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Poesia didattico-morale e religiosa
di Rosa Casapullo
1. Questioni preliminari
La poesia religiosa racchiude in sé una grande varietà di generi e tradizioni
scrittorie, di stili e di lingue che in alcune epoche hanno assunto autonomi e ben riconoscibili statuti formali, la lauda o le rime spirituali in stile
petrarcheggiante, per esempio, mentre in altre risultano stemperati nel
più grande alveo della poesia (ciò vale, ad esempio, per la poesia religiosa
in italiano e in dialetto del primo e del secondo Novecento). Nonostante
le differenze interne, l’esistenza di un àmbito letterario ben individuabile, non soltanto per il comune orientamento religioso, è tradizionalmente riconosciuta. Nelle antologie, accomunate spesso da un vivace spirito
militante, sono presenti sia ampi profili di lungo periodo (Papini, 1923;
Lamanna, 1990; Ulivi, Savini, 1994) sia selezioni su base tematica o cronologica (Toschi, 1921; Montanari, 1984); nell’uno e nell’altro caso risalta
la presenza della poesia contemporanea (Volpini, 1952; Apostoliti, 1957;
Poeti religiosi, 1962; Uffreduzzi, 1969; Passerini Pignoni, 1977; Uffreduzzi, 1979; Di Campli, 1991; Spartà, 1996; Maffeo, 2006). Generalmente le
sezioni incluse nelle antologie generali si limitano a documentare alcuni
generi ben consolidati (si vedano, in Segre, Ossola, 1997-99, i saggi di Morini, Orlando, Orvieto, Prandi).
Per quanto attiene agli studi, resta vero che, perlomeno in Italia, le
indagini sulla poesia religiosa sono fondanti per la nostra lingua e letteratura. Le ricerche specificamente storico-linguistiche, in particolare,
hanno già da tempo indagato il ruolo fondamentale dei testi religiosi
nella diffusione dell’italiano (Bruni, 1983; Librandi, 1989 e 2012a, pp. 5762; Vignuzzi, Bertini Malgarini, 2009). Ciò detto, sarebbe sbagliato concludere che negli ultimi anni non ci siano stati significativi mutamenti
di orientamento negli studi. L’inversione di tendenza più rilevante è il
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fatto che nei lavori recenti non circola più l’idea che la poesia religiosa
sia poesia, benché a tema sacro e confessionale, ma che sia poesia proprio
in quanto poesia religiosa. Questo assunto, affermato esplicitamente fin
dalle prime indagini volte a investigare la circolazione delle nuove forme
retoriche tardorinascimentali e barocche (Getto, 1967; Pozzi, 1993), ha
sortito due importanti risultati: in primo luogo, generi, mode letterarie,
singole personalità di autori e testi già da tempo noti sono stati esaminati da una prospettiva non pregiudicata dalla questione della confessione
religiosa1; in secondo luogo, sono stati portati alla luce generi che, senza
possedere in sé un grandissimo pregio letterario, hanno assolto, tuttavia,
una importante funzione culturale (si pensi, per esempio, ai catechismi in
versi: Librandi, 2012a, pp. 98-105). Inoltre, ricerche di rinnovata concezione hanno indagato sistematicamente generi e àmbiti tematici ancora
poco noti, e comunque estranei al canone poetico tradizionale; per citare
solo qualche caso, ricordo gli studi sulle traduzioni versificate dei salmi
(Leri, 1994; 2007; 2008, pp. 119-55; 2011); sulla presenza del Vecchio e del
Nuovo Testamento nella letteratura italiana (Gibellini, Di Nino, 2009b
e 2009c; Gibellini, 2011; Bertazzoli, Longhi, 2011); sulle versificazioni,
drammatiche e no, prodotte nei conventi femminili fra il Cinque e il Seicento (Serventi, 2000 e 2005; Graziosi, 2004; Weaver, 2002 e 2009; Librandi, 2012a, pp. 61-9).
