Cultura Scienza e Società
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Martino Feyles
Studi per la
fenomenologia
della memoria
Cultura
Scienza e Società
FrancoAngeli
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
dell’Università degli Studi di Cassino.
Copyright © 2012 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy.
L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel momento in
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comunicate sul sito www.francoangeli.it.
Indice
Introduzione
pag. 117
1. Tra memoria e percezione: la ritenzione
1. Che cos’è la ritenzione?
2. Ritenzione e percezione: la presenza dell’appena passato nella
percezione
3. Difficoltà terminologiche e descrittive
4. Ritenzione, sensazione e percezione
5. La ritenzione come intenzionalità speciale. Ritenzione e
coscienza di immagine
6. Caratteristiche essenziali della ritenzione
7. La passività della ritenzione. La ritenzione nella rimemorazione
8. Ritenzione fresca e ritenzione vuota
9. Dalla ritenzione alla rimemorazione. Ritenzione e “immagine”
memorativa
10. Una difficoltà di fondo: che cos’è che viene ritenuto?
11. Ritenzione e riconoscimento
12. L’interpretazione della nozione di ritenzione
2. L’“immagine” del passato: la rimemorazione
1. La rimemorazione come presentificazione intuitiva
2. Presentificazione, rimemorazione, fantasia. La modalità di
credenza nella rimemorazione e nella fantasia
3. La rimemorazione come prototipo della presentificazione intuitiva
4. Comparazione con le altre forme di presentificazione: l’aspettazione come “ricordo del futuro”
5. Ulteriori comparazioni: la co-presentazione come ricordo del
presente
6. La libertà della rimemorazione e la sua struttura pre-narrativa
7. Il problema dell’immagine memorativa
8. L’aporia dell’immagine interna
9. Fantasia e immaginazione
10. La differenza tra fantasia e rimemorazione. Impossibilità della
tesi empirista
11. La coscienza di realtà e il problema della referenza del ricordo
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12. La posizione temporale del ricordo. L’inserzione del ricordo
nella trama della memoria
13. Mondo immaginario e mondo passato. L’apertura intersoggettiva
della rimemorazione
14. La fallibilità della memoria: l’oblio e il falso ricordo
15. La trascendenza dell’evento rimemorato. La fantasia come assemblaggio mnestico
16. L’origine della rimemorazione. Il ricordo involontario
17. La rimemorazione come ricostruzione. Il ricordo volontario
3. Memoria individuale e memoria collettiva. Il problema del
soggetto nel ricordo
1. Tra fenomenologia e scienze sociali: una difficile mediazione
2. L’io nelle presentificazioni. Il problema del soggetto del ricordo
3. Riferimento soggettivo e posizione temporale del ricordo
4. Esistono ricordi impersonali?
5. Memoria semantica e ricordo episodico
6. La componente semantica del ricordo episodico
7. La memoria collettiva: una nozione ambigua
8. Ulteriori considerazioni sull’intreccio tra ricordo, immaginazione
e sapere-che
9. Un fenomeno impossibile: il ricordo collettivo
10. I condizionamenti sociali del ricordo
11. La memoria e gli schemi sociali
12. Dal ricordo allo schema. La sovrapposizione delle immagini
memorative
13. Schemi e tipi percettivi in rapporto alla memoria collettiva
4. Memoria e linguaggio. La rievocazione
1. Il linguaggio e i quadri sociali della memoria
2. Una peculiarità della memoria sonora. La memoria e il linguaggio
3. Ricordare, riconoscere, riprodurre
4. L’invenzione della memoria: il racconto
5. La memoria: immagine o racconto?
6. Reminiscing: ricordare-con
7. Perché raccontiamo il passato?
8. Il racconto dal punto di vista sociologico e dal punto di vista
fenomenologico
9. La rievocazione: una forma autonoma di ricordo
10. La distinzione tra rimemorazione e rievocazione
11. Ritenzione e rievocazione
12. Rievocazione e memoria semantica. La temporalità della rievocazione
13. L’autenticità della rievocazione: il racconto proprio e il racconto
altrui
14. La rievocazione come presentificazione non intuitiva
15. Caratteristiche essenziali della rievocazione
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Introduzione
“Memoria” è una di quelle parole che può significare tutto e il contrario
di tutto. Un ricordo è un frammento di “memoria”. Un’autobiografia è un
insieme coerente di “memorie”. Una statua antica conserva nella pietra la
“memoria” di un volto del passato. Analogamente un monumento funebre
mantiene viva la “memoria” dei caduti. Un Hard Disk è a tutti gli effetti
una “memoria elettronica”. La “memoria genetica” di un organismo vivente
è affidata al Dna. La “memoria procedurale” è responsabile della conservazione di un’abitudine motoria. La Biblioteca Nazionale salvaguarda la
“memoria collettiva” del nostro paese. Una festa è una celebrazione “in
memoria” di un avvenimento eccezionale. Una foto-ricordo può essere definita come una “memoria esteriorizzata”. Un’ossessione è un eccesso di
“memoria”...
Cos’è dunque la memoria? È possibile ricondurre ad unità, la varietà dei
fenomeni che il linguaggio indica con la parola “memoria”? Un ricordo e
un Hard Disk hanno davvero qualcosa in comune, come suggerisce il linguaggio?
