,
impossibilità di cotali oppenioni. Le seguenti, dalla quinta fin alla decimaquinta, le quali ne danno i fondamenti del
vero, serviranno a meditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna, per quella propietà di ciascuna scienza,
avvertita da Aristotile, che «scientia debet esse de universalibus et æternis». L'ultime, dalla decimaquinta fin alla
105
V. VITIELLO, Filosofia teoretica: le domande fondamentali: percorsi e interpretazioni, Pearson Italia, 1997, p. 277.
93
ventesimaseconda, le quali ne daranno i fondamenti del certo, si adopreranno a veder in fatti questo mondo di nazioni
quale l'abbiamo meditato in idea, giusta il metodo di filosofare più accertato di Francesco Bacone signor di Verulamio,
dalle naturali, sulle quali esso lavorò il libro Cogitata visa, trasportato all'umane cose civili. Le proposizioni finora
proposte sono generali e stabiliscono questa Scienza per tutto; le seguenti sono particolari, che la stabiliscono
partitamente nelle diverse materie che tratta.106
In particolare, dopo aver distinto tra la filosofia, che concepisce l’uomo quale deve essere, e la
legislazione, che lo comprende per com’è, la Degnità X definisce la relazione vero-certo in rapporto
alla filologia, cioè alla storia delle lingue e delle cose.
La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio,
onde viene la coscienza del certo. Questa degnità per la seconda parte diffinisce i filologi essere tutti i gramatici,
istorici, critici, che son occupati d'intorno alla cognizione delle lingue e de' fatti de' popoli, così in casa, come sono i
costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l'alleanze, i viaggi, i commerzi. Questa medesima degnità
dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de' filologi, come i
filologi che non curarono d'avverare le loro autorità con la ragion de' filosofi; lo che se avessero fatto, sarebbero stati
più utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza.107
Gli uomini che non conoscono la verità delle cose cercano di attenersi al certo, perché non potendo
soddisfare l’intelletto con la scienza, si riferiscono alla coscienza, che vuol dire che il mondo è
prodotto dalla volontà umana e gli uomini hanno il compito di attenersi alla storia, alla sfera
pratico-conoscitiva della coscienza.
Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d'attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare l'intelletto
con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza.108
Solo dopo aver definito tale passaggio con il certo si può comprendere che il rapporto di
convertibilità ha un valore che non si può ridurre al predominio del discorso poetico-metaforico, ma
si riferisce ad una questione metodologica incentrata sul contesto dei rapporti tra metafisica e storia.
Vico mette in evidenza la necessità di ritrovare i veri elementi normativi del mondo e della storia
106
G. VICO, Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, in Opere, a cura di P.Rossi, Rizzoli,
Milano, 1959, pp.89-90.
107
Ibidem, p.87.
108
ibidem
94
che appartengono, pur non negando il ruolo della Provvidenza, all’uomo che vive e crea forme di
civilizzazione politica e sociale, poiché questo è il contesto nel quale egli esprime la sua attività che
è formata dalle modificazioni della propria mente. Se la Scienza nuova è quell’arte critica con la
quale la filosofia analizza la filologia riducendola a scienza e permettendo all’uomo di trovare il
disegno di una storia ideale eterna, il compito che Vico attribuisce alla sua riflessione è quello di
scoprire i criteri e le modificazioni della mente umana così come si sono espressi, in modo tale che
la conversione vero-fatto definisca un nesso con le forme espressive dell’esperienza, istituendosi
come filosofia dell’autorità. Filosofia dell’autorità, ossia tentativo di comprensione del certo come
istanza del vero determinatasi quando gli uomini, nell’età nella quale non erano ancora capaci di
ragionare, per mezzo della provvidenza riuscirono a governarsi col certo dell’autorità, ossia con lo
stesso principio della critica metafisica vichiana, che è il senso comune del genere umano sul quale
sono fondate le coscienze delle nazioni.
Onde, per quest'altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell'umane idee, sulla quale sembra dover
procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la Degnità che «le scienze debbono
incominciare da che n'incominciò la materia», cominciò d'allora ch'i primi uomini cominciarono a umanamente
pensare, non già da quando i filosofi cominciaron a riflettere sopra l'umane idee (come ultimamente n'è uscito alla luce
un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all'ultime controversie che ne hanno avuto
i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e 'l Newtone). E per determinar i tempi e i luoghi a sì fatta istoria, cioè
quando e dove essi umani pensieri nacquero, e sì accertarla con due sue propie cronologia e geografia, per dir così,
metafisiche, questa Scienza usa un'arte critica, pur metafisica, sopra gli autori d'esse medesime nazioni, tralle quali
debbono correre assai più di mille anni per potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la critica filologica si è finor
occupata. E 'l criterio di che si serve, per una Degnità sovraposta, è quello, insegnato dalla provvedenza divina,
comune a tutte le nazioni; ch'è il senso comune d'esso gener umano, determinato dalla necessaria convenevolezza delle
medesime umane cose, che fa tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindi regna in questa Scienza questa spezie di
pruove: che tali dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa Scienza son ragionate,
posti tali ordini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall'eternità nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; lo
che certamente è falso di fatto. Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra
la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Anzi ci
avvanziamo ad affermare ch'in tanto chi medita questa Scienza egli narri a se stesso questa storia ideal eterna, in
quanto — essendo questo mondo di nazioni stato certamente fatto dagli uomini (ch'è 'l primo principio indubitato che
se n'è posto qui sopra), e perciò dovendosene ritruovare la guisa dentro le modificazioni della nostra medesima mente
umana — egli, in quella pruova «dovette, deve, dovrà», esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga che chi fa le cose
esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria. Così questa Scienza procede appunto come la geometria, che,
mentre sopra i suoi elementi il costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto
95
più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee,
superficie e figure. E questo istesso è argomento che tali pruove sieno d'una spezie divina e che debbano, o leggitore,
arrecarti un divin piacere, perocché in Dio il conoscer e 'l fare è una medesima cosa. Oltracciò, quando, per le
diffinizioni del vero e del certo sopra proposte, gli uomini per lunga età non poteron esser capaci del vero e della
ragione, ch'è 'l fonte della giustizia interna, della quale si soddisfano gl'intelletti — la qual fu praticata dagli ebrei,
ch'illuminati dal vero Dio erano proibiti dalla di lui divina legge di far anco pensieri meno che giusti, de' quali niuno di
tutti i legislatori mortali mai s'impacciò (perché gli ebrei credevano in un Dio tutto mente che spia nel cuor degli
uomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi e mente che nol potevano); e fu poi ragionata da' filosofi, i
quali non provennero che duemila anni dopo essersi le loro nazioni fondate; — frattanto si governassero col certo
dell'autorità, cioè con lo stesso criterio ch'usa questa critica metafisica, il qual è 'l senso comune d'esso gener umano
(di cui si è la diffinizione sopra, negli Elementi, proposta), sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni.
Talché, per quest'altro principale riguardo, questa Scienza vien ad essere una filosofia dell'autorità, ch'è 'l fonte della
«giustizia esterna» che dicono i morali teologi. Della qual autorità dovevano tener conto gli tre principi della dottrina
d'intorno al diritto natural delle genti, e non di quella tratta da' luoghi degli scrittori; della quale niuna contezza aver
poterono gli scrittori, perché tal autorità regnò tralle nazioni assai più di mille anni innanzi di potervi provenir gli
scrittori. Onde Grozio, più degli altri due come dotto così erudito, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina
combatte i romani giureconsulti; ma i colpi tutti cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princìpi del giusto
sopra il certo dell'autorità del gener umano, non sopra l'autorità degli addottrinati. 109
La conversione si può compiere anche nella storia, poiché essa, stabilendosi sulla base
dell’interazione tra la struttura universale del vero e quella storica del certo, è determinata dalle
azioni svolte dalla mente umana che formano il mondo fatto certamente dagli uomini. Vico induce a
cercare nel mondo umano del diritto la stabile orma di tutte le esperienze dell’uomo.110 Tuttavia il
tema del certo, la sequenza degli eventi, non sostituisce la conversione vero-fatto, quanto piuttosto
vi si colloca all’interno. Nel meditare con mente filosofica sul diritto, Vico pervenne alla scoperta di
quello che fu, insieme col principio dell’identità del vero col fatto, principio col quale esso del resto
coincide, il fondamento filosofico della Scienza nuova: l’identità del vero col certo.111
109
ibidem, p.112.
P. PIOVANI, Indagini di storia della filosofia: incontri e confronti, Liguori 2006, p.318.
111
G. FASSO’, Storia della filosofia del diritto: l’età moderna, Il Mulino, Bologna 1968, p.274.
110
96
Il vero-fatto prima di Vico
In Sulla logica delle scienze della cultura Cassirer ha descritto il cambiamento che, rispetto al
mondo animale, si verifica nella dimensione dell’agire umano e che si evidenzia nel momento in cui
l’uomo inizia ad usare gli strumenti da lavoro. Nel crearlo, per Cassirer, l’uomo si innalza al di
sopra della sfera dei suoi bisogni istintivi, esce dallo stato di natura nel quale agisce sotto l’impulso
e la necessità del momento, per dirigersi verso un bisogno possibile, che può essere soddisfatto
creando preventivamente degli strumenti che servono ad una certa pre-visione, ad una
presupposizione del futuro. Emblematici, a tale riguardo, sono i famosi versi del Prometeo di
Eschilo, nei quali il passaggio dalla bestialità alla civiltà è definito da un dio redentore che, però,
non può essere redento, poiché incapace di liberarsi dalle catene. Prometeo, colui che conosce in
anticipo è l’inventore delle arti e della cultura, il rappresentante dello spirito umano collettivo,
secondo l’Antigone di Sofocle, che esalta l’uomo come dominatore della natura e creatore della
civiltà, e che la poesia tragica greca raffigura come conquista della cultura per mezzo della forza
creatrice umana. Per Anassagora la capacità di progresso e di creazione di una cultura ha il suo
fondamento nell’uomo, l’essere che possiede la mano, lo strumento, sensitivo e operativo, con il
quale si creano le invenzioni dell’intelligenza, per cui il nesso tra mano e intelligenza è a
fondamento della capacità creativa e della superiorità dell’uomo sugli animali. Tale riferimento alla
mano in Anassagora mette in evidenza la rilevanza politica e sociale dell’uomo tecnico, che ridà
valore, contro la tradizione aristocratica, al lavoro manuale. Tuttavia va messo in evidenza come
l’azione umana, sia nella sua sfera poietica sia in quella pratica, quindi sia nella tecnica sia nella
morale e nella politica, si esplichi nella natura, nella necessità naturale, per cui il fare è sia plasmare
la materia dandole una forma sia liberare le forze nascoste della natura. In entrambi i casi il fare
implica scienza e potenza che sono i due elementi costitutivi della tecnica la quale, dopo aver
scoperto la regolarità dei processi naturali, è in grado di intervenire per produrli su imitazione o per
97
favorirli.112 Nel mondo greco si possono individuare una serie di filosofi che hanno indagato sul
nesso tra la pratica produttiva dell’homo faber e la riflessione contemplativa sulla scienza pura
dell’homo sapiens, definendo una concezione attivistica della conoscenza, concepita come un fare,
che attraverso la volontà si esprime nella ricerca. Mondolfo introduce un nuovo punto di vista sul
rapporto tra la conoscenza umana e la tensione verso la verità, che è il tema conduttore della ricerca
filosofica, per cui i sintomi di tale tensione attivistica, rilevabili soprattutto in uno scritto ippocratico
e in Filone, indicano quella tensione umana verso la ricerca, capace di fondare un’idea di
conoscenza come produzione continua delle energie spirituali dell’uomo. Nel Corpus
hippocraticum, che riunisce le opere delle scuole mediche greche, si può rilevare il rimando alla
corrispondenza tra la medicina e le attività manuali e, soprattutto, l’idea che gli uomini debbano
ricercare nelle loro tecniche la chiave che consenta loro di entrare nelle segrete porte della natura.
Gli uomini, in quanto esseri naturali, sono dominati dalla legge naturale e agiscono secondo
quest’ultima, ma, essendo consapevoli delle loro azioni nel farle, nel tradurre cioè in atto la legge
naturale, possono riconoscerla nella propria azione e nella natura. In Filone la tensione umana verso
la conoscenza è mitigata dall’onnipotenza divina, tesa a racchiudere nella grazia ogni conquista
umana. Dio conosce tutto ciò che esiste e la tensione creatrice dell’uomo è concepita come
allontanamento dai beni inferiori, che impedirebbero allo spirito di tendere del tutto verso i beni
superiori e soprattutto verso il bene supremo, che è la contemplazione di Dio e l’unione estatica con
lui. La distinzione tra il fare divino e quello umano comporta uno squilibrio a favore
dell’onniscienza divina, o anche tra teoria e prassi, che è poi una caratteristica del pensiero antico,
come si può rilevare nella riflessione di Platone, dove la verità è concepita come a-letheia,
disvelamento, sottrazione all’oblio, rappresentato dalla divinità della dimenticanza, e la verità in
contrasto con l’oblio è memoria di ciò che è perduto e a cui si vuole ritornare. I discorso sulla verità
si caratterizza, secondo l’insegnamento socratico, anche in maniera critico-problematica, e
acquisisce la funzione di una capacità del filosofo che conosce se stesso e vive, in modo tale che,
per mezzo della ragione e del giudizio, può dominare le cose. Quello che è rilevante è che nel Timeo
Platone distingue tra il fare del demiurgo, che si rifà a un modello eterno per produrre il mondo, e il
fare umano, che è sì un’attività demiurgica perché nelle sue creazioni segue l’idea che ha
nell’anima. Entrambe le azioni si riferiscono alla mimesis, ma mentre il fare del demiurgo divino è
causa di tutti i mortali e delle cose inanimate, quello umano utilizza le cose prodotte da Dio e si
sdoppia nell’arte, mimetica, di creare vere rappresentazioni e in quella di produrre vere apparenze,
imitando le cose che sono e consentendo il poiein dei poeti i quali, diversamente da ciò che succede
a chi si occupa di arti buone, sono banditi dalla polis se praticano l’arte tradizionale, ossia quella
112
U. GALIMBERTI, Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 2002, p.277.
98
omerica ed esiodea. Da una parte l’arte è ancora tecnica, cioè che la capacità della produzione
comporti il possesso dello strumento e la conoscenza del fine; dall’altra le arti, secondo Platone, per
la loro distanza dall’idea, coinvolgono l’uomo nella sua sfera irrazionale e passionale e sono
imitazione del mondo sensibile, che è copia dell’intelligibile, per cui danno solo una copia della
copia. Il dualismo tra un’essenza in quiete e una mossa poiché subisce un’azione è il tema della
conclusione del Cratilo platonico: nessuna conoscenza conosce ciò che conosce, se ciò non sta
fermo in nessun modo. C’è un nesso sia tra il bisogno e l’intelligenza creatrice, sia tra le creazioni
pratiche della tecnica e le teoriche della conoscenza intellettuale. A questo va aggiunto che,
politicamente, la concezione platonica trasforma l’agire in fare, cioè, secondo la Arendt, nella
distinzione tra conoscere e fare Platone evidenzia che l’idea del bene è quella che il filosofo deve
seguire per governare gli uomini per cui, anche nel buoi della caverna, le idee sono principi e regole
con cui misurare la varietà degli atti e delle parole degli uomini con la stessa certezza oggettiva con
la quale l’artigiano fa. Diverso il percorso che si apre con Aristotele e la scolastica medievale,
poiché l’unione tra fisica e metafisica ha come corollario la naturalizzazione del logos e la
destoricizzazione del vivere naturale, come evidenzia il tentativo di disincarnare il pensante
posizionandolo nell’astratta idealità di una conoscenza astorica, di tipo dimostrativo e universale.