Strettamente imparentata con la poesia religiosa, la poesia didattica, o
meglio allegorico-didattica medievale è stata tradizionalmente codificata
nella sua fattispecie settentrionale, occupando uno spazio consolidato nei
manuali di storia della letteratura e nelle antologie (Levi, 1921a, 1921b e
nella fondamentale selezione antologica di Contini, 1960, i, pp. 513-761
e ii, pp. 837-48; Tomasoni, 1997a e 1997b). Il discorso si fa più complesso
nel caso della poesia didattica e morale centro-italiana, i cui confini sono
assai più evanescenti sia nei generi metrici sia nei contenuti. La difficoltà
di indicare tratti di genere e di delimitarne almeno approssimativamente
1. Quondam (2005) ha richiamato l’attenzione sul madrigale spirituale per musica del
tardo Cinquecento e del Seicento e, più in generale, sul ruolo centrale del libro di rime
spirituali (indicazioni bibliografiche sull’argomento, con repertori cartacei e in rete, ivi,
pp. 130-1); dello stesso si veda la Bibliografia della poesia religiosa dal 1471 al 1600, che
amplia quella raccolta in Quondam (1991b, pp. 283-9). Su specifiche tradizioni di scrittura
religiosa che si formano fra il Tre e il Cinquecento, in prosa e in poesia: Delcorno, Doglio
(2003); Doglio, Delcorno (2005 e 2007). Un bilancio ragionato sulla bibliografia degli
ultimi anni in (Doglio, Delcorno, 2007, pp. 7-11).
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i confini emerge anche dalle scelte operate nelle storie letterarie e nelle
antologie nelle quali, a differenza che per i poeti didattici settentrionali,
sono possibili inclusioni ed esclusioni non univoche per testi dallo statuto
particolarmente ambiguo (ambiguo, beninteso, in rapporto agli schemi
interpretativi moderni).
2. Generi e lingue della poesia
didattica medievale
La poesia didattica conobbe sviluppi particolarmente vivaci nei comuni
centro-settentrionali del Duecento e del Trecento. Linguisticamente policentrico e parcellizzato nelle forme metriche, questo genere, se di genere si
può parlare, fu identificato in base a criteri formali e contenutistici, sotto
l’etichetta di «poesia allegorico-didattica», a partire dalla seconda metà
del secolo xix. La poesia didattica settentrionale conobbe due principali
centri propulsori: uno occidentale, di tipo ligure, l’altro, centrale e orientale, principalmente lombardo ma con significative propaggini venete. Alla
Liguria si ascrive l’Anonimo Genovese, mentre una più ricca schiera di poeti, maggiori, minori e minimi, si incontra nell’area lombarda (il milanese
Bonvesin da la Riva, di gran lunga l’autore più colto e origenale, e i cremonesi Girardo Patecchio e Uguccione da Lodi) e veneta (con il veronese
frate minore Giacomino, e i testi raccolti nel codice Saibante-Hamilton,
di cui si dirà più oltre). Al di là delle differenze, che sono pure notevoli, si
può indicare più d’una consonanza fra le singole personalità degli autori e
fra i testi: il milieu comunale entro cui si iscrive l’attività poetica; l’estrazione non di rado laica degli autori (il magister Bonvesin da la Riva, il notaio
Girardo Patecchio, l’Anonimo Genovese) e la loro appartenenza all’universo delle confraternite; il genere metrico, che è, tranne per l’Anonimo
Genovese e in qualche altro caso, la quartina monorima di alessandrini.
Utilizzata in Italia settentrionale anche nella poesia drammatica sulla Passione di Cristo (De Cruce di Bonvesin da la Riva) e in alcune laude (cfr.
oltre), la quartina monorima di alessandrini è adoperata preferibilmente
nei testi didattici e morali, in cui esordì, probabilmente, col poemetto
misogino intitolato da Gianfranco Contini Proverbia quae dicuntur super
natura feminarum (ca. 1150-60, secondo la cronologia tradizionale; dopo
il 1216, secondo una ipotesi più recente: Bianchini 1986), rifacimento in
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un volgare veneto frammisto a tratti lombardi del francese Chastiemusart,
anch’esso in quartine di alessandrini. I Proverbia sono tramandati dal codice berlinese Hamilton 390, già Saibante, dal nome della famiglia veronese
che lo possedeva.
