MARTINO FEYLES IPOMNESI
Martino Feyles ha studiato Filosofia presso La Sapienza - Università di Roma e ha
conseguito il dottorato in Studi Filosofici
presso l’Università degli studi di Cassino.
È docente di Estetica presso l’Istituto
teologico San Pietro di Viterbo ed è autore di saggi e articoli scientifici dedicati alla
fenomenologia e all’estetica.
Ha curato il volume intitolato Memoria, immaginazione e tecnica (2010) ed è
autore del libro Studi per la fenomenologia della memoria (2011).
Copertina di Ettore Festa, HaunagDesign.
Ontologia dell’archivio e fenomenologia
della memoria si incrociano in questo libro in una prospettiva particolare, quella
di un’estetica critica.
Partendo dalla riflessione derridiana,
l’autore rielabora la nozione di archivio
prendendo in considerazione gli straordinari cambiamenti delle odierne tecnologie
della memoria e, nello stesso tempo, evidenziando il significato trascendentale
del momento dell’archiviazione.
L’interiorità dell’atto del ricordo, e più
in generale di ogni atto intuitivo, appare così
condizionata in modo costitutivo dall’esteriorità delle tecniche di archiviazione.
La riflessione derridiana determina il
filo conduttore di questo libro, ma tra i riferimenti teorici di questo lavoro ci sono
anche autori che hanno preceduto o seguito Derrida nel suo cammino di pensiero:
Husserl, Freud, Ricoeur, Leroi-Gourhan,
Stiegler.
MARTINO FEYLES
IPOMNESI
LA MEMORIA E L’ARCHIVIO
Rubbettino
€ 18,00
Rubbettino
Saggi 324
Filosoia
fenomenologia e filosofia dell’esperienza
Collana diretta da Carmine Di Martino
Martino Feyles
Ipomnesi
La memoria e l’archivio
Rubbettino
© 2013 - Rubbettino Editore
88049 Soveria Mannelli
Viale Rosario Rubbettino, 10
tel (0968) 6664201
www.rubbettino.it
Progetto Graico:
Ettore Festa, HaunagDesign
Indice
Introduzione
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1. Decostruzione del concetto di memoria
1. Derrida contro il buon senso
2. Platone al contrario
3. Brandelli di memoria
4. Memoria, tecnica e avvenire
5. Archivio, evento, potere
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17
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2. L’esteriorizzazione della memoria
1. La liberazione dal programma: memoria
individuale, memoria etnica, memoria genetica
2. Il nesso essenziale tra memoria e tecnica
3. L’evoluzione umana e l’esteriorizzazione
della memoria
4. Due note sulla nozione di memoria di LeroiGourhan
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3. L’industrializzazione della memoria
1. L’identiicazione di tecnica e mnemotecnica
2. La ritenzione terziaria e il passato non vissuto
3. Dal tempo storico al tempo reale
4. La gestione industriale della memoria
5. Fraintendimenti husserliani
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75
77
6
4. Decostruzione di una metafora: la memoria
come archivio
1. Due paradigmi concettuali contrapposti.
La memoria-computer
2. Il riduzionismo nelle scienze sperimentali:
materia è memoria
3. La memoria come attività ricostruttiva:
la reinterpretazione del passato
4. Prima incursione nella psicoanalisi
5. Il paradigma ricostruzionista nelle scienze
sperimentali
6. La memoria «plastica» del darwinismo neurale
7. Al di là dell’archivio: l’archivio! Un incrocio
tra fenomenologia e psicoanalisi
8. Memoria umana e memoria artiiciale.
L’archivio «plastico»?
99
105
5. Ontologia dell’archivio
1. Che cos’è un archivio?
2. Genesi e autorità dell’archivio
3. Aporie della scienza archivistica
4. Archivio, scrittura, traccia
5. L’opera d’arte come traccia in senso esemplare
6. Internet è un archivio?
7. La registrazione, una novità epocale
8. Riproduzione e codiica
9. Tracce materiali e tracce psichiche
10. Il linguaggio è un archivio?
11. Elementi per una deinizione
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197
6. Ricordo, memoria collettiva, archivio:
problemi fenomenologici
1. Problemi legati alla nozione di memoria
collettiva
2. Diverse accezioni dell’espressione
«memoria collettiva»
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89
93
114
119
123
129
207
208
212
7
3. La memoria semantica e il ricordo
individuale: categorie, schemi e riferimenti
temporali
4. Fenomenologia della foto ricordo.
Il racconto come oggettivazione di un ricordo
5. La memorizzazione meccanica.
Parentesi bergsoniana
6. Ricordare e ripetere. La memoria e il nome
7. Memoria e archivio dal punto di vista
trascendentale
1. Il ricordo come fondamento della oggettività
e della soggettività
2. “L’origine della geometria”: il signiicato
trascendentale della archiviazione
3. La radicalizzazione derridiana
4. L’archivio come condizione di possibilità
degli oggetti sociali
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8. L’ossessione archivistica
1. Difetti ed eccessi di memoria
2. Abusi della memoria e dell’archivio
3. Ripetizione o rielaborazione? Seconda
incursione nella psicoanalisi
4. La ripetizione come essenza della pulsione
5. Fine della memoria, ine dell’archivio
6. L’immagine perfetta, l’archivio ambiguo
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281
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298
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310
Indice dei nomi
317
Introduzione
Intorno alle banalità si generano spesso le più grandi confusioni. L’orizzonte dell’ovvio, di ciò che non ha bisogno di
essere discusso, è un orizzonte mobile, che si rideinisce continuamente. Un inaudito lavorio di pensiero corrisponde a
questo movimento di riformulazione. Ma la banalità è ciò che
l’intelligenza massimamente disprezza, ciò che non merita
alcuna considerazione. Può accadere così che qualcosa continui ad apparire scontato, anche quando non ha più nulla di
certo. In questo modo la banalità diventa fonte di equivoci
che sono ancora più insidiosi perché del tutto inosservati.
Che vi sia un nesso tra memoria e archivio è un’ovvietà tra
le più banali che si possono formulare, ma è una banalità a cui
si riconosce un certo rilievo. Considerando la sempre crescente
importanza delle mnemotecniche nella nostra vita quotidiana,
non può stupire che l’interesse suscitato da parole come «memoria» o «archivio» sia considerevole. Da più parti si fa notare
che molto del nostro futuro sarà determinato dall’evoluzione
di queste particolari tecnologie. Ma la direzione verso cui siamo già incamminati non appare afatto chiara. Si dice spesso,
per esempio, che internet è un gigantesco archivio. Sociologi
e massmediologi sono unanimi nel considerare la rete come
un immane «deposito» di memorie. Ma gli archivisti di professione riiutano questo punto di vista nel modo più categorico:
a parer loro internet è la cosa più lontana che esista da un archivio. Ma allora cos’è un archivio? Cosa signiica archiviare?
Le opinioni qui non sono per niente unanimi.
Nel frattempo diventano sempre più numerosi gli articoli – accademici e non – che denunciano la scomparsa della
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memoria collettiva nella società contemporanea, accusando
senza mezzi termini le nuove tecnologie. Molti rispondono
difendendo le mnemotecniche. Ma né gli uni né gli altri saprebbero spiegare con precisione che cosa sia questa memoria
collettiva di cui tanto si teme la scomparsa. È davvero diicile
trovare una realtà materiale che non conservi almeno qualche
traccia del passato. Sembra perciò che sia lecito parlare di memoria collettiva a proposito di qualsiasi cosa. In fondo tutto
appartiene a una tradizione: un libro, una processione, un
monumento, persino una ricetta di cucina. Di conseguenza
tutto viene patrimonializzato, tutto viene conservato, tutto
viene custodito. Tutto tranne l’essenziale. Se poi si va alla
ricerca della memoria collettiva «vera e propria», ci si può
ritrovare a discutere dei racconti davanti al caminetto dello
zio anziano. Tali racconti hanno davvero tutta l’aria di essere
dei ricordi collettivi, ma considerando quanto sono noiosi
non si capisce perché la perdita della memoria collettiva dovrebbe essere così terribile.
La verità è che tutte le ovvietà nascondono un enigma e
la banalità è un’ovvietà che nasconde il suo enigma in modo
particolarmente inido. Di fronte alle domande intorno alla
memoria e all’archivio il lavoro di pensiero che si prospetta
a chi fa ilosoia è una sorta di cammino all’incontrario: rigettare le banalità, decostruire le ovvietà, lasciarsi interrogare
dagli enigmi.
Questo non è esattamente un libro su Derrida; direi piuttosto
che è un libro a partire da Derrida. La ilosoia derridiana è
il principale riferimento teorico di tutto il lavoro. Anche gli
altri interlocutori che saranno chiamati in causa appartengono alla sfera degli autori che hanno avuto direttamente a
che fare con le origini e con la continuazione della ilosoia
decostruzionista. Husserl e Freud sono un po’ i «maestri»: è
dai loro testi che deve prendere le mosse un pensiero della
scrittura e dell’archivio. Leroi-Gourhan è meno citato da Derrida, ma senza dubbio anche lui può essere annoverato tra i
«maestri». Stiegler può far la parte del «discepolo» o forse del
Introduzione
11
«continuatore». Ma per completare il quadro devo almeno
pronunciare un altro nome importante, un nome che è un
po’ più esterno rispetto alla galassia derridiana: Paul Ricoeur.
In questo caso l’etichetta «maestro» è inappropriata tanto
quanto quella «discepolo». Ma al di là maestri tra virgolette
e dei discepoli tra virgolette, il centro di gravità di questo
lavoro mi sembra piuttosto chiaro.
Altrettanto chiaro è il tema del libro: si tratta di studiare l’archivio, la memoria, la loro comune origine essenziale. Ad alcuni questo oggetto di studio così precisamente
determinato può apparire fin troppo chiaro. In effetti la
trattazione tematica e lo svolgimento analitico sembrano
a prima vista incompatibili con lo stile filosofico di un
autore, Derrida, che ha sempre fuggito le strette maglie
dell’analisi e che ha sempre risposto con deviazioni e digressioni a ogni questione tematica. A ciò si aggiunge una
palese diversità stilistica. La forma espositiva di questo
testo è la più tradizionale: esposizione delle tesi, discussione, confutazione delle obiezioni e così via. Per quel che
riguarda stile di scrittura, strategia retorica e metodo di
pensiero, questo libro sembrerebbe quanto di più lontano
si può immaginare dal pensiero derridiano. In realtà ai
miei occhi è proprio questa apparente incongruenza che
giustifica gran parte dello sforzo che è all’origine di questo
testo. Si tratta di fare ciò che Derrida per principio non
avrebbe mai fatto: distinguere, analizzare, chiarire, addirittura sistematizzare.
Il risultato di questo lavoro è una «fenomenologia derridiana» più che una decostruzione della fenomenologia, è
una «ontologia derridiana», più che una distruzione dell’ontologia. Io però non credo che questa sia veramente una infedeltà di pensiero. È vero: Derrida ha speso quasi tutte le sue
energie per decostruire la fenomenologia husserliana e per
demolire l’ontologia tradizionale. Ma tra la fenomenologia
e la decostruzione la rottura non è mai completa e non può
mai esserlo: «un pensiero della traccia non può rompere con
una fenomenologia trascendentale, più di quanto non possa
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ridurvisi»1. È necessario riaprire le chiusure husserliane, rigettare i presupposti idealisti della fenomenologia, spazzare
via le rigidità razionaliste; ma questo non signiica riiutare
la fenomenologia nel suo complesso. Non bisogna farsi ingannare dall’aggressività della metafora architettonica derridiana: la «decostruzione» ha come esito ultimo un ediicio
fenomenologico aperto, non un cumulo di macerie.
Tenterò dunque di issare delle distinzioni essenziali: tra
archivio e memoria, tra memoria collettiva e ricordo, tra scrittura e linguaggio, tra immagini e iscrizioni. Mi spingerò ino
in fondo in questo tentativo – che è conforme a una attitudine
fenomenologica fondamentale – e talvolta il lettore potrà avere l’impressione di una certa rigidità e di una certa tendenza
deinitoria. In realtà alla ine del percorso la maggior parte
delle distinzioni che l’analisi tenterà di issare risulteranno
instabili. Il principale risultato del lavoro analitico sarà proprio questo: tentando di separare in modo rigoroso archivio,
memoria, ricordo ci si accorge dei molteplici canali della loro
comunicazione sotterranea. Questo non signiica abolire le
distinzioni; signiica istituire dei rapporti essenziali. Senza la
pazienza del lavoro analitico questi rapporti essenziali sarebbero posti in maniera dogmatica: si contesterebbe la issità di
opposizioni concettuali che però non sono state sviluppate
ino in fondo. La sistematicità dell’analisi e il lavoro di scavo
concettuale non sono il sintomo di una pretesa deinitoria o
di una posizione di chiusura alla problematicità. Al contrario: i problemi si aprono realmente, si aprono in modo non
ideologico, solo al termine del lavoro di analisi.
Questo lavoro di chiariicazione implica dei rischi notevoli. Il primo rischio è di cadere nell’arbitrio. Ogni chiariicazione ontologica e fenomenologica è innanzitutto un lavoro
sul linguaggio e di conseguenza comporta delle precise scelte
terminologiche. Alcune di queste scelte hanno il carattere di
vere e proprie prese di posizione di principio. È chiaro però
1. j. derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, tr. it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano 2006, p. 93.
Introduzione
13
che dietro ognuna delle parole di cui l’analisi issa il signiicato c’è una storia ilosoica, una tradizione di pensiero, la
cui ricchezza viene sacriicata. Questo sacriicio non è mai
innocente e non è mai senza conseguenze. Nello stesso tempo
la chiariicazione concettuale corre il rischio della pedanteria.
Alcune volte si è costretti a formalizzare l’ovvio, altre volte si è
costretti a ricondurre il non ovvio ad una formula unilaterale.
Io sono convinto che questi rischi non devono essere evitati
ma afrontati. Bisogna tentare una chiariicazione che sfugga
alla sempliicazione e soprattutto al dogmatismo. Chiarire
non signiica stabilire deinitivamente; signiica cogliere una
diferenza, vedere di più.
Questo testo è la prosecuzione del lavoro che ho iniziato con
il libro Studi per la fenomenologia della memoria2. I due testi vanno aiancati, ma senza alcuna sovrapposizione: dove
comincia uno inisce l’altro. Ho preferito, anche per ragioni
di brevità, evitare ogni genere di ricapitolazione o ripresa
delle conclusioni cui sono giunto in quella sede. Ogni volta che sarà necessario rimanderò al mio precedente lavoro
evitandomi la pena di una frettolosa ripetizione. Entrambi
i testi si collocano all’interno di una prospettiva più ampia
che è quella di una estetica critica. Vorrei spendere qualche
parola per spiegare perché i temi che ho afrontato in questo
libro – ma a maggior ragione il discorso vale per Studi per la
fenomenologia della memoria – abbiano piena cittadinanza
in una estetica intesa nel senso ampio che è stato teorizzato
da quella «scuola di pensiero» che va da Immanuel Kant a
Emilio Garroni.
A mio avviso si possono individuare almeno tre linee
di convergenza. La prima è probabilmente la più cogente. Il
problema dell’intuizione, del darsi delle cose nell’esperienza
intuitiva, è forse il tema centrale intorno a cui ruotano le
rilessioni dell’estetica in quanto disciplina «non speciale».
2. m. feyles, Studi per la fenomenologia della memoria, Franco Angeli, Milano
2010.
14
Questo problema è fortemente presente in questo libro, anche
lì dove non è tematizzato direttamente. Percezione, ricordo e
fantasia sono le tre forme intuitive fondamentali. L’intreccio
tra queste tre forme intuitive è talmente stretto che non si può
pensare di studiarne una senza essere continuamente rimandati alle altre due. Per questa ragione in questo testo l’analisi
della memoria rinvia costantemente alla teoria della percezione e alla teoria della fantasia. Rinvia a queste teorie ma nello
stesso tempo le chiarisce, le completa. La fenomenologia del
ricordo è dunque un capitolo essenziale dell’estetica critica.
D’altra parte – ed è la seconda linea di convergenza – l’ontologia della traccia su cui si fonda la teoria dell’archivio che
proporrò è una sorta di antefatto necessario per l’ontologia
dell’opera d’arte. Il territorio concettuale delimitato dalla parola «traccia» è diviso in due grandi regioni ontologiche: da
una parte c’è l’insieme di tutte quelle realtà che vanno sotto
il nome di «testi», dall’altra c’è l’insieme di quelle realtà che
vanno sotto il nome di «immagini». Come si vedrà (in particolare nel capitolo V), non è afatto un caso se questi due
nomi individuano le categorie più generali a cui è possibile
ricondurre ogni genere di opera d’arte.
