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Pólemos.
Materiali di filosofia e critica sociale
1/2020
Nuova edizione
FILOSOFIE DELLA TECNICA
TEORIE, MEZZI, PRASSI
A cura di
Michele Capasso e Dario Cecchi
DONZELLI EDITORE
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Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale
2/2020
Nuova edizione
Rivista semestrale registrata al Tribunale di Roma
Numero 66/2020 del 16/7/2020
DIRETTORE
Paolo Vinci
COMITATO SCIENTIFICO
Massimo Adinolfi, Emmanuel Alloa, Christoph Asmuth, Gabriella Baptist, Massimiliano Biscuso,
Iain Chambers, Luciano De Fiore, Anne Eusterschulte, Luca Illetterati, Marco Ivaldo, Rahel Jaeggi, Jean-François Kervégan, Gaetano Lettieri, Fiorinda Li Vigni, Francesca Menegoni, Sandro
Mezzadra, Pietro Montani, Stefano Petrucciani, Mario Pezzella, Edmundo Balsemão Pires, Geminello Preterossi, Ives Radrizzani, Emmanuel Renault, Judith Revel, Alexander Schnell, Davide Tarizzo, Elena Tavani, Pina Totaro, Pierluigi Valenza, Paolo Vinci (direttore responsabile).
DIREZIONE EDITORIALE
Guelfo Carbone, Eleonora Cugini, Fabio Gianfrancesco, Jamila Mascat, Tommaso Morawski, Sabina Tortorella.
REDAZIONE
Mico Capasso, Valeria Cesaroni, Giulia Dettori, Fulvia Giachetti, Flavio Luzi, Carlo Marino,
Emanuele Pelilli, Giuliana Scotto, Giada Scotto.
SEGRETERIA
Dipartimento di Filosofia
Sapienza – Università di Roma
Via Carlo Fea, 2 – 00161 Roma
In copertina: ………………………………………
PRODUZIONE EDITORIALE
© 2020 Donzelli editore
Roma, via Mentana 2b
www.donzelli.it
ISBN 978-88-5522-245-7 | ISSN 2281-9517
www.rivistapolemos.it
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FILOSOFIE DELLA TECNICA. TEORIE, MEZZI, PRASSI
Indice
p.
9
Nota dei curatori
Michele Capasso e Dario Cecchi
15
I. Saggi
Nature and Technology: Towards an Antinaturalistic
Naturalism
Luca Illetterati
35
Un luogo di delizia. Tra analogico e digitale
Massimo Adinolfi
55
Tecnologia digitale, dati e algoritmi per riorganizzare
gli schemi dell’esperienza cognitiva:
alcune osservazioni critiche
Teresa Numerico
77
La tecnica può salvare Dio?
Roberto Cerenza
97
II. Materiali
Desiderio e conoscenza: il morto afferrato dal vivo.
Elementi per una organologia della libido
Bernard Stiegler
117
Le filosofie hanno vite a termine?
Don Ihde
133
Hegel. Elogio del sapere, disprezzo dell’individuo
Felix Duque
157
III. Figure
Tecnica, arte, metodo. Su Walter Benjamin
Michele Capasso
5
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
171
I corpi e la tecnicità. Note per una filosofia biologica
della tecnica in André Leroi-Gourhan
Stefano Pilotto
185
Dalla medicina come tecnica alla tecnica in medicina.
Macchine e organismi patologici a partire dalla riflessione
di Georges Canguilhem
Fiorenza Lupi
203
Ellul lettore di Marx
Cristina Coccimiglio
225
Cristianesimo e mondo della vita. Alcune considerazioni
intorno alla riflessione sulla tecnica di Hans Blumenberg
Ludovico Battista
251
IV. Prospettive
Immagini tecniche e culture della ricezione.
Note sul pensiero di Bernard Stiegler
Dario Cecchi
261
Per un’educazione tecno-estetica. Pratiche e riflessioni
Elisa Binda
273
Politiche dello spettatore
Martino Feyles
291
Farmacologia dell’era digitale. Sintomatologia
e cura della società tecnologica
Guido Bianchini
309
Tecnica e rappresentazione. L’essere umano
come estensione del media digitale
Luca Capone
327
Per una teoria dell’epitesi: Kapp, Cassirer, Flusse
Francesco Restuccia
347
Videogioco e virtualità a partire da Garroni
Andrea D’Ammando e Manuel M. Riolo
6
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Indice
369
V. Recensioni
I poteri degli schermi. Contributi italiani a un dibattito
internazionale, a cura di M. Carbone, A. Caterina
Dalmasso, J. Bodini
Recensione di Gioia Silli
373
La società automatica di B. Stiegler
Recensione di Domenico Berni
377
Moved by machines. Performance Metaphors
and Philosophy of Technology di M. Coeckelbergh
Recensione di Valeria Cesaroni
383
Emozioni dell’intelligenza. Un percorso nel sensorio
digitale di P. Montani
Recensione di Angela Maiello
387
Il capitalismo delle piattaforme di B. Vecchi
Recensione di Fulvia Giachetti
391
Revisori
7
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FILOSOFIE DELLA TECNICA. TEORIE, MEZZI, PRASSI
Politiche dello spettatore
Martino Feyles
1. Politiche dell’immagine
Quando Benjamin scrive L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è già evidente che le tecnologie dell’immagine hanno
prodotto una vera e propria rivoluzione politica. Benjamin sembra
avere un giudizio ambivalente sui cambiamenti che vede in atto. La
perdita dell’aura è presentata come il momento culminante di un processo di «distruzione del valore tradizionale dell’eredità culturale»1 ed
è difficile pensare che questa distruzione sia qualcosa di positivo. D’altra parte Benjamin vede un nesso tra la crisi delle democrazie moderne,
che ha aperto la strada ai totalitarismi, e la rivoluzione delle tecnologie
dell’immagine. Lo spazio politico viene ridefinito nel momento in cui
il valore espositivo diventa il primo requisito di un leader politico e
l’azione politica diventa innanzitutto produzione di un’immagine.