«La memoria è di ciò che è accaduto»1, diceva Aristotele; ha a che fare
con il passato. Tra tutti i giudizi di senso comune questo è l’unico che davvero non può essere contestato, a meno che non si voglia svuotare la nozione di ogni significato proprio. Ciò non impedisce che la memoria possa avere un rapporto essenziale con il futuro o con il presente. Ma se la parola
“memoria” deve mantenere un minimo di unità semantica – non dico che
sia possibile darne una definizione, questo sarebbe troppo – è intorno al riferimento al passato che tale unità si costituisce. Certamente un Hard Disk
ha davvero poco in comune con l’esperienza vissuta di un ricordo e forse
ancora di meno con l’evento di una commemorazione pubblica. Tuttavia
non è un caso se può essere nominato nello stesso modo e, senza dubbio, è
1
Aristotele, Della memoria e della reminiscenza, in Dell’anima, Piccoli trattati di storia
naturale, tr. it. A. Russo e R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 2007, 449b 15.
7
il riferimento al passato che rende legittima questa denominazione: una
penna Usb conserva informazioni che provengono “dal passato”, un ricordo
riproduce una percezione “del passato”, una festa rende onore a un avvenimento “del passato”, ecc.
Se si “definisce” la memoria come la capacità di conservare il passato, o
meglio, – per evitare l’imprudenza di un prematuro riferimento soggettivo –
come ciò che permette di rapportarsi al passato, i fenomeni descritti nei
quattro studi qui presentati meriteranno tutti con egual diritto l’appellativo
di “memorie”. La ritenzione, la rimemorazione, la memoria collettiva e la
rievocazione sono tutte forme di rapporto con il passato e implicano
l’esperienza di un riferimento a ciò che “è stato”. Ma queste quattro modalità di rapporto al passato sono profondamente diverse tra loro e sono irriducibili l’una all’altra. Nella storia della filosofia, ma anche della storia della psicologia e delle scienze sociali, questa diversità essenziale è stata incredibilmente trascurata. Così Bergson ha potuto descrivere la percezione
come se si trattasse di una forma di ricordo del presente; Halbwachs da parte sua ha attribuito le caratteristiche sociali della memoria collettiva alla rimemorazione; Janet ha creduto di poter ridurre la rimemorazione alla rievocazione.
Il primo compito di uno studio fenomenologico della memoria sarà dunque di fare chiarezza circa le distinzioni tra le diverse forme di rapporto al
passato, in modo da evitare le più gravi confusioni. La prima e la più fondamentale di queste distinzioni è quella tra la memoria in quanto archivio
“interno”, sistema delle tracce mnestiche, e il ricordo in quanto atto cosciente. Ma, come si vedrà, per rendere giustizia della complessità dei fenomeni è necessario rintracciare, in un lavoro paziente, molte altre sottili
differenze. In secondo luogo, una volta fissate le distinzioni essenziali tra i
fenomeni, bisognerà affrontare un compito ancora più arduo: bisognerà
cioè domandarsi quali rapporti intercorrano tra le diverse forme di memoria
che l’analisi ha isolato. Che rapporto c’è tra ritenzione e rimemorazione? e
tra rimemorazione e rievocazione? La memoria collettiva può forse condizionare il ricordo? Si vedrà allora che le distinzioni fissate dall’analisi fenomenologica non sono affatto contrapposizioni rigide e che, al contrario,
implicano il riconoscimento dell’esperienza concreta come il luogo di un
inestricabile intreccio dei diversi.
Il problema della memoria può essere affrontato – e di fatto è stato affrontato – da un’infinità di angolazioni differenti. È lecito dunque non preoccuparsi più di tanto delle mancanze di un lavoro che non potrà mai pretendere di essere completo. Anche solo per elencare le diverse teorie sulla
memoria che si sono susseguite nei secoli è necessaria un’enciclopedia.
Tuttavia, in uno studio di impostazione fenomenologica, ci sono almeno tre
8
grandi questioni che andrebbero affrontate e che io, invece, ho consapevolmente tralasciato. Mi riferisco al problema dell’archivio così come è
formulato da Derrida, al problema della memoria corporea così come è posto da Bergson e al problema freudiano della memoria inconscia. È evidente, infatti, che questi tre problemi non sono estranei alla fenomenologia. È
lecito ed è essenziale domandarsi che rapporto ci sia tra la memoria corporea che si documenta in un’abitudine motoria e la rimemorazione descritta
da Husserl. Allo stesso modo è chiaro che la ritenzione, nella misura in cui
è qualcosa di simile ad una “registrazione” del vissuto, è una nozione che
ha un ruolo essenziale in una filosofia dell’archivio. Per non parlare
dell’indiscutibile rilevanza del tema dell’inconscio quando si tenta di descrivere qualsiasi genere di ricordo. Tuttavia, l’analisi della memoria corporea, della memoria inconscia e dell’archivio costringe ad abbandonare la
sfera della coscienza e del vissuto e ad inoltrarsi in un territorio diverso, “esteriore” rispetto a quello in cui si muovono questi saggi. È per questo che,
in uno studio dedicato alla fenomenologia della memoria, ho deciso di attenermi esclusivamente ai fenomeni che si presentano “all’interno” della sfera della coscienza, rimandando ad un altro lavoro – che spero di pubblicare al più presto2 – la discussione delle altre forme di memoria che sono altrettanto essenziali e altrettanto costitutive dell’esperienza umana.