C’è poi una terza linea di convergenza con gli interessi
dell’estetica. Come ho detto il tema di questo libro non è né solo
la memoria, né solo l’archivio: è soprattutto il loro rapporto ciò
che mi interessa. Ma anche questo è un tema che un’estetica
critica non può in nessun modo ignorare. La questione che in
vari modi è presa di mira in questo lavoro è quella del rapporto
tra le protesi tecnologiche e l’esperienza intuitiva delle cose. Le
analisi dedicate al modo in cui le mnemotecniche condizionano il ricordo hanno questo problema come orizzonte. Sono
analisi particolari che si collocano all’interno del più generale
problema del rapporto tra tecnica e forme intuitive. La tecnica
ha il potere di rideinire le modalità dell’esperienza del mondo
e in particolare le modalità dell’esperienza intuitiva delle cose:
si può giustiicare questa afermazione analizzando la percezione, analizzando la fantasia oppure – come accade in questo
libro – analizzando il ricordo e la memoria.
Introduzione
15
Inine, lo stesso Derrida ha rilevato la pertinenza di questi
nessi nelle pagine più dense e più diicili di Memorie per
Paul de Man. Tutta le sezione centrale di questo importante
testo derridiano è collocata sotto la tutela di un titolo emblematico, che non ha ancora cessato di afascinarmi: «L’arte
delle memorie». Qui Derrida mette in relazione la famosa
sentenza hegeliana «l’arte è una cosa del passato», con l’idea
della mnemotecnica come «arte della memoria» e non dimentica di richiamare la problematica kantiana e heideggeriana dell’immaginazione trascendentale. Si tratta di alcune
tra le pagine più contratte e criptiche dell’intera produzione
derridiana; pagine a tratti fastidiose per il sovrafollamento
dei rimandi testuali impliciti. Per esplicitarne il signiicato
occorrerebbe un libro a parte. Ma anche una lettura supericiale è suiciente per comprendere che la convergenza che
sto sottolineando – la convergenza tra fenomenologia della
memoria, ontologia dell’archivio ed estetica critica – non implica alcuna forzatura del pensiero derridiano3.
La struttura di questo testo è piuttosto lineare. Nel primo
capitolo, esplicitamente dedicato a Derrida, vengono posti i
problemi che verranno discussi in tutto il libro. La decostruzione dei concetti tradizionali di memoria e archivio ha come
risultato l’apertura di una serie di domande che costituiscono
l’orizzonte di questo lavoro. Rispetto a queste domande il
secondo, il terzo e il quarto capitolo, hanno una funzione che
si potrebbe deinire «preparatoria», mentre dal punto di vista
teoretico i capitoli essenziali sono gli ultimi quattro. È in questi capitoli che il nesso tra memoria, archivio e tecnica posto
da Derrida viene sistematicamente articolato e sviluppato.
Inine qualche parola va spesa sul signiicato dell’espressione «ipomnesi» che compare nel titolo. In questo libro la
fenomenologia della memoria incrocia l’ontologia dell’archivio. Questo incrocio non è ine a se stesso: si tratta di
risalire a quella possibilità originaria da cui dipendono tanto
3. j. derrida, Mémoires pour Paul De Man, Galilée, Paris 1988, tr. it. Memorie
per Paul de Man, Jaca Book, Milano 1995, pp. 62 ss.
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l’archivio quanto la memoria. Questo potere essenziale è ciò
che in questo testo chiamo «ipomnesi», riprendendo una parola che Derrida a sua volta sottrae a Platone. Giustamente
si può rilevare che la ilosoia decostruzionista non ha fatto
altro che indicare questa «origine», utilizzando espressioni
come «archiscrittura», «achitraccia», ecc. Questo rilievo può
indurre a un certo scetticismo: «un nuovo nome, tutto qui?».
In realtà un nuovo nome non sarebbe poco, perché non c’è
molto da inventare in ilosoia. Il senso di un nome è nel
lasciar intravedere qualcosa di nuovo, o, in alternativa, nel lasciar intravedere di nuovo qualcosa. Il rischio di questo testo
è tutto qui. Si tratta di prendere di mira ciò di cui Derrida ha
sempre parlato ma a partire da una angolatura particolare: a
partire cioè dall’incrocio tra fenomenologia della memoria e
ontologia dell’archivio. È solo a partire da questa prospettiva
ben determinata che può apparire la necessità di un nome che
nella sua etimologia richiama la memoria – «mneme» – ma
anche ciò che più originariamente si trova «ypo», «sotto»,
dentro, dietro la memorizzazione.
Con ciò non tutti gli scetticismi si sono dileguati. A chi va
in cerca di novità un libro come questo può dare l’impressione di ripetere cose note. Forse in alcune pagine è davvero così.
Ma a questo proposito io ho una convinzione personale a cui
sono fermamente legato: certi percorsi di pensiero possono
apparire come sentieri troppo battuti solo a chi guarda con
supericialità.
Ringrazio il mio maestro Pietro Montani per avermi incoraggiato e sostenuto nella pubblicazione di questo libro e per il costante dialogo di pensiero di questi anni. La mia gratitudine va
anche al prof. Carmine Di Martino che ha ospitato questo testo
nella sua collana e con cui ho avuto modo di discutere alcuni
punti salienti dell’interpretazione derridiana. Inine ringrazio
mia moglie, che non demorde, e le mie bimbe, che hanno fatto
di tutto per rendere rocambolesca la stesura di queste pagine.
1. Decostruzione del concetto di memoria
1. Derrida contro il buon senso
Il più delle volte andare contro il buon senso non è una buona idea. Il senso comune è davvero il più testardo di tutti i
saggi e quasi sempre è più conveniente dargli ragione in da
subito. Con un minimo di rilessione chiunque può arrivare
a stabilire alcuni punti fermi a proposito della memoria, anche chi non ha studiato fenomenologia e non è aggiornato
sugli ultimi risultati delle scienze cognitive. Innanzitutto la
memoria è una facoltà umana, qualcosa che è intimamente
connesso all’animo umano e all’interiorità. In secondo luogo
la memoria si distingue chiaramente dall’immaginazione,
dalla percezione e anche e soprattutto dagli strumenti mnestici di cui fa uso: ricordare non è percepire, non è nemmeno
immaginare e rimane una diferenza insormontabile tra un
vero e proprio ricordo e la sua trascrizione in un testo o in
una immagine. Inine è altrettanto evidente che la memoria
è essenzialmente rivolta al passato, anzi è la nostra fonte di
conoscenza del passato più degna di iducia. In questo senso
essa dipende dalla realtà di ciò che è stato, cerca di adeguarsi
a questa realtà e trae la sua certezza veritativa dalla fedeltà
con cui lo riproduce.
Questo è ciò che insegna il buon senso. Ora, se volessimo
condensare in un riassunto approssimativo ma non infedele
la concezione derridiana della memoria, potremmo fare un’operazione teorica terribilmente semplice: sarebbe suiciente
prendere tutte le più robuste convinzioni del senso comune
e rovesciarle nel loro esatto opposto. Ciò non desta alcuna
18
sorpresa a chi ha qualche familiarità con la decostruzione e
con il suo stile di pensiero. Tuttavia, data l’autorità di cui gode
(giustamente) la saggezza di senso comune, le afermazioni
derridiane rischiano di apparire come quei ciarlatani nelle
piazze che nessuno si prende la briga di contestare apertamente, ma che tutti si sentono autorizzati a guardare con
sospetto.
Derrida aveva forse un gusto eccessivo per la provocazione; ma certamente non era un ciarlatano. Bisogna dunque
provare a comprendere qual è il senso della decostruzione
della nozione tradizionale di memoria operata dalla sua ilosoia. Per far questo vorrei tentare di isolare del suo discorso
ilosoico sette tesi essenziali, da mettere alla prova dal punto
di vista teoretico. Sia chiaro: io non penso che la profondità delle rilessioni derridiane sulla memoria e l’archivio sia
esaurita da sette «formulette», che per di più non sono mai
state presentate dal loro autore nella forma di vere e proprie
tesi. Mi sembra però che una certa sistematizzazione, nonostante l’artiiciosità, possa essere utile per comprendere ino
in fondo ciò che Derrida ha voluto dire. Infatti queste sette
tesi – che ricavo dai testi che in modo più esplicito afrontano
i temi di questo libro: La farmacia di Platone, Memorie per
Paul de Man, Mal d’archivio – non sono afatto auto-evidenti
e richiedono di essere chiarite, argomentate e criticate.
Derrida avrebbe potuto percorrere almeno due vie per
sostenere la sue posizioni. La prima è quella che passa per
l’elaborazione di una fenomenologia della memoria e di
una ontologia dell’archivio che – andando molto al di là di
Husserl ma senza abbandonarlo – mostrino concretamente,
descrittivamente, qual è il rapporto tra memoria e archivio.
La seconda via è quella che passa per le evidenze storicoempiriche, se posso dir così. Derrida conosceva bene il lavoro di Leroi-Gourhan e certamente aveva presente gli studi
sociologici, antropologici, paleoantropologici che avrebbero
potuto fornire un solido terreno di appoggio alle sue tesi. In
realtà nessuna di queste due vie è stata veramente percorsa.
Nei testi derridiani i cenni alle evidenze empiriche sono spo-
Decostruzione del concetto di memoria
19
radici e deludenti e non v’è nemmeno traccia dell’elaborazione concreta di una fenomenologia alternativa, così come
accade invece in Merleau-Ponty o in Ricoeur. Le posizioni
derridiane sono invece presentate e argomentate sempre secondo il più tipico stile della decostruzione: a partire dalla
negazione della tesi opposta, a partire dalla contestazione di
un testo classico. Questa scelta non può essere rimproverata
più di tanto, perché è perfettamente conseguente allo stile
e alle premesse teoriche della ilosoia decostruzionista nel
suo insieme. Ma è una scelta che rischia di limitare la portata
di intuizioni che restano decisive; o comunque di lasciare il
discorso derridiano a livello di una provocazione suggestiva
ma incompiuta.
Rileggere i tre testi di Derrida che ho citato poc’anzi signiica dunque aprire una serie di questioni irrisolte. Il principale
risultato della lettura che proporrò in questo capitolo consiste
nella riproposizione di una raica di domande pressanti, molto più che di una serie di risposte. Benché si possa accogliere
volentieri l’idea che il compito essenziale della ilosoia sia di
porre le domande giuste, è certo che accontentarsi delle domande non è nemmeno domandare veramente. Perciò buona
parte del lavoro di questo libro consisterà nel tentativo di
percorrere – appoggiandosi ad autori che hanno inluenzato il
pensiero derridiano o ne hanno proseguito il cammino – alcuni tratti di quelle due strade che Derrida non ha ritenuto
di dover percorrere. Si può dire dunque che le sette tesi che
vado a esporre ne costituiscono il ilo conduttore.
2. Platone al contrario
La denuncia platonica nel Fedro è universalmente nota ed è
stata ripetuta nei secoli. Nell’ultima parte del dialogo Socrate
racconta il famoso mito del dio heuth, inventore della scrittura (ma anche, non a caso, della «scienza del numero», della
geometria e dell’astronomia). Stando al racconto di Socrate
il re egiziano hamus, dialogando con il dio heuth, avrebbe
20
espresso la celebre condanna della scrittura in quanto mnemotecnica. Farmaco ambiguo e velenoso, la scrittura avrebbe
un efetto deleterio nei confronti della «vera» memoria e della
sapienza. La memoria, infatti – intesa qui come una facoltà propriamente umana, intimamente legata alla verità e alla
conoscenza –, subirebbe lo stesso destino di tutti gli organi
umani che ci disabituiamo a usare: sostituita da uno strumento
supplementare essa andrebbe incontro a un’inevitabile atroia.
L’argomento di Platone è lineare e ha una forza immediata. Il discorso platonico si regge sulla distinzione di principio tra una memoria autentica, umana e vivente, e una falsa
memoria, la scrittura, mero strumento esterno. Ma a questa
contrapposizione ne corrisponde un’altra, altrettanto radicale, quella tra vero sapere e falso sapere. Derrida rileva opportunamente il nesso che lega la denuncia particolare contenuta
nel Fedro e la più generale critica alla soistica propria della
ilosoia platonica. Non a caso i Soisti sono i maestri della
mnemotecnica. Ma la loro abilità non deve essere confusa
con la «vera» scienza. È proprio questa contrapposizione tra
vero sapere e pseudosapere che implica in dall’inizio una
concezione negativa della scrittura: nella misura in cui è un
mero strumento, essa non è verità e non è scienza. Nel Fedro
la preoccupazione per le sorti della memoria e la preoccupazione per le sorti del sapere sono intimamente unite, secondo
un’associazione profonda autorizzata dall’etimo greco della
parola «aletheia» (dove il Lete è l’allegoria dell’oblio): «Non
bisogna separare qui memoria e verità. Il movimento dell’aletheia è da parte a parte spiegamento di mneme»1. È questa
associazione che rende la decostruzione della tesi platonica
simile alle altre operazioni decostruttive che Derrida propone
negli stessi anni. La Farmacia di Platone si inserisce pienamente nel quadro di una polemica più ampia iniziata con
Della grammatologia, La voce e il fenomeno e L’origine della
geometria. In in dei conti Derrida rimprovera a Platone ciò
1. j. derrida, La pharmacie de Platon, in La dissémination, Seuil, Paris 1972,
tr. it. La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985, p. 97.
Decostruzione del concetto di memoria
21
che aveva già rimproverato a Husserl e Rousseau: una concezione riduttiva della scrittura che impedisce di coglierne
la portata trascendentale e una concezione errata della verità
che impedisce di coglierne la storicità.
La tesi derridiana emerge dunque, dopo molti preamboli,
da una critica della critica platonica alla soistica. L’essenziale
è tutto concentrato in una pagina densissima che sono costretto a citare quasi per intero.
Ciò che Platone prende di mira dunque nella soistica, non è il ricorso
alla memoria, bensì, all’interno di un simile ricorso, la sostituzione del
promemoria alla memoria viva, della protesi all’organo, la perversione
che consiste nel sostituire ad un membro una cosa, in questo caso, il
«tenere a memoria» meccanico e passivo alla rianimazione attiva del
sapere, alla sua riproduzione presente. Il limite (tra il dentro e il fuori,
il vivente e il non-vivente) non separa semplicemente la parola e la
scrittura, ma la memoria come svelamento (ri) producente la presenza
e la rimemorazione come ripetizione del monumento: la verità e il
suo segno, l’ente e il tipo2.
Tutta la questione per Derrida è nel ripensare questo limite.
Si tratta di mettere in discussione una tradizione ilosoica
unanime nel issare la distinzione tra interno ed esterno, vivente e non vivente, memoria e promemoria. Una tradizione
che ha in da subito concepito la memoria come il più intimo
possesso dell’animo umano. A partire dal celebre «noli foras
ire» di Agostino e seguendo l’esortazione all’interiorizzazione contenuta nella parola tedesca «Erinnerung», il pensiero
occidentale ha associato con forza memoria e interiorità. In
realtà – ecco la prima tesi derridiana – il «fuori» è già all’interno del lavoro della memoria:
Il «fuori» comincia non alla giuntura di ciò che chiamiamo oggi lo psichico e il isico, ma al punto in cui la mneme, invece di essere presente
2.
Ivi, p. 101.
22
a sé nella sua vita, come movimento della verità, si lascia soppiantare
dall’archivio, si lascia allontanare da un segno di ri-memorazione e di
com-memorazione. Lo spazio della scrittura, lo spazio come scrittura
si apre nel movimento violento di questa supplenza, nella diferenza
tra mneme e hypomnesis. Il fuori è già nel lavoro della memoria. Il
male si insinua nel rapporto a sé della memoria, nell’organizzazione
generale dell’attività mnestica3.
Ma che cosa vuol dire tutto ciò? Cosa signiica ripensare il
limite tra memoria e archivio? E soprattutto: cosa ci autorizza ad afermare che una memoria esterna, una scrittura
in senso lato, sia già all’opera all’interno della dinamica del
ricordo? Come argomenta Derrida questa tesi così controintuitiva? Il testo prosegue introducendo bruscamente quello
che sembrerebbe essere l’argomento fondamentale. Si tratta
del problema della «initudine ritenzionale».
La memoria è per essenza inita. Platone lo riconosce attribuendole
la vita. Come a ogni organismo vivente, lo abbiamo visto, le assegna
dei limiti. Una memoria senza limiti, non sarebbe d’altronde una
memoria ma l’ininità di una presenza a sé. La memoria ha dunque
sempre già bisogno di segni per ricordarsi del non presente col quale
ha necessariamente rapporto. Il movimento della dialettica l’attesta.
Così la memoria si lascia contaminare dal suo primo fuori, dal suo
primo supplente: l’hypomnesis. Ma ciò che sogna Platone è una memoria senza segno. Cioè senza supplemento. mneme senza hypomnesis,
senza pharmakon4.
