Aesthetica Preprint, n. 119, gennaio-aprile 2022 ISSN 0393-8522 DOI: 10.7413/0393-8522098
Esemplarità e giudizio:
note sull’estetica kantiana
Martino Feyles*
ABSTRACT
In the first part of the essay, I will analyse the notion of exemplarity starting from
the book of E. Garroni Estetica. Uno sguardo attraverso. I will try to show that, from
Garroni’s point of view, the work of art can be considered an exemplary object for
two reasons: firstly because it has a normative value, in the sense that it establishes
a new rule; secondly because the rule it establishes cannot be translated into conceptual terms. In the second part of the essay, I will use the notion of exemplarity
to analyse some passages of the Critique of Judgment. I will argue that the distinction
between reflective and determinative judgement can be rethought as a distinction between two different modes of exemplification. Finally, in the last part of the article, I
will show that for Kant to present a concept means to exemplify it, and I will distinguish between the different modes of presentation (Darstellung) that are described in
the First Critique and in the Third Critique. In particular, I will distinguish between:
A) schematic presentation of a pure concept of the intellect; B) presentation of an
empirical concept in an example; C) indirect presentation of an idea; D) schematic
presentation of an empirical concept not yet known (exemplary case); E) aesthetic
presentation of formal purposiveness of nature (in natural beauty); F) presentation
(by the genius) of a rule of beautiful art.
KEYWORDS
Kant, Garroni, Exemplarity, Aesthetics, Philosophy of Art
1. Esemplificazione ed esemplarità
Come è noto, per Garroni l’estetica non è una “filosofia speciale”, che si occupa di analizzare un oggetto particolare, l’opera
d’arte. Al contrario l’estetica coincide con la riflessione trascendentale nel senso più generale: coincide, cioè, con una analisi delle
condizioni di possibilità dell’esperienza. L’espressione che indica
questo carattere trascendentale della riflessione estetica è ripresa
da Wittgenstein: “guardare-attraverso”. L’estetica è una riflessione
filosofica che guarda-attraverso un’esperienza particolare, per co*
Università Telematica eCampus, martino.feyles@uniecampus.it
165
gliere le condizioni dell’esperire in generale. L’oggetto particolare
che mette in moto la riflessione e rende possibile il guardare-attraverso è l’opera d’arte.1 In termini heideggeriani si può dire,
dunque, che l’opera d’arte non è semplicemente la comunicazione
di questo o quel messaggio, ma è la messa in opera della verità:
“Quell’opera d’arte si rivela allora come l’esempio non di una classe
di oggetti, ma dell’apparire della verità, in quanto questa “si pone
in opera”“ (Garroni 2020, p. 102). Ma cosa significa qui la parola
“esempio”?
L’esempio è un particolare che rappresenta un universale
(Arendt 1990, p. 126; Condello e Ferraris 2015, p. 623). In questo senso tutto può essere esempio. Anzi, ogni cosa è necessariamente l’esemplificazione di una molteplicità aperta di universali.
L’oggetto che ho in mano in questo momento – la mia copia di
Estetica. Uno sguardo attraverso – può illustrare il concetto empirico “libro”, ma può anche illustrare il concetto geometrico di
“parallelepipedo” o il concetto empirico di “superficie liscia”. Ma
se ogni realtà individuale esemplifica un universale, allora che differenza c’è tra l’opera d’arte e un oggetto qualsiasi? Cosa vuol
dire che l’opera d’arte è un esempio della verità? Non dobbiamo
forse pensare che ogni esperienza sia un’esemplificazione delle
condizioni generali dell’esperire?
Per rispondere a queste domande bisogna prestare la massima
attenzione alla nota che Garroni aggiunge a margine dell’affermazione heideggeriana che ho citato:
Si potrebbe convenire – ma ci sembra non necessario, considerata la forza distinguente del contesto – di usare la coppia “esempio”-”exemplum” per distinguere
i due significati, come fa spesso il tedesco filosofico utilizzando parole di diversa
provenienza (per es. Exempel e Beispiel): “esempio” nel senso in cui un gatto è
esempio della classe dei gatti, ed “exemplum” nel senso in cui Cristo è exemplum
per gli uomini nell’imitatio Christi, cioè nel senso in cui qualcosa di concreto e determinato è portatore di una qualità o di una condizione non esprimibile altrimenti
che attraverso il suo portatore (Garroni 2020, p. 102n).
Un gatto qualunque può essere indicato come un esempio del
concetto di gatto; ma non per questo un tale gatto è “esemplare”.