Questa decisione ha come conseguenza il taglio esplicitamente husserliano degli studi che seguono. Husserl è il punto di riferimento dei saggi
che sono contenuti in questo volume, in particolare dei primi due. A questo
proposito è però necessario un chiarimento. L’intento di questo lavoro non
è storico-filosofico. Non intendo dare un contributo al dibattito intorno al
pensiero di Husserl, né ricostruire un momento o un tema della filosofia
husserliana, quanto piuttosto utilizzare il suo eccezionale lavoro per comprendere un problema filosofico particolare. Questa intenzione, più teoretica che storico-filosofica, mi autorizzerà ad una certa libertà nell’utilizzo
dell’immenso corpus dei testi husserliani. Mi capiterà di accostare, senza
troppo riguardo per le date, testi che appartengono a fasi diverse
dell’evoluzione del pensiero husserliano. Ove necessario, cioè ogni volta
2
I quattro saggi che presento in questo volume sono il risultato della rielaborazione della
prima parte della mia tesi di dottorato, la cui seconda parte era dedicata al problema
dell’archivio e faceva riferimento in particolare a J. Derrida. Su questo tema ho pubblicato un
articolo sulla rivista online “Il giornale di filosofia”, a cui rimando per integrare il punto di vista husserliano di questi studi (cfr. M. Feyles, Ricordare e archiviare. La de-costruzione tecnica della memoria, “Il giornale di filosofia”, testo disponibile al sito:
http://www.giornaledifilosofia.net). Ho scelto, per la ragioni che ho detto, di separare il saggio
sull’archivio dai quattro saggi presentati in questa sede, ma è evidente che le considerazioni
svolte nel terzo e nel quarto saggio sulla memoria collettiva e sul linguaggio possono essere
considerate come i preliminari essenziali per l’impostazione del problema dell’archivio.
9
che l’elaborazione di un problema specifico lo richiederà, mi prenderò la
libertà di infrangere (non eccessivamente) il rigore filologico. Va detto poi
che il terzo e il quarto saggio si addentrano in questioni che in Husserl non
sono nemmeno nominate. Benché io abbia cercato di sviluppare idee che,
più o meno implicitamente, sono già formulate nei suoi testi; benché io abbia tentato di “tradurre” nel linguaggio husserliano i concetti estranei alla
fenomenologia, è evidente che il problema della memoria collettiva e il
problema della rievocazione sono lontani dal pensiero husserliano inteso in
senso letterale.
È necessaria una precisazione anche a proposito del metodo fenomenologico utilizzato in questi studi. La fenomenologia è una scienza descrittiva.
Il suo obbiettivo è di fornire una descrizione rigorosa dell’esperienza così
come si dà nell’intuizione, in “un puro guardare”, direbbe Husserl. Affinché una descrizione del genere sia possibile, il ricorso agli esempi è inevitabile. Tali esempi hanno valore nella misura in cui sono assunti come casi
assolutamente generali e generalizzabili, aperti ad ogni possibile “variazione immaginativa”. Infatti, proprio questa possibilità illimitata di variazione
rende plausibile la pretesa di universalità, e dunque di rigore, dell’analisi
descrittiva. Ciononostante gli esempi qui proposti rimangono del tutto empirici e la loro selezione può apparire piuttosto arbitraria. Da questo punto
di vista voglio scusarmi qui una volta per tutte, per aver fatto ricorso il più
delle volte ad episodi autobiografici. Sarebbe stato possibile inventare esemplificazioni adeguate per ogni analisi, ma è stato decisamente meno faticoso partire dall’esperienza reale che non dalle pure possibilità.
Le domande cui tento di rispondere in questi studi hanno un interesse
puramente teoretico. E tuttavia, come ha sottolineato Ricoeur, i problemi
della fenomenologia della memoria hanno delle implicazioni che oltrepassano di gran lunga l’indagine puramente conoscitiva e hanno ripercussioni
epistemologiche, politiche e perfino giuridiche. In particolare all’origine di
questi studi c’è una duplice preoccupazione. I primi due saggi sono attraversati da una sorta di inquietudine epistemologica: che ne è della realtà del
passato? L’inquietudine nasce dalla più semplice delle constatazioni: il passato non è più e in questo senso la memoria ha a che fare con un’assenza,
esattamente come l’immaginazione. Ne deriva un compito arduo: quello di
distinguere la non-realtà propria del passato dalla non-realtà propria
dell’immaginario. Evidentemente la possibilità o meno di una tale distinzione ha delle serissime ripercussioni sui fondamenti epistemologici di una
scienza come la storia. Ricoeur lo ha mostrato chiaramente: la domanda
“come è possibile accertare che un evento è realmente accaduto?”, costringe a mettere in questione il rapporto tra storia e memoria e la pretesa
dell’una e dell’altra di attestare la verità di ciò che è stato. Per la stessa ra10
gione anche dal punto di vista giuridico le analisi della fenomenologia della
memoria hanno delle conseguenze eclatanti. Una testimonianza, infatti, di
qualsiasi testimonianza si tratti, attinge sempre ed inevitabilmente il suo
contenuto dalle risorse della memoria. Perciò senza la possibilità di una distinzione tra fantasia e rimemorazione l’idea stessa di testimonianza sarebbe un non senso3.