La coscienza non è ininita. Non può «aver presente» tutto
nello stesso tempo. La vita del soggetto è segnata da un limite
essenziale: ora è presente una cosa, ora un altra. Quando
qualcosa si mostra allo «sguardo» dell’io, qualcos’altro necessariamente svanisce, si oblia. Ma è proprio questa initezza
radicale che rende necessario ciò che in questo passo Derrida
3.
4.
Ibidem.
Ibidem.
Decostruzione del concetto di memoria
23
chiama «ipomnesi». Come può infatti la coscienza mantenere
un rapporto con ciò che non è più presente, con ciò che è svanito? Grazie alla mediazione di un segno, di una traccia. Così
quel processo di delega a un supporto esterno stigmatizzato
da Platone si troverebbe replicato già all’interno della dinamica della coscienza vivente. La scrittura in senso proprio,
la scrittura esterna inventata dal dio heuth, lungi dall’essere
un rimedio velenoso, sarebbe invece l’esatto analogo di una
più originaria scrittura interna, la memorizzazione. In questo
senso diviene lecito afermare non solo che non c’è memoria
senza segno, ma anche – più radicalmente – che la memoria
è essenzialmente un segno5.
Questa seconda tesi non è più chiara della prima. L’argomento della initezza ritenzionale è appena suggerito e rimane senza sviluppo. In particolare un punto resta dubbio:
per quale ragione bisognerebbe pensare che il rapporto della
coscienza al non più presente sia un rapporto mediato e non
immediato? O, in altre parole: per quale ragione bisogna intendere il ricordo come un segno e non come una intuizione diretta del passato, così come lo concepisce per esempio
Husserl? La frase citata poc’anzi «La memoria ha dunque
sempre già bisogno di segni per ricordarsi del non presente», potrebbe essere riscritta con una semplice variazione
che farebbe cadere tutto il senso della posizione derridiana:
«La memoria [e qui memoria vale per ‘coscienza’] ha dunque
sempre già bisogno di atti di rimemorazione per ricordarsi del
5. Anche questa seconda tesi scaturisce dal ribaltamento di una tesi tradizionale
che aveva trovato la sua formulazione più persuasiva nella teoria fenomenologica:
per Husserl il ricordo è la riproposizione del passato fondata sulla percezione. Dal
momento che la rimemorazione è una intuizione, tale riproposizione è diretta e
immediata. Nella fenomenologia husserliana il ricordo è la riproduzione di una
percezione ed è assolutamente da escludersi che possa essere considerato come
un atto fondato sulla coscienza di un segno. In Ideen questo punto è stabilito
nel modo più chiaro, cfr. e. husserl, Ideen zur einer reinen Phänomenologie
und phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch: Die Phänomenologie und die
Fundamente der Wissenschaten, Martinus Nijhof, Den Haag 1971, tr. it., Idee per
una fenomenologia pura e per una ilosoia fenomenologica, vol. II, Libro terzo: La
fenomenologia e i fondamenti della scienze, Einaudi, Torino 2002, § 43.
24
non presente». La rimemorazione – così come la descrive la
fenomenologia – non è un segno, è una intuizione del passato,
quasi una visione. Grazie al ricordo il «non più presente», può
essere ricostituito senza la mediazione di alcun sistema di
segni o simboli. Si tratta dunque di scegliere arbitrariamente
tra due opzioni egualmente valide?
Qui Derrida non risponde. La forza di persuasione del suo
testo è tutta aidata a un procedimento retorico che in fondo
è classico. Si prende la tesi di Platone e la si ribalta. Il nucleo
di questo rovesciamento è contenuto in quello che – con notevole ironia – è indicato come «il ragionamento del calderone». Per Derrida Platone sostiene nello stesso tempo tre
tesi opposte: 1) la scrittura è rigorosamente e completamente
esterna alla parola viva; 2) la scrittura è nociva perché contamina la vita della memoria che altrimenti sarebbe intatta;
3) comunque se facciamo appello alla scrittura è perché la
memoria era già inita e lacunosa e quindi la scrittura non
ha alcun efetto sulla memoria6. hamus, il re egiziano, – e
Platone con lui – sostiene che la scrittura sia dannosa. Ma bisogna chiedersi come ciò sia possibile. Come può la scrittura
avvelenare la vera memoria, la memoria interna, se l’interno
e l’esterno sono radicalmente separati? Se la memoria deve
essere concepita come una sfera chiusa ad ogni esteriorità,
che non abbisogna di alcun supplemento esterno, come è
possibile che la comparsa della scrittura abbia un efetto così
sconvolgente sui suoi meccanismi? Se la scrittura può avvelenare, allora la memoria non è del tutto indipendente dalla
mnemotecnica.
Abbiamo così raggiunto il punto in cui il testo platonico
si avviluppa su se stesso. La denuncia del Fedro era animata
da una preoccupazione molto chiara: preservare l’integrità
della memoria umana dalla minaccia tecnologica. In questo
senso e con questa intenzione la tesi platonica viene ancora
oggi riproposta. Ma, paradossalmente, proprio questa denun-
6.
j. derrida, La pharmacie de Platon, cit., p. 103.
Decostruzione del concetto di memoria
25
cia diviene la più autorevole ammissione che l’integrità della
memoria umana non esiste. Derrida costringe Platone a dire
esattamente il contrario di ciò che voleva dire7.
3. Brandelli di memoria
Il tema della memoria è il centro nevralgico intorno a cui
si organizza il secondo testo a cui dobbiamo rivolgerci, un
testo che Derrida scrive negli anni ’80: In memoriam: dell’anima8. Si tratta di tre conferenze scritte per l’amico appena
scomparso Paul De Man. I problemi afrontati dal saggio
sono molteplici ed è impossibile riordinarli in un discorso
lineare. In questo caso si può dire letteralmente ciò che spesso
si ripete come un modo di dire, ovvero che il testo si presta a
molte letture diferenti. Due fattori in particolare concorrono
a rendere ancora più aggrovigliato l’intreccio del discorso
derridiano9. Da una parte la circostanza autobiograica che
è all’origine del saggio: il fatto che queste conferenze siano
scritte a poca distanza dalla morte di uno dei più cari amici
di Derrida fa sì che vi sia uno scambio continuo tra l’argomentazione ilosoica e il ricordo personale, tra la dimensione
teoretico-critica e la dimensione letteraria del dialogo con
l’amico defunto. Dall’altra parte in questo testo più ancora
che altrove è impossibile distinguere l’autore e le sue citazioni, la voce di Derrida in persona e l’eco degli autori cui
7. Come si vedrà in seguito (cfr. in particolare il cap. viii) non bisogna afrettarsi
ad accantonare la denuncia platonica. La si può intendere in un modo profondamente sbagliato: come il tentativo di salvaguardare la purezza del soggetto dalla
minaccia della esteriorità tecnica. Probabilmente lo stesso Platone la intendeva
così. Ancora peggio sarebbe intenderla – e disgraziatamente capita di trovare
argomenti simili – come una tesi cognitiva: come se le capacità mnestiche del
soggetto umano avessero realmente subito una involuzione a causa della nascita
della scrittura (oggi si direbbe che l’I-Phone “rovina” la nostra memoria). Ma
nella afermazione platonica c’è anche del vero come vedremo.
8. cfr. j. derrida, Mémoires pour Paul De Man, cit.
9. Lo rileva Petrosino nella sua introduzione. s. petrosino, Il dovere dell’afermazione, Ivi, p. iii.
26
si riferisce. Tra le tante questioni che il saggio suggerisce,
una ha, per ovvie ragioni, una priorità speciale: si tratta del
nesso tra memoria, lutto e autobiograia. «Che cos’è dunque
il vero lutto10?» si domanda con pathos certamente autentico Derrida. Seguendo questa domanda freudiana, ma senza
chiamare in causa esplicitamente Freud, il testo stabilisce un
legame essenziale tra l’essenza della memoria e il lavoro del
lutto: la memoria «è luttuosa per essenza11». Tornerò ancora
su questo rapporto, prendendo in considerazione alcuni testi
di Freud, ma in questo momento, non è questo il punto su
cui vorrei sofermarmi. Ciò che mi interessa sottolineare è
la posizione esplicita del rapporto tra memoria, archivio e
tecnica, che alcune pagine di questo saggio autorizzano. È su
queste pagine che vorrei portare l’attenzione, perché questo
rapporto è il principale oggetto di studio di questo saggio.
Prima però è necessaria una nota non marginale. La proliferante molteplicità di temi che caratterizza questo testo non
è senza legami con il progetto di decostruzione della nozione tradizionale di memoria che è il tema di questo capitolo.
Come ho detto Derrida rovescia la tradizione ripetendola
al contrario. Ma la destabilizzazione del concetto di memoria è operata anche per un’altra via: attraverso la sistematica
e smisurata dilatazione della sua semantica. Derrida segue
contemporaneamente tutti i rimandi di senso che la parola
«memoria» contiene, prende alla lettera tutte le metafore che
essa implica, esaspera la sua equivocità, utilizzandola indiscriminatamente e indiferentemente in tutti i sensi possibili.
In questo modo l’ampiezza semantica della parola viene dilatata ino all’estremo e questa dilatazione ha di fatto come
risultato la demolizione del concetto tradizionale. Se si vuole
usare un’immagine molto concreta si può pensare alla nozione di memoria come a un tessuto di rimandi semantici; un
tessuto che, forzatamente costretto a ricoprire una supericie
10. Ivi, p. 42.
11. Ivi. p. 43.
Decostruzione del concetto di memoria
27
troppo estesa, inisce con lo sibrarsi e con il lacerarsi in molti
brandelli.
In efetti, provando soltanto a elencare la collezione dei
fenomeni chiamati in causa da questo testo, si rimane interdetti. Al nesso tra memoria, lutto e autobiograia, di cui ho
già detto, bisogna aggiungere i cenni al rapporto tra memoria e narrazione12. Altrove è la relazione con il problema del
signiicato – non c’è signiicato senza memoria – che viene
evidenziata: da qui deriva secondo Derrida la paradossalità
di una interrogazione sulla memoria che è anche nella memoria13. In alcuni passaggi viene richiamata un’esperienza
personale: si tratta allora dei ricordi di De Man che l’amico
Derrida custodisce e della necessità di difendere la sua «memoria» da accuse infamanti operate da «mediocri giornalisti». Altre volte l’intera impresa della decostruzione, e l’intero
movimento decostruzionista vengono paradossalmente designati come una sorta di immenso atto di «memoria» o anche
come un insieme di «memorie» non totalizzabili. In questo
senso è addirittura lecito afermare che decostruire un testo
signiica «ricordarsene»14. Sempre in questo senso Derrida
chiarisce che se non c’è un’unica decostruzione è perché non
c’è un’unica memoria15. In un altro passo criptico è l’apertura
della diferenza ontologica che viene messa sul conto della
memoria16. Successivamente, in un passaggio serratissimo
che ho già richiamato nell’introduzione, viene chiamata in
causa l’arte, attraverso la mediazione della deinizione hegeliana – l’arte è una cosa del passato – e attraverso l’incrocio
con la problematica dell’immaginazione trascendentale17.
12. Ivi, p. 36.
13. «Se fuori dalla memoria non vi è signiicato, ci sarà sempre qualcosa di paradossale nell’interrogare la parola “mémoire” in quanto unità di signiicazione,
vale a dire nell’interrogare ciò che lega la memoria al racconto o a tutti gli usi
della parola “storia”». Ivi, p. 27.
14. Ivi, p. 102.
15. Ivi, p. 30.
16. Ivi, p. 57.
17. Ivi, p. 64.
28
Inine, nell’ultimo capitolo la questione della memoria viene messa in relazione con il tema della promessa, attraverso
un’interpretazione del concetto austiniano di atto.
Un lettore sprovveduto che afrontasse questo testo armato della più ingenua e inesorabile tra tutte le domande – «quando parliamo di memoria a che cosa ci stiamo
riferendo?» – non potrebbe non sentirsi disorientato. Eppure – questo è il vero problema – nemmeno uno dei nessi
individuati da questo saggio è gratuito. Così la dispersione
semantica, la proliferazione di riferimenti che questo testo
sembra esibire suo malgrado, è in realtà parte essenziale di
ciò che Derrida vuole dire. Chiamata a rendere conto di una
molteplicità incontrollabile di fenomeni la nozione di memoria diviene inevitabilmente inutilizzabile. Ma – questo ci
dice In memoriam: dell’anima – la memoria oggi è sempre
chiamata in causa in questo modo18. Da qui la necessità di
ripensarla completamente.
4. Memoria, tecnica e avvenire
Nella conferenza per Paul de Man le tesi che ho ricavato dal
testo de La Farmacia di Platone vengono precisate e approfondite. Il fuori che è già all’opera nel lavoro della memoria
deve essere pensato in stretta relazione con la tecnica e con
18. Per rendersi conto di questo basta digitare su Google la parola “memoria” o
prestare attenzione al modo in cui questa parola viene usata nelle pubblicazioni
accademiche delle discipline più disparate. Per uno storico un monumento è
una memoria, per uno psicologo una rappresentazione mentale è una memoria,
per uno psicoterapeuta un comportamento compulsivo è una memoria, per un
sociologo un programma televisivo è una memoria, per un teologo la nostalgia
di Dio è una memoria, per un neurobiologo una connessione tra neuroni è una
memoria, ecc. Nel campo delle cosiddette scienze dure questa proliferazione
semantica non è meno imperiosa. Ebbe una certa risonanza non molto tempo fa
un articolo di uno dei luminari delle scienze cognitive, Endel Tulving, che aveva
contato più di duecento signiicati della parola “memoria” limitandosi all’ambito
scientiico: e. tulving, Are there 256 kinds of memories? in j.s. nairne (Edited
by), he Foundations of Remembering, Psychology Press, New York 2007.
Decostruzione del concetto di memoria
29
l’essenza della tecnica. Derrida lo dice, in un gioco di citazioni
nelle citazioni, richiamando la lettura che De Man ofre della
descrizione hegeliana della memoria. «Ciò che innanzitutto
interessa Paul de Man, e che sottolinea con forza, è questa
strana collusione, nella memoria in quanto Gedächtnis, tra
il pensiero pensante e la techne più esteriore, l’iscrizione apparentemente più astratta e spaziale: [...]»19. In un celebre
luogo della Enciclopedia delle scienze ilosoiche l’Erinnerung,
il ricordo interiorizzante, viene contrapposto risolutamente
alla Gedächtnis, la memoria in quanto memorizzazione. Ma
queste due memorie distinte non si lasciano opporre e il loro rapporto non può essere pensato come un rilevamento
dialettico. L’Erinnerung non si lascia mai separare del tutto
dalla Gedächtnis, che in Hegel è il momento del segno, della
esteriorità, della tecnica: «[...] queste due memorie non sono
certamente opposte l’una all’altra, non sono due; e se la loro
unità, la loro contaminazione o il loro contagio non è dialettico, forse bisognerebbe richiamarsi (a) una memoria ancora più «vecchia» della Gedächtnis e dell’Erinnerung [...]20?»
L’opposizione hegeliana tra Gedächtnis ed Erinnerung è in un
certo senso la replica dell’opposizione platonica tra mneme e
hypomnesis. Qui però il segno esteriore è chiaramente identiicato con la tecnica. Ecco allora la terza tesi, che in fondo
è una esplicitazione delle prime due: la memoria umana è
già da sempre tecnica.
Anche nell’ambiguità suggestiva della parola «Mémoires»,
contenuta nel titolo di queste conferenze, si cela lo stesso problema. La lingua francese distingue il signiicato del maschile
singolare «un mémoire» e del maschile plurale «des mémoires», dal femminile singolare «la mémoire». «Un mémoire»
è un documento, un pro-memoria scritto: in questo senso
si dice che un avvocato deposita una «memoria». Anche il
signiicato dell’espressione «des mémoires» conserva, insieme a un riferimento autobiograico, un fondamentale debito
19. j. derrida, Mémoires pour Paul De Man, cit. p. 52.
20. Ivi, p. 67.
30
rispetto alla scrittura. È in questo senso che si può dire che
Cesare ha scritto delle «memorie», le sue memorie. Al contrario «la mémoire», la memoria in quanto facoltà psichica,
sembrerebbe riiutare categoricamente ogni riduzione alla
scrittura: di per sé la mémoire non ha bisogno della scrittura.
Ma allora l’espressione «mémoires», che appare nel titolo di
queste conferenze, isolata e priva di riferimenti contestuali,
si sottrae alla logica dell’opposizione tra interno ed esterno
che è propria della tradizione ilosoica21.
21. «Si dice une mémoire, la memoria al femminile, per designare, nel senso
più esteso, la facoltà (psicologica o no), l’attitudine, il luogo, il raccoglimento
dei ricordi e dei pensieri. Ma è anche il nome di ciò che qui stiamo cercando
di pensare e che facciamo tanta fatica ad aferrare. In ogni caso, vi sono delle
frasi che non si possono formulare se non mediante questo femminile singolare.