Possiamo considerare esemplare il gatto che Renoir raffigura in
Julie Manet con il gatto (1887, Musée d’Orsay). L’animale che si
gode beatamente l’abbraccio della sua padrona, nella tela di Re1
Non è necessario che sia così. In seguito alla “caduta dell’esemplarità dell’arte”
(Garroni 2020, p. 230; Montani 2007, p. 82) è possibile che altri oggetti, all’interno dei
diversi ambiti della storia, della politica, dell’etica, della tecnica, assumano un significato
esemplare (Feyles 2021). Lo stesso Garroni riconosce in modo esplicito questa possibilità
(Garroni 2020, p. 110).
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noir, rappresenta qualcosa che non è riconducibile a un semplice
concetto empirico. Non è semplicemente “un” gatto: è un gatto
che dice qualcosa di vero a proposito dell’insondabile temperamento dei gatti.2 Ma dice qualcosa di vero anche a proposito di
Julie Manet e del suo rapporto con il pittore, a proposito della
relazione tra l’uomo e gli animali domestici e forse anche a proposito dell’idea di beatitudine che doveva avere in mente Renoir.
Non siamo in grado di esprimere in una formulazione unica tutto
quello che il ritratto di Julie Manet “dà da pensare”. Proprio per
questo il quadro di Renoir è un’immagine esemplare. Un’immagine è esemplare quando rappresenta qualcosa di “non esprimibile
altrimenti”, cioè qualcosa che non è mai del tutto definibile in termini concettuali.
Tuttavia, questa inesauribilità concettuale è solo uno dei tratti
che definiscono la nozione di esemplarità. Bisogna prestare attenzione anche al secondo esempio che Garroni propone nella nota
che ho citato. Evidentemente, la vita di Cristo non è semplicemente “una” vita tra le altre. È una vita che rappresenta un paradigma
normativo per tutti i fedeli. La vita di Cristo è “esemplare” perché
è il modello di riferimento per tutte le vite cristiane. Anche se
Garroni non lo dice esplicitamente, l’esempio della vita di Cristo
è kantiano. Ne La religione entro i limiti della sola ragione Kant
spiega che Cristo – in una prospettiva puramente razionale3 –
deve essere considerato come la “personificazione” della moralità
vissuta (Kant 2001, pp. 62 e ss.). Ma quello che bisogna rilevare
– andando oltre la lettera del testo del La religione entro i limiti… – è il carattere istitutivo, in un certo senso performativo,
dell’exemplum. Cristo non rappresenta semplicemente un modo
di vita, lo inaugura. L’exemplum ha un valore normativo, nel senso
che introduce una norma nuova, in questo caso una norma morale
ed esistenziale.4
Torniamo a questo punto alle opere d’arte. Per Garroni l’opera
d’arte non è semplicemente un esempio, è un exemplum. Proprio
questa esemplarità è la condizione che rende possibile il guardare-attraverso. Quando vediamo un gatto qualsiasi, la nostra percezione è un semplice guardare: vediamo qualcosa di determinato,
2
Heidegger (2008, p. 110) dice qualcosa di molto simile analizzando la lepre di Dürer:
“qui il singolo è al tempo stesso la sua essenza”.
3
Ovviamente la prospettiva di Kant è molto diversa dalla prospettiva dell’uomo di
fede che crede nel Cristo storico, che crede cioè che Gesù sia effettivamente il Figlio Dio
morto e risorto per salvare tutti gli uomini. Per Kant Cristo è solo un esempio di umanità
morale, per il fedele Cristo è effettivamente Dio incarnato.
4
Proprio per questo la distinzione tra esempio ed exemplum che analizzo in questo
articolo coincide solo in parte con la distinzione tra “example”, “exemplar” e “case” analizzata da Summa e Mertens (2021) riprendendo Lipps (2015).
167
“un gatto”. Invece, quando guardiamo un’opera d’arte, accade
qualcosa di diverso:
questa esperienza-qui, in quanto esperienza esemplare della sua condizione, ma
non determinabile nella sua esemplarità per via di tratti pertinenti, è qualcosa di empirico, un condizionato, che contiene, esibisce e in qualche modo è un’esperienza in
genere, una condizione. (Gattoni 2020, p. 149)
Questo è il senso di ciò che Garroni chiama “guardare-attraverso”. Attraverso quegli esempi esemplari che sono le opere d’arte,
noi possiamo guardare ciò che non potrebbe mai essere osservato
direttamente: le condizioni generali del nostro fare-esperienza.
2. Esemplificazione e giudizio
Partendo dalla distinzione tra esemplificazione e esemplarità è
possibile rileggere la Critica della facoltà di giudizio [KdU] gettando una luce nuova su alcuni passaggi fondamentali, che altrimenti
rimarrebbero oscuri. Nel § IV dell’introduzione Kant spiega che
il giudizio è l’operazione cognitiva che ci consente di “pensare il
particolare come compreso sotto l’universale” (Kant 1999, p. 15).