Da questo punto di vista la sconvolgente storia dello scrittore Binjamin
Wilkomirski, raccontata da Daniel Schachter, è emblematica4. Wilkomirski
è l’autore del libro Fragments: Memories of a Wartime Childhood5 e diventa una celebrità raccontando la sua infanzia di bambino ebreo perseguitato
dai nazisti. Riceve numerosi premi letterari (“National Jewish Book Award” negli Stati Uniti, “Prix Memoire de la Shoah” in Francia, “Jewish
Quarterly literary prize” nel Regno Unito) e viene invitato in tutto il mondo
a parlare dell’Olocausto. La sua testimonianza commuove e sconvolge. Ma
nell’agosto del 1998 un giornalista svizzero, Daniel Ganzfried, pubblica un
articolo sul settimanale svizzero “Weltwoche” che contiene delle rivelazioni incredibili: Wilkomirski non è ebreo, il suo vero nome è Bruno Doessekker e non ha mai messo piede in un campo di concentramento, se non
come turista. Le accuse si rivelano fondate e il presunto Binjamin Wilkomirski si rivela essere affetto da gravi disturbi di identità. Di fronte ad un
caso del genere, come di fronte ai molti altri casi simili, se non più gravi, –
si pensi alle accuse di abusi sessuali che negli Stati Uniti hanno coinvolto
persone del tutto innocenti, a partire da ricordi completamente inattendibili6
–, si capisce quanto sia drammatica la domanda circa la capacità della memoria di attestare il vero. Nonostante le molteplici testimonianze circa gli
inganni, le suggestioni, le distorsioni cui va continuamente soggetta la memoria, non si può non avvertire un’esigenza morale che non ammette repliche: ci deve essere un modo per attestare la verità di ciò che è stato7.
3
Ho sviluppato questo tema in M. Feyles, La memoria: un testimone inattendibile?,
“L’Ircocervo”, testo disponibile al sito: http://www.lircocervo.it.
4
Cfr. D.L. Schacter, The Seven Sins of Memory: how the Mind Forgets and Remembers,
Houghton Mifflin, Boston, 2001, tr. it. I sette peccati della memoria, Mondadori, Milano,
2002, “Introduzione”.
5
Il libro pubblicato nel 1995 in inglese e in tedesco, è stato pubblicato anche in italiano
(B. Wilkomirski, Frantumi: un’infanzia, 1939-1948, Mondadori, Milano, 1996).
6
Su questo si veda E. Loftus, K. Ketcham, The Myth of Repressed Memory, St. Martin’s
Griffin, New York, 1994.
7
Ricoeur è certamente il filosofo che più si è soffermato su questo aspetto del problema
della memoria. Ma come si vedrà anche le analisi husserliane prendono le mosse da
un’inquietudine epistemologica. Un’inquietudine che non ha di mira, come in Ricoeur, una
interrogazione circa la legittimità dell’indagine storica, ma che si pone radicalmente il problema di come sia possibile conoscere ciò che non è più presente.
11
La seconda preoccupazione è legata ai temi sviluppati della seconda parte di questo libro e in particolare nel terzo saggio. Il problema della memoria collettiva è senza dubbio uno dei problemi politici più rilevanti del nostro tempo. È un problema che si configura in modo duplice: da una parte
c’è il pericolo della manipolazione della memoria, dall’altra la constatazione di un impoverimento dell’esperienza, per dirla con un’espressione benjaminiana. Mai come nel secolo che si è appena concluso – il secolo dei totalitarismi – la questione della manipolazione della memoria è apparsa così
tragicamente urgente: non è un caso se i primi testi dedicati al problema
della memoria collettiva risalgono al secondo dopoguerra8. Nello stesso
tempo mai come nel secolo che sta iniziando la memoria collettiva,
l’esperienza che ci accomuna, è apparsa così asfittica. Ora, benché io condivida e abbia sempre condiviso tutte le preoccupazioni formulate a questo
proposito dagli storici, dai sociologi e dai filosofi, il concetto di memoria
collettiva mi è sempre apparso nebuloso. La genericità e la confusione che
si riscontrano a proposito di questa nozione così importante, screditano in
partenza ogni discussione sull’argomento. Per questo la posizione di Halbwachs (e di una certa sociologia) sarà oggetto nel terzo saggio di una severa critica. Ma questa critica non deve essere fraintesa. Il mio scopo non è
affatto quello di difendere una concezione ristretta della memoria come facoltà di un soggetto chiuso su se stesso e impermeabile alle influenze del
mondo esterno. Al contrario, si tratta di fondare una nozione che altrimenti
rimane inconsistente e inutilizzabile.
Il primo saggio è costruito in modo piuttosto lineare. Si tratta di un
commento sistematico dei paragrafi di Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo e delle Lezioni sulla sintesi passiva dedicati al problema della ritenzione. Al commento dei testi husserliani si aggiungono le
analisi di alcuni esempi che a mio avviso sono estremamente significativi
per tentare di comprendere meglio ciò che Husserl ha inteso dire e anche
ciò che nei suoi testi rimane oscuro. La questione intorno a cui ruotano tali
analisi è quella del rapporto tra memoria e percezione: che rapporto c’è tra
memoria e percezione? Sarebbe possibile percepire senza l’intervento della
memoria? La tesi che intendo sostenere è che l’esistenza di una forma particolare di memoria che interviene nella costituzione della presenza percettiva sia un’evidenza fenomenologica indubitabile. Ma ciò che è essenziale è
che questa forma particolare di memoria – che tanto la scienza quanto la
filosofia hanno per lo più ignorato e che Husserl chiama “ritenzione” – deve essere distinta dal ricordo vero e proprio. Cercherò quindi di seguire le
8
Cfr. T. Todorov, Les abus de la mémoire, Les Editions Arléa, Paris, 1995, tr. it. Gli
abusi della memoria, Ipermedium, Napoli & Los Angeles, 1996, pp. 29-32.