Esse riguardano sempre una “memoria” che non ha un bisogno essenziale della
scrittura nel senso corrente. Quanto al maschile può assumere due signiicati,
diversi tra loro e diversi dalla memoria al femminile, a seconda che sia singolare
o plurale. Un mémoire (maschile singolare), è un documento, un rapporto, un
memo, un memorandum, un bilancio che registra ciò che va ricordato; è sempre
sommario e presuppone qualche forma di scrittura, un’esposizione all’esterno,
una iscrizione spaziale. I testi di un convegno o di un congresso appartengono
a questo genere. Des mémoires (maschile plurale), se non indica semplicemente
una pluralità di memorie, nel senso di documenti, rapporti, bilanci o atti (signiicato precedente), e nel caso in cui questa parola venga utilizzata solo al plurale,
signiica ancora scritti, ma degli scritti che raccontano una vita o una storia di cui
l’autore pretende di essere testimone. [...] Per una serie di ragioni che abbiamo
già enumerato, queste memorie che non sono necessariamente delle confessioni,
sono sempre e per struttura delle memorie d’oltretomba. Questo strano nome
possiede quindi delle specie o delle varietà semantiche indicate dal numero e
dal genere. [...] Tale molteplicità semantico-grammaticale è iscritta nell’idioma
francese. Non bisogna aver fretta di considerarla come una pura dispersione.
C’è forse un principio di organizzazione di questa eterogeneità. Essa si ordina
intorno ad una regola diacritica, che discrimina tra ciò che si può dire al maschile
e ciò che non si può dire se non al femminile. I due valori maschili (singolare
e plurale) della memoria suppongono sempre il ricorso a un’iscrizione spaziale,
o meglio al segno scritto, nel senso corrente del termine. Mentre il femminile,
la memoria, anche se si pluralizza, non implica necessariamente questo ricorso
graico e tecnico. È possibile oltrepassare questa linea discriminatoria utilizzando
una igura (ovvero “metaforicamente”) e parlare di una scrittura della memoria
come fa, tra tanti altri, Montaigne quando dice: “La buona memoria è scritturale,
poiché ben trattiene la sua igura”. Ma è una igura retorica che pone qui tutti
i problemi che potete immaginare, quelli del trasferimento dal dentro al fuori,
Decostruzione del concetto di memoria
31
L’assenza di articolo e il plurale lasciano a questo nome, «Mémoires»,
nel deserto contestuale che circonda un titolo, il suo più ampio potenziale di equivocità. [...] Lasciandolo al plurale, senza articolo, nel
titolo di queste conferenze, ho fatto un uso supplementare e ancora
più equivoco della «s» che aveva la possibilità di coprire o conglobare
i tre usi sottolineandone la possibile pluralità, citandoli come in una
sorta di anticipo. Come se vi promettessi di trattare di questa stessa
plurivocità e di coprire tutto il campo semantico e tematico della
memoria. La traduzione di questo titolo rimane quindi impossibile22.
Non c’è dunque una sola memoria ma diverse memorie che
vanno pensate insieme, a partire da una origine comune che
è essenzialmente in rapporto con la tecnica. Solo pensando
in modo più radicale l’essenza tecnica della memoria si può
trovare il fondamento originario che mette ordine in questa
plurivocità. Ma come si può pensare concretamente questa
essenza tecnica? Se la tecnica non si lascia comprendere a
partire dalla nozione di strumentalità e se l’esteriorità è già
all’interno dell’operare della coscienza, come deve essere pensata la tecnicità della memoria? Che cos’è questa memoria
più originaria di cui parla Derrida? E cosa signiica la contaminazione tra Gedächtnis ed Erinnerung?
Derrida non procede oltre in questa direzione. Successivamente però, ritorna sulla questione esplicitando in modo
chiaro la posta in gioco della questione. Ripensare la memoria
umana riconoscendone l’originaria tecnicità è l’unico modo
di comprendere in modo non banale ciò che sta accadendo
mentre è in atto la più sconvolgente rivoluzione delle tecniche
dall’anima al corpo, ecc. E questa igura non è quella di cui parla Montaigne che
designa qui le forme iscritte, i segni incisi nella memoria come sulla carta». (j.
derrida, Mémoires pour Paul De Man, cit., pp. 86-88 passim). Cfr. anche: «[...]
Se è vero che uno spartiacque ordina questa molteplicità di usi, e se esso passa
per la supposta opposizione tra l’interiorità della memoria e l’esteriorità (graica,
spaziale, tecnica) della memoria al maschile (un mémoire) o delle memorie intese
come archivi, documenti, atti, ecc., ritroviamo – o meglio ci torna alla mente – il
problema fondamentale della distinzione tra Gedächtnis e Erinnerung». Ivi, p. 89.
22. Ivi, p. 86-7 (passim).
32
di archiviazione che l’umanità abbia conosciuto. Solo così è
possibile
[...] non respingere nelle tenebre esteriori e inferiori del pensiero
l’immensa questione della memoria artiiciale e delle modalità moderne di archiviazione che oggi coinvolge, al ritmo e in dimensioni
non comparabili a quelle del passato, la totalità del nostro rapporto
col mondo (al di qua e oltre la sua determinazione antropologica):
l’habitat, tutti i linguaggi, la scrittura, la «cultura», l’arte (al di là delle
pinacoteche, cineteche, videoteche, discoteche), la letteratura (al di
là delle biblioteche), tutta l’informazione o l’informatizzazione (al di
là delle banche dati), le tecno-scienze, la ilosoia (al di là delle istituzioni universitarie), e questo nel quadro di una trasformazione che
abbraccia per intero il nostro rapporto con l’avvenire. Questa prodigiosa
mutazione non accresce soltanto la dimensione, l’economia quantitativa della cosiddetta memoria artiiciale, ma anche la sua struttura
qualitativa. Essa obbliga a ripensare ciò che la mette in rapporto con
la memoria cosiddetta psichica e interiore dell’uomo, con la verità,
con il simulacro o la simulazione, ecc23.
L’età della tecnica – se così possiamo chiamare la contemporaneità – è storicamente determinata da uno sconvolgimento
che riguarda innanzitutto gli strumenti e le pratiche dell’archiviazione. In tale processo ciò che è in gioco è «il nostro
rapporto con l’avvenire». È da qui che scaturisce la quarta tesi,
a prima vista la più paradossale. Non si può avere «l’ingenuità
di credere» – dice Derrida – che la memoria sia un «potere
psichico» rivolto al passato24. La memoria non è innanzitutto
una facoltà psichica ed è rivolta al futuro molto più che al
passato. La memoria ha un rapporto essenziale con l’avvenire25.
23. Ivi, p. 90 (corsivi miei).
24. «Non sto sacriicando alla retorica di una invocazione a Mnemosyne. Neppure però ad una Memoria che si potrebbe avere l’ingenuità di credere che è
rivolta al passato; e che dell’essenza del passato abbiamo conoscenza attraverso
la narrazione». Ivi, p. 21.
25. «La memoria: ecco il nome di ciò che non può più essere pensato come un
“potere” psichico rivolto verso uno dei tre modi del presente, il presente passato,
Decostruzione del concetto di memoria
33
Intesa in senso lato questa tesi non è né nuova né problematica.
Non c’è niente di strano se all’interno del generale movimento
evolutivo delle tecnologie contemporanee anche le tecniche di
archiviazione cambiano. E non c’è niente di sorprendente nel
dire che questo cambiamento aprirà in futuro nuove possibilità
e nuovi scenari. Il problema nasce quando la tesi derridiana
viene presa alla lettera e intesa con la radicalità che lo stesso
Derrida le attribuisce. Infatti, come si può dire che la memoria
è più un rapporto con l’avvenire che non un rapporto con il
passato? Cosa signiica l’espressione «memoria senza anteriorità» che ricorre spesso in questo testo? Il passato non ha forse
la sua priorità indiscutibile? Le nuove tecnologie della memoria
ci proiettano innanzi un futuro inedito solo ed esclusivamente
nella misura in cui ci consentono di accedere in modo nuovo e
più eicace al passato. Ma l’oggettività del passato rimane ciò
verso cui continueranno a dirigersi tutte le più mirabolanti
memorie del futuro. Come si può dunque contestare il riferimento al passato della memoria? Derrida da questo punto
di vista si spinge ino alle più estreme conclusioni. Non c’è
nessuna realtà obiettiva che la memoria dovrebbe resuscitare
e non c’è nessuna verità del passato che la memoria dovrebbe
ritrovare. «Il «passato letteralmente non esiste» (quinta tesi)26.
Altrettanto problematica è l’identiicazione completa di
memoria e archivio operata nel passo che ho citato. È vero che noi usiamo la parola «memoria» anche per riferirci
a fenomeni che sono del tutto al di fuori della sfera della
psiche (gli archivi in tutte le loro forme). Ma rimane il fatto
che il primo (e apparentemente il più autentico) signiicato
della parola «memoria» è quello che si riferisce alla facoltà
umana di ricordare la propria esperienza passata. Come si
che si potrebbe dissociare dal presente presente e dal presente futuro. La memoria
si proietta verso l’avvenire e costituisce la presenza del presente». Ivi, p. 56.
26. Ivi, p. 58. Cfr. anche: «Se azzardassimo una formulazione tanto sintetica
quanto ingiusta, tanto provocatoria quanto sommaria, diremmo che per Paul
De Man, grande pensatore della memoria, non vi è che memoria, nonostante il
fatto che, letteralmente, non esista passato. p. 57.
34
può contestare l’idea che la memoria sia un potere psichico,
una facoltà del soggetto? Memoria e archivio sono davvero
la stessa cosa?
5. Archivio, evento, potere
«Mal d’archive» è il titolo della conferenza che Derrida tiene
il 5 giugno 1994 a Londra, in occasione di un convegno dedicato a Freud e intitolato «Memory: the question of archive»27.
Dialogando con la psicoanalisi freudiana Derrida efettua
una sorta diagnosi della nostro epoca: proprio come uno
dei tanti pazienti di Freud, la società contemporanea appare
afetta da una sorta di malattia nervosa, una vera e propria
ossessione archivistica. Tornerò su questo tema nell’ultimo
capitolo, aiancando alle rilessioni derridiane il contributo di
Ricoeur, Nora e Todorov. Per ora vorrei sofermarmi su due
passaggi del testo che ci consentono di precisare e integrare il
catalogo delle tesi attraverso cui Derrida decostruisce l’idea
tradizionale di memoria.
In memoriam: dell’anima aveva già stabilito la priorità
della questione della apertura dell’avvenire rispetto a quella
del recupero del passato, ma questo tema emerge in modo
ancora più pregnante quando Derrida ripensa la nozione di
archivio. «Tanto e più che una cosa del passato, ancora prima,
l’archivio dovrebbe mettere in causa la venuta dell’avvenire»28.
L’apertura dell’avvenire propria della memoria-archivio viene
qui messa relazione con il problema del rapporto tra archivio
e realtà. L’archivio – come già la memoria – appare infatti
caratterizzato da una inevitabile posteriorità. L’archivio segue
l’evento, consegue all’accadere dei fatti. Compito dell’archivio
è registrare i fatti, così come compito della memoria è conservarli. In realtà anche questa idea deve essere rovesciata. Il
27. j. derrida, Mal d’archive. Une impression freudienne. Galilée, Paris 1995, tr.
it. Mal d’archivio. Un impressione freudiana, Filema, Napoli 1996.
28. Ivi, p. 44.
Decostruzione del concetto di memoria
35
linguaggio stesso suggerisce questo rovesciamento. Dentro
la parola «archivio» è «archiviata» una indicazione decisiva,
che Derrida non si lascia sfuggire. L’arché è il «cominciamento», il «principio primo»29. Seguendo questa etimologia
la posteriorità dell’archivio rispetto alla «realtà» di cui dovrebbe «fedelmente» conservare le tracce si ribalta. La pretesa documentaria che caratterizza l’archiviazione non può
essere ridotta alla attestazione di una «realtà» già data prima
e indipendentemente dal movimento della sua iscrizione. Se
l’archivio è un arché, allora è un principio primo della costruzione del reale. Sarà questa dunque la sesta tesi: l’archivio
non registra l’evento, lo produce.
Altro modo di dire che l’archivio, coma stampa, scrittura, protesi o
tecnica ipomnestica in generale, non è solo il luogo di stoccaggio e
di conservazione di un contenuto archiviabile passato che esisterebbe
ad ogni modo, così come, senza archivio, si crede ancora che fu o
sarà stato. No, la struttura tecnica dell’archivio archiviante determina
anche la struttura del contenuto archiviabile nel suo stesso sorgere e
nel suo rapporto con l’avvenire. L’archiviazione produce dal momento
che registra evento. È anche la nostra esperienza politica dei media
cosiddetti d’informazione30.
Ancora una volta si tratta di una tesi la cui evidenza non
generica deve essere messa alla prova. Che la «realtà» di un
evento dipenda in qualche modo dalla possibilità della sua
archiviazione lo si può in parte dare per ovvio. Per esempio:
lo storico che cerca di ricostruire un frammento di mondo
29. «Non cominciamo con l’inizio, nemmeno con l’archivio. Ma con la parola
“archivio” – e grazie all’archivio di una parola così familiare. Arché ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina
apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia,
là dove le cose cominciano – principio, isico, storico o ontologico –, ma anche il
principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita
l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da cui l’ordine è dato – principio
nomologico». Ivi, p. 7.
30. Ivi, p. 26 (sottolineature mie).
36
del passato sa bene quanta poca diferenza vi sia tra ciò che
non ha lasciato alcuna traccia e ciò che non è mai esistito. Per
la storia la coincidenza tra «ciò che è stato» e «ciò che è stato
archiviato» è quasi completa. Tuttavia uno scarto ontologico
rimane sempre, o almeno così sembra. La nostra conoscenza
del passato dipende integralmente dal sistema di tracce e
archivi attraverso cui ciò che è accaduto ci viene trasmesso. Ma questo limite di fatto ci autorizza forse a parlare di
una «produzione» dell’evento da parte dell’archivio? Non c’è
qui un indebito passaggio dalla dimensione epistemologica
a quella ontologica? Il problema è reso ancora più urgente
dal riferimento ai «media cosiddetti di informazione». Qui
non si parla più di passato, ma di presente. Di una realtà
che in linea di principio possiamo ancora constatare e che
possiamo constatare altrimenti. Si può davvero sostenere che
è la copertura mediatica di un evento che produce l’evento
stesso? Ci si può chiedere poi ino a che punto abbia senso
parlare dei mezzi di informazione come di archivi. I media – televisione, radio, internet – sono a tutti gli efetti degli
archivi? E se sì che genere di archivi sono? E cosa vuol dire
che la struttura tecnica dell’archivio determina la struttura
del contenuto archiviabile?
Anche il secondo suggerimento su cui si soferma Derrida
viene dal linguaggio. Arché in greco non signiica soltanto
«principio primo», signiica anche «comando». L’arconte è
nell’antica Grecia il magistrato supremo, colui il quale detiene
il «potere» di interpretare le leggi (le leggi «scritte»)31. Da qui
deriva la sottolineatura del carattere performativo dell’iscrizione e il riiuto dell’idea corriva dell’archivio come fonte di
conoscenza. È l’ultima tesi: prima ancora e più ancora che
uno strumento di sapere l’archivio è un luogo di potere. Non
esistono archivi innocenti e questo è vero in un duplice senso:
da una parte l’archivio è sempre il prodotto di una attività
istituzionale, che seleziona, omette, distorce; dall’altra parte
31. Ivi, p. 8.
Decostruzione del concetto di memoria
37
l’archivio è essenziale tanto per l’istituzione quanto per la
legittimazione del potere. La storia della scrittura, che è anche
la storia dell’archivio, documenta il ruolo che rivestono le
mnemotecniche nella issazione delle diseguaglianze sociali
(scribi, notati e cleri si costituiscono sempre in rapporto alla
scrittura), nella legittimazione della sovranità (si pensi alle
genealogie e alla potenza ideologica dei meccanismi simbolici), nell’istituzione del potere legislativo (le leggi sono
autenticamente leggi solo quando sono scritte), nell’esercizio
del potere economico (non è un caso se i primi strumenti di
scrittura servono per registrare i debiti)32. Quella dell’archivio
appare in da subito a Derrida – in dai tempi di Della Grammatologia – come una questione eminentemente politica33.
Questa questione non sarà mai determinabile come una questione
politica tra le altre. Essa attraversa infatti la totalità del campo e, in
verità, determina interamente il politico come res publica. Nessun
potere politico senza controllo dell’archivio, se non della memoria34.
Ma se i termini del problema sono chiari, rimangono da deinire i limiti entro cui è possibile tentare un risposta. «Occorre risvegliare alla vigilanza critica rispetto alla politica
della memoria»35. Ma cosa signiica questa vigilanza critica?