Esemplificare significa trovare un particolare che rappresenta un
universale. In questo senso il giudizio è il rovescio dell’esemplificazione; o meglio, è la stessa operazione cognitiva, ma considerata da
un’altra prospettiva. Quando giudico, affermando, per esempio, che
l’animale rappresentato nel quadro di Renoir “è un gatto”, io applico un concetto che già possiedo a una percezione. In questo caso
il punto di partenza è la rappresentazione percettiva e il riconoscimento fonda il giudizio: “questo è un gatto”. Se, invece, il punto
di partenza è il concetto e si tratta di trovare un particolare che
possa illustrare tale concetto, l’operazione che istituisce il collegamento tra l’universale e l’individuo è l’esemplificazione. Se dovessi
spiegare a un extraterrestre cos’è un gatto, potrei cimentarmi in
una definizione quanto più possibile articolata; ma probabilmente
a un certo punto sarei costretto a ricorrere a un esempio: “ecco,
questo è un gatto”.
Kant, però, distingue due modi del giudizio: determinante e riflettente. Se è vero che l’esemplificazione è il rovescio del giudizio,
dobbiamo pensare che esistano anche due modi differenti dell’esemplificare. Precisamente a questo punto diventa necessaria la distinzione tra esemplificazione e esemplarità proposta da Garroni.
Il giudizio determinante è l’operazione cognitiva che ci consente di
applicare un universale a un individuo, considerato come esempio
168
di quello stesso universale. Invece il giudizio riflettente è l’operazione che mettiamo in atto quando siamo di fronte ad un exemplum:
quando siamo, cioè, di fronte ad un oggetto che istituisce una regola universale. Nel §IV della KdU Kant spiega che, in questo caso
specifico, “è dato solo il particolare, per il quale essa [la facoltà di
giudizio] deve trovare l’universale” (Ibidem). Il ricorso alla nozione
di esemplarità chiarisce il senso di questa nota espressione kantiana.
Nel caso del giudizio riflettente è l’oggetto individuale che apre
la possibilità di pensare l’universale di riferimento. L’exemplum è
esemplare proprio perché non è riconducibile a una regola già nota.
L’esempio esibisce una regola data, l’exemplum istituisce una regola
nuova (Ferrara 2008, p. 19).
Si vede subito che questa logica dell’esemplarità si applica ai
più diversi ambiti. Quando l’esploratore vede per la prima volta
un ornitorinco – per riprendere un noto “esempio” (Eco 1997) –
il misterioso animale si presenta come un nuovo “esemplare”, cioè
come l’esempio di un concetto biologico che deve ancora essere
definito. Quando esclama “Padre, perdonali, perché non sanno
quello che fanno”, Cristo è un exemplum, perché istituisce una regola del perdono che prima non esisteva. Quando decide che un
corpo può essere rappresentato simultaneamente da diversi punti
di vista – come accade con le celeberrime Demoiselles d’Avignon
–, Picasso istituisce una regola nuova, una regola che possiamo
approssimativamente chiamare “cubismo”. In queste situazioni,
pur così diverse, c’è un elemento comune: il caso precede la regola
(Derrida 1981, 53).
Kant non ha formulato in modo del tutto esplicito la distinzione
tra esemplificazione e esemplarità che Garroni propone in Estetica.
Tuttavia questa distinzione si può leggere tra le righe della KdU.
Per la verità il problema dell’esemplificazione appare già nella Critica della ragion pura [KrV], per due volte. Nella prefazione della prima edizione, Kant ritiene necessario giustificarsi, di fronte al lettore,
per una mancanza di “chiarezza intuitiva” nel suo lavoro. Un testo
– spiega Kant – può essere considerato chiaro in due sensi: quando
possiede una “chiarezza intuitiva” (che è una “chiarezza estetica”)
e quando possiede una “chiarezza discorsiva” (Kant 1999b, p. 14).
La chiarezza estetica dipende dall’abbondanza e dalla pertinenza
degli esempi, mentre la chiarezza discorsiva dipende dalla coerenza e dalla cogenza dell’apparato concettuale. Kant ritiene di aver
senza dubbio assecondato la giusta esigenza di chiarezza discorsiva;
al contrario il suo testo gli appare difettoso quanto alla chiarezza
intuitiva. In altre parole, giudicando il suo lavoro, Kant si accorge
di una certa mancanza di esempi. La sua giustificazione per questa
169
mancanza è risoluta, ma finisce con l’apparire come la famosa excusatio non petita della saggezza popolare: gli esempi – che vengono
esplicitamente identificati con le intuizioni – sarebbero veramente
“necessari soltanto da un punto di vista popolare”, mentre “i veri
conoscitori della scienza non hanno poi bisogno di questa facilitazione” (Kant 1999b, p. 14).