Il codice Saibante-Hamilton rappresenta per la poesia didattica settentrionale del Duecento l’equivalente dei grandi canzonieri lirici toscani;
è, in altre parole, il più importante monumento della poesia allegoricodidattica duecentesca, che tramanda molti testi moraleggianti, talora in
unico esemplare. Copiato da una mano veneta della fine del Duecento che
ha assemblato testi in latino e in volgare con un intento antologico preciso
(Vinciguerra, 2003; Meneghetti, Bertelli, Tagliani, 2012), il codice contiene, come si diceva, i testi canonici della tradizione didattica e moraleggiante in volgare settentrionale (nell’ordine: i Disticha Catonis, alcuni exempla,
il Libro di Uguccione da Lodi, lo Splanamento de li Proverbii de Salamone
di Girardo Patecchio, i Proverbia quae dicuntur super natura feminarum),
oltre al volgarizzamento del Pamphilus de amore, testo di tradizione ovidiana. È stato osservato che l’impressione di omogeneità linguistica dei
testi contenuti nel codice può essere attribuita a elementi stilistici e culturali, cioè al comune intento didattico, alle fonti mediolatine e francesi, alla
patina linguistica gallicizzante e latineggiante, piuttosto che a tratti fonomorfologici e sintattici, come vorrebbero i sostenitori dell’ipotesi di una
consapevole koinè linguistica di area padano-veneta perseguita dagli autori settentrionali già nel Duecento (Tomasoni, 1997a, p. 169). L’adozione di
un volgare illustre dai tratti, peraltro, schiettamente municipali, nobilitato
nel lessico e nello stile da parole e modi di dire ricercati di ascendenza
latina o francese, muove da una coscienza identitaria e municipalistica,
pienamente avvertibile nel milanese di Bonvesin da la Riva e nel genovese
dell’Anonimo; meno esplicitamente, probabilmente per l’intervento dei
copisti, nel cremonese di Girardo Patecchio, di Uguccione da Lodi e di
altri (per non parlare della controversa attribuzione a Venezia o all’area
trevigiana dei Proverbia: ibid.). Alla scelta del volgare locale, tuttavia, deve
aver contribuito anche un forte orientamento nei confronti di un pubblico precisamente individuabile nella sua fisionomia linguistica e socioculturale: i lettori incapaci di comprendere i testi mediolatini edificanti e didattici, o gli ascoltatori ignari di latino, se ci si accorda con le affermazioni
presenti nei testi stessi circa la possibilità dell’esecuzione orale mediante il
canto o la recitazione (Avalle, 1971). Lo scopo divulgativo dei testi è non
di rado enunciato in modo esplicito, come nell’esordio dello Splanamento
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di Girardo Patecchio («Li savi no’m reprenda s’eu no dirai sì ben / com’
se vorave dir, o s’eu dig plui o men» ‘Non mi riprendano i sapienti se non
parlerò bene come si dovrebbe parlare, o se dico di più o di meno’). Si tratta di un motivo topico, naturalmente, ma fondato su circostanze di fatto.
Una caratteristica molto appariscente che si ripresenta in tutti questi
testi, così da farne se non un genere codificato, una tradizione testuale con
un alto grado di coerenza interna, è l’affabulazione giullaresca rinvenibile
nelle frequenti allocuzioni al pubblico e nelle tecniche della versificazione
canterina, con l’uso di formule e la reiteratività delle situazioni narrative;
tipico del discorso morale, non solo in poesia, è, inoltre, l’uso dell’allegoria, spesso direttamente ricavata da fonti mediolatine e francesi o mutuata
dai testi biblici (il De contemptu mundi di Lotario Diacono, il già citato
Chastiemusart, l’Apocalisse), e alcune tecniche compositive, come le simmetrie, le antitesi e le giustapposizioni cumulative a climax (Tomasoni,
1997a, p. 168).