La modificazione, qui constatata, del modo di esposizione attraverso la
tecnica riproduttiva, si fa sentire anche nella politica. L’attuale crisi delle democrazie borghesi implica una crisi delle condizioni determinanti per l’esposizione di coloro che governano. Le democrazie espongono colui che governa
immediatamente, con la sua persona, e lo espongono di fronte ai rappresentanti del popolo. Il parlamento è il suo pubblico2
Bisogna prestare particolare attenzione alla fulminea sentenza che
chiude questa citazione. Nell’immagine del parlamento che diventa il
pubblico a cui i governanti si rivolgono è già prefigurata la trasformazione che sarà analizzata in questo saggio: il cittadino non è più attore
politico, ma spettatore. È del tutto evidente che questa trasformazione
implica un pericolo. Benjamin sa bene che il primo effetto sociale delle
1
W. Benjamin, Der Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in
Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955; trad. it. di E. Filippini, L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino
2000, p. 23.
2
Ivi, p. 53n.
273
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
nuove tecnologie dell’immagine è di introdurre nella dialettica politica
un nuovo meccanismo di selezione: non si tratta più di optare per un
discorso o per un altro, per una dottrina politica o per un’altra, quanto
piuttosto di scegliere tra le diverse immagini dei diversi leader politici;
ed è chiaro che «da questa selezione escono vincitori il divo e il dittatore»3. Mentre il cittadino diventa uno spettatore, il dittatore è paragonato da Benjamin a un attore che interpreta se stesso, un attore che offre
una performance della massima efficacia dal punto di vista espositivo.
Nonostante ciò, l’atteggiamento di fondo che Benjamin esprime in
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica resta un atteggiamento di apertura. La perdita del valore cultuale è compensata
dall’aumento del valore espositivo, che è un valore completamente diverso, ma è pur sempre un valore; infatti la desacralizzazione dell’immagine è presentata come un processo di «emancipazione», grazie al
quale l’immagine si libera da un’esistenza che viene definita «parassitaria»4. D’altra parte Benjamin non cessa di presentare il cinema come
una tecnica di rappresentazione intrinsecamente rivoluzionaria. Certamente non ogni cinema è rivoluzionario: «fintanto che a dettare legge è il capitale cinematografico, non si potrà attribuire al cinema
odierno un merito rivoluzionario che non sia quello di promuovere
una critica rivoluzionaria della nozione tradizionale di arte»5. Tuttavia
se si rivolge lo sguardo, non al cinema americano dominato dal capitale, ma al cinema sovietico – Benjamin pensa soprattutto a Vertov6 – si
può già intravedere in che senso le nuove tecnologie dell’immagine
abbiano un inedito potenziale rivoluzionario.
C’è un aspetto in particolare che merita di essere sottolineato. La
grande novità del cinema sovietico, agli occhi di Benjamin, è legata proprio a un rovesciamento della logica spettatoriale: «una parte degli interpreti del cinema russo non sono interpreti nel senso nostro, bensì persone che interpretano se stesse – in primo luogo nel loro processo lavorativo»7. Mentre il cinema capitalistico concepisce la massa come una
moltitudine indistinta di spettatori, nel cinema sovietico, per Benjamin,
la massa partecipa come protagonista principale: una massa di attori,
3
Ibid.
Ivi, p. 26.
5
Ivi, p. 35.
6
Pietro Montani ha evidenziato il nesso tra la teoria dei media di Benjamin, il cinema di
Vertov e il problema dell’ipertesto che affronterò nell’ultimo paragrafo: cfr. P. Montani,
Bioestetica, Carocci, Roma 2007, pp. 88 e ss.
7
Benjamin, L’opera d’arte cit., p. 36.
4
274
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Martino Feyles, Politiche dello spettatore
non una massa di spettatori. Se le nuove tecnologie dell’immagine ridefiniscono lo spazio politico, la possibilità positiva che si può intravedere
in un certo cinema è quella di un inedito diritto all’immagine: «ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di essere filmato»8.
Questo diritto all’immagine non è solo il diritto di essere rappresentati in immagine, ma anche il diritto di partecipare alla produzione
delle immagini. Il cinema, la radio e la fotografia rendono possibile un
mutamento del meccanismo di produzione delle immagini analogo a
quello che la stampa ha prodotto nel campo testuale: «per secoli, nell’ambito dello scrivere, la situazione era la seguente: che un numero limitato di persone dedite allo scrivere stava di fronte a migliaia di lettori». Con la stampa tutto cambia: nascono i giornali, le gazzette, i libri
diventano accessibili. La ridefinizione dello spazio politico determinata da questi cambiamenti, che si producono nel campo del testuale, è
analoga a quella che ci si può attendere nel campo delle immagini: «la
distinzione tra autore e pubblico è in procinto di perdere il suo carattere sostanziale»9. Il pubblico non è più soltanto un insieme di spettatori (coloro che ricevono la rappresentazione), ma anche un insieme di
attori (coloro che sono rappresentati) e autori (coloro che producono
la rappresentazione).
Nonostante abbia sotto gli occhi le più deleterie conseguenze della
gestione totalitaria delle tecnologie dell’immagine, Benjamin resta
convinto che la cultura di massa possa essere non una cultura per la
massa, ma una cultura della massa. È questo il senso dell’alternativa
espressa nella celebre postilla finale: l’«estetizzazione della politica»
che il fascismo propone implica la riduzione della massa al ruolo di
spettatore inerte, la «politicizzazione dell’arte» con cui replica il comunismo, implica il protagonismo partecipativo della medesima massa. In entrambi i casi, quel che Benjamin dà per assunto, è che lo spazio politico debba ormai essere pensato innanzitutto come il campo di
battaglia tra contrapposte immagini.
2. La passività dello spettatore
Prima della guerra Benjamin poteva ancora immaginare un uso rivoluzionario delle tecnologie dell’immagine. Ma il quadro politico
8
9
Ivi, p. 35.
Ivi, p. 36.