Anche nelle teorie aristoteliche si trovano rimandi alla distinzione nell’uomo tra l’intelligenza,
capace di comprendere e creare, e la mano, strumento della produzione degli oggetti intellettuali,
per cui l’uomo è nato, come si sostiene nel Protrepticus, per comprendere ed agire. Per ciò che
riguarda la questione della conversione vero-fatto va evidenziato un passo del IX libro della
Metafisica, dove Aristotele, trattando dell’atto e della potenza e del primato del primo sul secondo,
afferma che con l’atto si possono condurre le dimostrazioni geometriche. Secondo Aristotele, la
necessità condizionale, distinguendosi dalla necessità incondizionata che è propria di ciò che è
eterno, si riferisce alla formazione naturale e alla produzione tecnica, che definiscono due regioni
dell’ente: gli esseri che nascono e muoiono e i prodotti del fare umano. Nell’agire umano si
distinguono due forme di azione, quella della poiesis e quella della praxis, dove la prima realizza
uno scopo, un obiettivo che non gli è proprio il quale, una volta compiuta l’azione, non ha più
ragion d’essere, mentre nell’altra lo scopo è determinato dalla bontà stessa dell’azione.
Ciò che può essere diverso da come è, può essere sia oggetto di produzione, sia oggetto di azione: altro è la produzione
e altro l’azione (per quanto riguarda questi argomenti ci affidiamo anche agli scritti essoterici). Così anche la
disposizione ragionata all’azione è altro dalla disposizione ragionata alla produzione. Perciò nessuna delle due è
inclusa nell’altra, giacché l’azione non è produzione, e la produzione non è azione. Poiché l’architettura è un’arte ed è
per essenza una disposizione ragionata alla produzione, e poiché non c’è nessun’arte che non sia una disposizione
99
ragionata alla produzione, e non c’è nessuna disposizione ragionata alla produzione che non sia un’arte, arte sarà lo
stesso che "disposizione ragionata secondo verità alla produzione". Ogni arte, poi, riguarda il far venire all’essere e il
progettare, cioè il considerare in che modo può venire all’essere qualche oggetto di quelli che possono essere e non
essere, e di quelli il cui principio è in chi produce e non in ciò che è prodotto. L’arte, infatti, non ha per oggetti le cose
che sono o vengono all’essere per necessità, né le cose che sono o vengono all’essere per natura, giacché queste hanno
in sé il loro principio. Poiché produzione ed azione sono cose diverse, è necessario che l’arte riguardi la produzione e
non l’azione. Ed in certo qual modo hanno gli stessi oggetti il caso e l’arte, come dice anche Agatone: "L’arte ama il
caso e il caso ama l’arte". Dunque, l’arte, come s’è detto, è una specie di disposizione, ragionata secondo verità, alla
produzione; la mancanza d’arte, al contrario, è una disposizione, accompagnata da ragionamento falso, alla
produzione, sempre relativa alle cose che possono essere diversamente da come sono.113
Nella distinzione tra la conoscenza delle realtà metafisiche e quella delle realtà corruttibili proprio
quest’ultima evidenzia una tensione verso il divino soddisfatta solo dal fatto che le sostanze
prodotte, per la possibilità di essere conosciute più profondamente, creano una scienza più ampia e
ristabiliscono l’equilibrio con la filosofia divina. Da un intervento diretto, manuale, dell’uomo sulla
natura, con Platone ed Aristotele si passa a modelli che si basano su un saper produrre diversamente
legati a un discorso logico-metafisico, nel quale non va tralasciata la forza del ricorso alla
conoscenza inventivo-metaforica. Il costruire è opera del genio che introduce l’originario in ogni
aspetto della vita, e la realtà sembra immagine speculare, metafora. Un’altra serie di problematiche
è al centro della questione neoplatonica, sia perché, secondo Meinecke, essa dà il via allo
storicismo, sia perché è da essa, e in particolare per l’azione di Plotino e dell’umanesimo italiano,
che, secondo Gentile, la filosofia di Vico si è alimentata nel tentativo di attingere la necessità
dell’immanenza del divino dalla natura e dalla storia. In ogni caso è con Plotino che comincia una
trasformazione del demiurgo platonico, il quale crea ragionando, e così fa il mondo sensibile
condizionandolo materialmente e antropomorficamente. In Platone l’attività del demiurgo è simile
all’azione progettuale dell’uomo. Con l’armonia divina si crea un universo unico vivente, che
comprende in sé tutti i viventi.
E ora che, come legname dinanzi ai falegnami stanno dinanzi a noi le due specie di cause, che sono il materiale con cui
dobbiamo comporre insieme quel che resta del discorso, ritorniamo di nuovo brevemente al principio, e andiamo
velocemente a quel punto da cui siamo partiti per arrivare fin qui, cercando così di assegnare al racconto una fine e
una conclusione che si adatti con quanto in precedenza si è detto. Come dunque anche all'inizio si è affermato, essendo
queste cose in disordine, il dio ingenerò in ciascuna di esse, sia in rapporto a se stesse, sia in rapporto con le altre, una
113
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VI, 4, 1140 a.
100
giusta proporzione che le rendesse, per quanto e come era possibile, simmetriche e proporzionate. Allora, infatti, nulla
prendeva parte di quest'ordine, se non a caso, e non vi era alcun elemento degno di essere chiamato con i nomi che
vengono assegnati ora, come "fuoco", "acqua", o qualsiasi altro nome: ma dapprima il dio diede ordine a tutte queste
cose, e in seguito da queste cose formò quest'universo, unico essere vivente che contiene in sé tutti gli esseri viventi
mortali e immortali.114
Plotino, invece, si libera del ragionamento scientifico e progettuale. In Plotino si distingue tra l’atto
del creare divino, indipendente da ogni progettualità, per cui il creare, o meglio il generare, non
presuppone alcuna materia o fine, e l’atto del creare umano, artigianale e capace di produrre oggetti
artificiali. Nella visione plotiniana, e nella tradizione vetero-testamentaria, Dio genera, non crea, e
per la sua onniscienza conosce tutte le cose, per cui c’è una contrapposizione tra il generare e il fare
che comporta la questione della loro incomunicabilità e inconoscibilità e l’impossibilità per Dio di
conoscere gli oggetti e le cose del mondo e della natura, che, a loro volta, rimangono in un contesto
secondario rispetto a quello divino. Agostino, nel De civitate Dei, mette in luce la sintesi tra l’idea
del vero della mente umana nel divenire e la coscienza del certo della storia, che poi vuol dire, in
opposizione a Plotino, la necessità cristiana di un Dio che non si chiuda in se stesso, ma che si riveli
in Cristo e nel creato. Conoscere la natura e le proprietà delle cose vuol dire decriptare il messaggio
che esse recano in sé, vuol dire, per Gregory, riferirsi ad una esegesi capace di trovare anche nella
creatura, insegnamenti religiosi e morali, realtà rivelate da Dio, prefigurazioni di avvenimenti
decisivi nella storia sacra. Il fare divino è un vero creare, è un condurre all’esistenza dal nulla; Dio,
quindi, è concepito come soggetto intelligente, volitivo e amoroso, che agisce nel tempo e introduce
la possibilità di elaborare una teologia della storia che rifiuti ogni determinismo della natura.
L’anima umana, cangiante ed immersa nel mondo, è capace di elaborare giudizi veri e validi per la
presenza della verità che illumina, e con Agostino la scoperta dell’interiorità fa un passo decisivo,
poiché solo con essa si può attingere alla verità di Dio. Loewith ha affermato, in revisione di alcune
posizioni crociane in rapporto a Vico, la derivazione del vero-fatto dalla teologia scolastica, poiché
senza la premessa cristiano-teologica che in Dio conoscere e fare si identificano, dato che il verbo
divino è creatore, e che l’uomo è simile a Dio, il criterio di Vico della convertibilità vero-fatto
sarebbe senza fondamento metafisico, ossia onto-teologico. Un’interpretazione del vero-fatto in
senso idealistico ne accentuerà il volontarismo che in Scoto e in Agostino, nume tutelare di Vico,
non si dà.115 Tale ipotesi interpretativa si basa sull’identificazione tra conoscere e fare concepita
solo dal punto di vista della conoscenza divina, in modo tale che sulla base del prologo del Vangelo
114
115
PLATONE, Timeo, 69 b.
F. AMERIO, Introduzione allo studio di G. B. Vico, Torino, S. E. L. 1947, p. 112.
101
di Giovanni, passando per Agostino e Tommaso, ci si riferisce ad un principio di tutte le cose posto
nel Verbo, che ha creato tutto ciò che è, per cui solo nella Verità conoscere e fare coincidono. In
Tommaso, invece, c’è il tentativo di dare maggior consistenza ontologica alle cose, poiché, secondo
Gilson, c’è una verità propria a ciascuna cosa, che le appartiene come la sua stessa entità. L’azione
creatrice divina, generando gli esseri, gli trasmette una verità, che è loro inerente: quella della loro
entità, alla quale l’intelletto si adegua, o dell’intelletto, che se la rende adeguata. Accanto al
riconoscimento della verità delle cose fondata sull’intelletto divino creatore, il quale è principio e
norma di quelle stesse verità, si fa luogo in Tommaso l’idea che le cose siano esseri reali che sono
la norma o il principio di misura dell’intelletto umano che le conosce. Quando nelle cose il
principio è nell’intelletto umano, il fare segue al concepire, invece, quando nelle cose il principio è
l’intelletto divino, la conoscenza umana deve reiterare il procedimento di generazione risalendo dal
dato empirico alle rationes. C’è una differenza tra il tomismo e Aristotele: la natura in Aristotele è
per sé stante eternamente mentre il tomismo ne riconosce la finitezza. L’oggetto della conoscenza
deve ritrovarsi nel principio conoscente, e l’affermazione per la quale la verità est adaequatio rei et
intellectus vuol dire che l’oggetto, apparendo com’è in natura, è assimilato all’intelletto, e la
ragione formale della verità non aggiunge nulla all’essenza delle cose conosciute.
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod veritas non sit solum in intellectu componente et dividente. Dicit enim
philosophus, in III de anima, quod sicut sensus propriorum sensibilium semper veri sunt, ita et intellectus eius quod
quid est. Sed compositio et divisio non est neque in sensu, neque in intellectu cognoscente quod quid est. Ergo veritas
non solum est in compositione et divisione intellectus.
Praeterea, Isaac dicit, in libro de definitionibus, quod veritas est adaequatio rei et intellectus. Sed sicut intellectus
complexorum potest adaequari rebus, ita intellectus incomplexorum, et etiam sensus sentiens rem ut est. Ergo veritas
non est solum in compositione et divisione intellectus.
Sed contra est quod dicit philosophus, in VI Metaphys., quod circa simplicia et quod quid est non est veritas, nec in
intellectu neque in rebus.
Respondeo dicendum quod verum, sicut dictum est, secundum sui primam rationem est in intellectu. Cum autem omnis
res sit vera secundum quod habet propriam formam naturae suae, necesse est quod intellectus, inquantum est
cognoscens, sit verus inquantum habet similitudinem rei cognitae, quae est forma eius inquantum est cognoscens. Et
propter hoc per conformitatem intellectus et rei veritas definitur. Unde conformitatem istam cognoscere, est cognoscere
veritatem. Hanc autem nullo modo sensus cognoscit, licet enim visus habeat similitudinem visibilis, non tamen
cognoscit comparationem quae est inter rem visam et id quod ipse apprehendit de ea. Intellectus autem conformitatem
sui ad rem intelligibilem cognoscere potest, sed tamen non apprehendit eam secundum quod cognoscit de aliquo quod
quid est; sed quando iudicat rem ita se habere sicut est forma quam de re apprehendit, tunc primo cognoscit et dicit
verum. Et hoc facit componendo et dividendo, nam in omni propositione aliquam formam significatam per praedicatum,
vel applicat alicui rei significatae per subiectum, vel removet ab ea. Et ideo bene invenitur quod sensus est verus de
aliqua re, vel intellectus cognoscendo quod quid est, sed non quod cognoscat aut dicat verum. Et similiter est de
102
vocibus complexis aut incomplexis. Veritas quidem igitur potest esse in sensu, vel in intellectu cognoscente quod quid
est, ut in quadam re vera, non autem ut cognitum in cognoscente, quod importat nomen veri; perfectio enim intellectus
est verum ut cognitum. Et ideo, proprie loquendo, veritas est in intellectu componente et dividente, non autem in sensu,
neque in intellectu cognoscente quod quid est.
Et per hoc patet solutio ad obiecta.116
Tuttavia va rilevato come la presenza in Tommaso di un’idea di individualità abbia una
connotazione naturalistica, poiché la natura rappresenta un ordine retto da una ragione universale,
capace di armonizzare i prodotti umani e le rationes divine. In Duns Scoto poi, posta la distinzione
tra conoscenza divina ed umana, il vero è fondato creativamente dall’intelletto divino, per cui esso è
essere ideale o possibile. Diversamente da Tommaso, quindi, per Scoto l’orientamento
dell’intelletto è dato dalla volontà, il che fa presupporre, anche nel riconoscimento che Dio non
operi su una materia preesistente, un mondo di idee ed essenze che siano l’essenza stessa di Dio, un
mondo ideale che è il fondamento metafisico dell’analogia tra l’essere creato e il Dio creatore.
In questo indirizzo, ossia nella scolastica
scotistica e in quella che strettamente lo si congiunge dell’occamismo, tentai
qualche ricerca, ma senza ottenere risultati notevoli; e anzi per essa appunto aspettavo qualche aiuto, che mi è mancato, da parte dei conoscitori
specialisti della scolastica, i quali hanno preferito esporre il loro ricordo superficiale o perdersi in vane chiacchiere. In generale, sembra possa
dirsi che nella gnoseologia di Duns Scoto appaia qualche tratto affine a
quella del Vico; p. e. nella polemica contro la dottrina tomistica (adaequatio intellectus et rei, confutata con l'applicazione al conoscere divino,
giacché Dio conosce le cose come da lui volute, ed esse sono perchè egli
vuole che siano senza essere necessitato dalle cose ). Anche per l'Occam
i pensieri delle cose non hanno realtà e oggettività (o soggettività, come si
diceva dagli scolastici, con terminologia inversa all'odierna) in Dio, e non
sono altro che le cose stesse, conosciute da Dio secondo la loro producibilità,
116
TOMMASO, Somma teologica, I 16 a.2.
103
in forza della quale sono pensabili dalla mente divina ). Ma per il Vico non si
tratta semplicemente della precedenza del fare sul conoscere o del conoscere
sul fare, sì della convertibilità o identità del conoscere col fare. — In certi appunti filosofici, testé pubblicati, di Paolo Sarpi, che era un nominalista occamista , si leggono queste proposizioni, tanto più osservabili in quanto, rimanendo senza conseguenze nel pensiero del Sarpi e non ricevendo nel séguito
svolgimento nessuno, appaiono non trovate da lui, ma ripetute da detti di
scuola: e sappiamo certo e l'essere e la causa di quelle cose di far le quali
abbiamo perfetta cognizione; di quelle che conosciamo per isperienza sappiam l'esser, ma non la causa: conghietturandola poi, cerchiamo solamente
quella ch'è possibile, ma tra molte cause che troviamo possibili, non possiamo
certificarsi qual sia la vera: il che si vede avvenir nelle descrizioni dello
teorie celesti, ed averrebbe a chi vedesse di prima faccia un orologio. 117
Tali riflessioni si svolgono in un contesto dove le suggestioni della cosmologia dell’ultimo Platone,
di per sé già rilevanti per la filosofia aristotelica e stoica, sono decisive anche nel naturalismo
medievale, il quale ha una doppia impronta: da una parte spinge l’uomo a impossessarsi, nel
pensiero e nell’azione, della natura da conoscere e dominare, dall’altra lo esorta a inserirsi in un
ordine universale che ne ritarda lo sviluppo, in particolare se si tratta di un ordine la cui universalità
è data dalla potenza imperativa naturale e sovrannaturale. Per tale ambivalenza, la natura perde il
carattere di principio unitario del divenire e si risolve, con il nuovo aristotelismo, nella catena
ordinata delle cause seconde. Contro la spiegazione teologica che riduce i fenomeni fisici nella
volontà di Dio rinunciando alla ragione, si oppongono vari studiosi medievali che, ispirati dal
Platone del Timeo, ricorrono a scienze come l’astrologia, l’alchimia, la magia, per costruire una
conoscenza pratica capace di valorizzare l’attività umana, di offrire un’autonomia d’iniziativa
capace di piegare le forze celesti a compiti umani, quindi di creare una conoscenza diversa certa e
vera con la quale esplorare in modo nuovo la natura, impossessandosi dei suoi segreti. Inizia a
definirsi un’articolazione della dignità umana, dove la dignità è conoscenza e potere. Alla ragione
117
Cfr. B. CROCE,op. cit..