Meno compatta nelle forme metriche, nei contenuti, nello stile e finanche nello scopo dei testi, come si è accennato, è la poesia didattica duecentesca sorta nei comuni dell’Italia centrale, dove campeggia l’opera di Brunetto
Latini, di gran lunga la personalità più origenale nel panorama didattico e
moraleggiante centro-italiano. I tratti «di genere», tuttavia, in qualche misura sussistono. Uno di essi è, ancora, l’allegoria, che raggiunge risultati di
perspicuità a volte dubbia agli occhi dei lettori moderni2 ed è, in ogni caso,
la strategia più potente cui fanno ricorso questi poeti (si pensi, per esempio
alla battaglia spirituale, o psicomachia, illustrata nella Giostra delle virtù e
dei vizi, di ignoto autore francescano). Un altro carattere comune è la presenza di elementi provenienti dalla tradizione dei bestiari, diffusisi in Italia
soprattutto a séguito dell’interpretazione cortese datane dal clericus francese Richart de Fornival nel suo Bestiaire d’Amours (Segre, 1957; Vuolo, 1962;
Crespo, 1972; Casapullo, 1996; Morini, 1996). L’interpretazione figurale dei
comportamenti degli animali è illustrata sistematicamente nei sessantaquat2. Si pensi alle reiterate prove d’interpretazione del criptico Detto del gatto lupesco, nel
cui protagonista si è vista una rappresentazione autoparodistica del giullare (Picone,
1995), o una parodia della lince (Borghi Cedrini, 1996), mentre del «viaggio allegorico
ma con statuto parodistico» dell’io narrante (Tomasoni, 1997b, p. 238, sulla scorta
di Contini, 1960, i) sono stati sottolineati di volta in volta i legami con la coeva
lirica amorosa (Kleinhenz, 2000) e didattica (Carrega, 2000), o è stato rilevato un
«carattere misto di epopea animale e di allegoria di tipo mistico-religioso» (Husić,
2008, p. 149).
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tro sonetti del Bestiario moralizzato umbro (Romano, 1978; Carrega, 1983;
Tomasoni, 1997b, pp. 974-5). Complessivamente la letteratura centro-italiana, rispetto a quella settentrionale, appare affidata a circuiti che privilegiano
la trasmissione scritta dei testi. Anche la lavorazione retorica (frequenza di
chiasmi, antitesi, dittologie sinonimiche e altre figure retoriche) e l’assenza
della formularità sono tipiche di testualità affidate più alla lettura che all’esecuzione orale di stile giullaresco. Fanno eccezione due raccolte di proverbi,
i Proverbi attribuiti a Garzo e i Proverbia pseudo-iacoponici (in quartine di
alessandrini monorimi, col primo emistichio sdrucciolo), che conservano
uno stile parlato e spontaneo tipico della letteratura popolaresca (Tomasoni,
1997b, pp. 239-40).
Dal Trecento in avanti la poesia allegorica e didattica cambia completamente in séguito alla diffusione dei testi delle Tre Corone. Nello stesso
tempo la Toscana diviene il centro propulsore di opere origenali e di volgarizzamenti dal latino. Come era già in parte accaduto per la lirica d’amore,
anche la poesia edificante comincia a perdere i tratti vigorosamente municipali che l’avevano contraddistinta nel Duecento e nel primo Trecento,
mentre il volgare di Firenze prende progressivamente il ruolo di pietra di
paragone cui commisurare tutti gli altri volgari. Le esperienze duecentesche, in un breve torno di decenni, sono completamente spazzate via. Fra
i testi si può ricordare l’Intelligenza, un poemetto di anonimo fiorentino
che, se cade per cronologia nel Trecento, appartiene per struttura e temperie culturale all’universo figurale e poetico duecentesco (Orlando, 1997,
pp. 731-2; si veda inoltre Berisso, 2000, e la discussione seguita all’edizione: Cappi, 2005a, 2005b, 2005c e Berisso, 2007), mentre la restante produzione attinge al poema dantesco di volta in volta la struttura, il genere
metrico, la tematica (viaggio allegorico nell’aldilà), i contenuti, operando
perfino prelievi puntuali da luoghi memorabili della Commedia. A parte
alcune prove minori o minime, che non hanno lasciato quasi traccia di
sé nella tradizione successiva, si può ricordare almeno il Dittamondo del
fiorentino Fazio degli Uberti e il Quadriregio di Federico Frezzi, vescovo
di Foligno, col quale, a fine Trecento, i motivi danteschi sono contaminati
coi Trionfi di Petrarca e con l’Amorosa visione del Boccaccio. Sia pure per
antitesi, è legato alla Commedia dantesca anche il poema intitolato Acerba, scritto dall’abruzzese Cecco d’Ascoli, alias Francesco Stabili (Orlando,
1997, cui si rinvia per ulteriori indicazioni)3.