275
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sembra profondamente mutato nel secondo dopoguerra. Quando
Adorno e Horkheimer definiscono la nozione di industria culturale è
chiaro ormai che le tecnologie dell’immagine si sono sviluppate nella
direzione di un monopolio culturale. È contro questa monopolizzazione della cultura che si orienta la polemica di Adorno e Horkheimer. Benché in diversi luoghi si abbia l’impressione di un attacco al cinema in sé10, al cinema in quanto cinema, alla radio in quanto radio, e
non tanto di una critica a un certo modo di fare cinema o a un certo
modo di fare radio, tuttavia non bisogna dimenticare che la nozione di
“industria” culturale mette l’accento sulle condizioni di subalternità
delle tecniche dell’immagine rispetto agli interessi della grande industria. Questa è anche la ragione per cui Adorno e Horkheimer rifiutano l’idea di “cultura di massa”:
Nei nostri abbozzi si parlava di cultura di massa; sostituimmo questa
espressione con “industria culturale” per eliminare subito l’interpretazione
che fa comodo ai suoi difensori: che si tratti di qualcosa come una cultura che
scaturisce spontaneamente dalle masse stesse; della forma che assumerebbe
oggi un’arte popolare11.
La cultura di massa è una cultura imposta alla massa e per questo è
necessario raggruppare cinema, radio, fotografia sotto la nozione più
generale di industria culturale. Si tratta di un sistema, che è gestito dall’alto e che è subordinato agli interessi dei «settori più potenti dell’industria: acciaio, petrolio, elettricità e chimica. I monopoli culturali sono, nei loro confronti, deboli e impotenti. Devono spicciarsi a soddisfare i veri detentori del potere, se non vogliono che la loro sfera nella
società di massa […] sia sottoposta a una serie di repulisti»12. Se Benjamin prospettava ancora l’idea che la politicizzazione dell’immagine si
realizzasse in due direzioni contrapposte, Adorno e Horkheimer denunciano il completo asservimento dell’immagine alle esigenze del sistema capitalistico.
Il denominatore comune che unisce tra loro i diversi media, visivi,
audiovisivi, uditivi, testuali, è la «pubblicità», che, per Adorno e Horkheimer, ha la stessa forma della propaganda. Questo paragone tra in10
Cfr. in particolare M. Horkheimer e T. Adorno, Dialektik der Aufklarung. Philosophischen Fragmenten, Social Studies Ass., New York 1944; trad. it. di R. Solmi, Dialettica
dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 133.
11
T. Adorno, Ohne Leitbild. Parva Aesthetica, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1967; trad.
it. di E. Franchetti, Parva Aesthetica, Feltrinelli, Milano 1979, p. 58.
12
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo cit., p. 129.
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Martino Feyles, Politiche dello spettatore
dustria culturale e propaganda viene confermato nei passaggi in cui
viene istituito un legame di continuità tra le condizioni politiche proprie delle democrazie di massa, come quella americana, e le condizioni
politiche proprie degli stati totalitari: il borghese «è già virtualmente il
nazista»13. La differenza fondamentale tra la propaganda in senso
stretto e la pubblicità, è che la prima non nasconde il suo esplicito
contenuto politico, mentre il carattere ideologico della seconda rimane occulto. In entrambi i casi si tratta di «soggiogare e conquistare» la
mente dell’individuo. Si rivela così quella che per Adorno e Horkheimer è la vera specificità delle tecnologie dell’immagine: «la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani»14.
In che modo, concretamente, questa psicotecnica produce il suo
effetto di persuasione? La risposta di Adorno e Horkheimer è circostanziata e fa riferimento a una precisa tradizione teorica, quella kantiana: l’industria culturale manipola continuamente lo spettatore perché schematizza al posto suo. «Essa attua e mette in pratica lo schematismo come primo servizio del cliente»15. Questo «impoverimento
dell’immaginazione» non è semplicemente un indebolimento della capacità dello spettatore di sognare o creare mondi fantastici. È l’intero
rapporto con la realtà che è depauperato. L’impoverimento dell’immaginazione è l’impoverimento della capacità di giudizio. L’industria
culturale, schematizzando al posto dello spettatore, ne disabilita la facoltà cognitiva più importante: abituandosi a non giudicare, perché
«non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato
nello schematismo della produzione»16, lo spettatore perde progressivamente la stessa facoltà di giudizio.
La caratteristica che definisce in modo più compiuto la figura dello
spettatore-consumatore delineata da Adorno e Horkheimer è, dunque,
la passività. La massa subisce i prodotti dell’industria culturale senza
poter in nessun modo partecipare alla loro produzione. Per questo la
presunta democraticità della radio è oggetto di un’ironia sprezzante: la
radio «democratica, rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli in
modo autoritario ai programmi fra loro tutti uguali delle varie stazioni». Ciò che rende ancora più autoritaria questa apparente “uguaglianza” degli ascoltatori è la negazione di ciò che Benjamin intravedeva
13
14
15
16
Ivi, p. 167.
Ivi, p. 177.
Ivi, p. 131.
Ivi, p. 131.
277
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
come una possibilità di protagonismo delle masse: «non si è sviluppato alcun sistema di replica»17. I prodotti dell’industria culturale, non
solo escludono ogni partecipazione delle masse nella fase della produzione della cultura, ma hanno l’effetto psicologico di «vietare letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore»18.
3. L’alienazione dello spettatore
Vent’anni dopo la pubblicazione de L’industria culturale, Debord
scrive il testo in cui la critica della riduzione del cittadino a spettatore
viene espressa nel modo più esplicito, La società dello spettacolo. Debord collega in modo esplicito il problema marxista dell’alienazione al
problema della manipolazione dei bisogni. L’alienazione dello spettatore è innanzitutto determinata dall’identificazione con le «immagini
dominanti del bisogno»:
L’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è
il risultato della propria attività incosciente) si esprime così: più esso contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio19.