Al di là della strana giustificazione di Kant, questa distinzione
tra i due modi della chiarezza rimanda già implicitamente al problema del giudizio, poiché si tratta di trovare le giuste intuizioni per
illustrare i concetti. Ma il legame tra questo problema e la facoltà
di giudizio viene esplicitato ancora più chiaramente nel secondo
passaggio della KrV in cui ritorna la questione dell’esemplificazione.
Si tratta di un passaggio centrale nel paragrafo dedicato alla “capacità trascendentale di giudizio” che – come Garroni ha spiegato
chiaramente – coincide con quella funzione cognitiva che nella terza
Critica sarà chiamata “giudizio determinante”.
Il paragrafo è di grande interesse per due ragioni. In primo luogo perché illustra, con una chiarezza che altrove non si riscontra,
tutta l’ampiezza della problematica del giudizio. Quando il medico
deve decidere se certi sintomi possono essere interpretati come la
manifestazione di una determinata malattia, la sua diagnosi è un
atto di giudizio. Quando il giudice deve decidere quale norma si
applica a un particolare caso, il problema che si trova ad affrontare
è un problema di giudizio. Infine, quando un uomo politico deve
decidere come agire in un determinato contesto storico, il problema
di interpretare correttamente le circostanze e valutare quale regola
pratica è più “prudente” seguire è ancora un problema di giudizio.
Dunque la facoltà di giudizio non regola soltanto l’ambito della
scienza empirica e del gusto, come verrà detto nella terza Critica,
ma anche l’intero ambito delle scienze applicate (come la medicina),
l’ambito delle norme etico-giuridiche e persino l’ambito dell’agire
storico-politico.
In secondo luogo il paragrafo è interessante perché Kant sembra quasi affermare due tesi contradittorie. In un primo momento
sembra che agli esempi venga attribuita la massima importanza.
Dal momento che “capacità di giudizio è un talento particolare, il
quale non può essere insegnato, ma può soltanto essere esercitato”
(Kant 1999b, p. 215), l’unico modo concreto che esiste per favorire
l’esercizio di tale facoltà è quello di ricorrere agli esempi. Infatti
“questa è anche la sola e grande utilità degli esempi: il fatto cioè
che essi acuiscono la capacità di giudizio” (Dieses ist auch der einige
und große Nutzen der Beispiele, daß sie die Urteilskraft schärfen)
(Ibidem). Ma subito dopo aver riconosciuto la “grande utilità degli
170
esempi”, Kant sembra avere un ripensamento e si ferma per sottolinearne il carattere deleterio. Dal punto di vista della chiarezza
concettuale, infatti, “gli esempi recano di solito un certo danno”
(Kant 1999b, p. 216), perché non sono mai veramente adeguati ai
concetti che illustrano. Inoltre chi si abitua ad appoggiarsi sugli
esempi, finisce col disabituarsi a pensare in modo rigorosamente
concettuale, il che è sicuramente un male. Se ne deve concludere
che gli esempi non sono altro che le “dande della capacità di giudizio” (Ibidem).
Non c’è alcun dubbio sul valore sostanzialmente negativo
dell’immagine che Kant usa in questo contesto. La medesima metafora era stata utilizzata, pochi anni prima, nel noto saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (Kant 2003, p. 45). In
quell’occasione Kant aveva rappresentato icasticamente la ragione
che non ha il coraggio di rivendicare la propria autonomia, con
l’immagine del bambino che non sa camminare da solo e che deve
essere sostenuto da un tutore. In questa prospettiva l’esemplificazione non appare come il rovescio del giudizio, ma come una sorta
di surrogato dell’autentico giudicare. Le cose, però, cambiano significativamente nella terza Critica.
3. Schemi, esempi, simboli
Nella KdU l’immaginazione viene definita più volte come “la
facoltà dell’esibizione” (das Vermögen der Darstellung aber ist die
Einbildungskraft) (Kant 1999, p. 68, ma anche p. 80, p. 81, p. 124).
Ma cosa significa “esibizione”? Nel § VIII Kant dà una definizione del termine: l’esibizione consiste nel “porre a lato del concetto
un’intuizione corrispondente” (Kant 1999, p. 28). Come si è visto,
nella KrV le intuizioni corrispondenti a un concetto vengono chiamate esempi. Esibire un concetto significa, dunque, esemplificarlo.