Se l’archivio «è una violenta iniziativa d’autorità», «una presa
di potere per l’avvenire»36, non è forse necessario opporsi alla
32. j. derrida, De la grammatologie, cit., pp. 137-138.
33. È su questa questione che si gioca tutta l’interpretazione di Levi-Strauss
proposta in Della Grammatologia (cit.).
34. j. derrida, Mal d’archive, p. 11 nota.
35. Cfr j. derrida, b. stiegler, Écographies de la télévision, Galilée, Paris 1996,
tr. it., Ecograie della televisione, Cortina Rafaello, Milano 1997, p. 69.
36. In una intervista del 2001 Derrida ricapitolava così il problema centrale di
Mal d’archive: «Cahiers. Lei pensa che l’immagine si una iscrizione della memoria
o la sua conisca?
J.D. Entrambe le cose. È immediatamente una iscrizione e una conservazione, sia
dell’immagine stessa, nel momento in cui essa è presa, sia dell’atto di memoria
di cui parla l’immagine. Nel ilm D’ailleurs Derrida io evoco il passato. C’è il
momento in cui parlo e contemporaneamente il momento di cui parlo. Questo
38
violenza? Non è necessario promuovere una qualche forma
di «resistenza» alla gestione della memoria? Bisogna forse
contrapporre alla retorica degli archivi uiciali la critica dei
contro-archivi? Come si deve caratterizzare una politica della
giusta memoria?
fatto comporta già due memorie implicate l’una nell’altra. Ma poiché questa
iscrizione è esposta al taglio, alla selezione, alla scelta interpretativa, essa, oltre
che una possibilità, è anche una conisca, una appropriazione violenta, e da parte
dell’Autore e da parte di me stesso. Quando parlo del mio passato, volontariamente o no, seleziono, iscrivo ed escludo. E cioè conservo e conisco. Non credo
che ci siano archivi che conservino soltanto: del resto è proprio ciò che cerco di
mostrare in un piccolo testo, Mal d’archive. L’archivio è una violenta iniziativa
d’autorità, di potere, è una presa di potere per l’avvenire, che preoccupa l’avvenire
stesso; esso conisca il passato, il presente e l’avvenire. Si sa perfettamente che non
esistono archivi innocenti». j. derrida, Le cinéma et ses fantômes, in «Cahiers
du Cinéma», n. 556, 2001 tr. it. Il cinema e i suoi fantasmi, in «Aut aut», n. 309,
La nuova Italia, Milano 2002, p. 68.
7. Memoria e archivio dal punto di vista
trascendentale
Il ruolo dell’archivio nella costituzione del sapere è presentito
anche a livello di senso comune ed è spesso tematizzato nelle
rilessioni metodologiche delle discipline storiche. L’archivio
è la condizione della conoscenza storica. Senza biblioteche,
musei, documenti, nessun sapere storico si potrebbe costituire e non sarebbe possibile alcuna conoscenza del passato.
Allo stesso modo, anche se in misura minore, anche le scienze
naturali possono venir ricondotte alla necessità di questo
principio epistemologico. Senza la possibilità di accedere alle
ricerche dei grandi scienziati del passato, senza la possibilità
di fruire dei risultati di secoli di lavoro teorico e sperimentale, lo scienziato sarebbe condannato a un perenne nuovo
inizio. Ogni volta bisognerebbe cominciare di nuovo dalle
fondamenta. Per questo in tutti i campi della conoscenza un
buon ricercatore non disdegna mai di ricordare che «siamo
nani sulle spalle dei giganti».
In misura minore anche alla memoria viene tributato il
medesimo onore. In questo caso i limiti dovuti alla initezza
umana rendono lo «strumento» più imperfetto: con il ricordo
non oltrepassiamo mai i conini dell’esperienza vissuta in una
singola vita umana. Ma è facile mostrare – Ricoeur ha dato
dignità e spessore teorico a questa idea – che la memoria è in
ultima analisi la «fonte» più originaria, la «materia prima» del
lavoro di archiviazione e dunque indirettamente è l’origine
di tutti i saperi storici.
Non credo sia necessario sviluppare queste idee che sono
quasi universalmente condivise e che anch’io condivido. È
necessario invece guadagnare un punto di vista più radicale
250
che ci consenta di cogliere i profondi problemi ilosoici che si
celano dietro l’evidenza di queste asserzioni epistemologiche
elementari. Occorre mostrare il ruolo che memoria e archivio
giocano in una teoria fenomenologica del soggetto. Prenderò dunque le mosse da alcune straordinarie osservazioni
di Husserl nelle Meditazioni Cartesiane e ne L’origine della
geometria, che fungeranno da guida per il percorso di questo
capitolo. In seguito mi sofermerò sulla celebre Introduzione
derridiana a L’origine della geometria. Dalla lettura dei testi
di Husserl emergerà già in modo evidente che dal punto di
vista trascendentale archivio e memoria sono condizioni di
possibilità essenziali per la costituzione tanto del soggetto
quanto dell’oggetto, ma sarà la critica derridiana che ci consentirà di compiere un passo essenziale nella comprensione
del signiicato che bisogna attribuire alla parola «trascendentale». Inine l’ultimo interlocutore chiamato in causa in
questo capitolo sarà Maurizio Ferraris. Come si vedrà il suo
lavoro sull’archivio e la traccia, Documentalità, si colloca in
un percorso ideale che parte dal tardo Husserl e prosegue con
il primo Derrida, aggiungendo un ultimo e non trascurabile
contributo.
1. Il ricordo come fondamento della oggettività e
della soggettività
La rimemorazione è l’atto attraverso cui la coscienza può conoscere, riproducendolo, il proprio passato. Ma in una teoria
fenomenologica della coscienza la funzione del ricordo non
è afatto limitata al solo recupero del passato. Nel sistema
husserliano la rimemorazione ha un signiicato trascendentale del tutto peculiare. Questa peculiarità viene illustrata
in diversi luoghi, forse però i due testi dove viene esplicitata meglio sono le Meditazioni Cartesiane e Bewusstsein und
Sinn – Sinn und Noema, un testo meno conosciuto ma per
certi aspetti ancora più chiaro, dove le analisi dedicate alla
costituzione del senso si incontrano con la teoria del ricordo.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
251
In questi due testi Husserl chiama in causa la rimemorazione per spiegare la possibilità del costituirsi all’interno della
coscienza di quelli che lui chiama «oggetti immanenti» o
«oggetti intenzionali». Non si tratta qui in primo luogo delle
oggettività passate, degli oggetti che si sono già presentati
alla coscienza e che sono sprofondati nell’abisso ritenzionale,
quanto piuttosto degli oggetti immanenti in senso generale,
degli oggetti che la coscienza prende di mira negli atti della
sua vita presente. Ovviamente tali oggetti non devono essere
confusi con gli oggetti reali efettivamente esistenti nel mondo obbiettivo. Gli oggetti immanenti non sono realmente
presenti «nella» coscienza, così come una cosa è presente in
una scatola. Ciononostante si tratta di veri e propri «oggetti»,
di formazioni di senso che, benché irreali, sono caratterizzate
da una caratteristica stabilità.
L’oggettualità qui coincide con l’identità. L’oggetto intenzionale è qualcosa che permane come identico nel modiicarsi continuo dell’esperienza immanente. Il medesimo senso
può darsi in modi diversi a seconda del variare dei modi di
apparizione. «L’oggetto intenzionale come tale di ciascuna
coscienza, è consaputo come unità identica dei mutevoli modi
noetico-nomeatici di coscienza, siano essi intuitivi o meno»1.
Questa identità del senso è l’essenziale. Ma a questo livello
il processo di costituzione di una oggettività non è ancora
completo. Quando un fenomeno appare per la prima volta (per esempio in una percezione concreta), nel continuo
variare dei modi in cui si presenta c’è qualcosa che rimane
stabile. Una prima forma di identiicazione – anche se non si
tratta di una vera e propria sintesi dell’identità – si ha già a
questo stadio preliminare, quando la coscienza riconosce una
costanza all’interno di una variazione. Ma l’identiicazione
vera e propria accade solo dopo, a posteriori. È solo con la
riapparizione del fenomeno che diviene possibile una vera
1. e. husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Husserliana i,
Martinus Nijhof, Den Haag 1973, tr. it., Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano
2002, p. 71.
252
e propria sintesi della identiicazione. La coscienza può dire
«lo stesso» solo come «di nuovo». Ma che cosa permette il ripetersi delle identiicazioni? Cosa permette alla coscienza di
riconoscere una formazione di senso che si ripresenta come
«la stessa»? È qui che interviene il ricordo.
Come può un vissuto mio proprio ottenere per me il senso e il valore
di un ente identico nella sua forma e nel suo contenuto temporale?
L’originale non c’è più, ma io attraverso ripetute rimemorazioni, ritorno ad esso; quest’atto si compie nell’evidenza che ha per titolo la
proposizione: «io posso fare così sempre di nuovo». Ma queste rimemorazioni ripetute formano evidentemente una successione e sono tra
di loro separate. Ciò non impedisce che una sintesi di identiicazione
le congiunga nella coscienza evidente della identità, ove è inserita
l’identica e irripetibile formazione temporale provvista dello stesso
contenuto. Quindi l’espressione «identico» vale qui (e in generale) come identico oggetto intenzionale di vissuti separati a essi immanente
e perciò, solo come un irreale2.
Se la coscienza non potesse riprodurre ciò che ha già vissuto,
se le formazioni di senso che sono svanite nel passato non
potessero essere richiamate, nessuna identiicazione sarebbe possibile e di conseguenza nessuna oggettività potrebbe
costituirsi. Questo signiica che il ricordo è il fondamento essenziale di ogni obbiettivazione. Una coscienza che non fosse
dotata di questo «potere» riproduttivo, sarebbe condannata
al caotico succedersi di eventi di senso del tutto eterogenei e
del tutto incomprensibili. Una coscienza di questo genere non
potrebbe mai rapportarsi a nessun «oggetto», perché l’oggetto
si costituisce come qualcosa che può essere riprodotto sempre
di nuovo, come qualcosa che può essere identiicato sempre di
nuovo. Senza la possibilità di questo sempre di nuovo (immer
wieder) nulla potrebbe darsi, nulla potrebbe apparire3.
2. Ivi, p. 145.
3. «Gäbe es keine Wiedererinnerung (falls ein Bewußtseinsleben ohne sie
möglich wäre), so wäre für das Ich nur die jeweilige wahrnehmungmäßig kon-
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
253
Questa iterabilità essenziale, che il ricordo rende possibile, ha un signiicato trascendentale che deve essere colto in
tutta la sua profondità. Il processo di costituzione del senso
comincia già con la percezione. Nella sintesi temporale che
tiene insieme l’ora dell’impressione originaria, l’appena passato della ritenzione e il futuro imminente della protenzione,
appare già una unità sensata. Ma questa unità di senso diventa
una oggettività vera e propria solo nella misura in cui diviene
un possesso stabile della coscienza. Non è necessario che vi
sia una efettiva ripetizione dell’esperienza – come quando
percepiamo più volte lo stesso oggetto o come quando lo
ricordiamo efettivamente – perché il processo di obbiettivazione si compia. È necessario però che la ripetizione sia
possibile.
[...] l’unità che si costituisce nella percezione stessa e solamente in
essa, così come si costituisce nella pura passività prima di ogni ricordo e prima di ogni conoscenza attiva, non è ancora un «oggetto».
L’«oggetto» è il correlato della conoscenza, la quale conoscenza si
trova originariamente nel processo di identiicazione sintetica che
presuppone il ricordo4.
Per chiarire questa implicazione essenziale consideriamo un
esempio (un esempio di ispirazione bergsoniana). Immaginiamo di ascoltare un uomo che pronuncia una sequenza di
stituierte Gegenständlichkeit da, in ihrem gegenwärtigen zeitlichen Werden. Aber
im vollen Sinn gäbe es eigentlich gar keinen Gegenstand für das Ich, es fehlte ihm
ja das Bewußtsein von einem in mannigfaltigen möglichen Erfassungen Erfaßbaren, von einem Seienden, auf das man immer wieder zurückkommen und <das
man> als dasselbe erkennen und weiter das man als einen frei verfügbaren Besitz
zu eigen haben kann». e. husserl, Bewusstsein und Sinn - Sinn und Noema (1920),
in Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs - und Forschungsmanuskripten,
1918-1926, Husserliana xi, Martinus Nijhof, Den Haag 1966, p. 326.
4. (t.d.a.) «Jetzt gilt es nur, klarzusein, daß das in der Wahrnehmung selbst
und allein sich konstituierende Eine, wie es vor aller Wiedererinnerung und aller
aktiven Erkenntnis sich in reiner Passivität konstituiert, noch kein „Gegenstand”
ist. „Gegenstand”ist Korrelat der Erkenntnis, welche Erkenntnis ursprünglich in
synthetischer Identiizierung liegt, die Wiedererinnerung voraussetzt». Ivi, p. 327.
254
numeri in una lingua a noi sconosciuta. Volendo possiamo
pensare che si tratti dell’estrazione dei numeri vincenti di una
lotteria. I suoni che udiamo si organizzano immediatamente
in unità discrete che corrispondono alle parole di una lingua
straniera. Questa organizzazione avviene in modo puramente
passivo, senza alcun intervento cosciente del soggetto, in base
alle regole della associazione a cui la percezione obbedisce.
La costituzione del senso è già iniziata con questa prima
organizzazione del materiale sensibile. Infatti alcune unità
sonore appaiono. Ma si tratta di vere e proprie oggettualità?
Possiamo già considerare queste formazioni di senso come
«oggetti sonori»? No. Immaginiamo di essere stati distratti,
poco dopo il risuonare delle misteriose parole straniere, da
un qualche evento curioso. Trascorso poco tempo non siamo
più in grado di ricordare quello che abbiamo sentito. Forse, se
avessimo mantenuto la concentrazione, se ci fossimo sforzati
di ripetere mentalmente i suoi uditi, avremmo potuto imprimerli nella nostra coscienza e successivamente ricordarli. Ma,
poiché ci siamo distratti, la situazione è diversa. La percezione
originaria non è più riproducibile, non la possiamo ripetere.
La formazione sonora che abbiamo udito non si è dunque
costituita ino in fondo, non è divenuta un possesso stabile
per la coscienza, non ha raggiunto il rango della «oggettualità» vera e propria. Con aria un po’ attonita ci domandiamo:
«che cosa ho sentito poco fa’?». Dei suoni, anzi, dei fonemi.
Sì, ma quali? Il «cosa» della nostra percezione, non potendo essere ripetuto, è completamente andato perduto. Non
sappiamo più dire cosa esattamente abbiamo sentito. Se il
nostro interlocutore immaginario avesse parlato italiano, le
cose sarebbero andate diversamente. I suoni uditi nella percezione si sarebbero organizzati secondo la medesima logica
associativa, ma avrebbero anche richiamato il senso noematico di analoghe percezioni precedenti e sarebbero entrati in
una sintesi di identiicazione. Avremmo riconosciuto le unità
sonore come «le stesse». Questa identiicazione avrebbe reso
possibile il costituirsi nella percezione di una vera e propria
oggettualità e il ripetersi eventuale dell’esperienza in una ri-
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
255
memorazione. Dunque il passaggio dalla prima costituzione
del senso a livello passivo (il formarsi di una unità sonora)
alla oggettività vera e propria è un salto, una trasposizione,
che è in una relazione essenziale con la possibilità stessa del
ricordo5.
Ciò che vale per gli oggetti immanenti in generale vale
anche per quella specie di oggetti intenzionali che sono gli
oggetti ideali in senso stretto. Nell’esempio che abbiamo appena preso in considerazione la coscienza si rapportava con
un oggetto sonoro. Si trattava della percezione di una realtà
empirica particolare. Queste realtà empiriche sono caratterizzate per la loro contingenza assoluta: sono qui e ora. Per
contro gli oggetti ideali, proprio in virtù della loro idealità,
sono fuori del tempo e dello spazio6. Il modello che Husserl
ha in mente, quando pensa agli oggetti ideali in senso stretto,
è quello delle entità matematiche e geometriche. Evidentemente tali entità non hanno nessun rapporto con un qui e
ora determinato, sono esattamente le stesse in tutti i momenti
del tempo e in tutti i luoghi dello spazio. Ma come bisogna
intendere questa atemporalità degli oggetti ideali? In un pas-
5. È più diicile fare un esempio tratto dal campo visuale, ma non è impossibile. Si tratta sempre di esempi un po’ astratti e un po’ artiiciosi, ma questo
non è di obbiezione. La diicoltà quando si considera il mondo visivo deriva
dalla potenza della forza strutturante della vista. Ovunque guardiamo ci sono
oggetti, l’informe non ha praticamente alcuno spazio nel mondo visivo – cosa
signiicativa su cui si potrebbe rilettere a lungo. Possiamo però immaginare un
grande schermo – simile a quello di certe installazioni contemporanee – su cui
si susseguono igure informi e variazioni cromatiche inefabili. Noi vediamo le
variazioni e vediamo le igure, anche se non sapremmo né spiegare né deinire
quello che stiamo vedendo. Per il solo fatto che vediamo igure e variazioni, una
unità visiva, una prima sintesi, si è già data. Ma nessun oggetto si è ancora costituito per noi. Non sappiamo «cosa» stiamo vedendo e per questo non potremmo
mai ricordarcene.