12
acutissime analisi husserliane per delineare le caratteristiche essenziali di
questo fenomeno. Si vedrà però quante difficoltà implichi ogni tentativo di
descrizione: bisogna ammettere che la ritenzione rimane un fenomeno per
molti versi misterioso. Nonostante non si possa dubitare della sua esistenza,
e nonostante la profondità delle analisi husserliane, le domande che rimangono aperte sono molte. Infatti, posto che la memoria percettiva sia da intendersi come una ritenzione, che cos’è esattamente che viene ritenuto?
Che cos’è che permane nella ritenzione? Che caratteristiche ha la permanenza ritenzionale?
Il secondo saggio è dedicato alla rimemorazione, di cui fin dall’inizio è
precisata la caratteristica essenziale: come suggerisce il titolo, si tratta di
una forma di memoria descrivibile come un’immagine del passato. Posta
questa definizione iniziale sono posti anche tutti i problemi di fondo cui è
dedicato il saggio. Da un parte bisogna comprendere la misteriosa natura di
immagine propria della rimemorazione e dall’altra il suo peculiare riferimento al passato. L’immagine del passato è davvero una immagine? che
genere di immagine? e come può riferirsi al passato? Queste domande si
trascinano dietro inevitabilmente la problematica più generale dell’immaginazione. Se l’oggetto del primo saggio è il rapporto tra memoria e percezione, l’oggetto del secondo è il rapporto tra memoria e immaginazione. Il
testo di riferimento qui – oltre alle già citate lezioni di Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo e alle Lezioni sulla sintesi passiva – è
il corso sulla fantasia del 1904/5 contenuto nel volume XXIII della Husserliana, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. La tesi centrale del saggio –
una tesi per molti aspetti radicale – può essere formulata in modo semplice:
la rimemorazione dal punto di vista fenomenologico è a tutti gli effetti una
forma di fantasia, ma questo non pregiudica la possibilità di conoscere il
passato. Tenterò di evidenziare tutti gli elementi essenziali di comunanza
tra l’esperienza del ricordo e l’esperienza della finzione. Ma nello stesso
tempo tenterò di tracciare una linea chiara di distinzione, in modo che rimanga aperta la possibilità della confusione tra rimemorazione e fantasia,
ma anche la possibilità di una verifica di ciò che è “realmente” accaduto.
Il primo e il secondo saggio sono legati profondamente tra loro, esattamente come il terzo e il quarto. La ritenzione gioca un ruolo essenziale negli atti rimemorativi ed è per questo che le analisi del secondo saggio rimandano continuamente alle analisi del primo. Altrettanto stretto è il legame che unisce memoria collettiva e linguaggio e per questa ragione le analisi del quarto saggio appaiono come una sorta di prosecuzione delle analisi
del terzo.
Il terzo saggio segue il cammino tracciato da Ricoeur in La memoria, la
storia e l’oblio. Il problema della memoria collettiva è un problema che è
13
stato affrontato fino ad ora solo ed esclusivamente da studi storicosociologici. A prima vista può sembrare strano in un lavoro di fenomenologia occuparsi di un tema del genere. In effetti il tentativo di Ricoeur di mediare tra la posizione di Husserl e la posizione di Halbwachs è anche, nello
stesso tempo, il tentativo di mediare tra fenomenologia e scienze sociali.
Per la fenomenologia il ricordo è un fenomeno interno, per le scienze sociali – storia, sociologia, psicologia sociale – il ricordo è un fenomeno intersoggettivo. Ricoeur ha ragione nel tentare di gettare un ponte tra queste due
posizioni e l’idea ardita di un confronto tra Halbwachs e Husserl è uno dei
motivi di merito di un’opera straordinaria come La memoria, la storia,
l’oblio. Se lo scambio tra questi due paradigmi concettuali non avviene, la
nozione sociologica di memoria collettiva rimane priva di fondamento fenomenologico – e dunque in ultima analisi arbitraria e vaga – e, d’altra parte, la teoria fenomenologica della memoria rischia di rinchiudersi in una
posizione idealistica, che ha come esito una sopravvalutazione del ruolo
delle componenti intuitive dell’intuizione, una sorta di idolatria della percezione. Tuttavia il tentativo portato avanti da Ricoeur è per molti aspetti insufficiente. Senza criticare fino in fondo le ambiguità della posizione di
Halbwachs, e senza riconoscere dall’interno della fenomenologia stessa la
necessità di ampliare la teoria husserliana del ricordo, Ricoeur tenta un
compromesso che lascia le argomentazioni di entrambe le parti sostanzialmente intatte e le richiama ad accogliere la posizione altrui in nome del riconoscimento della possibilità di punti di vista diversi. Io sono convinto
che sia possibile una posizione più radicale, che, passando per una critica
severa delle tesi più unilaterali di Husserl e Halbwachs, renda possibile un
dialogo tra le due istanze più profondo.