Bisogna notare che l’analisi dell’alienazione dello spettatore non
costituisce un’alternativa, quanto piuttosto un complemento dell’analisi marxista dell’alienazione del lavoratore. Anche se Marx non manca
di sottolineare l’imbarbarimento della vita privata dell’operaio che si
produce in un’economia capitalista20; anche se l’estraniazione dell’uomo nei confronti dell’umanità e dell’altro uomo proietta la critica
marxista su un piano antropologico generale, nei Manoscritti economico filosofici del’44 l’alienazione è presentata come un fenomeno che si
produce innanzitutto nel tempo del lavoro e che riguarda una certa
modalità storica della produzione. Ma cosa accade quando l’operaio
smette di lavorare? Cosa accade quando il lavoratore entra nel cosiddetto “tempo libero”? La differenza tra la critica di Marx e quella di
Ivi, p. 128.
Ivi, p. 133.
19
G. Debord, La société du spectacle, Buchet/Chastel, Paris 1967; trad. it. di P. Stanziale, La società dello spettacolo, Massari, Bolsena 2008, p. 53.
20
Cfr. in particolare K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre
1844; trad. it. di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004,
pp. 19, 21, 123.
17
18
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Martino Feyles, Politiche dello spettatore
Debord è legata principalmente a queste domande. La necessità di
porre queste domande si impone a un certo momento, per precise ragioni storiche. Nei cento anni circa che separano il testo Marx e quello
di Debord le condizioni sociali, economiche, politiche dei lavoratori
sono cambiate. La massa dei lavoratori di cui Marx si fa portavoce
non è la massa di lavoratori di cui Debord si fa portavoce. Uno sguardo non fazioso deve riconoscere che, dal punto di vista del reddito,
della rappresentanza politica, dei diritti, la situazione dei lavoratori nel
secondo dopoguerra è oggettivamente migliore. Da dove trae la sua
legittimità, dunque, la veemenza della polemica di Debord? Il punto
essenziale è che il miglioramento delle condizioni di vita corrisponde
a un miglioramento delle tecniche di dominio e assoggettamento. L’intera sfera del privato, del tempo libero, dell’esistenza non lavorativa,
viene assoggettata alle regole dell’economia capitalistica grazie all’onnipresenza di ciò che Debord chiama “spettacolo”.
Per metà della sua esistenza vigile21 l’individuo produce spettacolo,
lavorando in condizioni alienanti. Nella restante metà della sua esistenza vigile l’individuo assiste allo spettacolo della merce, nelle condizioni di uno spettatore alienato. L’alienazione dello spettatore è il
complemento dal lato del consumo, di ciò che l’alienazione del lavoratore rappresenta dal lato della produzione. Quando Marx scrive i Manoscritti la distinzione tra consumatori e produttori corrisponde ancora a una distinzione tra classi sociali, per cui il proletario è, dal punto
di vista dell’economia politica, semplicemente un lavoratore (o meglio: un «animale da lavoro»), mentre il borghese rappresenta il consumatore. Ma Debord vede bene che nel capitalismo più evoluto del secondo dopoguerra la situazione è diversa: ora è lo stesso individuo che
può giocare entrambi i ruoli, quello del lavoratore e quello del consumatore. Questo cambiamento ha delle ragioni economiche, perché è
dovuto alla «sovrabbondanza della merce» che richiede una sovrabbondanza di consumatori. Così il miglioramento delle condizioni di
reddito dei lavoratori produce nello stesso tempo l’«occupazione totale della vita sociale»22 da parte della merce, cioè il completo assoggettamento di ogni fase della vita alla logica dell’economia capitalistica.
21
Sottolineo l’aggettivo “vigile”, perché Crary qualche anno fa ha mostrato che il passaggio ulteriore nell’assoggettamento dell’esistenza alla logica del consumo consiste nel capitalizzare anche il tempo del sonno. Cfr. J. Crary, 24/7: Late capitalism and the ends of
sleep, Verso, London and New York 2013; trad. it. di Mario Vigiak 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015.
22
Debord, La società dello spettacolo cit., p. 58.
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
La tesi di Debord che «lo spettacolo è la principale produzione
della società attuale»23 non deve essere interpretata in un senso riduttivo. Certamente lo spettacolo nel significato ristretto del termine corrisponde all’industria culturale di cui parlavano Adorno e Horkheimer.
In questo senso è giusto evidenziare quanta parte dello sforzo produttivo dell’industria contemporanea sia assorbito da ciò che normalmente si chiama “intrattenimento”. Evidentemente la crescente importanza dell’industria dell’intrattenimento in termini di fatturato e in
termini di occupazione del tempo libero è una conferma della tesi
dell’equivalenza tra spettacolo e merce. Ma la nozione proposta da
Debord ha anche un senso più ampio: lo spettacolo è nello stesso tempo una parte della società e la società nel suo complesso24. In senso
stretto, cioè come industria dell’intrattenimento, lo spettacolo è quella
parte della società «che concentra ogni sguardo e ogni coscienza»25, è
quel mondo a parte che sta di fronte allo spettatore come un mondo
incantato, sognato, come il mondo dei desideri realizzati. Un mondo
da cui lo spettatore è escluso. Ma nel senso più ampio lo spettacolo
coincide con la realtà totale. Il consumatore, infatti, nel momento in
cui sveste i panni dello spettatore e si ritrasforma in lavoratore, che
cosa produce? Spettacolo.
Questa idea può essere compresa se la si mette in relazione con
quello che Debord, con l’ennesimo détournement marxista, afferma
nella tesi 47 sulla «caduta tendenziale del valore d’uso»: la merce nella
società della sovrabbondanza non è più acquistata per il suo valore
d’uso, ma unicamente perché risponde a un bisogno simbolico. Dunque «il consumatore reale diviene consumatore di illusioni»26. Ora dove si costruisce l’illusione della merce? Dove viene forgiato il valore
simbolico della merce? Nello spettacolo. Dunque, da una parte la produzione della merce è produzione di spettacolo, perché quello che
conta maggiormente nella versione attuale del capitalismo non è il valore d’uso della merce, ma la sua immagine. Dall’altra parte il consumo
della merce è consumo di spettacolo perché nel suo tempo libero il lavoratore può scegliere se essere spettatore dello spettacolo che l’industria dell’intrattenimento gli propone ininterrottamente o essere spettatore dello spettacolo della merce, comprando un oggetto il cui valo23
24
25
26
Ivi, p. 47.
Ivi, p. 44
Ivi, p. 44.