104
metafisica e alla sua pretesa sistematicità si oppone una ragione storica ed empirica, ad una filosofia
contemplativa una nuova concezione fondata sugli interessi dell’uomo, capace di distinguere i
diversi campi della conoscenza. Banfi ha affermato che alla definizione della verità come
adaequatio rei et intellectus si sostituisce una adaequatio intellectus et rei, della realtà all’intelletto,
come ragione universale, capace di liberare il vero dal dogmatismo per valorizzare il pensiero, il
farsi fenomenologico della verità. Secondo tale punto di vista la sostituzione del mito cristiano di
Adamo con il mito di Prometeo è stata concepita come una chiave di lettura con la quale si passa ad
una nuova, diversa concezione dell’uomo nella quale Prometeo, trasmettendo l’attività formatrice
nell’attività del singolo, è concepito come un simbolo umano della cultura e come promotore di un
individualismo eroico che si esprimerà in Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno. Il nuovo
atteggiamento dell’uomo nel XV e XVI secolo è dettato dall’interesse per il mondo che, legato
ancora alla tradizione medievale, si esplica anche con la magia fondata, in opposizione all’ordine
logico della ragione, direttamente sull’esperienza. In Pico l’uomo arriva al linguaggio segreto delle
cose e piega ai suoi obiettivi le potenze naturali stabilendo il suo dominio sulla realtà e
umanizzando il mondo con una nuova rappresentazione della sua relazione con l’esterno, dove egli
è creatore, il costruttore di un mondo del quale è dominatore. Dalla cella del frate medievale e dallo
studiolo dell’umanista si passa nelle officine, nelle botteghe, nelle accademie, in quei luoghi dove
gli uomini lavorano insieme, per cui nella distinzione tra homo sapiens e homo faber l’accento torna
su quest’ultimo, uno spostamento che fonda i grandi cambiamenti culturali ed economici che hanno
contribuito ad annientare i vincoli dell’età feudale. A questa nuova necessità si accompagna la
richiesta di libertà ed autonomia, di dignità umana, per cui il conoscere diventa un processo teso a
mettere in evidenza l’attività della mente nell’indagine, nell’apprendimento e nella comprensione
razionale dell’oggetto conosciuto. L’idea moderna del conoscere come fare si annuncia, quindi, nel
nuovo atteggiamento
e nella necessità di
libertà della
cultura umanistica,
espressa
emblematicamente da Giannozzo Manetti nel De dignitate et excellentia hominis, dove si afferma
che la creazione divina è riplasmata e trasfigurata dall’attività umana. Si afferma l’immagine di un
universo vivente percorso da potenze che l’uomo può dominare solo se sa costruire gli strumenti
adatti, se impara il linguaggio nel quale è scritto il libro del mondo, se riesce a conoscere le cose
usando le formule adatte. Si sviluppano una filosofia poetica della natura e una visione della vita
universale in un universo tutto divino, mentre sembrano riemergere trasfigurati gli dèi della Grecia
e gli inni al Sole.118 La scoperta di un mondo degli uomini è favorita dagli studia humanitatis, dove
la consapevolezza della distanza tra i moderni e gli antichi, e la ricerca degli elementi che
definiscono la dignità dell’uomo, diventano anche un motivo per esprimere l’impossibilità di
118
E. GARIN, Ermetismo e Rinascimento, Roma, Editori Riuniti, 1988, p.74.
105
arrivare a Dio. Il mondo diventa il campo d’azione dell’uomo, che può costruire i propri oggetti e
relazionarsi con la natura dopo aver scoperto le sue ragioni, facendosi come essa creatore di mondi
armonici, regolati da ritmo mirabile, determinato dall’armonico unirsi di conoscere e fare. L’uomo
che si fa Dio, si fa tale perché in lui c’è l’impronta di qualcosa di più che naturale, dell’infinito. 119
In Cusano, nel De possest, agli uomini è riservata la conoscenza degli enti matematici, mentre Dio
può conoscere gli enti reali che hanno in lui la loro causa. Tuttavia, è nella Theologia platonica di
Ficino che si definisce meglio la presenza della conversione vero-fatto poiché, se da una parte
l’attività creativa dell’uomo è concepita come imitazione della natura, per cui essa permette, con la
coscienza delle ragioni che definiscono la tecnica, di conoscerla, dall’altra la conoscenza
intellettuale è formata dalla coscienza divina, la quale ha un livello di consapevolezza di molto
superiore a quella umana perché si fonda sull’identificazione tra conoscere e fare. Anche l’uomo,
per arrivare a una vera conoscenza della natura, dovrebbe farla, una prospettiva che Ficino sembra
introdurre quando, secondo Mondolfo, vede la possibilità della conquista sperimentale della
conoscenza naturale e ne definisce le condizioni nell’intelligenza delle ragioni e nel loro operare col
rinvenimento della materia e degli strumenti tecnici. Se la natura è la tela tessuta da un artefice che
opera nelle cose, l’arte è imitazione di tale intima spontaneità del tutto, è la mano di un operaio
esterno rispetto al soffio ispiratore che opera nell’intimo del mondo. All’unità fondamentale
ritrovata nella luce, corrisponde un processo dinamico di unificazione nell’amore. Come il simbolo
della luce svela il legame che avvince tutto il reale alla radice, così la forza universale d’amore
vivifica ed anima la molteplice unità totale. Tutte le parti del mondo, perché sono opera d’un
artefice e membri di una medesima macchina, tra sé in essere e in vivere simili, per una
scambievole carità insieme si legano.120 L’uomo è il mezzo con il quale le cose tornano alle idee, la
conoscenza è il ritrovarsi delle cose in Dio, la verità è luce divina, e Ficino definisce una teologia
platonica concepita come conoscenza di sé per mezzo della conoscenza di Dio e, viceversa, di una
conoscenza di Dio per mezzo della conoscenza di sé. Ciò vuol dire che Ficino, spostando l’accento
dal mondo divino a quello umano, il cui risplendere della luce emanata dal lumen originario è più
importante del lumen stesso, mette in luce come l’uomo inizi ad esser consapevole delle varie
potenze che governano il mondo. E tuttavia va evidenziato che il parallelo ficiniano tra il fare
divino e quello umano si fonda sul dominio della conoscenza divina che opera nell’arte umana, per
cui, pur non condannando la pratica, è assodato che la concezione ficiniana privilegi il momento
contemplativo, cioè, secondo Kristeller, quell’esperienza spirituale che inizia con il separare dal
mondo esterno la mente umana, per poi procedere per vari gradi della conoscenza e della passione,
per alla fine arrivare alla visione immediata e al godimento di Dio. Infatti, se il furore eroico
119
120
E. GARIN, Interpretazioni del Rinascimento, Volume 1, Edizioni di storia e letteratura, 2009, p.4.
ibidem, p.66.
106
dell’uomo operoso e del saggio permette di accedere ad una nuova visione dell’universo e di
fondare la capacità di misurarsi con i limiti della necessità e con i confini della conoscenza; se la
cultura umanistico-rinascimentale, con i contenuti delle nuove conoscenze umane, riesce ad
introdurre una nuova visione della natura e della vita fondate sulle leggi umane, sulle leggi storiche,
capace di concepire la natura con il mondo e l’operare umani, non va taciuto che c’è un tratto
comune che definisce le concezioni rinascimentali, l’idea cioè che la mente umana sia impiantata in
Dio e in Dio partecipi della certezza assoluta. Galileo fonderà la certezza della sua scienza
sull’intuizione, propria del platonismo fiorentino, del valore infinito dello spirito umano che attua in
atti finiti la sua infinità che è poi infinità di Dio.121 Ciò vuol dire, però, che anche la scoperta del
mondo dell’esperienza e dell’esperimento, l’idea che si presenta, ad esempio in Leonardo, di
arrivare alla ragione delle cose, alla loro necessità, resta pur sempre legata ad una similitudine con
l’azione divina, per cui anche il fare poetico, o quello pittorico, è guidato avendo come riferimento
l’attività libera di Dio. Sono temi che ricorrono nel pensiero di Giordano Bruno, dove, in particolare
nello Spaccio, c’è una valutazione del lavoro come allontanamento dalla bestialità e come capacità
di favorire la dignità umana con la tecnica di trasformazione e produzione. Come ha sostenuto
Rossi, la dignità umana non è solo affidata, come in Ficino e in Pico, alla forza d’ascesa
dell’intelletto, ma anche all’azione manuale. Emerge che se l’uomo è spinto dalle necessità naturali
ad aguzzare l’ingegno, a scoprire le arti e l’industria, in lui agisce la Provvidenza che va verso un
aumento dei valori etici, civili e materiali che fondano la società, per cui si può sostenere che gli dei
si preoccupano dell’uomo, e favoriscono il suo processo di divinizzazione. Da questo processo di
costruzione della dignitas propria dell’uomo che nascono, osserva il Nolano, insieme alle industrie,
le malizie: ma con loro germina e si sviluppa anche la capacità di distinguere fra il bene e il male,
fra il vizio e la virtù, determinando il confine, tra umanità e bestialità. Di qui nasce, per il Nolano,
anche la possibilità di porre un chiodo alla fortuna valorizzando la fatica dell’uomo impegnato nella
costruzione della civiltà come nella trasformazione della naturalità. All’eguagliamento del tempo si
contrappone dunque l’azione concorde dell’intelletto e delle mani, che spingono l’uomo verso la
divinità.122 Sebbene nel Bruno degli Eroici furori l’umanità si divida tra i meccanici e i filosofi, tra
coloro che lavorano con le mani e quelli che si dedicano alla contemplazione, l’esperienza del
furore diventa una forma della prassi umana con la quale si supera l’accidentalità per arrivare
all’infinità, dinanzi alla quale si scopre il furore. L’infinitizzazione del copernicanesimo operata dal
Nolano pone in termini radicalmente nuovi il problema del significato dell’uomo e della conoscenza
umana, aprendo la strada da un lato a una riconsiderazione dell’uomo nella scala naturae, dall’altro
alla problematica dell’eroico furore, cioè a una rimessa a fuoco delle vie attraverso cui deve passare
121
122
ibidem, p.32.
M. CILIBERTO, Umbra profonda : studi su Giordano Bruno, Edizioni di storia e letteratura, 1999, p.214.
107
l’accidente finito per cogliere nell’universo infinito qualcosa dell’ente infinito sforzandosi di
oltrepassare l’orizzonte dell’accidentalità.123 In una divinizzazione della natura Bruno, però, esalta
l’uomo in quanto espressione dell’infinita potenza della natura, e il furore eroico diventa quello per
il quale si esprimono tutte le capacità umane, razionali e passionali, e con il quale solo si può
guardare la luce della divinità. E infatti, l’esperienza eroica del furore tende a liberare l’uomo dai
pregiudizi e a fondare la capacità di misurarsi con i limiti della necessità e con i confini della
conoscenza, a riconciliarlo col divino e a ritrovare nel proprio pensiero l’unità con l’infinito, a
ridurre la distanza tra finito e infinito con il prevalere della volontà sull’intelletto. Nei Furori si
insiste sull’intreccio tra occhi e cuore, tra intelletto e volontà. In breve: è negli occhi che viene
dunque collocato nei Furori il principio dell’azione, e per un motivo preciso: senza azione, cioè
senza volontà, non c’è contemplazione della prima verità; si resta nel corporeo, nell’ombra, sotto la
legge della vicissitudine, come accade nella contemplazione sapienziale.124 Attraverso l’entusiasmo
della volontà il furioso oltrepassa la distanza tra umano e divino, si converte in ciò che ha amato e
desiderato. La mano permette all’uomo, nel suo stesso statuto ontologico di essere naturale, di
creare un mondo autonomo, il cui significato e il cui scopo sono da ricercare nella natura stessa che
gli fornisce gli strumenti fisici e intellettivi per comprenderla, ordinarla e trasformarla, per
interagire con essa, umanizzandola. Due sono i passi delle opere di Campanella che la storiografia
ha considerato rilevanti per la questione del conoscere e del fare. Innanzitutto quello individuato da
Gentile, secondo il quale Campanella ha chiaro il principio che il conoscere è soprattutto poter
conoscere: e conoscere diventa un fare, operare. Poiché chi sa, fa; e non può fare chi non sa; e chi
non sa, non ha fatto: Dio, quindi, è “primo ingegniero”. E nella Metafisica si distingue una duplice
funzione dell’intelletto, cosicché quello che conosce senza produrre è la ragione discorsiva che, non
conoscendo dall’interno, ricostruisce con la percezione delle somiglianze esterne, e,
per tale
capacità che permette di conoscere le cose ignote per mezzo delle note, l’uomo moltiplica le
possibilità conoscitive empiriche con l’immaginazione che lega tra loro le cose simili. La
contrapposizione tra il fare reale di Dio e quello intenzionale dell’uomo, percorre tutta l’opera
campanelliana, la quale si alimenta della convinzione dell’infinità della scienza, ossia
dell’impossibilità di arrivare alla verità definitiva. Per Campanella il conoscere è un sentire, e
quindi un patire, ma con questa modalità non sentiamo la cosa, ma il cambiamento prodotto in noi
dalla cosa. L’essere vero si trova solo nel conoscere vero, in quello cioè in cui si trova
compenetrazione di conoscente e conosciuto, nel sensus sui. Il mondo è aperto solo a Dio, che
ricomprende tutto, e perché fa tutto è tutto, e, dunque, conosce tutto. L’uomo conosce se stesso, e
tale conoscenza dell’essere che è intrinseca all’essere è oltre l’azione e la passione; è qualcosa di
123
124
ibidem, p. 303.
Ibidem, p. 222.
108
più alto, di più profondo, è la verità dell’essere, la praeminentia entitatis. In Paolo Sarpi il discorso
sembra orientato verso la presenza o assenza dei processi discorsivi: perché il fare umano è per idea
e per discorso, mentre Dio fa senza discorso. Dal punto di vista matematico sono distinti due tipi di
attività tra loro connesse: una calcolante, che produce conoscenze prevedibili, poiché chi compone
sa perché fa; l’altra risolutiva e discorsiva, definita da una componente empirica, che tende verso
ciò che è ignoto : colui che risolve impara, perché cerca com’è fatto. Sarpi sembra, quindi,
distinguere in ogni forma di conoscenza un’attività creatrice e un prodotto creato, e il fare assume il
significato del plasmare gli elementi dell’infinità materiale, perché nessuna cosa è quando si fa, né
si fa dal niente, e deve perciò avere due cause, ossia il finito e l’infinito. Il passaggio dal fare al
fatto, in Sarpi come in Campanella, sta nell’aggregazione o separazione dei simili che accomuna
l’attività discorsiva a quella calcolante e la specifica come attività umana. In Cardano, le scienze
create dalla mente umana per astrazione si contrappongono a quelle fisiche, e si elimina il tema
pitagorico-platonico del mondo creato numero, pondere et censura, che comporta il fatto che il
fondamento della conoscenza sia ricercato nella matematica. In Bacone la pratica è ciò che è vero
nella teoria. La modernità del pensiero baconiano sta nella nuova funzione data alla conoscenza e
alla cultura, che sono concepiti come una continua ricerca e scoperta di contesti sconosciuti dove
l’uomo ha il compito di trasformare il reale e di conoscerlo per poterlo trasformare. L’insistere di
Bacone su una logica inventiva capace di costruire ed operare nel mondo naturale storico
conoscendo la forma delle cose, fa coincidere la verità scientifica con la sua utilità pratica, e
introduce una declinazione della relazione vero-fatto, dove la conversione si dà tra la verità e la sua
utilità, cercando di oltrepassare la distinzione tra conoscere e fare e dando agli uomini la possibilità
di agire liberamente. Ma è con Galileo che l’universo diventa geometrico, e lo sguardo dello
scienziato diventa ordinatore dei fenomeni per mezzo della matematica. Rilevante diventa in
Galileo l’opposizione tra scienza e opinione, conoscenze e credenze, e la richiesta di un
atteggiamento empirico col quale non si presume la conoscenza dell’inconoscibile. Il punto di vista
galileiano dà, quindi, un contributo rilevante all’autonomia delle scienze, in particolare rispetto alle
Scritture, e ritrova il senso socratico della ricerca come conquista faticosa della verità.