Tenterò dunque di mostrare come il problema del soggetto sia fondamentale nella teoria fenomenologica della rimemorazione, non solo perché
la descrizione dei rapporti tra l’io che ricorda e l’io che ha percepito è uno
dei contributi più interessanti del lavoro di Husserl, ma, ancora di più, perché è proprio il riferimento egologico ciò che contraddistingue in modo essenziale la rimemorazione, distinguendola da una parte dalla mera fantasia
e dall’altra dalle altre forme di rapporto al passato. Questo problema mi
condurrà, al di là di Husserl ma ancora all’interno della fenomenologia, ad
un’interrogazione nuova: sono possibili ricordi che non implicano alcun riferimento soggettivo? dei ricordi “impersonali”? Per rispondere a questa
domanda e per comprendere la differenza tra i ricordi veri e propri e le esperienze di memoria impersonale, farò riferimento ad alcune acquisizioni
della psicologica sperimentale, o meglio alla fenomenologia implicita che
alcune teorie scientifiche presuppongono e autorizzano. A questo punto,
avendo portato la fenomenologia husserliana fino ai suoi estremi confini,
14
prenderò in considerazione le idee fondamentali di La mémoire collective.
La critica fenomenologica della posizione di Halbwachs farà emergere
l’ambiguità della sua nozione di memoria collettiva. Apparirà la necessità
di ripensarla completamente. Attraverso un’interpretazione fenomenologica
della nozione di memoria semantica proposta da Endel Tulving e attraverso
un’analisi del rapporto tra ricordo e schema ispirata dal lavoro di Frederic
Bartlett, sarà possibile riformulare il problema della memoria collettiva dal
punto di vista fenomenologico.
Il quarto saggio prende le mosse dalla domanda circa il rapporto tra
memoria e linguaggio, ma questa domanda si rivela duplice. Da una parte
bisogna chiedersi: il linguaggio può essere considerato come una forma di
memoria? La risposta a questa domanda si ricollega in modo esplicito al
problema della memoria collettiva trattato nel terzo saggio. Ma al di là del
legame che unisce memoria collettiva e linguaggio, c’è un’altra questione
che deve essere affrontata in uno studio fenomenologico: è possibile ricordare il passato grazie alla mediazione di proposizioni linguistiche? O, in altre parole: il racconto può essere considerato come una forma di ricordo?
La discussione di questo difficile problema si inserisce all’interno della
contrapposizione tra due modi radicalmente diversi di concepire gli atti attraverso cui il soggetto si rapporta al proprio passato. Infatti, se da una parte
il ricordo appare come un’immagine del passato, dall’altra esso il più delle
volte si presenta nella forma esteriore di un racconto. Da qui la possibilità
di due paradigmi teorici molto differenti di cui Husserl e Janet sono in un
certo senso i paladini. Anche in questo caso, come nel terzo saggio, ho tentato una mediazione (ma non un compromesso) tra queste due posizioni,
cercando di dare un fondamento fenomenologico all’idea di un ricordoracconto. La nozione di rievocazione che discuto e analizzo nella seconda
parte del saggio risponde a questa esigenza. Sono ben consapevole che si
tratta di una nozione problematica. L’identificazione di ricordo e racconto
non è certamente una novità. Ma l’analisi fenomenologica del rapporto tra
ricordo e racconto che propongo qui è un tentativo inedito e per questa ragione arrischiato.
A questo proposito mi permetto un’osservazione generale, che non vale
solo per il quarto saggio, ma anche per gli altri tre. Non è per prudenza, né
per falsa modestia, che ho scelto di intitolare questo lavoro “Studi per la fenomenologia della memoria”. Si tratta in effetti di analisi per molti versi
incomplete, i cui risultati mi appaiono spesso soltanto ipotetici. Anche per
questa ragione ho rinunciato a chiudere il libro con delle vere e proprie
conclusioni, che avrebbero avuto inevitabilmente un carattere definitivo che
giudico prematuro.
Da ultimo bisogna chiarire la posizione di questi studi nei confronti del15
le scienze sperimentali che indagano la memoria. Il metodo fenomenologico proposto da Husserl richiede, come è noto, una rigorosa riduzione: è necessario analizzare i fenomeni al di là di ogni presupposizione e prescindendo da ogni sapere scientifico o pratico. Tuttavia io credo che la riduzione non debba impedire ogni dialogo con le scienze. Per questa ragione,
mentre i primi due saggi sono integralmente costruiti a partire dal confronto
con i testi husserliani, nel terzo e nel quarto vi è un sistematico riferimento
ad autori che non sono di formazione fenomenologica e che non sono
nemmeno filosofi: Halbwachs è un sociologo, Bartlett è uno psicologo, Janet è uno psicologo e un neurologo, Tulving è un neuroscienziato.