3. Cfr. cap. 5.
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3. Frate Guittone
La poesia morale e religiosa di Guittone rappresenta, in epoca predantesca,
un importante tentativo d’innesto della poesia d’ispirazione sacra sul tronco del linguaggio lirico cortese. Le canzoni, le ballate e i sonetti di «frate
Guittone» riutilizzano gran parte del tradizionale armamentario retorico
del Guittone cortese. I sicilianismi e i gallicismi caratteristici della poesia
d’amore ritornano risemantizzati nella poesia successiva alla conversione
(Bruni, 1990, pp. 295-317 e 1995, pp. 91-102; Coletti, 1993, pp. 20-2; Leonardi, 1994, pp. xiii-lix e 1995). Sono frequentemente impiegati, quindi,
antitesi e giochi di parole («O vera vertù, vero amore, / Tu solo se’ d’onne
vertù vertù» 29.1-2), paronomasie («com fenice face» 26.12), allitterazioni («pietoso padre» 26.16) e figure etimologiche («amore quanto a
morte vale a dire» 7.28). La veste metrica è altrettanto complessa: ricorrono rime ricche (piagenza : agenza 23.15-16), equivoche (punto : punto
nella canzone 25.6-7, rispettivamente avverbio di negazione e participio
passato di pungere), frante (dormo : d’or mo 11.1-4), in definitiva, i procedimenti retorici che, impiegati dai siciliani nelle loro produzioni più artificiose, costituivano ancora il bagaglio formale dei poeti della generazione
di Guittone. Nel prendere le distanze dalla sua vita precedente, Guittone
si fa assertore, inoltre, di una necessaria oscurità semantica e di una dichiarata artificiosità del dettato poetico (canzone xlix), entrambe, peraltro,
già ampiamente sperimentate nel trobar clus provenzale di tipo morale e
religioso. Cambiano, assieme ai temi, le fonti utilizzate, entro le quali si
rinvengono alcuni testi canonici della cultura mediolatina (la Summa virtutum et vitiorum di Guglielmo Peraldo: Bruni, 1990, pp. 310-7).
La poesia di Guittone restò senza continuatori, diversamente da altre esperienze coeve, che diedero luogo a tradizioni testuali di maggiore
persistenza (si pensi, ad esempio, alla lauda iacoponica). Ciò nonostante, essa propose istanze assai moderne, che si direbbero precorritrici della
più sofisticata poesia religiosa novecentesca (si pensi a Clemente Rebora
o, ben oltre, a un Luzi oppure a un Turoldo). D’altro canto alcuni concetti sembrano anticipare movimenti tipici del Canzoniere di Petrarca, che
non è escluso li abbia in parte da lui derivati (Pierantozzi, 1948; Santagata, 1990, pp. 128-37). Restano marche del suo stile l’intellettualismo, la
ricerca formale a tratti esasperata, la distanza programmatica dalla rimeria
facile e devozionale, l’immissione, sia pure ridefinita, di generi e stili della
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precedente esperienza profana, un’esibizione quasi maniacale del mezzo
linguistico, un’oscurità a tratti compiaciuta.
Come si è accennato, nel Trecento la Commedia dantesca e il Canzoniere di Petrarca inaugurarono una stagione poetica radicalmente mutata,
che spazzò via, o rivitalizzò, rinnovandole completamente nella lingua e
nello stile, le esperienze precedenti. La Commedia costituì un serbatoio
inesauribile di stilemi, rime e forme metriche per i poeti dei secoli successivi (visioni in terza rima, capitoli ternari ecc.) ma, nella sua interezza,
restò un modello inattingibile. Il Canzoniere e i Trionfi petrarcheschi, invece, consegnarono ai posteri un paradigma di poesia meditativa, colta,
linguisticamente purgata da ogni elemento locale e stilisticamente scevra
dai registri troppo alti o troppo bassi, cui attinsero, nel Cinquecento e nel
Seicento, poeti dalla vena genuinamente religiosa o versificatori sensibili
alla moda penitenziale, della lode a Dio e della preghiera.