6. È chiaro che anche gli oggetti intenzionali della percezione sono «ideali».
Sono formazioni ideali che, in quanto tali, si contrappongono alla realtà obiettiva delle cose che sono nello spazio e nel tempo. Ma gli oggetti ideali in senso
speciico sono quelli che non hanno una genesi empirica e non dipendono da
una esperienza particolare.
256
so straordinario delle Meditazioni cartesiane Husserl fa una
osservazione che non è sfuggita a Derrida.
In tal modo si risolve il problema trascendentale, in sé altamente
signiicativo, delle oggettività ideali, cosiddette in senso speciico. La
loro sovratemporalità si mostra come onnitemporalità, come correlato
di una libera riproducibilità in ogni momento qualunque7.
Che cosa signiica ideale? L’ideale è il sovratemporale. Ma la
sovratemporalità non è una atemporalità, è una onnitemporalità. L’ideale non è ciò che è fuori dello spazio e del tempo,
ma ciò che è sempre identico in ogni qui e ora contingente.
In questo senso l’onnitemporalità è il correlato della possibilità indeinita di riproduzione. L’ideale è ciò che in ogni
momento e in ogni luogo si può ripetere esattamente uguale a
se stesso. L’oggettivazione – cioè la costituzione di oggettualità
determinate –, l’idealizzazione – cioè il superamento della
contingenza empirica – e la ripetibilità – che è il principio
essenziale del ricordo e dell’archivio – sono dunque tre momenti di un unico processo.
Con ciò il signiicato trascendentale della memoria non
è ancora esaurito:
L’ego stesso c’è per se stesso in uno stato di continua evidenza, in
quanto costituente continuamente se stesso come esistente. Noi abbiamo
inora toccato solo un lato di questa costituzione, poiché abbiamo
guardato solo verso la corrente del cogito. Ora l’ego coglie se stesso
non solamente come corrente di vita, ma anche come «io», come io
che ho questo o quest’altro oggetto di coscienza, come io che vive
questo o quel cogito in quanto sono lo stesso io8.
Oltre a essere il fondamento della costituzione della oggettività, il ricordo è necessario per la costituzione della soggettività.
Così come l’oggetto è tale solo nella misura in cui è una unità
7.
8.
e. husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, cit. p. 146.
Ivi, p. 92.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
257
che permane identica a se medesima, allo stesso modo il
soggetto è tale solo nella misura in cui si riconosce come lo
stesso in tutti i diversi momenti della sua esistenza. Gli oggetti
immanenti si costituiscono in una sintesi dei diversi momenti
dell’esperienza. Ma a questa sintesi oggettuale, attraverso la
quale si costituisce il mondo delle cose di cui la coscienza può
fare esperienza, si aggiunge «una seconda specie di sintesi che
comprende tutte insieme, in modo tutto nuovo, le diverse
molteplicità di cogitationes, ossia la sintesi dell’io identico»9.
L’io – l’io trascendentale, non l’io empirico – è sempre lo
stesso in tutti i suoi vissuti: nelle sue percezioni, nei suoi
ricordi, nelle sue fantasie, nei suoi giudizi, nei suoi desideri,
ecc. Anche qui bisogna chiedersi: cosa rende possibile questa
nuova sintesi di identiicazione? Senza la rimemorazione l’io
stesso non potrebbe autoriconoscersi.
Il ricordo è un atto complesso, un atto che implica intenzionalmente al suo interno un altro atto, nella maggior
parte dei casi una percezione precedente. Il soggetto che
compie la rimemorazione non si presentiica soltanto un
oggetto del passato, ma anche un soggetto del passato. Nel
caso del ricordo di una percezione oltre al percepito viene
rappresentato anche un io che percepisce, l’io che nel passato
ha percepito quel particolare oggetto. Perciò l’io presente è
sempre circondato da un orizzonte ininito di io passati che
potenzialmente possono essere richiamati. L’unità di questa
molteplicità di io potenziali, l’unità del soggetto, non sarebbe
possibile senza il ricordo. La coscienza può costituirsi come
una «identità» – qui i due sensi della parola sono entrambi
pertinenti – solo in relazione alla molteplicità ininita degli io
passati in cui si autoriconosce10. L’identità del soggetto si fonda
9. Ibidem.
10. Derrida nella sua Introduzione si spingerà molto oltre Husserl in questa
direzione. Se è vero che il ricordo implica sempre un io ricordato, oltre che un io
che ricorda, e se è vero che è il ricordo che rende possibile il reiterarsi dell’identiicazione, allora si viene a creare un parallelismo essenziale tra questa dinamica
intrasoggettiva e la dinamica della costituzione intersoggettiva dell’oggettività che
Husserl illustra altrove. L’intersoggettività appare così in qualche modo interna al
258
sulla memoria. Questo vale innanzitutto per l’io trascendentale, che deve potersi riconoscere come permanente nelle
diverse fattispecie della sua esperienza. Ma vale anche – di
conseguenza – per l’io empirico. La persona concreta è una
identità che si costruisce come una storia esistenziale sul fondamento di una memoria individuale.
2. “L’origine della geometria”: il significato
trascendentale della archiviazione
Da quello che è emerso in qui si capisce chiaramente che il ricordo, o meglio, il fondamento essenziale del ricordo – il potere di ripetizione che rende possibile tanto la rimemorazione
quanto l’archivio, ciò che qui chiamiamo «ipomnesi» – è una
condizione necessaria dell’esperienza in generale. È qui che
si apre la breccia attraverso cui l’interpretazione derridiana
penetra, per scardinare dall’interno tutto l’ediicio fenomenologico. Il principio fondamentale dell’evidenza – quel «principio dei principi» che tante volte Husserl ha ribadito – vacilla
nel momento in cui la ripetizione viene inserita nel cuore
dell’originario. Se il darsi originario delle cose, se l’apparire
stesso delle oggettività, è condizionato dalla possibilità di
una riproduzione potenziale, allora la ripetizione diventa una
sorgente di originarietà. Il che signiica che l’originarietà assoluta non esiste afatto, è un mito, un sogno, come Derrida
non ha mai smesso di afermare. Il fatto strano è che lo stesso
Husserl – come si è visto nel paragrafo precedente e come si
vedrà anche tra poco – scopre, in un certo senso svela, questa
soggetto stesso. «Prima di essere l’idealità di un oggetto identico per altri soggetti,
il senso è tale idealità per dei momenti altri del medesimo soggetto. L’intersoggettività è dunque anzitutto, in certo modo, il rapporto non empirico di me con
me, del mio presente attuale con altri presenti come tali, cioè come altri e come
presenti (come presenti passati), di un’origine assoluta con altre origini assolute,
che sono sempre mie malgrado la loro alterità radicale». j. derrida, Introduction
a L’origine de la geometrie, P.U.F., Paris 1962, tr. it. Introduzione a “L’origine della
geometria” di Husserl, Jaca Book, Milano 1897, p. 140
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
259
commistione di originarietà e riproducibilità. Paradossalmente è proprio nei testi di Husserl che Derrida trova tutti
gli argomenti per contestare la fenomenologia husserliana.
L’origine della geometria rappresenta l’ultimo e il più decisivo passo che Husserl compie in direzione di una uscita
dalla sua stessa ilosoia, ma forse sarebbe più prudente dire: «da una parte della sua ilosoia». Questo testo si può
considerare nello stesso tempo come l’ultimo capitolo del
pensiero husserliano e il primo del pensiero derridiano. Il
problema da cui la rilessione prende avvio è di nuovo quello della costituzione delle oggettività ideali. L’origine della
geometria – l’origine in senso storico-trascendentale, non in
senso storico-empirico – viene presentata da Husserl come
un caso esemplare, come il caso di studio più emblematico,
per comprendere la genesi delle oggettività ideali in generale.
Ma rispetto ai testi che abbiamo appena considerato, Le meditazioni cartesiane e Bewusstsein und Sinn - Sinn und Noema,
accade qui qualcosa di nuovo e, per molti versi, imprevedibile.
Non è più la rimemorazione a rendere possibile il costituirsi
delle oggettività ideali, ma l’archiviazione.
Le entità geometriche, anche se sono a tutti gli efetti puri
oggetti ideali, devono aver avuto una origine storica. Ci deve
essere stato un istante nel tempo – non sappiamo esattamente
quale, né ci interessa saperlo, dal momento che non dobbiamo tentare una ricostruzione storico-empirica – in cui per la
prima volta un individuo ha inventato e scoperto tali entità.
Ci deve essere stata una «prima volta», una situazione storica
in cui tali oggettività ideali si sono presentate alla coscienza
di un singolo. Inizialmente le formazioni geometriche devono essere apparse come rappresentazioni psichiche di un
soggetto individuale, il primo «protogeometra». Ma le oggettività ideali, proprio perché sono ideali, non hanno e non
possono avere una esistenza di ordine psichico. Le verità della
geometria non possono essere legate alle rappresentazioni di
una soggettività particolare. Il problema è dunque di capire come si è passati dalla prima rappresentazione di ordine
psichico alla idealità vera e propria. Husserl anticipa in da
260
subito l’inedita soluzione che gli si prospetta per risolvere
questo problema:
Ora, il nostro problema concerne appunto quelle oggettività ideali che
sono tematizzate dalla geometria: come avviene il passaggio dell’idealità geometrica (e di quella di tutte le altre scienze) dalla sua origine
intra-personale, per cui essa è una formazione che rientra nello spazio
coscienziale dell’anima del primo inventore, alla sua obbiettività ideale? Già qui possiamo rispondere: per mezzo della lingua, attraverso la
quale essa si incarna, per così dire, nel suo corpo proprio linguistico11.
Il linguaggio è la condizione della idealizzazione delle oggettività. Anche qui, come sempre, il problema della fenomenologia è quello della permanenza dell’evidenza originaria. Ma
il processo di reiterazione dell’evidenza appare ora a Husserl
molto più complicato, rispetto alle ipotesi delle Meditazioni
Cartesiane. Il ruolo della rimemorazione rimane lo stesso:
essa assicura «la possibilità attiva di una illimitata riproduzione dell’evidenza dell’identità (coincidenza dell’identità)»12.
Ma ora a Husserl appaiono chiari i limiti di questo processo
indeinito di ripetizione. La «catena ininita delle riproduzioni» in realtà non può mai essere «ininita». Non può esserlo
per principio, perché è vincolata dalla initezza del soggetto
empirico che ricorda. Finché rimangono ancorate in questo
modo alla contingenza empirica, le formazioni di senso che
si sono costituite per la coscienza, non raggiungono il grado
della vera obbiettività. O meglio: sono obbiettive – abbiamo
visto poc’anzi che la rimemorazione fonda la possibilità della
oggettività – ma la loro obbiettività non è ancora l’obbiettività
ideale, rimane una obbiettività empirica. Perché si raggiunga
il grado superiore della idealità è necessario «travalicare il
11. e. husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaten und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie,
Martinus Nijhof, Den Haag 1976, tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Net, Milano 2002, p. 384.
12. Ivi, 387.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
261
soggetto». L’oggettività piena si costituisce solo come un superamento della soggettività empirica. Solo quando «i prodotti
spirituali possono venir tramandati nella loro uguaglianza da
persona a persona»13, si può parlare veramente di oggettività
ideali. Ma che cos’è che rende possibile questa trasmissione?
questo tramandarsi dell’identità da un soggetto all’altro? È
il linguaggio.
La logica che soggiace al ragionamento husserliano rimane sempre quella della permanenza nella variazione, solo che
qui la modiicazione dell’esperienza è molto più radicale: non
si tratta più di atti diversi del medesimo soggetto esperiente,
ma di atti diversi di diversi soggetti esperienti. Così come il
ricordo è ciò che rende possibile che la stessa formazione di
senso venga riconosciuta in diversi momenti della vita soggettiva come identica a se stessa, allo stesso modo la parola è
ciò che permette che un signiicato ideale venga colto come
identico da diversi soggetti. Grazie al linguaggio l’identità
oltrepassa i limiti dell’esperienza soggettiva. Dopo aver riconosciuto l’imprescindibilità del ricordo, dobbiamo dunque
riconoscere la necessità trascendentale del linguaggio. Ma
questo non è ancora l’ultimo passo nel cammino verso la
piena idealizzazione delle entità geometriche. Il linguaggio
assicura la possibilità della comunicazione interpersonale
della verità e con ciò i limiti del soggetto singolo sono superati. Ma rimangono ancora i limiti della comunità particolare
in cui la comunicazione avviene.
Manca ancora un’esistenza permanente degli oggetti ideali, una esistenza che duri anche attraverso quei tempi in cui lo scopritore e i suoi
compagni non vivono nella vita desta, nella connessione comunicativa, oppure addirittura non vivono più afatto. Manca ancora, cioè agli
oggetti ideali, un essere persistente (Immerfort-Sein) indipendente dal
fatto che qualcuno li realizzi o meno nella loro evidenza14.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
262
La permanenza della verità nella sua identità viene deinitivamente assicurata solo quando anche questi limiti sono
superati, solo quando l’oggettività che si è costituita può essere trasmessa non solo da un soggetto all’altro, ma da una
comunità all’altra, da una generazione all’altra. Questa tramandabilità è resa possibile dalla scrittura. L’archiviazione
rende possibile la tradizione e nella tradizione il processo di
costituzione di una oggettualità ideale raggiunge inalmente
il suo compimento. Il senso è veramente ideale solo quando
può essere tramandato perché solo a questo punto i limiti
empirici sono deinitivamente oltrepassati. La situazione che
si determina è del tutto paradossale. L’idealizzazione, cioè il
superamento dell’empirico, è resa possibile da una operazione di scrittura, cioè da qualcosa di totalmente empirico. La
ilosoia derridiana si può ricondurre quasi integralmente al
ripensamento di questo paradosso – è il secondo paradosso
che rileviamo, il paradosso della scrittura – per cui l’ideale
ha come condizione di possibilità l’empirico.
Il momento della archiviazione garantisce la permanenza
dell’oggettualità al di là dei conini segnati dalla morte del primo protogeometra e della sua comunità. Questa operazione
di scrittura non è senza conseguenze. «Attraverso la registrazione scritta, si attua una modiica dell’evidenza del modo di
essere originario della formazione di senso [...] L’evidenza,
per così dire, si sedimenta»15. L’archiviazione è anche una
perdita dell’evidenza. La verità originaria non è più presente
in se stessa, è sostituita da un segno. Ma questa perdita non è
mai irrimediabile. Il lettore può sempre «riattivare» il senso,
renderlo di nuovo evidente. In questo modo le generazioni
successive, le comunità dei soggetti a venire, possono ricostituire esattamente quella oggettualità che originariamente si
era presentata come una rappresentazione psichica del primo
protogeometra. Possono riprodurla in modo autentico. Solo
a questo punto è deinitivamente assicurata la possibilità di
15. Ivi, p. 388.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
263
una ripetizione potenzialmente ininita, quella possibilità che
nelle Meditazioni cartesiane era posta come il correlato della
omnitemporalità degli oggetti ideali.
Husserl giunge così ino al limite estremo cui poteva giungere senza rinnegare se stesso, in sulla soglia che conduce
dalla fenomenologia all’ermeneutica. Ma quella soglia non
la oltrepassa.
3. La radicalizzazione derridiana
Senza dubbio le rilessioni presenti ne L’origine della geometria – ma più in generale l’afermazione vale per tutti i testi
tardi di Husserl – sono indice di un profondo ripensamento
dei temi essenziali della fenomenologia. Il cammino di pensiero che separa le Ideen e la Krisis è davvero notevole. Il fatto
che Husserl recuperi il tema della storicità, rivaluti il ruolo del
linguaggio, si interroghi circa il legame essenziale che unisce
il soggetto a un mondo, a una tradizione, a una comunità; tutto ciò può quasi far pensare a una «svolta» ermeneutica della
fenomenologia husserliana. In realtà non è così16. Il recupero
del linguaggio è anche una neutralizzazione della concretezza
dell’espressione linguistica. Il recupero della storia è anche
una riduzione della storicità fattuale. Il linguaggio di cui L’origine della geometria riconosce la necessità non deve essere
confuso con una qualche lingua empirica. Si tratta di un puro
linguaggio trascendentale, un linguaggio ideale che non può
essere ricondotto a questa o quella lingua efettiva. Husserl lo
dice nel modo più esplicito. Gli oggetti ideali sono tali solo
nella misura in cui non sono legati a nessuna fattualità empirica. Proprio per questo il modello della idealità sono le entità
matematiche e geometriche. I concetti empirici – Husserl fa
l’esempio del concetto di «leone» – hanno certamente una
16. In particolare Derrida prende le distanze dalla interpretazione di MerleauPonty che tende a enfatizzare il contrasto tra il primo Husserl e il tardo Husserl.