Stando alla lettera dei testi kantiani, esistono diverse modalità
dell’esibizione: A) esibizione schematica di un concetto puro dell’intelletto; B) esibizione di un concetto empirico in un esempio; C)
esibizione indiretta di un’idea;5 D) esibizione schematica di un
concetto empirico non ancora noto (caso esemplare); E) esibizione
estetica della conformità a scopi formale (nella bellezza naturale);
F) esibizione (geniale) di una regola di riferimento dell’arte bella.
5
A rigore bisognerebbe anche aggiungere – ma non ho lo spazio per argomentare
questa ulteriore distinzione qui – il caso (C2) dell’esibizione negativa propria del sublime,
che è simile, ma non uguale all’esibizione indiretta delle idee estetiche nelle rappresentazioni simboliche.
171
Nella nota che segue al § 57 della terza Critica, Kant spiega che
i concetti dell’intelletto, a differenza delle idee della ragione, non
sono pensieri vuoti perché “possono essere attestati da una intuizione empirica”, il che significa che “il loro pensiero può essere
presentato (dimostrato, indicato) in un esempio” (Kant 1999, p.
177). Questa attestazione è però differente nel caso dei concetti
puri e nel caso dei concetti empirici. Nel primo caso l’esibizione si
realizza mediante un’intuizione a priori, mentre nel secondo caso
mediante un’intuizione empirica.
A) Esibire un concetto a priori “significa costruirlo” (Ibidem).
Nella KrV Kant propone diversi esempi di costruzione di un concetto puro. Tutte le figure geometriche sono costruzioni a priori:
sono, cioè, immagini particolari che hanno un valore universale:
Io costruiscono un triangolo, così, rappresentando l’oggetto che corrisponde a
questo concetto, o nell’intuizione pura, mediante una semplice immaginazione, oppure
(in base all’intuizione pura) sulla carta, nell’intuizione empirica. (Kant 1999b, p. 714)
Il triangolo che disegno sulla carta, o che immagino nella mente, deve essere necessariamente o acutangolo o rettangolo o ottusangolo. In questo senso esso è inadeguato al concetto generale
di triangolo, che comprende, invece, tutte e tre queste possibilità:
“nessuna immagine di triangolo potrebbe mai essere adeguata al
concetto di un triangolo in generale” (Kant 1999b, p. 220). Essendo
un’immagine determinata, il triangolo che mi rappresento ha sempre una sua particolarità. Ma questa particolarità non è un problema, proprio perché l’immagine che mi rappresento, o che disegno,
è semplicemente un esempio: è, in altre parole, un particolare che
viene considerato in quanto illustrazione di un universale e non in
quanto individuo determinato.
B) Invece, nel caso dei concetti empirici l’esibizione consiste
nell’indicazione di un’intuizione empirica, cioè di un’esperienza percettiva, che corrisponde al concetto (ma sempre in modo parziale).
Nella KdU Kant propone l’esempio dell’anatomista, che prima spiega ai suoi studenti il concetto di occhio, dandone una definizione
discorsiva, e poi ne mostra il concreto funzionamento, dissezionandolo. La differenza fondamentale è che in questo caso non è
possibile costruire l’intuizione a priori. Anche se non ho mai visto
un triangolo rettangolo, posso comunque costruirne mentalmente
la figura. Invece se non ho mai visto il cristallino dell’occhio, non
posso in nessun modo anticiparne la forma a priori.
Il § 59 formalizza la distinzione tra questi due modi dell’esibizione anche dal punto di vista linguistico. Le intuizioni che corrispondono ai concetti puri “si chiamano schemi”, le intuizioni che
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corrispondono ai concetti empirici “si chiamano esempi” (Kant 1999,
p. 185) Schematizzazione e esemplificazione sono, dunque, i due
modi fondamentali dell’esibizione (Arendt 1990, p. 126).