Ho già accennato sopra alla necessità di uno scambio reciproco tra fenomenologia e scienze sociali. Vorrei ora precisare la posizione della fenomenologia della memoria rispetto alla psicologia sperimentale e alle neuroscienze. Credo che Paul Ricoeur abbia chiarito nel modo migliore i limiti
e le condizioni di un dialogo che a mio avviso è necessario9. Tra lo scienziato che studia i meccanismi cerebrali alla base del funzionamento della
memoria e il fenomenologo che tenta di descrivere l’esperienza della memoria non c’è, né ci può essere, alcun conflitto. L’oggetto e il metodo dello
studio sono diversi. Lo scienziato ha a che fare con realtà obbiettive e trascendenti, il fenomenologo con fenomeni soggettivi (ma non per questo arbitrari) e immanenti: «l’orientamento generale è quello di uno scarto epistemologico fra il discorso neuronale e il discorso sullo psichico. Tale scarto sarà protetto contro qualsiasi estrapolazione spiritualista o qualsiasi riduzionismo materialista [...]»10. Occorre evitare la tentazione materialista di
ridurre la coscienza ad un mero epifenomeno, una sorta di irrilevante “fosforescenza” che si produce in concomitanza dei fenomeni reali, degli accadimenti obbiettivamente constatabili. L’esperienza concreta del ricordo
non sarà mai interamente riconducibile ad una modificazione neuronale.
Ma è necessario anche evitare una esasperata “psicologizzazione” della coscienza. I vissuti della coscienza non sono innanzitutto accessibili
all’osservazione scientifico-sperimentale, perché non possono essere misurati se non sono obbiettivati e l’obbiettivazione è sempre un livellamento
della loro specificità essenziale. L’eroico tentativo di Hermann Ebbinghaus
9
Lo stesso Husserl nella seconda sezione del terzo volume delle Idee (“Relazioni tra la
fenomenologia e la psicologia”) ha chiarito in che termini il confronto con la psicologia sperimentale possa essere utile per il fenomenologo. Cfr. E. Husserl, Ideen zur einer reinen
Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch: “Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften”, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1971, tr. it., Idee
per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II, Libro terzo: “La
fenomenologia e i fondamenti della scienze”, Einaudi, Torino, 2002, § 8, pp. 413-427.
10
P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, Paris, 2000, tr. it. La
memoria, la storia, l’oblio, R. Cortina, Milano, 2003, p. 594.
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– che si può a buon diritto ritenere il fondatore della psicologia della memoria – è da questo punto di vista emblematico11. Per ottenere i dati quantitativi necessari per l’elaborazione della sua celebre curva dell’oblio è necessaria la più radicale riduzione della complessità dell’esperienza del ricordo che si possa concepire. Senza dubbio le osservazioni raccolte grazie a
questa riduzione soddisfano i canoni dell’esattezza scientifica. Ma ci si può
domandare – e questa domanda è stata posta anche all’interno della comunità scientifica (si pensi alla critica di Ulrich Neisser) – se le misurazioni
relative alla ritenzione di un gruppo di sillabe senza senso possano davvero
pretendere di spiegare l’esperienza del ricordo.
Le scienze cognitive più recenti non hanno risolto questo problema di
fondo. Alle metodologie pionieristiche di Ebbinghaus, che si applicava
all’auto-esperimento con una tenacia impressionante, si sostituiscono oggi i
prodigi delle tecniche di neuroimmagine. Ma il presupposto di fondo non
cambia: l’esperienza fenomenologica non è considerata come una fonte di
evidenze significative, mentre solo ciò che è accessibile all’osservazione
misurante soddisfa le esigenze della obbiettività. Anche degli importanti
risultati conseguiti con queste tecniche si può dunque sospettare. La localizzazione cerebrale, infatti, permette di tracciare una “geografia” delle zone corticali coinvolte nei processi mnestici sempre più precisa. Ma la possibilità che questa geografia possa chiarificare in qualche modo
l’esperienza della memoria, presuppone una riduzione del ricordo ad una
scrittura di informazioni univoche (sul modello dei processi di scrittura del
computer) completamente inadeguata12. Certamente è possibile tralasciare
l’esperienza concreta della memoria, accantonandola per via della sua resistenza all’osservazione scientifico-sperimentale e accontentarsi delle verità
obbiettive (ma parziali) prodotte dagli esperimenti. Ma questo significa di
fatto rinunciare all’oggetto di studio da cui si era preso le mosse. Significa
non rispondere alla domande da cui tutto era cominciato.
In realtà la psicologia della memoria e le scienze cognitive – che indagano i fenomeni psichici in modo assolutamente legittimo e ottengono risultati la cui importanza è fuori discussione – non possono fare a meno della fenomenologia della memoria. La descrizione fenomenologica costituisce
11
Cfr. H. Ebbinghaus, Über das Gedächtnis, E.J. Bonset, Amsterdam, 1966, tr. it. La
memoria. Un contributo alla psicologia sperimentale, Zanichelli, Bologna, 1975.
12
A. Oliverio che, nel suo interessante libro dedicato alla memoria, ricostruisce in modo
molto chiaro il dibattito tra olisti e riduzionisti, giunge ad una conclusione estremamente
significativa: «In qualche misura, localizzare le funzioni mentali significa sottoporre il mondo della psiche allo stesso ordine e alla stessa logica cui fanno capo gli atomi e le molecole,
le stelle e i pianeti» (A. Oliverio, Ricordi individuali, memorie collettive, Einaudi, Torino,
1994, p. 49). In altre parole: la localizzazione delle funzioni mentali presuppone quella naturalizzazione dello psichico che Husserl ha più volte criticato.