Cfr. j. derrida, Introduction a L’origine de la geometrie, cit., p. 130.
264
loro idealità, ma non sono pure oggettività ideali. Rimane
sempre in tali concetti un legame con la storicità di una certa
esperienza particolare. Per questo la comunicazione del senso
da un soggetto all’altro, può sempre dar luogo a un equivoco
o ad un fraintendimento. Allo stesso modo la traduzione,
cioè la trasmissione della verità da una comunità all’altra,
non può mai essere perfetta. C’è sempre una certa opacità, la
traducibilità non è mai assoluta. Al contrario «la geometria
esiste una volta sola, per quanto possa essere formulata molte
volte e persino in molte lingue. La geometria è identicamente
la stessa nella “lingua originale” di Euclide come in tutte le
“traduzioni”»17. Se possiamo immaginare uno scacco nella
tradizione di una verità empirica, se possiamo immaginare
che tra tremila anni gli uomini non siano più in grado di
comprendere il signiicato della parola «leone», non è così,
invece, per concetti come «triangolo», «linea» o «punto». La
loro idealità li mette al riparo da qualsiasi condizionamento
fattuale.
Ne L’origine della geometria non c’è dunque nulla di veramente rivoluzionario rispetto alle posizioni del primo Husserl. Anche qui la fenomenologia si conigura innanzitutto
come una lotta per l’univocità e la trasparenza del signiicato. Lungi dal riabilitare la fattualità del linguaggio, Husserl
raccomanda di guardarsi dalla «seduzione della lingua» e di
esercitarsi in un «controllo dell’univocità dell’espressione
linguistica [...] attraverso una scelta accurata delle parole,
delle proposizioni, dei nessi verbali18». Questa univocità è
condizione per la assoluta traducibilità e dunque per la perfetta tramandabilità.
Inerisce cioè all’essenza della scienza la costante pretesa, oppure la
convinzione personale da parte dei suoi funzionari, che tutto ciò che
essi enunciano scientiicamente è enunciato «una volta per sempre»,
17. e. husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaten und die transzendentale Phänomenologie, cit., p. 384.
18. Ivi, p. 389.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
265
è «assodato», e può essere sempre riprodotto nella sua identità, nell’evidenza, e utilizzato per ulteriori ini teoretici e pratici – e quindi
indubbiamente riattivabile nell’identità del senso che gli è proprio19.
La perfetta tramandabilità è a sua volta il requisito imprescindibile di ogni verità che voglia dirsi «scientiica». Una scienza
è tale solo nella misura in cui è onnitemporale e universale,
cioè solo nella misura in cui è «svincolata» da ogni legame
con un determinato qui e ora.
Se il pensiero di uno scienziato assumesse qualcosa di «vincolato all’epoca», cioè alla mera fattualità del suo presente, o qualcosa che vale
per lui soltanto come una mera tradizione fattuale, la sua formazione
spirituale acquisterebbe appunto un senso d’essere vincolato al tempo
e sarebbe comprensibile soltanto per quegli uomini che condividono
con lui gli stessi presupposti conoscitivi fattuali20.
Si vede qual è l’orizzonte concettuale all’interno del quale
si mantiene L’origine della geometria. Il linguaggio puro di
cui Husserl riconosce la necessità non può e non deve avere
nulla di storico e nulla di empirico. Lo stesso si può dire
per la valorizzazione della scrittura. Husserl riconosce il signiicato trascendentale della archiviazione, ma nello stesso
tempo nega che l’operazione di iscrizione del senso possa
avere un qualche inlusso. La trasmissione della verità non
può mai alterare il senso originario. O meglio: può, ma non
deve. Husserl sa bene che la sedimentazione della verità è
anche una modiicazione del senso. Ma questa modiicazione
gli appare solo come qualcosa di negativo e di provvisorio,
come una perdita che per principio può sempre essere compensata. Il momento della archiviazione produce un temporaneo occultamento della verità, che non è più presente
in se stessa, ma la potenza della «riattivazione» del soggetto
che «rianima» le morte scritture, assicura la ricostituzione
19. Ivi, p. 389.
20. Ivi, p. 404.
266
integrale dell’oggettività originaria. Husserl riconosce che
l’archivio è la condizione trascendentale della tradizione e che
la tradizione è costitutiva del mondo come orizzonte di senso
a cui un soggetto è sempre consegnato. Ma, dal momento
che il senso deve potersi ripetere nella sua esatta identità, la
tradizione, cioè la trasmissione del senso, non deve produrre alcuna «diferenza». La tradizione deve essere ininluente,
altrimenti l’idealità pura non sarebbe possibile.
L’interpretazione derridiana rovescia completamente
questa posizione di principio. La rovescia – come si è detto – radicalizzando le conclusioni cui lo stesso Husserl giunge21. Bisogna però fare molta attenzione a non fraintendere
il signiicato di questo ribaltamento. Per una certa vulgata la
tesi di fondo de L’introduzione a «L’origine della geometria»
consisterebbe in una negazione dell’esistenza degli oggetti
ideali. Il ripensamento dei rapporti tra ideale ed empirico
proposto da Derrida condurrebbe a una relativizzazione delle
verità della matematica e della geometria. Io non credo che
questa tesi sia ino in fondo sostenibile e non mi sembra
nemmeno che sia questa l’interpretazione corretta del testo
de L’introduzione a «L’origine della geometria»22. Di fatto Derrida non dice mai che le entità geometriche o matematiche
21. Di Martino racchiude il senso della posizione di Derrida in una formula
sintetica che mi sembra particolarmente eicace: «con Husserl nonostante Husserl e al di là delle sue stesse intenzioni». c. di martino, Derrida all’origine, in j.
derrida, Introduction a L’origine de la geometrie, tr. it., cit., p. 20.
22. Sono d’accordo con Ferraris che in Documentalità difende la pura idealità
delle verità della matematica e della geometria. Ferraris sembra però attribuire a
Derrida una contestazione della idealità di tali verità. Cfr. per esempio: «Derrida
ha equivocato, pensando che la comunicazione e la scrittura siano condizioni necessarie per la costituzione delle oggettività ideali». (m. ferraris, Documentalità.
Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 39) In realtà – come
ho mostrato nel paragrafo precedente – non è Derrida che dice questo, ma Husserl,
e questa tesi non implica nella fenomenologia husserliana nessuna contestazione
della idealità delle oggettività matematiche o geometriche. Dire che la scrittura e
il linguaggio sono condizioni necessarie per il costituirsi degli oggetti ideali non
signiica afatto dire che gli oggetti ideali non esistono o che sono relativi. Le due
tesi sono molto diferenti.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
267
sono relative. La diicoltà qui è nell’andamento zigzagante
che caratterizza la rilessione del testo derridiano (e in realtà
anche di quello husserliano). Il problema di partenza dell’Introduzione è quello della costituzione delle oggettività ideali.
Ma nei paragrai conclusivi – nei paragrai in cui Derrida,
dopo aver logorato il testo husserliano, scopre inalmente le
sue carte – il tema non è più quello delle oggettività ideali,
ma quello della costituzione del senso in generale. Questo
slittamento fa sì che non vi sia mai nell’Introduzione una
presa di posizione diretta ed esplicita circa la presunta relatività delle entità matematiche o geometriche23. In questa
sede il problema degli oggetti ideali – il cui afronto richiederebbe un altro libro – ci interessa solo tangenzialmente e
perciò non posso dilungarmi troppo su queste questioni che
rischierebbero di portarci fuori strada. Vorrei però cercare
di riassumere, in modo piuttosto schematico, le tesi di fondo
che Derrida espone nel suo testo. Queste tesi hanno infatti
profonde conseguenze su ciò che più ci interessa in questo
capitolo, cioè sul modo in cui si deve intendere il signiicato
trascendentale dell’archivio. Ovviamente questo schema non
ha nessuna pretesa di essere esaustivo di un libro diicile e
denso come l’Introduzione a «L’origine de la geometria».
a) Se Husserl tende a ridurre la fattualità del processo di
trasmissione della verità, Derrida mostra invece che la
comunicazione e la tradizione sono sempre modiicazioni
del senso. Il passaggio da un soggetto all’altro, da una
comunità all’altra, da una lingua all’altra, produce necessariamente «diferenza». Perciò le condizioni storico
fattuali della trasmissione, che in larga parte coincidono
con le modalità tecniche della archiviazione, hanno delle
23. Si può anche pensare che questo slittamento sia il frutto di una astuzia
espositiva. Posto di fronte alla domanda secca: «le verità della geometria e della
matematica hanno valore soltanto relativo?» Derrida avrebbe dovuto scegliere:
o seguire la via di un radicalismo diicilmente difendibile o ammettere che vi
sono dei limiti allo storicismo assoluto. La strategia retorica di Derrida mi sembra
molto più soisticata: non dice che le verità della matematica e della geometria
sono relative, ma lascia credere – a chi vuole crederlo – di averlo detto.
268
conseguenze essenziali sulla costituzione del senso stesso.
Questa fattualità non è accidentale e non può mai essere
completamente «ridotta».
b) Husserl parte dal presupposto che le entità matematiche e
geometriche siano il modello di ogni genere di oggettività.
L’oggettività ideale è per lui l’oggettività in senso compiuto.
Ma per quale ragione bisogna accettare questo postulato di
partenza? Derrida accusa Husserl di essere vittima – inconsapevolmente – di quegli stessi pregiudizi oggettivisti
(noi diremmo forse: «scientisti») che nella Krisis vengono
criticati24. Da questo punto di vista è molto emblematico
il tentativo husserliano – che emerge anche ne L’origine
della geometria – di ricondurre all’idealità la letteratura,
l’arte e più in generale il linguaggio poetico25. Perché,
bisogna dare per scontato che il «vero» linguaggio sia il
linguaggio univoco della matematica e della geometria?
c) La soggettività di cui la fenomenologia, in quanto ilosoia trascendentale, dovrebbe essere l’esplicazione totale è per molti versi inefabile e da diversi punti di vista
ambigua. Derrida si richiama da un parte alle ripetute
diicoltà espressive in cui si imbatte Husserl – diicoltà
che talvolta giungono allo scacco –, e dall’altra alla scoperta freudiana dell’inconscio. Non si può pensare che
l’essenziale della soggettività sfugga al linguaggio ideale?
che l’indagine scientiica – non bisogna dimenticare che
la fenomenologia ambisce a essere una «scienza» della
coscienza – abbia accesso solo a una parte, forse non la
più essenziale, della soggettività26? In questa prospettiva
il signiicato stesso della parola «trascendentale» viene
radicalmente riformulato. La ilosoia husserliana, al di
là di tutte le sue evoluzioni, rimane sempre una ilosoia
del soggetto e il trascendentalismo husserliano rimane
sempre centrato sulla potenza costituente della coscienza.
24. j. derrida, Introduction a L’origine de la geometrie, cit., p. 136.
25. Ivi, p. 145 nota.
26. Ivi, p. 135.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
269
A questo primato del soggetto Derrida contrappone il
riconoscimento della scrittura come «campo trascendentale
senza soggetto»27, condizione oggettiva per l’emergenza
stessa del soggetto.
d) Husserl ammette il signiicato trascendentale del linguaggio
e della scrittura, ma nello stesso tempo nega ogni valore al
fattuale e all’empirico. Alla concezione husserliana del puro
linguaggio ideale, di cui la scrittura sarebbe uno strumento
di registrazione, Derrida contrappone il riconoscimento
della natura essenzialmente tecnica della scrittura e del linguaggio. Husserl non potrebbe mai accettare che la tecnica,
o meglio, una tecnica sia costitutiva della soggettività del
soggetto. È il problema della tecnica il vero spartiacque tra
il modo in cui Husserl concepisce il linguaggio e la scrittura
e il modo in cui li concepisce Derrida.
e) Husserl descrive la dinamica attraverso cui si costituisce
l’idealità sia a livello soggettivo, grazie alla reiterazione
dell’identità assicurata dal ricordo, sia a livello intersoggettivo, grazie alla riproducibilità garantita dal linguaggio
e dalla scrittura. Ma «questo passaggio che “produce” l’idealità e l’oggettività pura come tali, Husserl lo descrive
sempre come una possibilità essenziale già data, come un
potere strutturale la cui fonte non è problematizzata»28.
Derrida accusa il suo «maestro» di non aver interrogato
ino in fondo quell’iterabilità essenziale che costituisce la
condizione di possibilità del ricordo, dell’archivio, del linguaggio, della fenomenologia in generale.
f) Husserl ha sempre tentato di sminuire il signiicato dell’oblio. Questa operazione teorica comincia già nelle lezioni
sul tempo di Gottinga, dove viene proclamata l’ininità
di principio della ritenzione. Una volta che una formazione di senso è apparsa alla coscienza, niente potrà più
cancellarla, resterà sempre a disposizione del potere riat27. Ivi, p. 142. Derrida riprende questa espressione assolutamente capitale da J.
Hyppolite.
28. Ivi, p. 139.
270
tivante della ritenzione rimemorante. Allo stesso modo
ne L’origine della geometria l’idealità mette al riparo gli
oggetti geometrici da ogni possibilità empirica di oblio.
Anche l’ipotesi di una distruzione radicale della traccia materiale serve a dimostrare l’indistruttibilità degli
oggetti ideali, la loro perenne incancellabilità. Se anche
tutti gli archivi e tutte le scritture andassero distrutti la
verità in essi contenuta non potrebbe mai essere perduta
perché non appartiene al regno dei fatti29. L’oblio è dunque idealmente impossibile. A tutto ciò Derrida risponde
appropriandosi di un motivo di pensiero heideggerriano:
il movimento della verità è sempre inseparabile dal movimento dell’oblio. Se con la scrittura si compie il processo
di idealizzazione degli oggetti immanenti, nello stesso
tempo si apre la possibilità di una perdita del senso. La
possibilità dell’oblio appartiene al movimento stesso della
archiviazione. Nel momento in cui viene iscritto, aidato
alla materialità di una traccia, il senso diviene vulnerabile.
Infatti in virtù della sua materialità la traccia può sempre
essere distrutta. Poiché essa rimanda a un evento che per
deinizione – è da qui che abbiamo preso le mosse nel
capitolo v – non è più presente, la distruzione dell’archivio implica l’impossibilità di una ricostituzione della
presenza del senso. La scrittura in quanto condizione
ultima della idealità assicura il tramandarsi della verità,
ma nello stesso tempo rende possibile in modo radicale
la scomparsa della verità. La traccia può essere male interpretata o può andare distrutta.
g) Husserl pensa sempre il momento della scrittura come
una caduta del senso nella passività in vista di una riattivazione futura sempre possibile. A ciò Derrida risponde
mostrando che questa riattivazione assoluta, non solo
non è mai possibile di fatto – perché la traccia può essere
distrutta o equivocata –, ma nemmeno di diritto. La riat-
29. Ivi, pp. 148 ss.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
271
tivazione assoluta sarebbe la ine della storia e dunque la
ine di ogni progresso. In una scienza articolata e complessa
come la geometria – ma la cosa si potrebbe ripetere per
qualsiasi sistema di verità – è impossibile che il singolo
scienziato ogni volta ricostituisca dall’origine l’evidenza
di tutte le proposizioni e di tutti i concetti che usa. Infatti
«una riattivazione totale, anche se fosse possibile, paralizzerebbe la storia interna della geometria tanto sicuramente quanto l’impossibilità radicale di ogni riattivazione.
Husserl non se ne preoccupa», ma questa initudine è
essenziale30. In realtà bisogna ammettere che la scienza
deve sempre presupporre e che il suo sapere non può mai
essere assoluto. Perciò anche le verità scientiiche, nella
misura in cui implicano dei presupposti e dei pregiudizi,
hanno una loro peculiare storicità.
h) Inine Husserl pensa che l’idealità degli oggetti geometrici
sia possibile solo come una negazione totale della sensibilità. Un entità geometrica è ideale solo nella misura in
cui è «sradicata da ogni terreno sensibile»31. Ma questa
posizione appare a Derrida come l’ultimo esito di un pregiudizio razionalista che deve essere scoperto e denunciato. Questa denuncia non coincide con la negazione della
idealità delle entità della matematica e della geometria,
ma con un ripensamento di tale idealità. Allo stesso modo la critica alla concezione husserliana dell’idea come
ininità di principio non è una confutazione della idealità
degli oggetti ideali, quanto piuttosto una contestazione
dell’evidenza come principio assoluto del vero. Se l’ininito è ciò che non può mai essere «dato», se l’idea non
può mai apparire in «carne e ossa», questo non signiica
che le entità ideali e ininite non esistono. Signiica che il
darsi delle cose non può essere pensato solo sul modello
dell’evidenza, cioè sul modello della presenza piena della
30. Ivi, p. 161.
31. Ivi, pp. 182 ss.
272
cosa in sé. È il signiicato dell’evidenza husserliana che
viene rigettato da Derrida, non quello dell’idealità32.