C) Nel § 59 Kant aggiunge un’ulteriore distinzione, considerando il caso delle idee della ragione. Le idee (per esempio l’idea di
Dio) non possono essere schematizzate, come i concetti puri, e non
possono nemmeno essere esemplificate, come i concetti empirici. In
effetti, chi può dire di riuscire a immaginare Dio? Chi può indicare
una percezione che corrisponda a tale concetto? Nonostante ciò, le
idee non sono rappresentazioni del tutto vuote. A questo proposito
la terza Critica modifica e in un certo senso corregge il quadro teorico che era stato presentato nella prima, perché introduce l’idea di
esibizione simbolica. Kant dice chiaramente che il simbolico è “una
specie dell’intuitivo” e definisce la presentazione simbolica come una
“esibizione indiretta” (Kant 1999, p. 186). Si delinea così una tripartizione: gli esempi sono esibizioni dei concetti empirici, gli schemi
sono esibizioni delle categorie, i simboli (che nel § 49 sono chiamati
“idee estetiche”) sono esibizioni analogiche dei concetti soprasensibili.6
Così, per esempio, Dio non può essere percepito e tuttavia esistono
delle immagini – nell’ambito dell’arte o della religione – che lo rappresentano in modo simbolico (Kant 1999, p. 187).7
4. Esemplarità e giudizio riflettente
Torniamo alla distinzione tra schemi ed esempi. I casi A e B, che
ho analizzato nel paragrafo precedente, possono essere ricondotti al
giudizio determinante, dal momento che l’universale è in entrambi
i casi dato. In realtà, come ha mostrato Garroni, l’applicazione di
un concetto empirico all’esperienza richiede tanto la facoltà determinante di giudizio quanto la facoltà riflettente di giudizio (Garroni
1976, p. 34 e p. 43). Solo la schematizzazione dei concetti puri
della natura, cioè solo l’esibizione a priori delle categorie, implica
un giudizio puramente determinante (Garroni 1976, p. 40), cioè un
giudizio per così dire “automatico”, che non richiede alcuna riflessione. Ma come funziona invece l’esibizione nell’altro caso, ovvero
nel caso del giudizio puramente riflettente?
6
Altrove (Kant 2001, p. 68) questa esibizione delle idee soprasensibili viene chiamata
“schematismo dell’analogia”.
7
Quello che vale per Dio, vale per tutti i concetti morali, ma in realtà vale anche
per tutti i concetti astratti in genere. Nel § 59 Kant sostiene che tutti i concetti astratti
presenti nel linguaggio ordinario – per esempio i concetti teorici “dipendere” e “base”
(Kant 1999, p. 187) – possono essere esibiti solo in modo indiretto, cioè in ultima analisi
solo metaforicamente.
173
D) Bisogna notare innanzitutto che la celebre espressione che
compare nel § 35 – a cui lo stesso Garroni (1999, p. XLVIII) ha
dato la massima importanza –, “schematizzare senza concetto”,
(Kant 1999, p. 123) si presta in modo assai docile a una riformulazione nei termini che sto utilizzando. Se si intende l’espressione
in senso letterale, bisogna ammettere che si tratta di una formula
quasi auto-contraddittoria. Il § 59 afferma in modo esplicito che
gli schemi sono le intuizioni che esibiscono i concetti puri dell’intelletto: come potrebbe esistere, dunque, uno schema a cui non
corrisponde nessun concetto?
Il problema si risolve se si ritorna alla distinzione tra esemplificazione ed esemplarità. In realtà schematizzare senza concetto significa considerare un caso come un exemplum, cioè considerarlo come
l’esempio di una regola non data. Per Kant i concetti empirici,
proprio perché sono empirici, devono essere scoperti o costruiti. L’operazione cognitiva che rende possibile la formazione di un
nuovo concetto empirico è ciò che la KdU chiama “schematizzare
senza concetto”. Le esperienze determinate che ci costringono ad
elaborare nuovi schemi, e di conseguenza a costruire nuovi concetti,
sono le esperienze esemplari.
È bene precisare che i concetti che si tratta di costruire, nel
caso della schematizzazione senza concetto, sono i concetti empirici e non i concetti puri. Anche se Kant non è del tutto esplicito
a questo proposito, dobbiamo pensare che i concetti puri siano
operanti anche nel caso del giudizio estetico (come mostra chiaramente Makkreel [1990, p. 52) e che siano operanti anche nel caso
della riflessione induttiva su un caso esemplare. Per valutare una
rosa, e dire “questa rosa è bella” non abbiamo bisogno del concetto determinato di “rosa”, ma abbiamo bisogno che la realtà che
stiamo percependo si configuri almeno come una “qualcosa in generale” e questo ci induce a pensare che la categoria di “sostanza”,
per esempio, debba essere coinvolta anche nel caso del giudizio di
gusto. Allo stesso modo e a maggior ragione, per trovare la legge
empirica che spiega la caduta dei gravi, è necessario senza ombra di
dubbio poter osservare i casi empirici (la pallina che cade, la mela
che cade, ecc), interpretandoli alla luce del principio di causalità.
Dunque il concetto puro di causalità è dato per presupposto, anche
quando, partendo dall’osservazione di casi empirici, generalizziamo
(cioè riflettiamo), cercando il concetto empirico o la legge empirica
adeguata per spiegare i fenomeni.