Potrò dunque io questa volta farvi a tutti due (come si dice) il maestro addosso: e perché il proceder per interrogazioni
mi par che dilucidi assai le cose, oltre al gusto che si ha dello scalzare il compagno, cavandogli di bocca quel che non
sapeva di sapere, mi servirò di tale artifizio E prima io suppongo che le navi, fuste o altri legni, che si cerca di scoprire
e riconoscere, sieno lontani assai, cioè 4, 6, 10 o 20 miglia, perché per riconoscer i vicini non c'è bisogno d'occhiali;
ed in conseguenza il telescopio può, in tanta distanza di 4 o 6 miglia, comodamente scoprire tutto 'l vassello, ed anco
109
machina assai maggiore. Ora io domando, quali in ispezie e quanti in numero siano i movimenti che si fanno nella
gaggia, dependenti dalla fluttuazion della nave.125
Con Galileo lo scienziato si sottopone alla lettura diretta del libro della natura, che, sta
continuamente aperto dinanzi agli occhi dell’uomo, scritto in lingua matematica, e i caratteri sono
triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Contro l’ozio contemplativo, l’immobilismo intellettuale
che obbedisce alla legge del quieta non movere, Galileo diventa il protagonista della nuova scienza
che libera la natura dalla metafisica aristotelica
e si volge ai fenomeni indagandone il
comportamento, il come, senza eliminare la ricerca dei fondamenti dell’indagine stessa, della
filosofia che la fonda. Per questo Galileo può sostenere che la mente umana si unisce con quella
divina nella conoscenza del vero di cui è capace, e la matematica, con la quale Dio ha fatto
l’universo, connette l’uomo, il mondo e Dio. Il discorso galileiano presuppone la relazione tra
geometria e realtà in modo tale che la stessa efficacia pratica della scienza, la funzione
dell’esperimento come conferma del ragionamento, si fonda sull’idea del Dio geometra e della
realtà geometrica, quindi sull’omogeneità tra Dio, uomo e mondo. Galileo pone i fondamenti della
meccanica nella geometria.126 L’esperimento ha la sua origine dalla capacità produttiva dell’uomo
ed è il corollario della convinzione che si può conoscere solo ciò che si fa, poiché non si può
conoscere ciò che non si è fatto solo rappresentando e imitando i procedimenti di formazione di ciò
che si vuol conoscere. C’è una distanza tra verità scientifica e verità filosofica, per cui l’uomo, che
non conosce ciò che non ha fatto, è escluso dalla conoscenza della natura, un contesto che gli si può
aprire solo se, con l’ingegno, è capace di imitare i processi naturali. La scoperta del linguaggio
matematico è rilevante in quanto concepisce gli enti matematici come entia rationis creati
dall’uomo. Tuttavia, va rilevato che a questo rinnovamento si oppongono delle resistenze, come ad
esempio le posizioni occasionaliste, per i quali solo la conoscenza divina, in opposizione al carattere
passivo della conoscenza umana, è un conoscere facendo, che vale sia per le entità create dal nulla,
sia per le cause e le potenze che coincidono con la volontà divina. Cartesio crede nella possibilità di
ricostruire il meccanismo dell’universo combinando l’idea chiara e distinta di una massa originaria
con le idee delle leggi del moto, dove la matematica è capace di descrivere il cambiamento poiché
fondata su un metodo costruttivo che rappresenta un ideale gnoseologico attivo, capace di pensare
alla possibilità di conoscere l’universo con l’indagine dei suoi principi dinamici, per poterne
ricostruire il funzionamento nello stesso modo in cui lo ricostruisce Dio. Con Gassendi, che desume
125
126
G. GALILEI, Massimi sistemi, Einaudi, Torino 1970, p.141.
A. CHILD, Fare e conoscere in Hobbes, Vico e Dewey, Napoli, Guida 1970, pp.10-11.
110
il tema del vero-fatto da Herbert di Cherbury, si assiste alla valorizzazione dell’approccio
sperimentale e fenomenico al mondo che richiama ad un ideale conoscitivo da farsi, legato a verità
relative, distinte dalla conoscenza definitiva fondata dalla teologia. Nell’atteggiamento empirista la
conversione vero-fatto si afferma come canone gnoseologico che ammette l’autonomia della
ragione come strumento capace di spiegare la varietà del reale definendone i fenomeni da
apprendere empiricamente e ricostruendo i processi naturali. Tra i vari temi che influenzano tale
concezione ne vanno segnalati alcuni desumibili dalle teorie di Francisco Sanchez, il quale,
confutando le pretese epistemologiche dell’aristotelismo, rifiuta anche la possibilità di un accesso
alla scienza con una definizione vera. La critica ad Aristotele lo porta a definire gli elementi della
conoscenza che, seppur inadeguati a garantire una definizione di scienza come perfecta cognitio,
definiscono una gnoseologia empiristica. Tuttavia, anche nella questione empiristica va rilevata la
presenza di un ideale di scienza che definisce la natura come un ambito di fenomeni governato da
leggi meccaniche sperimentate e misurate, garantite da Dio stesso, il quale costruisce l’universo
nella sua funzione di Dio costituzionale, che rispetta le leggi date alla natura ordinando il cosmo,
che può essere compreso dall’esperienza e dalla ragione perché da esse definito. Per questo
Gassendi, consapevole dei limiti della conoscenza umana, può assegnare all’uomo il contesto della
conoscenza storica, della descrizione dei fenomeni, e a Dio la conoscenza delle cause di ciò che ha
creato, liberando la ricerca empirica dalla metafisica e dalla teologia. Una caratteristica tipica,
definita da un’idea geocentrica, rilevabile, ad esempio, nel pensiero di Arnold Geulinex, è quella
secondo la quale l’uomo non può fare le cose di cui non comprende la genesi causale, attività
riservata a Dio che è vera causa. Geulinex si oppone all’unione cartesiana di anima e corpo con il
ricorso all’occasionalismo, che si ritrova anche in Malebranche, per il quale la ragione finita
dell’uomo è in rapporto con l’infinito di Dio. Va rilevato , tuttavia, come in Malebranche si possa
distinguere tra il facere e il factum, dove il primo è definito dalle modalità operative della volontà
divina che, libera di agire come di non agire, è legata alle manifestazioni di sé nell’atto creativo.
Dio, che è sì indifferente a ciò che fa esternamente ma non al modo in cui lo fa, agisce nel modo più
saggio e più perfetto, seguendo l’ordine immutabile e necessario, per cui la potentia ordinata può
esprimersi sia nella scelta delle vie più semplici, sia nella disposizione di un ordine perfetto degli
esseri creati.
111
Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de'
possibili la quale ci è permesso d'intendere, e per quanto ce n'è permesso, possa pensare o più o meno o altre cagioni
di quelle ond'escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverà un divin piacere, in questo
corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de' loro luoghi, tempi e
varietà; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che 'l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni
parte l'uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda
dall'onnipotente, saggia e benigna volontà dell'Ottimo Massimo Dio. 127
Ancora più rilevante il contributo di Hobbes, il quale allarga a tutto il campo della conoscenza
l’idea che la comprensione di un contenuto sia determinata dalle condizioni produttive che lo
pongono dinanzi all’uomo, e l’oggettività sta nelle connessioni che si riconoscono necessarie. In
Hobbes il baricentro sta nel corpo e in quella scienza dimostrabile che vale per l’uomo solo rispetto
alle cose che egli stesso produce. Tuttavia Hobbes, per rendere autonoma la conoscenza delle cose
esterne, rinuncia alla necessità dei principi e fa rientrare nella propria speculazione le
rappresentazioni e i nomi delle cose; cosicché i principi riacquistano la loro universalità solo
rinunciando
alla
corrispondenza
con
l’essere
concreto
delle
cose.
Imperniandosi
su
un’autolegislazione della ragione che crea dovunque da se stessa tutto ciò che è reale, Hobbes
scopre un’oggettività capace di divenire reale e capace di stabilire la legge dell’agire e del pensare.
La politica e l’etica, fondandosi sulle stesse modalità costitutive della geometria, costruiscono dei
prodotti del fare umano nei quali la loro verità è nell’essere stati fatti per convenzione. Se l’uomo
per natura tende prelogicamente alla conservazione, egli si riunisce in società per convenzione,
grazie ad una capacità di calcolo che si distingue dall’istinto di autoaffermazione che divide e
contrappone, piuttosto che unire, gli uomini. La contrapposizione di auctoritas e veritas , ossia il
contrasto, tipico del pensiero decisionistico, tra soggetto e contenuto della decisione, esprime la
consapevolezza, da parte di Hobbes, tra l’eterogeneità tra l’ordine sovrapositivo della verità e quello
positivo della legge, dunque del fatto che l’effettività giuridica della norma si fonda sul valore
giuridico autonomo della persona che la interpreta. La lex fatta dall’auctoritas e non dalla veritas, è
quindi, in un senso del tutto opposto al normativismo, non una norma valida per le sue interne
qualità, ma comando positivo, non è ratio, ma voluntas. Infatti, sul terreno della verità non è
possibile parlare di sovraordinazione e subordinazione, in quanto tali concetti non riguardano poteri
astratti, ma persone concrete, non sostanze, ma istanze: se un potere deve essere sottoposto all’altro,
ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere deve essere sottoposto a colui che ha l’altro
potere. Hobbes illustra ciò con una di quelle analogie che solo lui sa portare così convincentemente
nella rigorosa obiettività della sua sana comprensione degli uomini: un potere o un ordinamento può
127
G. VICO, op.cit. p.111.
112
essere subordinato a un altro nello stesso modo in cui l’arte del sellaio è subordinata a quella del
cavaliere.128 La logica hobbesiana ha esercitato una notevole influenza sul pensiero di Spinoza, in
particolare sul Trattato sull’emendazione dell’intelletto, dove alcune parti possono essere lette in
sintonia con le argomentazioni hobbesiane, soprattutto del De corpore. Hobbes e Spinoza, infatti,
sono vicini nel dare importanza all’affermazione secondo la quale l’uomo comprende solo ciò che
l’intelletto produce, e che sia la scienza della natura sia la scienza politica e sociale sono possibili
poiché rifiutano una conoscenza recettiva degli oggetti, per volgersi ad una concezione per la quale
i fatti si originano da principi di pensiero originari. Questo è l’ideale, evidenziato da Cassirer, di una
conoscenza dimostrativa apriori, che si dà solo poiché è l’uomo che ha costruito sia le figure
geometriche sia i fondamenti del diritto, cioè le leggi e i contratti. Quindi, seppur in un
orientamento metafisico diverso, Spinoza concorda con Hobbes nel rifiutare il metodo induttivo
baconiano riconoscendo la necessità di una fisica fondata apriori, in modo tale che gli universali
hobbesiani possono essere concepiti come in concordia con le cose stabili ed eterne di Spinoza.
Nell’Etica, in particolare nella VII proposizione della seconda parte, Spinoza, sulla base
dell’identità della sostanza e della sua essenza, concepisce una dimostrazione dell’affermazione che
“ l’ordine e la connessione delle idee è uguale all’ordine e alla connessione delle cose”, cioè l’idea
di ogni causato deriva dalla conoscenza della causa di cui esso è effetto.
Prop. 7.
L’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose.
Dimostrazione: La cosa è evidente per 1’Ass. 4 della I Parte. Infatti l’idea di qualsiasi cosa causata dipende dalla
conoscenza della causa di cui la cosa considerata è effetto.
Conseguenza: Di qui deriva che la capacità di pensare che ha Dio è eguale alla sua attuale (ossia attiva-e-in-atto)
capacità di agire. Questo significa che qualunque cosa si origini dall’infinita natura di Dio formalmente, cioè in
maniera riscontrabile nella realtà, la stessa cosa si origina in Dio dall’idea di Dio, nello stesso ordine e con la stessa
connessione, obiettivamente, cioè come puro pensiero.
Chiarimento: Qui, prima di procedere oltre, dobbiamo richiamarci alla memoria quel che ho mostrato poco fa: e
cioè che tutto ciò che un intelletto infinito può percepire come costituente l’essenza di una sostanza appartiene
esclusivamente a un’unica sostanza: e che, di conseguenza, la sostanza pensante e la sostanza estesa sono la stessa
Sostanza, una sola, alla quale ci si riferisce ora sotto questo attributo, ora sotto quello. Così anche
un modo dell’estensione e l’idea di quel modo sono la stessa realtà, ma espressa in due maniere: e questa cosa sembra
essere stata intuita, sia pur vagamente, da alcuni pensatori ebrei, i quali in effetti sostengono che Dio, e l’intelletto di
Dio, e le cose da lui conosciute sono in realtà la stessa unica cosa. Per esempio, un circolo esistente in natura, e l’idea
di quel circolo esistente, che è anche in Dio, sono la stessa unica cosa, che si manifesta mediante attributi diversi: e
pertanto, che noi concepiamo la natura sotto l’attributo dell’Estensione, o sotto quello del Pensiero, o sotto qualsiasi
128
G. A. DI MARCO, Thomas Hobbes nel decisionismo giuridico di Carl Schmitt, Napoli, Guida, 1999, pp.109-110.
113
altro, vi troveremo lo stesso unico ordine, ossia la stessa unica connessione delle cause: cioè, sotto questa o quella
forma, le stesse cose che derivano le une dalle altre. Infatti ho detto che Dio è causa - per esempio - dell’idea del
circolo soltanto in quanto è cosa pensante, e del circolo "materiale" soltanto in quanto è cosa estesa, per questa sola
ragione, che la struttura razionale peculiare dell’idea del circolo (modo, evidentemente, del pensiero) non può essere
percepita se non attribuendovi come causa prossima un altro modo del pensare, e attribuendone a quest’ultimo un
altro, e così all’infinito; in maniera che quanto a lungo consideriamo le cose comemodi del pensare noi dobbiamo
spiegare l’ordine di tutta la natura - ossia la connessione delle cause - mediante il solo attributo del Pensiero; e in
quanto consideriamo le cose come modi dell’estensione dobbiamo spiegare l’ordine di tutta la natura mediante il solo
attributo dell’Estensione; e la stessa cosa vale per gli altri attributi, sebbene non li conosciamo. E quindi Dio, in
quanto consta di infiniti attributi, è realmente causa delle cose come esse sono in sé; e per ora non posso spiegare la
cosa più chiaramente.129
Pufendorf assume il tema della costruzione artificiale, del facere umano, per affermare
l’impossibilità della condizione originaria di realizzarsi spontaneamente. In Leibniz poi, la
questione filosofica, stabilendosi sul rapporto tra l’ordine finito e la trascendenza divina, individua
nell’Uno il principio fondante che costruisce e fa l’universo, la ragion sufficiente dell’esistenza
delle cose. La geometria sintetica in Leibniz si occupa delle idee distinte, il cui contenuto può essere
determinato da una definizione universale. Le idee per Leibniz sono simboli della realtà che
rappresentano le relazioni che sussistono tra i singoli elementi del reale. Per von Tschirnhaus il
metodo leibniziano per la fisica permette di intuire Dio e di accomunarcisi perché capaci di
produzione. Il criterio vero-fatto assume un significato metodologico e grazie ad esso si profila, in
particolare dopo Vico, sia la questione dei poteri e dei limiti della conoscenza umana nei vari
contesti della conoscenza, sia quella delle differenze e delle relazioni tra verità di ragione e verità di
fatto, tra verità ideali e verità contingenti.