Ivi, p. 61.
280
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Martino Feyles, Politiche dello spettatore
re è, in realtà, solamente un valore di immagine. Lo spettatore è sempre anche un consumatore e un compratore.
4. La democrazia degli spettatori
Nell’analisi di Adorno e Horkheimer, così come in quella di Debord, il legame tra politica e immagine è assunto esclusivamente nella
sua accezione negativa. All’interno della società dello spettacolo e nel
mondo dominato dall’industria culturale sembra che non vi sia alcuno
spazio per un uso democratico delle tecnologie dell’immagine. Ma
questo giudizio non è forse unilaterale?
In un testo ormai canonico Umberto Eco mette in evidenza il limite di tutte le critiche apocalittiche: in ultima analisi queste critiche rischiano di avallare una concezione aristocratica della cultura. Così, in
un mondo sempre più povero dal punto di vista culturale,
l’apocalittico consola il lettore, perché gli lascia intravedere, sullo sfondo
della catastrofe, l’esistenza di una comunità di “superuomini” capaci di elevarsi, non foss’altro che attraverso il rifiuto, al di sopra della banalità media27.
Il problema non è solo che questo atteggiamento è figlio di un esasperato narcisismo intellettuale, ma anche che questo narcisismo, di
fatto, impedisce qualsiasi tentativo concreto di modificare la situazione esistente. La critica di Eco è per molti versi imprescindibile. Occorre evitare la trappola intellettuale della filosofia della tecnica apocalittica. Una posizione più condivisibile è quella che lo stesso Eco prospetta, quando auspica un atteggiamento di prudente riformismo tecnologico (che egli ci tiene a distinguere dal riformismo politico)28: si tratterebbe di accettare il mondo tecnico in cui siamo situati come uno stato
di fatto e cercare dall’interno di individuare strategie di riforma che
vadano a contrastare le tendenze autoritarie che gli apocalittici giustamente, ma snobisticamente, denunciano.
In questa prospettiva l’interrogativo che si pone è il seguente: è
possibile assumere le critiche alla spettacolarizzazione della politica, bilanciandole con il riconoscimento della possibilità di un uso democratico delle tecnologie dell’immagine? Per rispondere positivamente a
questa domanda è necessario innanzitutto procedere a una riabilita27
28
U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 2019, p. 5.
Ivi, p. 49.
281
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
zione politica della figura dello spettatore. Per Adorno e Horkheimer
e per Debord l’estetizzazione della politica implica la riduzione del
cittadino a spettatore e questa riduzione implica un’involuzione in
senso autoritario, se non addirittura totalitario, della democrazia. Benché la degenerazione della dialettica politica nelle società contemporanee sia un dato di fatto abbastanza evidente, in favore di una riabilitazione politica dello spettatore possono essere avanzati argomenti che si
sviluppano lungo due linee direttrici29.
Per illustrare la prima linea argomentativa può essere utile fare riferimento a un testo di J. E. Green intitolato The Eyes of the People.
Democracy in a Age of Spectatorship. Il punto di partenza di Green è
lo stesso di Benjamin, Adorno e Horkheimer e Debord. Le tecnologie
dell’immagine hanno trasformato la politica: invece di agire e decidere,
il cittadino delle democrazie contemporanee passa il suo tempo guardando, come uno spettatore, una ristretta minoranza di persone, i politici, che conducono una vita politica effettivamente attiva.
In ogni caso, il punto essenziale è che la nostra esperienza politica, sia che
siamo elettori sia che non lo siamo, consiste per la gran parte non nell’agire e
nel prendere decisioni, quanto piuttosto nel guardare e nell’ascoltare altri che
sono attivamente impegnati30.
La democrazia contemporanea è per Green molto diversa dalla democrazia antica. Nelle antiche democrazie, in particolare nella democrazia ateniese dell’età classica, il cittadino partecipava in modo attivo
alla vita politica, perché il ristretto numero dei membri della comunità
e il meccanismo della rotazione delle cariche facevano sì che – tendenzialmente – ogni cittadino, almeno una volta nella vita, fosse chiamato
ad assumere in prima persona una responsabilità politica. Inoltre le decisioni politiche erano legittimate da assemblee nelle quali il cittadino
aveva la possibilità di prendere la parola e interloquire direttamente
29
Ovviamente le due vie che seguo nella seconda parte di questo saggio non sono le
uniche vie che si possono percorrere. Rancière, per esempio, procede a una riabilitazione
della figura dello spettatore percorrendo un cammino teorico diverso, un cammino che passa dalla decostruzione della contrapposizione tra attività e passività: «Être spectateur n’est
pas la condition passive qu’il nous faudrait changer en activité. C’est notre situation normale», J. Rancière, Le spectateur émancipé, La fabrique éditions, Paris 2008, p. 23.
30
«In any case, the key point is that the vast majority of our political experience,
whether voter or nonvoter, is not spent engaged in such action and decision making, but
rather watching and listening to others who are themselves actively engaged», J. E. Green,
The Eyes of the People. Democracy in an Age of Spectatorship, Oxford University Press,
New York 2010, p. 4. La trad. it. di questo passaggio e dei successivi è nostra.
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con i suoi pari e con coloro che detenevano cariche pubbliche; in questo modo il cittadino greco, anche quando assisteva da “spettatore” a
un processo decisionale, aveva sempre la possibilità di prendere la parola e trasformarsi in un “attore” politico. Nelle democrazie di massa
la possibilità di questo passaggio dalla passività all’attività risulta inevitabilmente compromessa31. Benché in teoria il cittadino goda di tutti i
diritti politici e possa prendere parte attivamente alla vita politica (organizzando manifestazioni, petizioni, iscrivendosi a un partito, concorrendo per le cariche politiche, ecc.) di fatto, per una serie di ragioni
strutturali (legate principalmente alla mancanza di tempo, risorse materiali e competenze), la maggioranza delle persone non è nelle condizioni di poter esercitare veramente questi diritti, se non nel momento in
cui vota. Poiché le elezioni sono un evento sporadico e poiché il cittadino tramite il meccanismo elettorale non è chiamato a prendere parte
al processo decisionale e legislativo, ma solo a esprimere una preferenza rispetto a un ristretto numero di candidati, di fatto anche l’esercizio
del diritto di voto può essere considerato solo in minima parte come il
segnale di una attiva partecipazione alla vita politica.