Sfortunatamente Kant non concede al lettore nemmeno un
esempio (!) a questo proposito. Nel §§ IV e V della KdU il problema centrale – come Garroni ha mostrato in modo magistrale
174
– è proprio quello della formulazione delle leggi empiriche e dei
concetti empirici. Kant dice chiaramente che la facoltà di giudizio
“è soltanto riflettente nei riguardi delle cose sotto leggi empiriche
possibili (ancora da scoprire)” (Kant 1999, p. 19); ma non offre
nemmeno un esempio della scoperta di una nuova legge empirica
o della formulazione un nuovo concetto empirico: il povero lettore,
forse, avrebbe preferito camminare ancora un po’ con le dande, in
questo caso!
E) Ad ogni modo, la scoperta o la costruzione di un nuovo concetto empirico implica il giudizio riflettente, ma non è l’esibizione
del principio del giudizio riflettente. I giudizi puramente riflettenti,
cioè i giudizi in cui viene esibito il principio della riflessione in
quanto tale, sono i giudizi estetici (Garroni 1976, p. 61). Nel § VIII
Kant spiega che “possiamo riguardare la bellezza naturale come esibizione del concetto della conformità a scopi formale (semplicemente
soggettiva)” (Kant 1999, p. 28), Il concetto della conformità a scopi
formale è un concetto a priori, ma non è un’idea e nemmeno una
categoria. Infatti mentre l’esibizione delle idee e dei concetti puri
è data sempre da un’intuizione, l’esibizione del concetto della conformità della a scopi formale è data da un sentimento, cioè da un
sentire che non è rivolto all’esterno, ma all’interno.
Questo sentimento è il piacere disinteressato e soggettivamente
universale che proviamo quando troviamo bella una qualche realtà naturale. Kant dice chiaramente che il piacere estetico “non
può esprimere nient’altro che l’adeguatezza dell’oggetto rispetto
alle facoltà conoscitive” (Kant 1999, p. 25). Il sentimento di questa adeguatezza si produce quando l’immaginazione “viene messa
in accordo inintenzionalmente” con l’intelletto. L’immaginazione è
la facoltà delle intuizioni; l’intelletto è la facoltà dei concetti. L’accordo tra immaginazione e intelletto è, dunque, il sentimento della
compatibilità generale tra le nostre esperienze intuitive e le nostre
capacità di concettualizzare. Dunque che cosa viene propriamente
“esibito” nell’esperienza della bellezza?
Come ho già avuto modo di notare, per Kant esibire significa
“porre a lato del concetto un’intuizione corrispondente”. Sentire
la compatibilità generale tra intuizioni e concetti, significa dunque
sentire che l’esibizione è in generale possibile. Significa sentire che
le nostre esperienze intuitive possono essere concettualizzate e che
i nostri concetti (puri ed empirici) possono essere schematizzati
o esemplificati. La bellezza naturale appare, dunque, come l’esibizione del principio stesso dell’esibizione, o, in altre parole, come
l’exemplum in cui si mostra il principio stesso dell’esemplificazione
(e del giudizio).
175
La peculiarità dell’esibizione estetica della conformità a scopi
formale emerge nel IV momento dell’Analitica, quando viene introdotta la nozione di “validità esemplare” (exemplarische Gültigkeit)
(Kant 1999, p. 75) Kant spiega che ogni singolo giudizio estetico (“questa rosa è bella”, oppure “questo tramonto è bello”) vale
come “l’esempio di una regola che non si può addurre” (Kant 1999,
p. 72). Ma come può esistere una regola “che non si può addurre”?
Nel IV momento Kant insiste sul carattere non concettuale del
senso comune. Il sentimento della bellezza funziona come una regola, ma si tratta di una regola che non può essere formulata in
termini concettuali, cioè, appunto, di una regola che non si può
addurre. Come ho detto, questa impossibilità di formulare concettualmente la regola è una delle caratteristiche dei casi che appaiono
esemplari. Come spiega Garroni, in questo caso (e solo in questo
caso) “l’‘esempio’ è l’unico rappresentante della ‘regola’, cioè è la
stessa regola nell’unica forma in cui possiamo averne coscienza e ne
possiamo, a rigore, anche parlare” (Garroni 1976, p. 70). La regola
– cioè il senso comune – non si può addurre, perché coincide con
il caso esemplare che la attesta (Agamben 2008, p. 23). In questo
caso l’esemplarità è massima, perché “l’esempio è anche nello stesso
tempo la regola stessa” (Garroni 1976, p. 70).