129
B. SPINOZA, Etica, II , prop. 7.
114
Il vero-fatto dopo Vico
Risulta evidente che per affrontare la problematica del vero-fatto dopo la sistematizzazione di Vico
occorrerebbe distinguere il contesto nel quale si presenta l’influenza esercitata dal filosofo
napoletano e quello dove il criterio agisce autonomamente, seguendo altri percorsi. Ora, dal primo
punto di vista si accerta la presenza della riflessione vichiana in gran parte della tradizione
filosofica, soprattutto italiana, sia dove essa si occupa, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX
secolo, del motivo della filosofia civile, della ricerca delle leggi dello sviluppo intellettuale e civile
nella società, sia dove essa influenza le riflessioni di autori come Spaventa e Gentile. In un testo
molto noto di Lessing del 1778 la verità è definita come lo sforzo sincero che l’uomo impiega per
conquistarla. Tuttavia, ciò che va rilevato è che, come dimostrano le riflessioni di Voltaire,
comincia un nuovo orientamento storiografico che mette al centro il giudizio sulle azioni e sulle
opere, in modo tale che conoscere la storia vuol dire prendere contatto con i valori morali e politici
che gli uomini hanno dispiegato nel loro agire, cioè orientandosi verso la realizzazione dello spirito
del tempo, che è poi rappresentato dalla tensione verso un’età della ragione, nella quale si assiste al
progresso dell’umanità. Kant, Herder, Fichte, Schelling, Friedrich Schlegel, Hegel, Schleiermacher,
Humboldt, Ranke, Dilthey, York von Warterburg, sono autori che hanno contribuito all’indagine sul
rapporto tra l’umano e il divino, dove la limitazione del fare e del conoscere dell’uomo necessita
della relazione con l’infinito che si esprime nel finito, manifestando un nuovo orientamento sulla
questione del vero-fatto. I veri neo-scolastici nel senso forte della parola sono Kant e Hegel in
quanto hanno elaborato il principio della filosofia moderna e cioè il concetto dell’unità dello spirito
con la natura, ossia dell’unità ideale del mondo e il concetto vero della libertà, che era stato avviato
a consapevolezza da Bruno e Campanella e poi, seguendo la loro scoperta, da Galileo e Bacone. Il
principio della filosofia moderna ha sistematicamente risolto la contraddizione implicita nelle
esigenze dello spirito religioso, riducendo cioè l’opposizione alla vita concreta o sviluppo dell’unità
115
dell’uomo con Dio, del finito con l’infinito.130 Infatti, è questa una questione che ha il suo
cominciamento in Vico per il ruolo che nella sua riflessione svolgono la Provvidenza e la religione,
la quale è la base dell’umanizzazione dell’uomo e della convivenza civile, in modo tale che è
possibile riconoscere che la dignità umana ha il suo presupposto nella capacità di stabilire una
relazione col divino, dove vero e fatto si convertono.
Tra questi la maggior comparsa vi fa un altare, perché 'l mondo civile cominciò appo tutti i popoli con le religioni,
come dianzi si è divisato alquanto, e più se ne diviserà quindi a poco.131
Ciò può succedere solo tenendo ferma la distinzione tra verum creatum e verum increatum, dove il
generare di Dio non è inglobato nella storia e la ragione umana è impronta della ratio aeterna. Nello
Esprit des lois di Montesquieu si utilizza il criterio vero-fatto per presentare il generale disegno
razionale del mondo umano nella sua interezza. Helvétius, accentuando i tratti fisicalisticodeterministici della teoria montesquieuiana , scopre l’esprit come sfera complessa di natura sociopolitica e culturale che condiziona gli uomini nel loro essere e nel loro fare, eliminando la
possibilità di analizzare l’individuo per sé, ma contestualizzandolo in una rete di relazioni che lo
legano al mondo, mettendo in evidenza la sua proiezione sociale, economica e storica. Il
protagonista del romanzo di Daniel Defoe, Robinson Crusoe, fornisce all’Emilio di Rousseau il
modello di un individuo che si fa da sé e che così diventa il criterio della sua stessa unicità e verità,
anche se, secondo Cassirer, nel ginevrino l’elogio dello stato di natura è la definizione di un criterio
normativo più che il vagheggiato ritorno a tale stato. L’uomo non è né buono né cattivo, il suo
essere e la sua forma non sono determinati, ma devono essere forgiati dalla società, per cui, dinanzi
alla questione della teodicea, Rousseau crea un nuovo soggetto della responsabilità, che è la società.
Come ha affermato Cassirer, la soluzione di Rousseau alla questione della teodicea sta nell’aver
tolto il peso della responsabilità a Dio, per farlo pesare sulla società e sull’uomo, il quale deve
diventare sia il creatore di se stesso in senso morale, sia del suo mondo. Tuttavia è con Kant che il
fare come condizione del conoscere arriva alla formulazione più completa, serbando in sé anche
l’aspetto del volere e della libertà. Come ha osservato Croce, è stato Jacobi, nella sua opera Le cose
divine e la loro rivelazione, a mettere in evidenza l’ascendenza vichiana nella filosofia di Kant,
poiché l’oggetto può essere concepito solo se trasformato in un contenuto di pensiero, solo se
130
F. TESSITORE, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di storia e letteratura, Roma,
2002, p.212.
131
G. VICO,op. cit. p. 53.
116
prodotto dall’intelletto. Kant, riflettendo sulla rivoluzione causata dalla scoperta della matematica
come una scienza, dove le proprietà delle figure geometriche sono costruttivamente poste dal
geometra con concetti apriori, lega tale svolta nel pensiero scientifico a quella avvenuta nella
scienza naturale grazie a Bacone e Galileo, Torricelli e Shal. La ragione creativa di Kant può
riconoscere solo i fenomeni, ciò che essa stessa ha prodotto, come succede nella costruzione delle
figure geometriche che sono un’attività trascendentale dell’immaginazione con una modalità che si
estende alla filosofia critica. Proprio da tale prospettiva, come è stato affermato da Otto, il criterio
di convertibilità si riconduce alla questione trascendentale, poiché i due momenti della conversione
sono omogenei, stanno su uno stesso ed unico piano ontologico. Di qui i due modi con i quali, per
Kant, la conoscenza razionale si riferisce al suo oggetto, e che stabiliscono la distinzione tra la
ragione teoretica e quella pratica e storica, dove la prima, legata all’esperienza possibile, si volge
alla determinazione, mentre la seconda al tentativo di rendere reale l’oggetto, che è diverso rispetto
allo spirito pensante, per cui è un fatto della ragione pratica con il quale l’etica si dà in effetti e si
può concepire la coscienza della legge morale come reale e capace di annunciare la capacità
normativa della ragione.
Ora, in quanto in queste deve aver parte la ragione, e necessario che in esse qualcosa sia conosciuto a priori; e la sua
conoscenza si puo riferire al loro oggetto in doppia maniera: o semplicemente per determinar questo e il suo concetto
(che deve esser dato d'altronde), o per realizzarlo. L'una e conoscenza teoretica della ragione, Paltra pratica. Dell'una
e dell'altra e necessario che la parte pura, ampio o ristretto che ne sia il contenuto, cioe quella nella quale la ragione
determina il suo oggetto interamente a priori, sia esposta dapprima da sola, e cio che proviene da altre fonti non vi
deve essere menomamente mescolato; giacche e cattiva amministrazione spendere alia cieca tutti gli introiti, senza
poter poi distinguere, quanto si sia in imbarazzo, qual parte di essi possa sopportare le spese e quale richieda che si
limitino.132
Per Kant la conoscenza empirica può essere scienza grazie alla possibile connessione tra razionale fattuale, in modo tale che la stessa distinzione tra conoscenza razionale e storica vada concepita
metodologicamente. La filosofia della storia, per uscire dall’opposizione tra ragione teoretica e
pratica, ha la necessità di applicare alla storia la teleologia. In Goethe il genio si muove solo sulla
base di una forza propria, immediata generatrice. L’immagine dell’artista si innalza all’immagine di
un liberatore che si eleva alla bellezza originaria, cioè svela all’umanità l’archetipo eterno, e
facendo così porta sulla terra più di Prometeo la beatitudine degli dèi; ossia, divino e umano
132
I. KANT, Critica della ragion pura, Pref. alla II ed., p.14.
117
conciliati. La convertibilità vero-fatto si declina in varie modalità, diversamente legate allo
storicismo: quella idealistica che vede la storia come Arbeit des Begriff, poi rovesciato dalla
concezione marxiana fino al positivismo e al pragmatismo, per poi arrivare a quella che studia
l’uomo come Arbeiter der Geschichte. In Fichte l’attività dell’io tende verso un volontarismo che
vuole dominare la natura facendo trionfare l’io e accomunando ogni alterità. Come ha sostenuto
Bodei, l’imperativo fichtiano è racchiuso nel motto “produci te stesso conoscendoti”, in modo tale
che il gigantismo dell’io, che apre nuovi spazi d’azione, finisce col porre l’io al centro e solo a
partire da esso si può operare per trasformarsi e trasformare il mondo. Il gigantismo dell’Io e la sua
pretesa di autoriproduzione partenogenetica può essere diagnosticato in controluce non tanto come
ipertrofia del soggetto, quanto come formazione reattiva al dissolversi della stabilità dell’oggetto,
come allentarsi dei precedenti condizionamenti.133 Se, grazie ad una tale identità con se stesso, l’io è
costretto a operare nel mondo per adeguarlo alla ragione, a dominare tutto ciò che è esterno per
spadroneggiare liberamente secondo la propria legge, da un’altra prospettiva dell’evoluzione storica
dell’idealismo si può dire che continua ad agire una rappresentazione cristiana della storia. Sono,
però, la pagine della Fenomenologia dello spirito di Hegel, della storia della coscienza umana,
quelle che meglio esprimono la produzione-trasformazione dello spirito e la sua distinzione
dall’idea di costruzione di Schelling. Per quanto riguarda lo spirito soggettivo Hegel stesso si
preoccupa, in apertura della relativa sezione nella Philosophie des Geistes, di distinguerne e
limitarne la trattazione rispetto a quella propria delle scienze della logica; lo spirito soggettivo, lo
spirito che si sviluppa nella sua idealità è lo spirito in quanto conoscente. 134 E, a tal proposito, non a
caso sin dall’inizio della Fenomenologia Hegel distingue tra la filosofia e gli altri tipi di scienze,
come ad esempio la matematica, mostrando come in quest’ultima il processo da cui vien fuori il
risultato sia solo un mezzo della conoscenza, mentre nella ragione questo è il divenire e il
configurarsi stesso della scienza. Nella Prefazione, il vero è l’intero, l’essenza che si completa
attraverso il suo sviluppo, che vuol dire che l’Assoluto solo alla fine è ciò che è in verità, poiché la
sua natura è di essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso. La ragione è aristotelicamente
l’operare conforme a uno scopo e il vero è sostanza e soggetto. Il fare dello spirito non sta mai in
quiete, la sua vita è il travaglio del negativo, cioè il movimento del riflettere in se stesso,
l’inquietudine del Sé. La realtà è il frutto del fare dell’autocoscienza agente, nel senso di
un’autocoscienza universale capace di penetrare l’opacità della cosa e di farne l’effettualità e
l’oggettività del proprio operare, la propria (autentica) realtà. Pretendere di elevarsi alla conoscenza
dell’operare dello spirito con l’osservazione del materiale, vuol dire esporsi al paradosso, che Hegel
richiama nella Fenomenologia nelle pagine dedicate alla fisionomica e alla frenologia, secondo il
133
134
R. BODEI, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Torino , Einaudi 1987, p. 129.
V. VERRA, Su Hegel, Bologna, Il Mulino, 2007, p.155.
118
quale lo spirito equivale ad un osso. E se, nell’Enciclopedia, sin dall’inizio la distinzione tra l’uomo
e l’animale è individuata aristotelicamente nel possesso del pensiero, essa è qualificata oltremodo
nell’affermazione secondo la quale l’uomo sa quello che è e quello che fa. Anche nella storia c’è
una ragione che, secondo la filosofia della storia di Hegel, elimina l’accidentale, il particolare fine
finito, per ricercare lo scopo ultimo, il razionale in sé e per sé. Solo lo Spirito comprende lo Spirito,
e quindi la comprensione del senso del fare si realizza nel concetto, nella filosofia. Marx, se da una
parte, ha criticato l’impostazione hegeliana nel suo concepire tutti gli enti ideali come
un’alienazione del pensiero astratto che chiude il movimento dello spirito nella conoscenza
assoluta, dove il filosofo è la norma, la misura del mondo alienato e tutta la storia dell’alienazione e
della sua revoca non è altro che la storia della produzione del pensiero astratto, cioè assoluto, del
pensiero logico, speculativo; dall’altra egli ha riconosciuto la centralità della Fenomenologia nella
dialettica della negatività come principio motore e creatore, quindi nel fatto che Hegel concepisce
l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e
soppressione di tale alienazione; che egli quindi arriva all’essenza del lavoro e concepisce l’uomo
oggettivo, l’uomo vero perché reale, come risultato del suo proprio lavoro.
In Hegel vi è un duplice errore. Il primo si rivela con la massima chiarezza nella Fenomenologia, questo luogo
d'origine della filosofia hegeliana. Quando egli, ad esempio, concepisce la ricchezza, il potere statale, ecc., come enti
resi estranei all'essere umano, ciò accade soltanto nella loro forma ideale... Essi sono enti ideali, e quindi sono
puramente e semplicemente una estraniazione del pensiero filosofico puro, cioè astratto. Tutto il movimento finisce
perciò nel sapere assoluto. Ciò da cui questi oggetti sono alienati e a cui si contrappongono con la pretesa di essere
oggetti reali, è appunto il pensiero astratto. Il filosofo - e dunque proprio una forma astratta dell'uomo estraniato - si
pone come misura del mondo estraniato. Tutta intera la storia dell'alienazione e tutta intera la revoca di questa
alienazione non è quindi altro che la storia della produzione del pensiero astratto, cioè assoluto, del pensiero logico
speculativo. L'estraniazione che costituisce perciò l'interesse proprio di questa alienazione e della soppressione di
questa alienazione, è l'opposizione, all'interno dello stesso pensiero, tra l'in sé e il per sé, tra la coscienza e
l'autocoscienza, tra l'oggetto e il soggetto, cioè è l'opposizione tra il pensiero astratto e la realtà sensibile o la
sensibilità reale. Tutte le altre opposizioni e tutti gli altri movimenti di queste opposizioni non sono che l'apparenza,
l'involucro, la forma essoterica di queste opposizioni, che sono le uniche interessanti e costituiscono il senso delle altre
opposizioni, delle opposizioni profane. Come essenza posta e quindi da sopprimere dell'estraniazione vale [per Hegel]
non già il fatto che l'essere umano sioggettivizzi in modo disumano, in opposizione a se stesso, ma il fatto che si
oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero astratto.135
135
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, XIII.
119
L'importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale - la dialettica della negatività come principio
motore e generatore - sta dunque nel fatto che Hegel concepisce l'autogenerazione dell'uomo come un processo,
l'oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di questa alienazione; che in
conseguenza egli intende l'essenza del lavoro e concepisce l'uomo oggettivo, l'uomo vero perché reale, come il risultato
del suo proprio lavoro. Il comportamento reale, attivo dell'uomo con se stesso come essere che appartiene ad una
specie, o la attuazione di sé come essere reale appartenente ad una specie, cioè come essere umano, è possibile
soltanto quando egli esplica realmente tutte le forze proprie della sua specie - ciò che di nuovo è possibile soltanto
attraverso l'opera collettiva dell'uomo, cioè solo come risultato della storia -, e si riferisce ad esse come a oggetti, ciò
che
anzitutto
L'unilateralità
e
è
possibile
di
nuovo
il limite di Hegel esporremo
della Fenomenologia intorno al sapere assoluto:
ora
un
soltanto
distesamente
capitolo
che
nella
forma
con riferimento
contiene
sia
lo
dell'estraniazione.
al capitolo finale
spirito
concentrato
della Fenomenologia, e il suo rapporto con la dialettica speculativa, sia anche la consapevolezza che Hegel ha di
entrambe
[la
fenomenologia
e
la
dialettica]
e
del
loro
rapporto
reciproco.
In via preliminare anticipiamo ancora soltanto questo: Hegel si è posto dal punto di vista dell'economia politica
moderna. Concepisce il lavoro come l'essenza, come l'essenza che si avvera dell'uomo; egli vede solo il lato positivo del
lavoro, non quello negativo. Il lavoro è il divenire-per-sé dell'uomo nell'ambito dell'alienazione o come uomo alienato.