La proposta di Green è di assumere risolutamente questa situazione come un dato di fatto inaggirabile per cercare di individuare, in
modo pragmatico, le possibilità di un’azione riformista che miri a garantire il cittadino-spettatore contro gli abusi che la ristretta cerchia
dei politici attivi può mettere in pratica. Si configura così il progetto di
una «democrazia plebiscitaria» in cui la massa non partecipa attivamente al processo legislativo e decisionale, ma assiste nella forma di
una partecipazione spettatoriale alla dialettica politica, esprimendo poi
con il voto la sua ratifica o il suo dissenso rispetto alle decisioni che altri hanno preso per lei. Green si impegna a mostrare che questo paradigma non è necessariamente un paradigma perverso. Una democrazia
plebiscitaria non è necessariamente una pseudodemocrazia che in realtà nasconde un regime autoritario. Generalmente
la democrazia plebiscitaria designa una politica della spettacolo, dominata
da un’élite manipolatrice, nella quale ogni processo decisionale genuinamente
popolare è stato corrotto e la maggioranza dei cittadini è destinata ad assumere un ruolo da spettatore. Ma questa visione rigorosamente negativa della democrazia plebiscitaria è troppo angusta32.
Ivi, p. 32.
«plebiscitary democracy designates a politics of spectacle, dominated by manipulative
elites, in which genuine popular decision making has been corrupted and most citizens are
31
32
283
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
Alla base della proposta di Green c’è l’idea che vi sia una sostanziale differenza tra la spettatorialità e l’indifferenza. Lo spettatore è
ancora un individuo che partecipa, anche se non ha gli strumenti, le
motivazioni, i mezzi (soprattutto i mezzi tecnici), per partecipare come soggetto attivo della politica. Lo spettatore non è, come pensano
Debord, Adorno, Horkheimer e gli altri apocalittici, la figura antitetica che si contrappone diametralmente alla figura del cittadino politicamente attivo, quanto piuttosto una figura intermedia, che si situa a
metà strada tra il cittadino attivo in politica (il politico di professione
o l’attivista) e il cittadino completamente indifferente alla politica (che
non vota e non segue i dibattiti politici proposti dai media). Il cittadino-spettatore non è un cittadino politicamente attivo, ma può essere un
cittadino politicamente consapevole33.
La proposta di Green resta problematica, ma lo straordinario pragmatismo che la anima merita interesse, nella prospettiva di mediazione
delineata in precedenza seguendo Eco. Le tecnologie dell’immagine
sono un dato di fatto con cui bisogna fare i conti. Allo stesso modo
bisogna considerare come un dato di fatto inaggirabile la trasformazione del cittadino in spettatore. Green lo ribadisce più volte:
Perché non cercare, invece, di trovare un modo per trasformare gli spettatori in attori? Una ragione […] è che la spettatorialità è una condizione definitiva che caratterizza il modo in cui le persone comuni si relazionano alla politica nella loro vita ordinaria34.
È del tutto evidente che questa trasformazione implica un impoverimento della dimensione della partecipazione politica. Green ne è
perfettamente consapevole e si richiama a Bobbio per esprimere la sua
disillusione per le promesse non mantenute da parte del sistema democratico. In un mondo ideale la democrazia plebiscitaria non esisterebbe e il cittadino sarebbe chiamato a partecipare attivamente35. Ma
nelle condizioni reali che caratterizzano il nostro presente anche
l’ideale democratico deve essere riformulato: Green è consapevole di
avere una visione politica pessimistica, ma il suo pessimismo non è
consigned to play the role of spectator. But this strictly pejorative rendering of plebiscitary
democracy is too narrow». Ivi, p. 5.
33
Ivi, p. 37.
34
«Why not, instead, seek to find ways to transform spectators into actors? One reason
[…] is that spectatorship is definitive of the way ordinary people relate to politics in their
ordinary lives». Ivi, p. 6.
35
Ivi, p. 126.
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Martino Feyles, Politiche dello spettatore
apocalittico proprio perché si traduce in un realismo estremamente
pragmatico36.
Il discorso di Green è articolato intorno alla distinzione tra quello
che egli chiama il «modello vocale» della democrazia e un «modello
oculare», che corrisponde alla sua proposta di democrazia plebiscitaria.
La distinzione è triplice: mentre nel modello vocale la sovranità popolare ha come oggetto la legge, (il popolo si considera come l’autore della legislazione), nel modello oculare l’oggetto su cui il popolo esercita
la sua autorità sono i leader politici; mentre nel modello vocale l’organo attraverso cui la volontà del popolo si esercita è la decisione, che si
esprime principalmente nel voto, nel modello oculare, l’esercizio del
potere da parte del popolo si attua attraverso i dispositivi di quello che
Green chiama «gaze», cioè attraverso una serie di pratiche che mirano
ad assicurare meccanismi di sorveglianza e controllo sui governanti37;
infine, mentre nel modello vocale l’ideale critico che la democrazia tenta di realizzare è quello dell’autonomia (il popolo obbedisce a delle leggi che ha contribuito attivamente a stabilire), nel modello oculare
l’ideale a cui la politica deve conformarsi è quello del «candor».
Tre osservazioni sono importanti a proposito di questo paradigma
politico. In primo luogo è importante notare che la distinzione tra
modello vocale e oculare non è una contrapposizione. Anche se Green
talvolta sembra contrapporre in modo troppo netto i due paradigmi,
diversi passaggi del suo testo autorizzano il lettore e pensare che i due
modelli possano e debbano coesistere. Questa precisazione è importante perché se la democrazia oculare avesse la pretesa di sostituirsi alla democrazia vocale, la proposta di Green risulterebbe irricevibile. Al
contrario, anche se le concrete misure di riforma che vengono proposte nel suo libro non sempre sono convincenti, il proposito di una regolamentazione dello spazio visivo della dialettica politica, che si affianchi alla regolamentazione dello spazio discorsivo, è senza dubbio
condivisibile.