F) Infine è necessario analizzare il caso specifico dell’esemplarità dell’arte. La questione si presenta già nel §17, dove viene analizzato il problema dell’ideale della bellezza. La terminologia che
Kant usa in quel contesto può indurre in errore. Generalmente
la parola “ideale” viene associata a ciò che è concettuale. Kant,
però, spiega chiaramente che l’ideale è “la rappresentazione di un
singolo essere in quanto adeguato ad un’idea”. Trattandosi della
rappresentazione di un ente singolare, non ci possono essere dubbi
sul fatto che si tratti non di un’idea o di un concetto, ma di una
realtà individuale che vale come esempio. Infatti Kant precisa che
l’ideale della bellezza, che è anche un “archetipo del gusto”, “può
essere rappresentato non mediante concetti, ma solo in una singola
esibizione”. In altre parole l’ideale del gusto può essere definito solo
a partire dagli esempi.
Il problema viene ulteriormente sviluppato nei paragrafi dedicati
più direttamente alla definizione della nozione di arte bella. Come
è noto, per Kant l’arte bella è sempre necessariamente il prodotto
del talento creativo del genio. Ma il genio è definito in relazione alla
nozione di esemplarità. Certamente la prima caratteristica che il genio deve avere è l’originalità; ma per Kant l’originalità sarebbe pura
stravaganza, sarebbe puro non senso, se non fosse anche esemplare.
Il genio introduce “una regola del giudizio” nuova e questa regola
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è davvero una regola solo se viene assunta come criterio anche da
altri: in altre parole, solo se diventa un modello esemplare. Il § 47
stabilisce definitivamente in una serie di formule di chiarezza adamantina la logica dell’esemplarità che è alla base della produzione
del genio:
Dato che il dono naturale dell’arte (come arte bella) deve dare la regola, di che
tipo è dunque questa regola? Essa non può servire, fissata in una formula, da precetto,
ché altrimenti il giudizio sul bello sarebbe determinabile mediante concetti; ma la
regola deve essere astratta da ciò che è stato fatto, cioè dal prodotto, rispetto al quale
altri potranno mettere alla prova il loro proprio talento, per potersene servire come
di un modello, non da copiare, ma da imitare. Come ciò sia possibile è difficile da
spiegare (Kant 1999, p. 145).
La differenza tra esemplarità ed esemplificazione emerge qui
molto chiaramente. L’esempio, come si è visto, è un individuo
che esibisce una regola universale già data. Nel caso dell’esperienza estetica, però, la regola non può mai essere data in partenza, perché altrimenti il giudizio di gusto “sarebbe determinabile
mediante concetti”. Essendo un universale, la regola dovrebbe
sempre essere concettualizzabile. Ma la regola del gusto che viene esibita nell’opera d’arte fa eccezione e Kant evidenzia questa
eccezionalità lasciando risuonare un interrogativo: “di che tipo è
dunque questa regola?” La sua risposta ribadisce il carattere non
concettuale dell’esemplarità del genio: “come ciò sia possibile è
difficile da spiegare”.
Nonostante le difficoltà e nonostante la paradossalità di questa regola non formulabile, è molto chiaro che essa “deve essere
estratta da ciò che è stato fatto”, cioè dall’opera d’arte. Le opere
d’arte sono esemplari perché istituiscono regole di giudizio nuove. La
normatività di cui Kant parla qui è del tutto peculiare, non solo
perché la norma di riferimento non è formulabile in termini concettuali, ma anche e soprattutto perché in questo caso (a differenza
di quello che accade con il caso E) la norma deriva dall’esempio,
non lo precede (Velotti 2014, p. 343). Nel caso dell’arte è la singola
opera, cioè il singolo esempio, che rimane vincolante, mentre non si
può mai dire altrettanto nel caso dell’esemplificazione meramente
illustrativa. Per esemplificare, io posso ricorrere indifferentemente
a qualsiasi individuo che appartenga alla classe indicata dal concetto: qualsiasi gatto reale è un esempio adeguato del concetto di
gatto. Al contrario un’opera d’arte è esemplare perché rimane insostituibile nella sua singolarità (Garroni 2005, p. 71). Per definire
l’ideale classico di bellezza bisogna necessariamente fare riferimento
al Doriforo – come lo stesso Kant fa nel § 17 – esattamente come
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per definire il cubismo bisogna necessariamente partire da Les Demoiselles d’Avignon. La regola del gusto, che si declina in modo
diverso nell’Atene dell’età classica e nella Parigi della prima metà
del XX secolo, non può essere dimostrata: la si può soltanto indicare, suggerendo di prestare attenzione ad alcune opere che hanno
un valore esemplare.8
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8
Si danno dunque tre modi distinti dell’esemplarità: D) un caso è esemplare perché
costringe a formulare un concetto empirico nuovo (ornitorinco); E) il giudizio di gusto
puro che constata la bellezza della natura è esemplare perché esibisce un principio (senso
comune) non concettualizzabile; E) un’opera d’arte geniale è esemplare perché istituisce
una regola storica del gusto non concettualizzabile e non separabile dall’opera stessa.
178
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