Il solo lavoro che Hegel conosce e riconosce, è il lavoro astrattamente spirituale. Quindi quel che costituisce in
generale l'essenza della filosofia, l'alienazione dell'uomo che conosce se stesso o la scienza che pensa se stessa
alienata, Hegel concepisce come la sua essenza, e quindi può di fronte alla filosofia precedente ricapitolarne i diversi
momenti e presentare la sua filosofia come la filosofia. Quello che gli altri filosofi hanno fatto - concepire i singoli
momenti della natura e della vita umana come momenti dell'autocoscienza e più precisamente dell'autocoscienza
astratta - Hegel lo sa in base al fare della filosofia; perciò la sua scienza è assoluta.136
La filosofia marxiana realizza quel rovesciamento che permette di studiare gli uomini reali,
operanti, così come sono condizionati da un dato sviluppo delle loro forze produttive e dai rapporti
che vi corrispondono fino alle loro formazioni più ampie. Cioè non si parte da ciò che gli uomini
dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta
che siano, per giungere da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e a
partire dal processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi ideologici di tale
processo di vita.
Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo
materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la
religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non
conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che
sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà,
136
Ibidem, XXIII.
120
anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina
la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che
corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come
la lorocoscienza. Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne
scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma
nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene
rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi
che sono anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti. Là dove cessa la
speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del
processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere
reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza. Al suo posto può tutt’al
più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli
uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire
soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non danno
affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possano ritagliare e sistemare le epoche storiche. La
difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un’epoca passata
che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non
possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e
dell’azione degli individui di ciascuna epoca. 137
Seppur nel riconoscimento della vita biologica come storicizzata, incardinata sull’attività degli
esseri viventi, Marx, aderisce ad una concezione attivistica nella quale gli uomini sono i creatori
della propria storia e le stesse forze di produzione, che si sviluppano sotto l’impulso della necessità,
sono riconosciute sulla base della considerazione della storia umana. Proprio un tale punto di vista
attivistico del processo di sviluppo si avvicina ad un conoscere facendo, poiché la storia
dell’umanità si configura come svolgimento delle forze produttive, le quali sono creatrici attive e
consapevoli. Se la scienza naturale diventa storica, quando si rivolge alla storia della tecnologia
naturale, la scienza dell’uomo assume le stesse caratteristiche solo incentrandosi sulla storia degli
organi produttivi non tralasciando il fatto che sono gli uomini a fare la storia della società umana.
Diversamente da Feuerbach, quindi, che rimane naturalista ponendo l’umanità in lotta e in relazione
solo con la natura, Marx passa alo storicismo, poiché l’umanità è in lotta con se stessa, con le sue
creazioni storiche, arrivando così ad una visione della continuità che si lega all’opposizione,
dell’unità che s’identifica con la stessa dialettica della prassi umana, della storia. Il punto di
divergenza tra Vico e Marx sembra questo: che tra l’attività e il suo mondo per Marx c’è perfetta
coincidenza, per Vico c’è per così dire uno scarto; e in questo scarto, tra il punto di partenza e i
137
K. MARX, Ideologia tedesca, II.
121
punto d’arrivo, si insinua il problema della Provvidenza che è il vero gran problema. 138 Se in SaintSimon il progresso sociale e politico è garantito dalla collaborazione tra l’uomo e Dio, in modo tale
che il fare, il lavoro, ha un senso che si può comprendere con l’intelligenza divina, così che la
costruzione della nuova società ha come fondamento una politica intrisa di religiosità, è a partire da
Comte e dalla sua fisica sociale che prevale la centralità dello spirito scientifico e la questione
metodologica delle norme di costruzione delle teorie scientifiche. La consapevolezza della
differenza tra conoscenza della natura e conoscenza del mondo umano come opera del suo stesso
conoscitore pone la filosofia della storia di Vico su di un piano differente dalla fisica sociale di
Comte.139 Uno studio delle generalità scientifiche è legato alla definizione delle leggi logiche dello
spirito umano, poiché solo la filosofia positiva può, per Comte, mettere in evidenza l’impossibilità
di conoscere i processi razionali a partire dall’osservazione interna. Dalla prospettiva delle scienze
sperimentali l’esperimento va completato con la comparazione, come succede nella sociologia,
dove i limiti dell’indagine comparativa sono superati con l’introduzione di un metodo storicogenetico capace di far comprendere la formazione delle serie sociali. Ciò causa uno spostamento dal
senso della conoscenza al senso dei fatti e quindi, come ha affermato Habermas, l’oggettivismo, che
fa rispecchiare alle scienze un in-sé di fatti ordinati secondo leggi e cela così l’istituzione apriori di
tali fatti, non può più essere superato dall’esterno, dalla prospettiva di una restaurata teoria della
conoscenza, ma solo con una metodologia che trascende i propri limiti. La più convinta
utilizzazione del paradigma positivistico di una scienza universale delle leggi dei fenomeni è stata
tentata da Bucale nella History of Civilisation in England, criticata da Droysen per il rifiuto,
connaturato alla storiografia positivistica che si rifà al modello delle scienze naturali, di spiegare la
metodologia e la struttura del proprio oggetto. Bucale, infatti, concepisce le scienze dello spirito
come generalizzazioni nella storia e verificabili con la deduzione da leggi universali della natura
umana, subordinando le scienze dello spirito alle scienze naturali e presupponendo per la natura e la
storia la stessa costanza dei fenomeni. Ma è la critica alla concezione buckleana di storia portata
avanti da Stuart Mill ad individuare una questione vicina al conoscere facendo, soprattutto perché la
sua concezione di esperienza è determinata diversamente da quella di Comte. Infatti, alla struttura
logica e gerarchica della conoscenza comtiana, il cui compito sta nella formulazione delle leggi che
sono espressioni di determinati rapporti enunciati grazie al pensiero connettivo, Mill sostituisce una
concezione dell’esperienza come un aggregato che acquisisce sempre maggiore estensione per
mezzo del processo di induzione. E la centralità del punto di vista milliano è confermata dal fatto
che la sua prospettiva filosofica sta al centro della riflessione di quegli studiosi italiani, come Villari
138
G. CAPOGRASSI, “Prassi che rovescia” o “prassi che si rovescia”?Postilla a R. Mondolfo, in ID., Opere, vol. IV,
Giuffrè 1959 p.92.
139
G. A. DI MARCO, op.cit., p. 249 n.
122
e Gabelli, i quali ricercano nel fare piuttosto che nella speculazione la soluzione ai problemi della
loro epoca. In ogni caso l’idea di ridurre la nozione di causa ad una teoria dell’induzione, e quindi la
possibilità di stabilire solo cause fisiche, permette a Mill di scoprire vichianamente le uniformità
naturali come un tessuto nel quale si intreccia un’infinità di fibre capace di mostrare i fenomeni
come elementi di un ordine collettivo composto da sequenze particolari, dove l’antecedente è la
causa e l’effetto il conseguente invariabile. La generalizzazione dell’esperienza compiuta
dall’induzione mette in evidenza dei nessi di successione uniforme nella natura e si rivela così
conforme a leggi determinate. Nella storia universale prodotta dall’azione dei popoli e degli Stati si
trovano molte suggestioni che, pur considerando i diversi orientamenti, sono rilevabili in autori
come Humboldt, Ranke, Droysen, scopritori di potenze operanti e creative che, alla libertà delle
creazioni tentano di accompagnare la ricerca di leggi uniformi. Per la conoscenza è possibile
costruire il proprio oggetto anche con una ricostruzione ideale, realizzabile con il linguaggio, che
trasforma gli oggetti in avvenimenti con un senso, in modo tale che sia da una prospettiva ideale, sia
da una fisica, gli uomini fanno gli oggetti che conoscono con un fare che opera su un materiale
preesistente. E sebbene essi li facciano, a dire il vero, certamente non dal nulla, ma traendoli da
esistenze precedenti. L’errore dell’idealismo è quello di convertire un’operazione di trasformazione
in un atto di creazione originale e finale.140 Il discorso di Dewey sulla matematica ha messo in
evidenza che, nonostante la sua capacità di astrazione, essa è creata dalla mente, in modo tale che
così come l’uomo è capace di manipolare gli oggetti può, con l’introduzione di concetti universali
logici, creare nuovi significati che valgano anche per la realtà sociale, dove l’uomo conosce ciò che
costruisce intenzionalmente. Come ha affermato James si è ancora in una concezione dove la verità
si esprime con la corrispondenza con l’oggetto. Compito del pensiero è giudicare gli oggetti come
virtualità di ciò che essi diverranno grazie ad una determinata operazione, in modo tale che il
materiale fornito dall’esperienza sia costruito in maniera nuova e riconosciuto in tale nuova forma.
Infine, un altro breve cenno va dato alla teoria di Peirce, il quale ha contribuito al superamento
dell’orientamento oggettivistico del vecchio positivismo insistendo sull’idea che la metodologia
debba chiarire la logica del processo con il cui ausilio l’uomo ottiene teorie scientifiche. Un altro
percorso da compiere è quello dei temi dell’azione e dell’evento, nonché dell’elaborazione di una
critica della ragione storica che ha avuto in Dilthey uno dei teorizzatori, in particolare in
un’indagine sui modi in cui è possibile una comprensione delle oggettivazioni della vita concepita
come totalità produttiva della prassi umana. Dilthey utilizza Vico per la fondazione delle
Geisteswissenschaften, per la nascita di una scienza storica moderna, dove l’ermeneutica è il
modello scientifico che consente la comprensione storica. In Meinecke c’è una dimensione
140
A. CHILD, op.cit., p.53.
123
dell’uomo nella quale si situa la sua tensione nel creare, ma ciò che egli fa, i valori che costruisce,
hanno una dimensione storica, sono l’espressione del mondo storico e della persona, garantita dalla
coesistenza della libertà individuale con le connessioni causali. L’individuo artefice e fermento
della storia si inserisce in un mondo esterno e storico, fatto da altre personalità, oggetti e tradizioni
con cui è in rapporto, che, invera la sua attività e volontà, il suo fare, in modo tale che la stessa
verità storica che egli ricerca deve essere sempre creata in successivi moti dello spirito che ricerca,
la cui soggettività deve essere la fonte e il freno della conoscenza. Gli scritti di Husserl hanno
segnato una novità rispetto al neokantismo, poiché il carattere costruttivo e matematizzante della
scienza è stato sostituito da una concezione in cui l’atto conoscitivo si risolve nell’intuizione delle
essenze non riducibile alla conoscenza scientifica, ma come incontro con le cose in carne ed ossa.
Se la sostituzione della Anschauung alla scienza, concepita come il modello a partire dal quale
costruire il mondo dell’esperienza secondo strutture matematiche, è un esito innovativo rispetto ai
limiti del trascendentalismo neokantiano, la fenomenologia husserliana è rilevante per la definizione
dell’intenzionalità della coscienza, soprattutto dove essa vuole definire il rapporto che sussiste tra la
relazione ideale della coscienza e degli oggetti e la relazione reale della vita psichica e del mondo
nella sua effettività. Infatti, l’intenzionalità non è da intendersi solo come una struttura statica della
coscienza, ma ha una funzione dinamica, è, cioè, un’intenzionalità fungente, coscienza di, capace di
costituire l’oggetto e di permettere un movimento di apertura al mondo, dove proprio il
conferimento di significato è da intendersi come un’attività costitutiva. Tuttavia, uno degli esiti del
distacco dalle Ricerche logiche e della conseguente svolta trascendentale della fenomenologia
husserliana è l’approfondimento della distinzione tra conoscenza scientifica e conoscenza filosofica,
dove la prima, non riflettendo adeguatamente sulle condizioni di possibilità della conoscenza,
chiede alla seconda qualsiasi considerazione sul fatto di conoscere, in modo tale che sta alla
filosofia chiarire e risolvere, indagando sull’essenza della conoscenza, le questioni che
appartengono alla correlazione tra la conoscenza, il suo senso e l’oggetto della conoscenza. Di qui
la necessità della costruzione del processo conoscitivo come fondato sulla epoche, la quale muta il
segno dell’oggettività trasformandola da cose del mondo in fenomeno della conoscenza, ossia non
più qualcosa di reale in termini naturalistico-psicologistici, ma il puro fenomeno percettivo così
come si dà e nei limiti in cui si dà, dove il fenomeno percepito sta insieme al suo correlativo senso
intenzionale, cioè trascendendo l’oggetto nella sua determinazione spaziale, e indipendentemente
dal soggetto. Il tentativo di Husserl, quindi, va nella direzione di arrivare al dato oggettivo, il
factum, nella sua purezza ed evidenza, costruendone l’essenza con gli atti intenzionali e i vissuti
della temporalità, cioè con gli atti di pensiero che soli sono capaci di dare effettivamente la cosa
stessa. In ogni caso va rilevato che se nelle Idee Husserl ha elaborato la distinzione tra contenuto
124
reale ed ideale con la definizione dei concetti di noesi e di noema, è solo ne La crisi delle scienze
europee che il discorso, incentrandosi sul tema del senso dell’esperienza originaria dell’uomo,
dell’esperienza della Lebenswelt, e dell’esclusione della scientificità obiettiva, permette lo
schiudersi dell’orizzonte di una conoscenza prescientifica, in cui la coscienza intenzionale si ripiega
in una nuova dimensione, nella quale essa si scopre fungente solo come intersoggettività.
L’oggettività della scienza si fonda nella relazione tra l’ipotesi e la sua verificazione, cioè rimanda
ad un’idea limite per mezzo della quale essa non è più determinata da un’accumulazione
progressiva delle conoscenze, ma procede da una causalità universale idealizzata, disposta
all’infinito, pensabile cioè solo come una verificazione legata a un infinito processo storico di
approssimazione. Il rovesciamento causato dalla filosofia kantiana, per cui l’uomo è soggetto della
rappresentazione e nella natura c’è l’oggetto rappresentato, è concepito da Heidegger come l’atto di
nascita dell’epoca moderna, come il tempo dell’immagine del mondo, dove la natura è qualcosa
solo se è oggetto, se è messa di contro ad un soggetto la cui attività è quella di rappresentare
l’oggetto, nel metterselo davanti. Il dominio della tecnica impone che l’uomo e la natura siano
inseriti nel suo orizzonte per poi togliere all’uomo qualsiasi dominio, poiché l’uomo non è più
capace di percepirsi al di fuori del mondo ordinato dalla tecnica, fuori cioè dalla visione del mondo
che definisce la natura della cosa. Ora, secondo Mazzarella, in questa irriducibilità dell’uomo a puro
fondo si può scorgere la possibilità di un rapporto libero dell’uomo con la tecnica, la possibilità di
una liberazione dal dominio della tecnica, dall’assoggettamento ad essa. Il che si può fondare in una
sconnessione della coestensività di tecnica e disvelamento e nell’assunzione di essa come un modo
del disvelamento vigente nei suoi limiti, dalla cui pretesa egemonica bisogna appunto guardarsi
come il pericolo dell’epoca della tecnica. Questo comporta poi il rinvio dell’essenza della tecnica
alla physis come disvelamento originario, disvelamento producente, poiesis, e chiama il pensiero a
un recupero dell’originario disvelamento, il quale però nell’epoca in cui questo disvelamento si
oblitera non metta da parte la tecnica, ma sappia collocarla nel suo spazio, che è un essere alla sua
altezza.141 Il lavoro di Cassirer si svolge soprattutto nella storia e nel linguaggio, che sono le
modalità principali con cui si dà la realtà effettuale, legata ad una concezione nella quale agisce
un’interpretazione di Kant in senso funzionalistico. In sintonia con von Humboldt, il centro della
problematica cassireriana diventa quello della costituzione dell’oggettività in quanto condizionata
dalle categorie della conoscenza, per cui la filosofia trascendentale è la ricerca del come del
giudizio sintetico sull’oggetto, della legalità specifica della conoscenza a cui va ridotta ogni forma
di esperienza, sia teoretica sia etico o estetica. Così Cassirer opera uno spostamento del
trascendentale kantiano verso il fare, il creare, l’agire con forme ed energie formatrici, e il
G. CANTILLO, Presentazione, in E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell’effettività: prospettive ontiche
dell’ontologia heideggeriana, Napoli, Guida 2001, p.10.