In secondo luogo è evidente che il paradigma di Green implica
l’assunzione di un dato di fatto che già Benjamin, come abbiamo visto, aveva rilevato: le tecnologie dell’immagine trasformano lo spazio
pubblico in modo che il meccanismo di selezione politica, non si esercita più sui discorsi, ma sui leader e più precisamente sulle contrapposte immagini dei leader. Green sembra essere troppo accondiscendente
36
37
Ivi, p. 24.
Ivi, p. 9.
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
con questa trasformazione, che, invece, richiederebbe la messa in atto
di strategie correttive. Ma rimane il fatto che l’estetizzazione e la conseguente personalizzazione della politica sono i dati di fatto con cui
qualsiasi progetto democratico oggi deve confrontarsi.
In terzo luogo è bene notare che nella proposta di Green l’ideale a
cui la dialettica democratica deve ispirarsi (il «candor») è esplicitamente connesso al controllo delle tecnologie dell’immagine. Il principio
del “candore” non implica alcuna (irrealistica) assunzione previa circa
l’onestà dei politici, quanto piuttosto un intervento sulle condizioni di
produzione della loro immagine:
nella democrazia plebiscitaria il paradigma oculare del potere popolare
concepisce come ideale critico il candor – espressione con la quale non intendo innanzitutto la norma individuale secondo la quale i leader devono essere
“sinceri”, quanto piuttosto il requisito istituzionale per il quale i leader non
hanno il controllo delle condizioni del loro apparire pubblico. I leader sono
“candidi” nella misura in cui le loro apparizioni pubbliche non sono preparate, programmate e gestite dall’alto, ma, al contrario, implicano tutti i rischi e le
incertezze degli eventi pubblici spontanei38.
In altri termini il principio proposto da Green potrebbe essere riformulato come segue: tanto più un politico ha il controllo della sua immagine, tanto meno un sistema politico è democratico. La democrazia nell’epoca delle tecnologie dell’immagine è necessariamente una democrazia plebiscitaria39 e in queste condizioni l’unico elemento che impedisce
la completa identificazione di spettacolo e politica è il controllo dello
spettatore sulle condizioni di produzione delle immagini politiche40.
5. Politiche dell’ipertesto
Per illustrare la seconda linea argomentativa in favore di una riabilitazione politica dello spettatore si può fare riferimento al testo di G.
P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura. Nel suo libro, che è or38
«plebiscitary democracy’s ocular paradigm of popular empowerment understands the
critical ideal to be candor —by which I mean not primarily the individual norm that leaders
be sincere, but rather the institutional requirement that leaders not be in control of the conditions of their publicity. Leaders are candid to the extent their public appearances are neither rehearsed, preplanned, nor managed from above, but rather contain all the risk and uncertainty of spontaneous public events». Ivi, pp. 13-4.
39
Ivi, p. 123.
40
Ivi, p. 180.
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mai un “classico” della letteratura sulla rete, Landow cerca di evidenziare le conseguenze politiche della rivoluzione tecnologica che ha
portato dalla scrittura lineare tradizionale alla scrittura ipertestuale. Se
le riflessioni di Adorno, Horkheimer e Debord mostrano i limiti tipici
della critica apocalittica, le riflessioni di Landow, mostrano alcuni limiti tipici di quelle posizioni che Eco definirebbe “integrate”. La fiducia che Landow ripone nelle nuove tecnologie di scrittura deve
dunque essere integrata con la consapevolezza critica tipica della letteratura apocalittica.
Va detto innanzitutto che il punto di vista adottato da Landow è
quello della teoria letteraria e per questo non è tanto lo spettatore che
viene tematizzato nel suo libro quanto piuttosto il lettore. È chiaro
però che questa differenza è relativa, anche perché gli “ipertesti” oggi
accessibili in rete non sono quasi mai dei semplici “testi”, ma sono invece degli “ipermedia” che collegano testi, immagini, video, audio. È
lecito dunque estendere le osservazioni che Landow propone a proposito del modo in cui l’ipertesto riconfigura il lettore anche al discorso che qui mi interessa più da vicino.
All’origine della teoria presentata in Ipertesto. Il futuro della scrittura c’è la critica alla nozione di autore sviluppata dai post-strutturalisti francesi. Il principio autoriale per Landow come per i post-strutturalisti è un principio di autorità41. Nell’accezione più ovvia del termine
– un’accezione che i post-strutturalisti non hanno smesso di contestare – leggere significa ricostruire il senso di ciò che l’autore ha voluto
dire. L’atto di lettura è dunque un atto in cui il lettore accetta di seguire una strada che l’autore ha predeterminato. Ora, mentre i post-strutturalisti hanno cercato di forzare la logica autoriale mostrando che ci
sono infiniti modi legittimi di leggere un testo al di là delle intenzioni
dell’autore, talvolta anche contro le sue intenzioni, l’ipertesto rappresenta per Landow la realizzazione tecnologica di un ideale di scrittura
in cui è la stessa distinzione tra autore e lettore a perdere progressivamente di significato42. Questa riconfigurazione dei rapporti tra autore
41
Cfr. in particolare R. Barthes, La mort de l’Auteur, in Id., Le bruissement de la
langue. Essais critiques IV, Éditions du Seuil, Paris 1984; trad. it. di B. Bellotto, La morte
dell’autore, in Id., Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988; M. Foucault, «Qu’est-ce
qu’un auteur?», in Id., Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994; trad. it. di C. Milanese, «Che cos’è un autore?», in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2010.
42
G. Landow, Hypertext. The Convergence of Contemporary Critical Theory and
Technology, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1992; trad. it. di B. Bassi,
Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna 1993, p. 7.
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
e lettore corrisponde a una ridistribuzione del potere43. Poiché «la tecnologia conferisce sempre potere a qualcuno», ogni mutamento che
mette a disposizione di un numero maggiore di persone una tecnologia,
che prima era a disposizione di un numero più ristretto di persone, deve essere interpretato come una democratizzazione:
Questo schema di relativa acquisizione di potere, che dobbiamo esaminare
con più attenzione e con un po’ di scetticismo, sembra confermare l’idea che
la logica delle tecnologie dell’informazione, che tende ad aumentare la disseminazione del sapere, implichi un aumento di democratizzazione e di decentramento del potere44.