17
il punto di partenza imprescindibile da cui lo scienziato deve prendere le
mosse per la costruzione dei suoi apparati sperimentali e delle sue tecniche
di osservazione, ma anche un terreno di verifica cui ritornare continuamente per saggiare la capacità esplicativa delle sue teorie13. Da questo punto di
vista è «sorprendente che i lavori, direttamente dedicati alla memoria e alle
sue distorsioni, dedichino molti sforzi a quella che Pierre Buser chiama una
tassonomia della memoria, o piuttosto delle memorie: quante memorie, ci si
chiede, dobbiamo contare? [...] Un confronto diretto con la fenomenologia
della memoria [...] si impone a questo livello»14. O meglio: si dovrebbe imporre a questo livello. Infatti la diffidenza delle scienze cognitive nei confronti delle teorie filosofiche, sospettate di essere ideologiche e non rigorose, è totale. Così la classificazione delle varie forme di memoria e la descrizione delle loro proprietà essenziali viene operata il più delle volte a partire
da dati sperimentali ricavati in condizioni di osservazione artificiose e lontane dalla “vita quotidiana” e di conseguenza ultimamente parziali. «Si è
colpiti, a un tempo, dall’ampiezza e dalla precisione dell’informazione e da
una certa ristrettezza, quanto al carattere astratto delle condizioni di sperimentazione in rapporto alle situazioni concrete della vita, inoltre in rapporto alle altre funzioni mentali e, infine, in rapporto all’impegno dell’organismo nella sua interezza»15.
La critica della «naturalizzazione della sfera psichica»16 è dunque uno
dei compiti essenziali della fenomenologia. «E tuttavia – nota giustamente
Ricoeur – non rivendicherei per la fenomenologia della memoria un qualsiasi diritto all’ignoranza quanto alle neuroscienze»17. Il fenomenologo, reso
accorto da una severa critica dei fraintendimenti riduzionisti e dei pregiudizi obbiettivisti, può trovare nella mole ingente di dati raccolti dalle scienze
della memoria un tesoro di osservazioni fenomenologicamente interessan13
Oliverio ha tentato una sintesi dei diversi punti di vita del biologo, dello psicologo,
dello storico, del sociologo sulla memoria. Il punto di partenza di questo tentativo è il riconoscimento che i fenomeni cui si riferiscono il biologo, lo psicologo, lo storico o il sociologo quando utilizzano la parola “memoria” siano molto diversi tra loro, ma che abbiano anche un rapporto reciproco. Oliverio è un neurobiologo, ma nel tentare un chiarimento di
questo genere – di cui evidentemente si avverte la necessità anche all’interno del mondo
scientifico – si muove dall’inizio alla fine in un terreno filosofico. È compito della fenomenologia della memoria determinare chiaramente quali e quante diverse forme di memoria si
possano enumerare e in che modi possano essere studiate.
14
P. Ricoeur, La memoria, la storia e l’oblio, cit., p. 603.
15
Ivi, p. 605.
16
E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Martinus Nijhoff, Den
Haag, 1976, tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Net,
Milano, 2002, p. 92.
17
P. Ricoeur, La memoria, la storia e l’oblio, cit., p. 602.
18
tissime. A mio avviso così come lo scienziato ha la possibilità di avvantaggiarsi di un lavoro di osservazione dell’esperienza che ha una tradizione
millenaria, allo stesso modo il fenomenologo ha il dovere di appropriarsi
delle più recenti acquisizioni della scienza. O meglio: di ciò che c’è di fenomenologicamente rilevante in queste acquisizioni. Tutto ciò senza che
venga meno la rigorosa separazione tra metodi ed oggetti di studio che rimangono irriducibilmente diversi, almeno per quel che riguarda il lavoro
del neuroscienziato e quello del fenomenologo. Le neuroscienze studiano il
cervello per comprendere la mente. Niente impedisce che le osservazioni
scientifiche sul funzionamento dei meccanismi mentali abbiano un valore
fenomenologico. Ma per lo sguardo fenomenologico il cervello non esiste e
la mente può essere indagata solo come coscienza. I meccanismi cerebrali
sono senza dubbio cause dei fenomeni della vita della coscienza. Ma la vita
della coscienza non è interamente riducibile alle sue cause materiali: «il
cervello non è causa se non sul piano della possibilità condizionale espressa
dall’idea di causa sine qua non»18. In questo senso lo studio fenomenologico
della memoria ha una sua autonomia nei confronti della scienza sperimentale, ma nello stesso tempo ha il suo rigore e la sua dignità “scientifica”.
Desidero ringraziare in modo particolare Raffaele Bruno che mi ha seguito assiduamente durante i miei studi dottorali, sostenendomi, indirizzandomi e incoraggiandomi alla pubblicazione di questo libro. Vorrei ringraziare anche Francesco
Saverio Trincia, Rocco Ronchi e Davide Tarizzo, da cui ho ricevuto osservazioni e
critiche decisive per la rielaborazione finale del terzo e del quarto saggio, e Vincenzo Costa, con cui ho avuto occasione di discutere dei temi di questo lavoro e da
cui ho ricevuto preziosi suggerimenti. Al mio maestro Pietro Montani dedico il libro. Infine un ringraziamento speciale va a mia moglie Sofia, cha ha la pazienza di
sopportarmi quotidianamente.
18
Ivi, p. 600.
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