141
125
criticismo ha il suo centro nell’autonomia dello spirito, di cui la conoscenza è solo una possibile
direzione. Ed è con tali questioni che si passa da una filosofia trascendentale ad una filosofia delle
forme simboliche, dove il fondamentale primato della funzione rispetto all’oggetto consente a
Cassirer di dare nuova forma alle funzioni del pensiero logico-conoscitive, così come a quelle del
pensiero mitico, linguistico, estetico, e l’attività formatrice concepisce il mondo come compito
infinito, come un’oggettività sensibile spirituale, capace di trasformare la critica della ragione in
una critica della civiltà. Se la linea Vico-Kant-Goethe-Herder-Humboldt è quella centrale per la
fondazione cassireriana delle scienze della cultura, lo scopo fondamentale sta, diversamente
dall’orientamento di Cohen e Natorp, così come dai tratti tragici evidenziati da Rimmel, nella
definizione di una morfologia che ha come scopo di costituire il presupposto ineliminabile delle
singole scienze dello spirito, nelle quali non si tratta solo di limitarne la fondazione alla pur
necessaria definizione di metodi e processi di ricerca autonomi rispetto alle scienze naturali, né di
assegnare loro la datiti dei singoli fenomeni della storia della civiltà, ma di concepire ogni
contenuto della civiltà come fondato su un generale criterio formale, riducibile alla originaria
attività dello spirito. Sulla base di tale punto di vista è il simbolo ad assumere quel carattere
formale-trascendentale che si chiarisce nella questione filosofica della relazione tra storia e
concettualizzazione,
tra
attività
creativo-morfologica
dello
spirito
e
contenuti
storici
dell’oggettivazione di tale attività, per cui si può affermare che la formulazione cassireriana non sia
lontana dall’elaborazione dell’apriori storico empirico dello storicismo tedesco, poiché la
formazione simbolica è indagata nel suo doppio registro di funzione dell’attività creativa e, allo
stesso tempo, sintetica dello spirito e di fenomeno storicamente esperibile nelle fasi dell’evoluzione
della civiltà. In ogni caso se la cultura è un insieme di forme e l’uomo stesso si muove in un
universo di forme, comprese grazie ad altre forme, ciò che si intravede nello sviluppo della cultura è
lo stesso uomo in svariate espressioni e dietro svariate maschere, che è poi l’atteggiamento storico
ed antropologico della riflessione di Cassirer, il quale mostra che la relazione tra le forme
simboliche non è determinata solo nel loro nesso strutturale e funzionale, ma va individuato anche
nel loro divenire. Una filosofia della cultura concepita come filosofia delle forme simboliche deve,
quindi, rispondere ad una domanda antropologica, per cui se da una parte non può fare a meno della
metodica trascendentale, e l’antropologia filosofica deve trovare posto nelle forme simboliche;
dall’altra ciò che la filosofia delle forme simboliche può dare all’antropologia filosofica è una
risposta preliminare sull’essenza dell’uomo: l’uomo è l’essere capace di forma. Quindi, pur
inserendosi nel dibattito degli anni Venti con Scheler e Plessner, con Heidegger e Rimmel sulla
filosofia della vita e le questioni sul posto dell’uomo, un punto rimane fermo nella riflessione di
Cassirer: si deve restare nel medium della forma, per vedere in essa il criterio di legalità, il principio
126
formatore che si realizza fenomenologicamente nella totalità delle forme della cultura e che si
risolve nel principio identico del fare spirituale in cui sono radicate le forme simboliche. Del resto
per Cassirer il mondo della cultura è il mondo umano, poiché in esso tutte le potenze si riferiscono
ad un centro comune, l’animal symbolicum, dove l’accento cade sul simbolico poiché solo con esso
l’uomo può acquistare la conoscenza di sé. Se sembra evidente che la tecnica rientri nel principio di
dare forma, dischiudendo un nuovo mondo poiché con essa l’uomo costruisce il proprio mondo, il
proprio orizzonte di oggetti e l’intuizione del proprio essere, Cassirer, pur riconoscendo alla tecnica
tale compito di oggettivazione, e quindi la possibilità di comprenderla nell’attività formatrice dello
spirito, ha difficoltà a concepirla come una forma simbolica. Ed infatti il discorso sulla tecnica non
viene approfondito, poiché, pur riconoscendo la sua parte nella cultura spirituale, egli è consapevole
della difficoltà della sua riduzione a forma simbolica, così come la crisi della civiltà e la crescente
necessità di un orientamento etico, di una risposta della cultura a quella crisi, costringono Cassirer a
fare aperture e a fare connessioni che crepano la compattezza della critica della cultura in senso
kantiano. La crisi della civiltà costringe Cassirer ad interrogarsi sull’orientamento della cultura, a
ricercarne una garanzia etica e a ricollocarla kantianamente nella filosofia della storia. La crisi della
teoria della conoscenza e l’affermazione di una teoria della vita rappresentano il passaggio
progressivo dall’idea della filosofia come ricerca del senso dell’essere all’idea della filosofia come
discorso sul senso dell’esistere, in cui si situa anche la svolta dall’ontologia all’antropologia. Si
passa a un modello teorico alternativo alla filosofia tradizionalmente intesa in senso ontologico
come scienza generale dell’essere. Modello alternativo perché fondazione gnoseologica dei saperi
positivi resi concreti dalla funzione espletata dai soggetti cui essi servono, che li elaborano e se ne
servono. Insomma una filosofia come domanda sul significato dell’esistere, sul significato
dell’esperienza esistenziale.142 Da tale prospettiva il nucleo del discorso riguarda la domanda
kantiana “che cosa è l’uomo?”, e in particolare quegli orientamenti che, imperniandosi sulle analisi
diltheyane, e opponendosi all’atteggiamento heideggeriano, in autori come Plessner si sono
sviluppate in una antropologia filosofica nel suo significato di ermeneutica della vita. Plessner,
concependo l’uomo come eccentricamente posto nel suo ambiente, ha elaborato tre categorie
antropologiche: l’artificiosità naturale, l’immediatezza mediata e la posizione utopica ,
concependole come un’interpretazione delle espressioni umane desumibili dalla vita stessa e
comprese in rapporto all’unità originaria dell’uomo intero. L’antropologia filosofica plessneriana,
animata da una concezione dell’umano legata alla tradizione umanistica moderna, sembra, quindi,
aderire alla formulazione “l’uomo è ciò che fa” quando riconosce che la problematica
dell’antropologia filosofica sta nella Wesensbestimmung dell’uomo, dove la determinazione
142
F. TESSITORE, op. cit. , p.151.
127
dell’uomo coincide con la sua destinazione pratica, ogni rapporto pratico con l’uomo presuppone
una concezione teorica, e la teoria è orientata alla prassi e viceversa. Per Bergson la natura
inorganica è meglio conoscibile di quella organica; per Gehlen l’uomo, spinto dalla necessità di
sopravvivere, si impegna per modificare la natura piegandola ai propri fini e costruisce così una
seconda natura, un surrogato di mondo, artificialmente prodotto e reso idoneo ai propri bisogni.
Gehlen ricostruisce la genealogia della concezione del conoscere costruttore e della sua capacità di
far emergere geneticamente il suo oggetto in Aristotele, Hobbes, Vico, Kant, nel pragmatismo
americano, unica filosofia che per principio consideri l’uomo come essere che agisce. Inoltre la
tripartizione gehleniana del concetto di verità, solo all’ultimo trova espresso l’operare, la fecondità,
la verità di ciò che è riconosciuto, dove il ri-conoscere è risolvere problemi, combinando remote
esperienze e facendole sfociare in un singolo risultato, conferendo a quest’ultimo una varietà di
relazioni e una ricchezza di significati e orientandolo sul futuro e sul possibile. Dewey, Mead,
Parsone e Kluckhohn hanno concepito la cultura come un modello di comportamento con alla base
un sistema di valori a sua volta ricostruibile grazie al comportamento concreto. Tuttavia, in tale
contesto va tenuta ferma la considerazione secondo la quale, poiché un sistema di valori è un
costrutto concettuale, definire la cultura con modelli di comportamento o abiti sociali, ridurla a
sistemi di valori, significa attribuirle un carattere astratto. La critica alla filosofia husserliana mossa
da Heidegger introduce alla considerazione dell’ermeneutica come la disciplina filosofica che
scopre il proprio compito, in connessione con l’analitica esistenziale, ponendosi come ermeneutica
della fattività, dove il Verstehen è il modo d’essere dell’esistenza che disvela la propria finitezza.
Da tale prospettiva sono centrali le analisi che in Essere e tempo Heidegger svolge sull’Esserci
come situazionalità emotiva, come comprensione, nonché quelle sul discorso e il linguaggio, tutte
tese a mostrare l’originaria apertura dell’Esserci e la sua verità. Per Heidegger la comprensione è in
autentica quando essa è prodotto dell’interpretazione, cioè quando è concepita come appropriazione
di un significato concepito da un’alterità, dove invece ci si deve concentrare sull’interpretazione che
si fonda esistenzialmente nella comprensione, che vuol dire elaborazione delle possibilità progettate
nella comprensione. La coesistenza nel mondo di soggetto e oggetto è una forma di interpretazione
capace di affermare l’esistenza dell’in quanto originario dell’interpretazione ambientalmente
comprendente. E il fenomeno originario della verità è in rapporto con l’Esserci, poiché la verità
compresa nel suo senso più originario, è parte fondamentale dell’Esserci, in modo tale che c’è verità
solo finché l’Esserci è, e verità e non verità sono nell’Esserci. Ciò che però è il punto decisivo della
problematica è che la posizione heideggeriana sembra lontana dalle interpretazioni costruttive
dell’ermeneutica soprattutto a causa dei suoi aspetti nichilistici che, come ad esempio succede
nell’opera dell’ermeneutica compiuto nella tradizione, consentono solo di compiere il salto
128
nell’abisso della mortalità. L’impressione che ci fa il critico di essere più sapiente del poeta; la
difficoltà che proviamo a pensare ancora possibile la vita dell’opera d’arte una volta che essa sia
stata spiegata con l’impiego, separato o congiunto, dei vari metodi critici; in generale il venire in
primo piano della forza e dell’essenza nullificante del pensiero; tutti questi fatti non sono che la
manifestazione di un unico problema: è possibile un’ermeneutica che si metta realmente a
disposizione del suo oggetto senza ridurlo totalmente a sé? La critica letteraria, una volta che abbia
preso coscienza di questo sfondo metafisico ed epocale del problema dell’interpretazione, può
portare un contributo decisivo alla fondazione di un tale tipo di pensiero. Tuttavia, se, almeno
abbozzate, si conoscono le linee e le implicanze nullificanti e negative dell’ermeneutica
demitizzante, della Erklaerung, come si può definire in maniera positiva la via dell’ermeneutica che
si cerca? Heidegger, a cui ci si deve riferire come al pensatore che, in modo estremamente chiaro
almeno per ciò che riguarda la pars destruens, la critica del pensiero esplicitante, ha detto cose
decisive su questo argomento, fornisce anche indicazioni positive, sia pure alquanto oscure, per
trovare la via di questa nuova ermeneutica. Nel carteggio avuto con Emil Staiger a proposito
dell’interpretazione di una poesia di Moerike, egli dà una definizione del leggere che va tenuta
presente perché riassume un po’ il suo lungo sforzo per ripensare in maniera nuova il problema
dell’interpretazione: “ che cos’altro è leggere, se non raccogliere: raccogliersi nel raccoglimento in
ciò che, in quel che è detto, rimane non detto?”.143 Il carattere costruttivo è evidente nell’opera di
Gadamer, autore influenzato da Vico, in particolare dal tema del sensus communis e dal principio
della congenerità di soggetto e oggetto, dalla corrispondenza tra concetti ed esperienza, che sta alla
base, sulla scia diltheyana, proprio del criterio di convertibilità. In Verità e metodo Gadamer,
chiedendosi chi faccia la storia, nota che si conosce storicamente perché si è storici. Al di là della
presenza vichiana, anche in Gadamer è però possibile individuare una lettura originale del criterio
di convertibilità, poiché, il senso storico va indagato mettendo in evidenza l’apertura ermeneutica
dell’uomo ad un circolo della comprensione condizionato fattivamente e storicamente, e quindi mai
concludibile. Gadamer sviluppa il tema dell’essere che è condotto al linguaggio aprendo se stesso,
in modo tale che la riflessione ermeneutica si realizza in relazione col linguaggio, che è capace di
disgelare il mondo, lo spazio che comprende e unisce i partecipanti in un gioco. Non andrebbe
tralasciata la centralità dell’arte come esperienza di verità, poiché, proprio contro quella mentalità
moderna che ha tentato di limitare la verità alle scienze matematiche della natura, spicca il tentativo
gadameriano di sostituire alla nozione di verità come conformità della proposizione alla cosa, un
nozione fondata sul concetto di Erfahrung, cioè di esperienza come modificazione che il soggetto
subisce quando incontra qualcosa che è per lui importante, in modo tale che l’arte diventa
143
G. VATTIMO, Opere complete, volumi 1-2, Meltemi Editore , 2008, p.110.
129
esperienza di verità solo come autentica esperienza, cioè se l’incontro con l’opera modifica
l’osservatore. Esperienza è intesa così in un senso che si può illustrare con le risonanze del termine
tedesco Erfahrung: comprende cioè il riferimento a un Fahren, a un viaggiare che comporta
l’accumularsi di un bagaglio di nuove conoscenze e, soprattutto, un processo di modificazione della
fisionomia del soggetto, su cui le esperienze egli incontri fatti hanno lasciato la loro impronta. Che
nell’arte si dia un’esperienza di verità significa innanzitutto che l’incontro con l’opera, e prima la
stessa produzione di essa, sono eventi che modificano realmente coloro che vi si trovano coinvolti.
L’arte è così esperienza di verità perché è vera esperienza, cioè accadimento in cui avviene davvero
qualcosa. Tutta la trama complessa di questo accadimento di verità è descritta da Gadamer, in
Verità e metodo, con l’uso della nozione di gioco, e poi, quando il modello dell’esperienza estetica
è stato esteso all’esperienza storica in generale, mediante la nozione di fusione d’orizzonti. Il
modello di ciò che accade nella fusione d’orizzonti, e quindi anche nell’esperienza estetica, è il
dialogo. In un dialogo, l’intendersi non è mai semplicemente un trasmettere all’altro la propria
prospettiva, o un ricevere passivamente la sua; è invece il nascere di un novum, di un orizzonte
comune nel quale i due interlocutori si riconoscono: non in quanto si trovano quali erano, ma in
quanto si trovano di nuovo, cioè arricchiti e approfonditi nel loro essere. In questo senso, il modello
del dialogo implica anche un aspetto dialettico di tipo hegeliano: il novum che nasce nel dialogo è
anche sviluppo, conferma, ritorno presso di sé di ciò che era già. L’esperienza di verità che si attua
in tal modo è posta sotto il segno della continuità: l’altro che mi sta di fronte nel dialogo, e anche la
cosa che incontro, si presenta inizialmente come fattore di discontinuità, come rottura di un
equilibrio. Il dialogo è innanzitutto un fare i conti con questa novità, con l’alterità dell’altro, per
ricostituire la continuità che esso ha interrotto.144 A partire da Gadamer si può seguire una linea di
discorso capace di mostrare la ripresa del pensiero vichiano nella riflessione tedesca e la centralità
dell’orientamento costruttivo per l’ermeneutica. Ci si può riferire ad esempio agli studi di Apel, e in
particolare alla topica nella fondazione del metodo storico-ermeneutico e al riesame della funzione
costitutiva del mondo oggettivo del linguaggio, che è apertura dell’essere-nel-mondo. Si torna ad un
livello di pre-comprensione linguistica, ad una lingua pre-categoriale, poietica, che stabilisce sensi
immediati e all’orizzonte nel quale si è costituita storicamente la lingua della metafisica occidentale
e quindi la lingua logico-scientifica. Habermas, nel saggio Dottrina politica classica e filosofia
sociale moderna, ha confrontato Vico e Hobbes sul vero-fatto, individuando, il contributo della
concezione vichiana per la fondazione della scienza nuova della storia, cioè la scienza sociale dei
comportamenti critici di soggetti responsabili, legata ad una società che promuove la libera
comunicazione e scoperta estendendo il criterio del vero-fatto. Né a caso nella gradazione dei generi
144
ibidem, p.190.