4. L’archivio come condizione di possibilità
degli oggetti sociali
L’ultimo contributo per la comprensione del signiicato trascendentale dell’archivio viene da Maurizio Ferraris. Il mio
debito nei confronti del suo libro Documentalità è notevole.
Tuttavia – prima di esporre l’idea più importante di questo
testo – è necessario accennare ai punti di distanza che mi
separano dall’impostazione di Ferraris. Il primo punto di
disaccordo riguarda l’interpretazione kantiana. In diversi
passi le idee kantiane sono oggetto di una brutalizzazione
che le rende del tutto indifendibili. Sicuramente ciò dipende
più da esigenze di eicacia retorica – dall’esigenza di mantenere uno stile espositivo diretto e «tagliente» –, che non da
reali fraintendimenti. Ciononostante mi sento di dire che
non mi riconosco nella presentazione della ilosoia kantiana
che emerge dalle pagine di Documentalità. La critica a Kant
nasce da alcune esigenze del tutto condivisibili: si tratta di
ristabilire una diferenza di principio tra il livello ontologico
e quello epistemologico, recuperare l’irriducibile carattere
di alterità del reale che Ferraris chiama «inemendabilità»,
ridimensionare le pretese di un testualismo assoluto che rischia di essere addirittura pericoloso. Il pathos «realistico»
che anima Documentalità mi trova del tutto consenziente.
Ma la polemica di Ferraris mi sembra che si rivolga a una
32. «Husserl non ha mai fatto dell’Idea stessa il tema di una descrizione fenomenologica. Non ne ha mai deinito direttamente il tipo di evidenza all’interno
di una fenomenologia il cui “principio dei principi” e la cui forma archetipica
dell’evidenza sono la presenza immediata della cosa stessa “in persona”, cioè,
implicitamente, della cosa deinita o deinibile nel suo fenomeno, dunque della
cosa inita [...] Non è un caso se non vi è una fenomenologia dell’Idea. Questa
non può darsi in persona, non può essere determinata in una evidenza [...]». Ivi,
pp. 197-198.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
273
interpretazione molto corriva del kantismo e lasci per lo più
intatte le istanze di una ilosoia critica che riconosca, con la
dovuta prudenza, il ruolo che il soggetto gioca nella costituzione della realtà.
Il secondo punto di disaccordo è ancora più sostanziale
perché riguarda il tema principale del libro: gli oggetti sociali.
Ferraris distingue nettamente due classi di oggetti, gli oggetti
sociali e gli oggetti ideali. Io credo che questa contrapposizione non sia sostenibile. In realtà gli oggetti sociali sono
oggetti ideali, sono una particolare specie del genere oggetti
ideali. Il problema nasce dalla classiicazione da cui prende
le mosse tutto il libro.
[...] suggerisco perciò di distinguere tre tipi di oggetti: gli oggetti naturali, che occupano un posto nello spazio e nel tempo e che non
dipendono dai soggetti; gli oggetti ideali, che non occupano un posto
nello spazio e nel tempo e che non dipendono dai soggetti; e – last but
not the least – gli oggetti sociali, che occupano un posto nello spazio e
nel tempo, e che dipendono dai soggetti, pur non essendo soggettivi33.
In questa classiicazione manca una categoria essenziale,
quella degli oggetti tecnici. Ferraris non vede la necessità di
introdurre questa ulteriore classe di oggetti ed è così portato
ad attribuire agli oggetti sociali caratteristiche che in realtà
sono proprie solo degli oggetti tecnici. Gli oggetti sociali – un
matrimonio, un legge, una promessa, ecc. –, proprio come
gli oggetti ideali, non «occupano un posto nello spazio e nel
tempo». Sono gli oggetti tecnici – una sedia, un martello, un
tavolo, ecc. – che sono sempre in un qui e ora ben determinato. Una sedia è nel tempo e nello spazio, un matrimonio
no. Infatti – per dirla in modo brutale – un matrimonio non
invecchia e non si sposta, una sedia sì. Una sedia si rovina,
si consuma, si rompe; non è così per un matrimonio, per un
debito, per la costituzione italiana. Questi oggetti sono cer33. m. ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, cit., p. 32
(corsivi miei).
274
tamente storici in un senso del tutto peculiare – e tra poco
avrò modo di ritornare su questo punto –, ma sono anche
ideali. Storicità e idealità – questo è il punto cruciale – non
si escludono afatto a vicenda. Gli oggetti sociali sono una
classe particolare di oggetti ideali e non devono essere confusi
con gli oggetti tecnici che piuttosto sono una classe particolare
degli oggetti naturali34.
In questa sede non posso discutere ino in fondo né l’interpretazione kantiana di Ferraris, né la distinzione tra oggetto sociale, oggetto tecnico e oggetto ideale. Queste discussioni
ci porterebbero troppo fuori strada e mi riservo di svilupparle altrove. Qui ciò che mi interessa non è criticare i punti
deboli del lavoro di Ferraris, quanto piuttosto appropriarmi
dell’idea forte del suo libro. Una volta posta la duplice presa
di distanze di cui sopra, questa idea può essere recepita senza riserve. L’idea è la seguente: gli oggetti sociali sono entità
(ideali) istituite da una iscrizione35. Ferraris mostra nel modo
più chiaro il nesso che esiste tra la scrittura, i documenti,
gli archivi e la realtà degli oggetti sociali, arrivando ino al
punto di formalizzare questo nesso in una regola: «Oggetto
= Atto iscritto»36.
Ma che cosa sono esattamente gli oggetti sociali? Che
caratteristiche essenziali hanno? In Documentalità ne vengono elencate cinque. 1) Innanzitutto gli oggetti sociali sono
storici. Questa è la principale diferenza che separa oggetti
sociali dai puri oggetti ideali. L’esistenza di un mutuo dipende
da una serie di circostanze fattuali ben determinate: ci deve
essere un soggetto che riceve il prestito e un soggetto che lo
34. Che il problema sia la confusione tra oggetti sociali e oggetti tecnici lo si
vede dall’imbarazzo con cui Ferraris tratta quelli che lui chiama «artefatti» e che
sono a tutti gli efetti gli oggetti tecnici. In Documentalità gli artefatti appaiono
come una forma mista, una specie di incrocio tra oggetti naturali e sociali: «Da
una parte, una sedia sembra avere molte più proprietà in comune con un albero
che non con un assegno, eppure rientra (in senso esteso, come vedremo) negli
oggetti sociali». Ivi, p. 36.
35. «Ideali» lo aggiungo io, Ferraris non sarebbe d’accordo.
36. Ivi, 44.
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
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eroga, ci deve essere una banca, un sistema di computazione
dei debiti, un sistema monetario e inanziario, ecc. Queste
circostanze fattuali non si possono pensare come date una
volta per sempre (anche se sembra diicile a credersi le banche non eterne!). Al contrario l’esistenza del triangolo non
ha alcun condizionamento storico. In ogni tempo e in ogni
luogo il triangolo è sempre lo stesso e la sua esistenza non
dipende da alcun presupposto reale. 2) In secondo luogo gli
oggetti sociali sono intersoggettivi. Ferraris spiega molto chiaramente il signiicato di questa intersoggettività essenziale.
Gli oggetti sociali, essendo istituiti dagli uomini, dipendono
dalla volontà soggettiva, ma non sono realmente «soggettivi». Hanno una loro propria oggettività che deriva dalla loro
peculiare costituzione intersoggettiva. Prendiamo il caso del
matrimonio. Il matrimonio si fonda nel modo più completo
sulla volontà soggettiva di due individui. Ma nel momento in
cui l’oggetto sociale viene costituito, cioè nel momento in cui
viene «iscritto», questa volontà soggettiva cessa di essere l’essenziale. Per distruggere questo oggetto sociale, per sciogliere
o annullare il matrimonio, non basta la volontà concorde dei
due soggetti interessati. Occorre una procedura che cancelli
o revochi l’iscrizione. 3) Gli oggetti sociali sono il risultato
di atti performativi. Qui Ferraris riprende Austin. Gli atti
linguistici performativi sono atti che hanno la caratteristica
di produrre degli efetti reali nella realtà. Sono parole che
creano cose. Dire «la seduta è aperta», oppure «l’imputato è
innocente», non è la stessa cosa che dire «la sedia è rossa»:
qui il linguaggio produce qualcosa, crea una realtà, una realtà
ideale. Gli oggetti sociali sono prodotti da una iscrizione in
modo del tutto analogo, sono cioè il risultato di una istituzione. 4) Gli oggetti sociali sono veri e propri oggetti, hanno
una loro peculiare stabilità oggettuale. Non sono soltanto
degli eventi momentanei, degli accadimenti estemporanei,
ma hanno una durata che va al di là dell’avvenimento che li
istituisce. Questa permanenza, che come si è visto nei paragrai precedenti è il requisito essenziale di ogni oggettività, è
resa possibile proprio dalla scrittura. Questo ci porta diret-
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tamente alla quinta caratteristica essenziale. 5) È l’iscrizione
che garantisce l’oggettività degli oggetti sociali. Prediamo il
caso di un contratto di vendita. Per vendere una casa devo
decidere di venderla, ma questa decisione diventa oggettiva,
produce un oggetto sociale, solo nel momento in cui è issata
in una forma stabile: solo quando la iscrivo, irmando un
contratto. Senza questa oggettivazione la mia intenzione di
vendita rimane un pensiero e come tale può essere creato e
cancellato a mio piacimento.
L’origine di questa concezione dell’oggetto sociale – lo si
vede bene – è Derrida. Lo stesso Ferraris lo dice più volte.
Bisogna riconoscere però che Documentalità non è soltanto
la riproposizione di un’idea derridiana. Ferraris dà sì concretezza a una intuizione derridiana, ma nello stesso tempo la
sviluppa, applicandola a un campo di studio speciico. Derrida si era concentrato sulla questione degli oggetti ideali ed
era inevitabile che fosse così, dal momento che il suo pensiero
è quasi integralmente aidato a un commento a margine di
Husserl. Nell’Introduzione a «L’origine della geometria» – ma
lo stesso si può dire per la Grammatologia e gli altri testi
fondamentali di Derrida – la questione speciica degli oggetti
sociali e del loro rapporto con la scrittura non è mai posta. Si
può dire, forse, che è implicita, ma con ciò bisogna riconoscere a Ferraris il merito di averla esplicitata. Per comprendere
questo passaggio ulteriore è necessario chiarire in che cosa la
relazione tra oggetto sociale e iscrizione diferisce dalla più
generale relazione tra oggettività, linguaggio e scrittura, cioè
da quella relazione che abbiamo delineato nei due paragrai
precedenti seguendo Husserl e Derrida.
Come si è visto è sulla possibilità della ripetizione che si
fonda l’oggettività di tutti gli enti che possono essere considerati «reali». Gli oggetti sociali, al pari di tutte le altre entità
oggettive che esistono e che si possono immaginare, sottostanno a questa condizione e non è diicile rendersene conto.
Consideriamo il caso dell’oggetto sociale «laurea». La cerimonia attraverso cui un giovane studente diviene un «dottore» è
veramente una «laurea» solo se si ripete secondo una precisa
Memoria e archivio dal punto di vista trascendentale
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ritualità. Ci deve essere lo studente, ci deve essere una «commissione», ci deve essere una «tesi di laurea», un «relatore»,
ecc. Qualche piccola deviazione rispetto al modello ideale
della cerimonia si può sempre ammettere. Ma le condizioni
sostanziali devono ripetersi in modo esatto: se, per esempio,
il presidente della sessione di laurea si riiuta di irmare, la
laurea non «vale». La cerimonia non si è ripetuta nel modo
corretto. L’identità di un oggetto sociale, al pari dell’identità
degli oggetti fenomenici e degli oggetti ideali, è assicurata dalla possibilità di un riconoscimento reiterato. Occorre dunque
anche qui un tipo stabile che serve da modello di riferimento.
Come si è visto, c’è una relazione essenziale tra questa ripetibilità e la possibilità del linguaggio e della scrittura. Un’idea
può essere espressa in una parola solo se ha la issità di un
tipo ininitamente reiterabile. Nel caso degli oggetti sociali
però, la relazione tra l’entità reale e il linguaggio che consente
di dirla, ricordarla e archiviarla è ancora più stretta. Non si
tratta più soltanto della «costituzione» di un senso oggettivo,
ma della sua «istituzione».
Un oggetto in generale si può costituire per la coscienza
solo in rapporto con la possibilità della ripetizione, cioè solo in rapporto con la possibilità della scrittura in generale.
Ma l’oggetto sociale non è istituito dalla scrittura in generale,
dalla scrivibilità del suo senso, ma dall’efettivo accadere di
una iscrizione particolare e determinata. Prendiamo il caso
dell’oggetto sociale «sentenza penale». Naturalmente l’espressione «processo penale» si riferisce a un concetto empirico
che come tale è identiicabile e quindi ripetibile. Ma è diverso parlare di una sentenza penale, comprendere il senso
dell’espressione ed emettere una sentenza di tal genere. Io
posso anche ripetere in modo esatto la formula di rito usata
dal giudice: in questo modo sto producendo una espressione
del tutto simile a quella originale. Ma la frase che pronuncio
io non ha lo stesso valore. Mancano le condizioni essenziali
che sono necessarie per quel particolare tipo di iscrizioni
che sono le sentenze penali: occorre un giudice autorizzato,
un giusto processo, ecc. L’oggetto sociale sussiste solo nel
278
momento in cui accade quella particolare iscrizione che ha
il potere di istituirlo.
Curiosamente troviamo qui esattamente invertito il rapporto – su cui abbiamo già avuto modo di rilettere – tra
l’unicità e la riproducibilità dell’evento. Quando abbiamo
deinito nel modo più generale gli elementi essenziali dell’archivio, nel capitolo v, abbiamo detto che la traccia è ciò che
resta dell’evento. Se l’evento, in sé e per sé, è l’irripetibile,
la traccia è tendenzialmente riproducibile37. Così per esempio l’evento storico della morte di un personaggio celebre è
unico, ma la sua trascrizione in testi e immagini può essere
indeinitamente riprodotta. Qui però sembra accadere il contrario. La traccia che istituisce l’oggetto sociale, l’iscrizione
che lo fa essere, ha il valore di un evento irripetibile. Infatti
il documento che istituisce l’oggetto sociale deve per principio essere «originale». L’ininità varietà dei vizi di forma che
rendono nullo un oggetto sociale può essere richiamata alla
mente per capire questo carattere istitutivo proprio di quel
particolare tipo di iscrizione di cui ci stiamo occupando: un
contratto non autentico non ha valore, un documento non
irmato non ha valore, una ordinanza emanata da una autorità non competente non ha valore, ecc. Qui accade qualcosa
di straordinario: l’evento è l’iscrizione. Non c’è «prima» un
evento e poi la sua trascrizione in una traccia, perché è la
trascrizione stessa che produce l’evento. Si capisce allora che
la formula di Ferraris (Oggetto = Iscrizione) non è soltanto
una riproposizione delle rilessioni proposte da Derrida sulla
scia di Husserl.
Ma che cos’è che autentica l’iscrizione che produce un oggetto sociale? Ritroviamo a questo punto, ma a una profondità
di rilessione diversa, le rilessioni sull’autorità dell’archivio
che abbiamo svolto in precedenza. L’archivio è il luogo ultimo
37. Il discorso in realtà è più complicato, perché ci sono tracce che hanno la
natura di un unicum. Ma anche la traccia irripetibile è una traccia solo nella misura in cui si presta a una ininita possibilità di apprensioni successive: possiamo
tornarvi ancora e ancora.
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di ogni processo di autenticazione di un oggetto sociale. Tutti i
documenti che hanno un valore «istitutivo» si riferiscono a
un sistema «istituzionale». Una sentenza ha valore nella misura in cui è emessa da un giudice competente, a sua volta il
giudice è autorizzato da un tribunale a cui fa capo, il tribunale
è istituito da uno stato sovrano, ecc. Domandiamoci: su cosa
si fonda questo ininito intreccio dei rimandi istituzionali?
Potrebbe sussistere un sistema istituzionale di qualsiasi genere senza la possibilità della archiviazione? In ultima analisi la
validità di tutti i documenti reali e possibili si fonda sulla autenticità di altri documenti. Qui non c’è alcun termine per la
logica del rimando: le iscrizioni rimandano ad altre iscrizioni,
le tracce rimandano ad altre tracce, gli archivi rimandano ad
altri archivi. A questo livello – ha perfettamente ragione qui
Ferraris – la famosa espressione derridiana può essere presa
alla lettera: «nulla di sociale esiste al di fuori del testo»38.
38. Ivi, p. xiii.