La relazione autore-lettore è sempre una relazione gerarchica: l’autore è investito di un’autorità che il lettore non ha. Nel momento in
cui il lettore, grazie alle tecnologie dell’ipertesto, acquisisce il diritto di
intervenire sul testo, determinando autonomamente il percorso della
lettura, o addirittura modificando il testo stesso, la relazione autorelettore diventa (tendenzialmente) una relazione orizzontale, uno
scambio tra pari. Ma allora perché gli intellettuali levano un coro di
proteste contro ogni innovazione tecnologica, prospettando gli scenari più inquietanti? La risposta di Landow va ben al di là della critica di
Eco allo snobismo degli apocalittici: in realtà la cultura ufficiale rifiuta
le nuove tecnologie perché sente che il suo potere è minacciato. I critici dell’ipertesto sono coloro che detengono il potere culturale e sono i
primi, dunque, a resistere al decentramento della cultura che una tecnologia più democratica inevitabilmente comporta45.
Infine vorrei notare che le argomentazioni di Landow in difesa
della democraticità dell’ipertesto configurano un’ipotesi di risposta alla principale critica sviluppata da Adorno e Horkheimer. Come abbiamo visto, il principale effetto cognitivo che l’industria culturale produce è di sclerotizzare l’immaginazione e la capacità di giudizio dello
spettatore. Lo spettatore di Adorno e Horkheimer, ma anche quello di
Debord, è definito da un atteggiamento di sostanziale passività. Ma è
precisamente a questo livello che l’ipertesto rappresenta una novità. Il
lettore-spettatore, che costruisce autonomamente il suo percorso di
lettura all’interno dello spazio testuale di un ipertesto, è necessaria43
Cfr. su questo A. Ardovino, Raccogliere il mondo. Per una fenomenologia della rete,
Carocci, Roma 2011, p. 274.
44
Landow, Ipertesto cit. p. 208.
45
Ivi, p. 206.
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Martino Feyles, Politiche dello spettatore
mente un lettore-spettatore attivo. Oggi, a quasi trent’anni di distanza
dal testo di Landow, noi vediamo meglio che anche questa libertà è
fortemente condizionata da meccanismi di canalizzazione degli interessi e di predeterminazione delle associazioni semantiche la cui gestione resta centralizzata (si pensi al potere che hanno i gestori dei
principali motori di ricerca). Ma vediamo anche che si aprono spazi
sempre più ampi per la produzione decentrata di testi e immagini46.
Come abbiamo detto, il principale problema politico dell’industria
culturale, nell’accezione di Adorno e Horkheimer, è che si tratta di
un’industria monopolistica al servizio di interessi monopolistici. Allo
stesso modo il principale problema dello spettacolo, nell’accezione di
Debord, è che si tratta di un sistema ideologico il cui scopo è la legittimazione del potere vigente. Da questo punto di vista la rete apre nuove possibilità di resistenza e critica. Nel momento in cui un cittadino
qualunque che partecipa a un evento che ha rilevanza pubblica, può,
con il cellulare che ha in tasca, registrare un filmato e, successivamente, diffonderlo tramite i social network, raggiungendo decine di migliaia di persone, in quel preciso momento le regole di produzione
delle immagini politiche sono già cambiate. Da quel momento anche
lo spettatore può, almeno in teoria, alzarsi in piedi e prendere la parola dinanzi all’assemblea.
Abstract
Come già Benjamin aveva intuito, le tecnologie dell’immagine hanno prodotto un cambiamento epocale ben sintetizzato dall’espressione «estetizzazione della politica». Uno degli effetti più rilevanti dell’estetizzazione della
politica è la progressiva trasformazione del cittadino, che diventa spettatore e
non più protagonista dell’azione politica. Adorno, Horkheimer e Debord
hanno evidenziato il pericolo insito in questa trasformazione, sostenendo che
l’onnipotenza dell’industria culturale e l’onnipresenza dello spettacolo producono, di fatto, nuove forme di autoritarismo. Benché contenga ancora oggi
elementi di verità, questa critica ha dei limiti: da una parte rischia di essere
unilaterale dal punto di vista teoretico, dall’altra rischia di essere inconcludente dal punto di vista politico. In questo saggio il problema dello spettatore
46
Recentemente D. Cecchi ha mostrato come il passaggio agli schermi virtuali favorisca
l’emergenza di una figura di spettatore esteticamente interattivo e politicamente impegnato.
Cfr. D. Cecchi, The Elusive body: abstract for a history of Screens, in «Rivista di Estetica», n.
55, 2014, pp. 35-51.
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Filosofie della tecnica. Teorie, mezzi, prassi
viene analizzato in una prospettiva estetico-politica, assumendo la critica al
carattere ideologico dell’industria culturale, ma, nello stesso tempo, cercando
di evitare la trappola di una concezione «apocalittica» delle tecnologie dell’immagine.
As Benjamin had foreseen, image technologies produced an epochal
change well summarized by the notion of «aestheticization of politics». One of
the most relevant effects of the aestheticization of politics is the transformation
of the citizen, who becomes a spectator and no longer an actor of political action. Adorno, Horkheimer and Debord have highlighted the danger implied
by this transformation, arguing that the omnipotence of the cultural industry
and the omnipresence of spectacle produce new forms of authoritarianism. Although it still contains elements of truth, this criticism has limits: on the one
hand it risks being unilateral from a theoretical point of view, on the other
hand it risks being inconclusive from a political point of view. In this essay the
problem of the spectator is analyzed from an aesthetic-political perspective, assuming the criticism of the ideological character of the cultural industry, but,
at the same time, trying to avoid the trap of an «apocalyptic» conception of
image technologies.
Keywords: Media, Spectator, Philosophy, Aestetics, Political Philosophy.
Parole chiave: Media, Spettatore, Filosofia, Estetica, Filosofia politica.
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