130
o idee che esemplificano i percorsi umani di effettuazione della mente che conosce quanto fa, Vico
riserva una particolare attenzione agli storici utili che sono quelli che scavano le circostanze ultime
dei fatti e scoprono le cause particolari, fino al punto di ridurre la propria mente quasi in sudditanza
per la costante consuetudine con le cose al fine che la mente accolga le immagini delle cose nuove
quali sono in se stesse. Affermazione dove lo storicismo vichiano fonda la scienza della storia nella
narrazione di ea quae sunt sicut sunt, contro il pragmatismo dell’esemplarità: fatti e vicende sono
più facilmente percepiti da chi ha in mente idee semplici.145 Un ragionamento che, il primo
Habermas, porta avanti interrogando la possibilità della conoscenza dell’ambito della vita sociale in
rapporto all’agire politico, che vuol dire poi definire quali siano le condizioni capaci di realizzare
una conoscenza nell’azione politica individuando dei modelli normativi per agire praticamente. Lo
spostamento verso i processi sociali e le intenzioni del soggetto agente, permette di ricordare da una
parte, l’influenza della riflessione della scuola francofortese e la sintonia con Vico, in particolare
per il rifiuto di Horkheimer dell’idea dell’uomo come un prodotto deificato del processo storico, per
concepirlo, invece, come parte integrante di un processo costruttivo della propria libertà che
consideri i cambiamenti a cui è sottoposto come soggetto conoscente; dall’altra di tornare sulla
centralità del linguaggio, che a sua volta richiama la nozione di verità che, nel Tractatus logicophilosophicus Wittgenstein, ricercando la relazione tra linguaggio e mondo, concepisce come una
corrispondenza effettivamente esistente. Wittgenstein, infatti, spiega il modo in cui le espressioni
linguistiche assumono il loro significato affermando che il significato di una parola sta nell’oggetto
a cui essa si riferisce, e che una proposizione ha significato se corrisponde a una possibile
combinazioni di oggetti. Nel Tractatus logico-philosophicus si afferma che la totalità delle
proposizioni è il linguaggio e che comprendere una proposizione vuol dire sapere che accade se
essa è vera. La verità di una proposizione è data dalla corrispondenza esistente effettivamente, essa
è un fatto del mondo, e la verità è un rispecchiamento del mondo da parte del linguaggio. Con la
teoria della raffigurazione e con la distinzione tra stato di cose e fatto, Wittgenstein arriva a stabilire
il principio che un enunciato è vero se e solo se rispecchia un fatto, anche se va rilevato che egli
sembra andare verso una teoria della verità deflazionata, che, concependo il concetto di verità come
indefinibile, prova a emendarlo dagli elementi esterni ricadendo nel rischio di una perdita del
mondo. Le concezioni epistemiche stabiliscono un legame tra la verità e le facoltà cognitive, e
affermano che la verità debba essere definita sulla base della conoscenza attualmente disponibile,
poiché partono dalla convinzione che si possa conoscere qui e ora il valore di verità di enunciati e
teorie; le concezioni non epistemiche, invece, negano la possibilità di conoscere la verità e
sostengono che questa non possa essere oggetto di conoscenza, stabilendo una forma di scetticismo
145
F. TESSITORE, op. cit. , p.19.
131
sull’esistenza del mondo esterno. Ciò può essere utile per riflettere sulla revisione critica del
concetto di verità portata avanti dalle filosofie di Goodman e Rorty, che hanno messo in discussione
le categorie semantiche di significato, riferimento e verità in termini di corrispondenza. Va rilevato
che proprio sulla base delle teorie di Wittgenstein, e dei successivi sviluppi della filosofia analitica,
si è messa in discussione la tendenza a trasformare i concetti e i processi logico-linguistici in
etichette di oggetti, in modo tale che alla matematica, all’estetica, all’etica ecc. vengono fatti
corrispondere oggetti matematici, estetici, etici e via dicendo. Proprio la linea della filosofia
analitica che inizia da Wittgenstein per giungere a Rorty passando per Goodman ha insistito sul
fatto che la nozione di verità non costituisce più un oggetto o uno stato distinto, per assumere un
tratto nominalistico. Se per Wittgenstein, come per Rorty, la verità non rispecchia l’oggettività del
mondo come esso è in sé, ma è l’espressine storica del consenso condiviso dalla comunità
linguistica dei parlanti, la scienza, non è un riflesso speculare della natura, un’essenza rispecchiante,
ma è la costruzione attiva della comunità degli scienziati di un’interpretazione dei fenomeni fisici
portata avanti con il filtro di un paradigma, di un modello concettuale nel quale si mette in opera,
stabilendo un nuovo linguaggio e un nuovo armamentario di concetti, il puzzle solving, della
soluzione dei problemi. Le nozioni su cosa sia un filosofo sono così legate con il tentativo kantiano
di rendere misurabili tutte le affermazioni sulla conoscenza che è difficile immaginare cosa possa
essere la filosofia senza l’epistemologia. Più in generale, è difficile immaginare che qualsiasi
attività possa portare il nome della filosofia se non ha niente a che fare con la conoscenza, se non ci
sia in qualche senso una teoria della conoscenza, o un metodo per ottenere conoscenza, o almeno un
indizio su dove possa essere trovata la conoscenza. La difficoltà sorge da una nozione condivisa da
Platone, Kant, e i positivisti: che l’uomo abbia un’essenza, in particolare per scoprire le essenze. La
nozione da scandagliare, nella nostra essenza rispecchiante, e l’universo è complementare a tale
nozione, comune a Democrito e Cartesio, è che l’universo sia fatto di cose chiare e distinte
conoscibili, la conoscenza delle quali essenze fornisce il vocabolario base che permette l’analisi di
ogni discorso. Ermeneutica è il termine che denota tale tentativo.146 In tale ambito la svolta della
filosofia analitica segna il passaggio da una cultura della rappresentazione della realtà ad una
fondata sull’analisi, sull’illustrazione dei repertori linguistici, una cultura aperta alla varietà dei
linguaggi e delle pratiche sociali perché si sarà smesso di chiedersi se corrispondono a qualcosa di
non umano. L’immagine che imprigiona la filosofia tradizionale è quella della mente come un
grande specchio, contenente varie rappresentazioni, e capace di essere studiata da metodi puri e non
empirici. Senza la nozione della mente come specchio, la nozione di conoscenza come accuratezza
della rappresentazione non si sarebbe presentata. Senza quest’ultima nozione, la strategia comune a
146
R. RORTY, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, 2009, p. 357.
132
Cartesio e Kant non avrebbe avuto senso. Senza questa strategia nella mente, l’affermazione che la
filosofia consisterebbe di analisi concettuale o analisi fenomenologia o spiegazione del significato o
esame della logica dei linguaggi o della struttura dell’attività costituente della coscienza non
avrebbero senso. Wittgenstein ha rifiutato tali affermazioni, ed è stato seguendo la guida di
Wittgenstein che la filosofia analitica ha fatto progressi verso il post-positivismo. Ma la tendenza di
Wittgenstein a decostruire tali rappresentazioni necessita del supporto della consapevolezza storica
e in questo c’è stato un notevole contributo da parte di Heidegger. La maniera in cui Heidegger
racconta la storia della filosofia lascia intravedere gli inizi della rappresentazione cartesiana
riguardo alla filosofia greca e alle metamorfosi di tale rappresentazione negli ultimi tre secoli. Si
verifica cioè un distacco dalla tradizione.147 Solo con tale mutamento, che, invece di interrogare la
natura della realtà, si volge alle sue descrizioni, è possibile non curarsi più dell’oggettività, ma
occuparsi dell’intersoggettività, in un discorso che, coinvolgendo autori come Dewey e Habermas,
riduce la nozione di oggettività a quella di accordo intersoggettivo, o accordo ottenuto con libera e
aperta discussione di tutte le ipotesi e le scelte politiche disponibili. Un discorso normale è qualsiasi
discorso che incorpora criteri condivisi ottenuti tramite un accordo; un discorso anomalo è un
qualsiasi discorso che manchi di tali criteri. Il tentativo di spiegare la razionalità e l’oggettività in
termini di condizioni di accuratezza della rappresentazione è uno sforzo autoingannante di eternare
il discorso normale del giorno, e che, sin dalla filosofia greca, l’autorappresentazione della filosofia
è stata dominata da tale tentativo.148 La domanda per Rorty non è quale sia la natura umana, ma
quella su che cosa si possa fare di se stessi. Il fare e l’agire umano possono essere concepiti come
regolati da un criterio non in sé e per sé veritativo, ma fondato su principi come i diritti umani, le
nuove frontiere della genetica, la possibilità di sconfiggere le malattie sociali che, se da una parte
sono le condizioni per una migliore convivenza nel mondo, dall’altra fanno parte di quelle
conoscenze che sono capaci di migliorare la tecnologia, rendendo attuale la domanda filosofica
sulla costituzione del vivente. La teoria vichiana è rilevante anche per le scienze naturali con
l’epistemologia costruttivistica, o perlomeno in quell’accezione del costruttivismo che mette al
centro della riflessione epistemologica il ruolo degli ambiti storico-sociali e delle categorie
socialmente condivise. La Arendt critica il concetto di homo faber e il suo slittamento in quello
dell’homo laborans che, costretto dalle necessità della vita e dagli imperativi del consumo,
oltrepassa la sfera del fare ed è condannato a una perdita del mondo come spazio dell’azione
politica e della comunicazione. La Arendt critica le caratteristiche moderne dell’uomo, la mentalità
che privilegia lo sforzo teorico che sorge dal desiderio di creare l’ordine dal disordine, dalla
selvaggia varietà della natura; la preferenza dell’homo faber per modelli di cose da produrre che
147
148
Ibidem , p. 12.
Ibidem, p. 11.
133
sostituisce le nozioni di armonia e semplicità: secondo la Arendt, tutto ciò ha condotto l’uomo, una
volta uscito dalla rivoluzione della modernità, ad essere privato di quelle misure che precedono e
superano il processo di fabbricazione e creano un ente autenticamente assoluto rispetto all’attività di
fabbricazione. Sintomatico, da tale prospettiva, lo slittamento moderno dal che cosa al come, dalla
cosa stessa al processo di fabbricazione. Che ha fatto perdere all’uomo, artefice e costruttore, quelle
misure fisse che, prima dell’epoca moderna, gli erano sempre servite da guide nel suo fare e da
criteri del suo giudizio, o ancora l’insufficienza del criterio di utilità sostituito dal criterio della
maggior soddisfazione del maggior numero. Ciò che attende l’uomo per la Arendt è l’eliminazione
del lavoro dalle attività umane, e l’ultimo stadio della società del lavoro è individuato in una società
degli impiegati nella quale ai suoi componenti si chiede un duplice funzionamento automatico,
come se la vita individuale fosse stata inglobata dal processo vitale della specie e la sola decisione
attiva ancora richiesta all’individuo fosse di lasciar perdere, cioè di abbandonare la sua
individualità, la fatica di vivere avvertita personalmente, e di riposarsi in uno stupito, sereno, tipo
funzionale di comportamento. Secondo un tale punto di vista l’epoca moderna si potrebbe chiudere
nella più arida passività che la storia abbia mai visto. L’uomo moderno, che non ha perduto del tutto
le sue capacità, anche se esse si sono ridotte alla perizia dell’artista, può vedere negli scienziati
coloro che sono ancora capaci di agire, ma costoro, poiché non sono nel tessuto dei rapporti umani,
mancano del carattere di rivelazione dell’azione come della capacità di produrre storie, che formino
la fonte da cui sgorghi il senso che illumini l’esistenza, che ha come valore fondamentale il
riconoscimento della libertà politica. Nel nostro contesto è degno di nota come il senso comune sia
stato ingegnosamente sostituito con la logica stringente che è propria del pensiero totalitario. In altri
termini se il senso comune, senso politico per eccellenza, viene meno al nostro bisogno di
comprensione, siamo tutti sempre pronti a sostituirlo con la logica. Ma questa capacità umana,
intima, comune, senza alcun legame con il dato, non è in grado di comprendere niente e, lasciata a
se stessa, è completamente sterile. Pare di capire che non c’è luogo più appropriato all’esercizio
della memoria storica che la penombra della sfera pubblica dove sempre si mostra la capacità
dell’azione.149 La trasformazione del modello di homo faber è al centro dell’analisi di Anders, il
quale ha situato il passaggi al terzo ed ultimo stadio dell’umanità nel concetto di homo creator,
colui che è capace di creare prodotti dalla natura, che non appartengono alla categoria dei prodotti
culturali, ma alla natura stessa. Ciò che è fatto dall’uomo ha assunto la forza attiva di un mondo
dinanzi al quale l’uomo riconosce la propria inadeguatezza, la propria antiquatezza, in modo tale
che il prometeismo scopre la frustrazione dell’uomo di fronte al mondo costruito artificialmente. La
risposta al punto di vista andersiano può essere individuata nell’idea di conservare il mondo
149
R. VITI CAVALIERE, Lettura di Vico, in ID., Critica della vita intima. Soggettività e giudizio in Hannah Arendt,
Napoli, Guida, 2005, p.201.
134
prendendosene cura, di stabilire dei limiti all’agire dell’homo creator contando sulla responsabilità
dell’uomo nei processi di fabbricazione e di creazione, di un agire che è rivelatore del senso del
mondo. Un esito del criterio vichiano vero-fatto si profila nella concezione antropologica di Piovani
secondo cui l’uomo non è, ma si fa. Si conosce esistente verificandosi. Il deficere crea la tensione
capace di far muovere il vivere, di far nascere l’azione. Come è stato affermato da Tessitore, lo
storicismo piovaniano è il prodotto dell’esistenzializzazione della storia, che mette al centro
l’azione individuale, il farsi e non il fatto, il darsi e non il dato grazie alla responsabilità che
comporta la decisione di accettarsi come oggettivo con tutto ciò che da tale decisione consegue. La
decisione di volersi implica ineluttabilmente la necessità di ammettere una norma, un criterio che
sia misura delle azioni perché esse non siano anormali, ossia assoluta volontarizzazione, che è
superamento della limitazione e negazione dell’altro. Ma questo implica la necessità di ammettere
l’ontologia negativa di una norma come criterio delle azioni, di tutte le azioni. Vale a dire
riconoscere che l’individuo in quanto volente non volutosi, soggettività limitata dall’originaria
oggettività, si realizza nella storia che è il campo delle sue decisioni, ciò dentro cui le sue decisioni
si decidono e si effettuano. 150
150
F. TESSITORE, op. cit. , p. 446.
135
Indice
INTRODUZIONE
pp.1-2
ORAZIO
pp.3-13
CRONACHE TRA PROPAGANDA E MEMORIA
pp.14-52
RIVOLUZIONE/CONTRORIVOLUZIONE
pp.53-84
VICO E IL VERO/FATTO
pp. 85-135
Il viaggio oraziano
pp. 3-5
Un angolo oraziano
pp.6-10
Geografia oraziana
pp.11-13
Coscienza e storiografia nel Chronicon di Falcone di Benevento
pp.14-20
La propaganda nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli
pp.21-38
Memoria e philosophia nell’Historia dello Pseudo-Jamsilla
pp.39-46
Austerità e creatività nel Chronicon di Domenico da Gravina
pp.47-52
La Basilicata di fine Settecento
pp.53-59
Rivoluzione e repubblicanizzazione
pp.60-65
Controrivoluzione e derepubblicanizzazione
pp.66-71
Rivoluzione e controrivoluzione
pp.72-76
Restaurazione e oltre
pp.77-84
Il vero-fatto in Vico
pp.85-96
Il vero-fatto prima di Vico
pp.97-114
Il vero-fatto dopo Vico
pp.115-135
BIBLIOGRAFIA
pp.137-142
136
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