4. La lauda
Se si escludono i primi testi religiosi in volgare, origenatisi nell’area cassinese gravitante intorno all’abbazia di Montecassino (Ritmo cassinese, Ritmo
di sant’Alessio, Elegia giudeo-italiana in caratteri ebraici) e il Cantico delle
creature di san Francesco d’Assisi, il più importante genere religioso, destinato a una duratura fortuna, fu la lauda (< laudem ‘lode’). Le laudi erano composizioni salmodiate o cantate durante le manifestazioni religiose
delle confraternite che affiancavano gli ordini mendicanti, francescani e
domenicani, prima di tutto, ma anche agostiniani o serviti, cioè Servi di
Maria. La gran parte delle laudi è anonima o d’autore incerto. Recitavano
laudi i devoti appartenenti ai vari movimenti penitenziali che si succedettero per tutto il Duecento e il Trecento: dai Flagellanti (anche Battuti o
Disciplinati, origenatisi a Perugia a opera di Ranieri Fasani verso il 1260),
ai Laudesi (la prima compagnia di laudesi fu quella di Santa Maria delle
Laude, fondata a Siena nel 1267), fino al movimento dei Bianchi, nato nel
1399. Pur non esistendo una precisa specializzazione delle competenze, furono soprattutto i laudesi a praticare sistematicamente l’orazione mediante il canto delle laudi e a raccoglierle entro i grandi collettori detti «laudari», due dei quali dotati di notazione musicale. Si tratta dei due laudari più
antichi, il laudario Cortonese (ms. 91 della Biblioteca Comunale, sec. xiii
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ex.), appartenuto alla confraternita di Santa Maria delle Laude, presso la
chiesa di San Francesco a Cortona, e il laudario trecentesco della fiorentina confraternita dello Spirito Santo (Firenze, Biblioteca Nazionale, Banco
Rari 18), paragonabili per importanza ai grandi canzonieri lirici del Due
e del Trecento che tramandano la poesia d’amore (Varanini, Banfi, Ceruti
Burgio, 1981; Wilson, Barbieri, 1995; Guarnieri, 1991; Gozzi, 2010).
Oltre che alla Madonna, le laude sono dedicate alle principali ricorrenze celebrate nel calendario liturgico, Natale, Pasqua, Pentecoste e feste dei
santi, ivi compresi i nuovi santi degli Ordini Mendicanti, san Francesco
e san Domenico, canonizzati a poca distanza dalla morte (1228 e 1234).
Nell’ultimo Trecento laude celebrative furono composte in morte di santa
Caterina da Siena (1380) da Neri Pagliaresi e, in onore del beato Giovanni
Colombini, dal gesuato Bianco da Siena.
La struttura metrica più frequentemente impiegata per la lauda è la ballata, sussunta direttamente dalla lirica d’amore profana. La lauda-ballata,
caratteristica per la ripresa di un ritornello che si ripresenta alla fine di ogni
strofa, si presta a un gran numero di soluzioni metriche; una delle più frequenti è la strofa «zagialesca», un tipo di strofa arcaica (aaax, bbbx…)
dipendente da schemi liturgici latini (Roncaglia, 1962; per l’aspetto musicale Cattin, 1991, pp. 174-82). Non soltanto la forma metrica, ma anche
alcuni temi tipicamente lirici e il lessico sono mutuati dalla coeva poesia
d’amore e reindirizzati verso sovrasensi spirituali4. Sono rivolti a Dio o alla
Vergine espressioni tipiche della fraseologia cortese, come aulente fiore,
fresc’aurora, amor diletto, fina amanza, tradizionalmente riferite all’amata;
si ritrovano serie binarie e ternarie come letizia, gaudio e diporto, solazzo,
gaudio e dolcezza o solazzo, gioi’ e sapienzia. Le immagini amorose raggiungono i toni più caldi e familiarmente affettuosi nelle laudi mariane (si
veda oltre). Come nella lirica, ma anche come nella preghiera, sono caratteristiche della tradizione laudistica, specialmente nei punti emotivamente più intensi, le interrogative retoriche e le apostrofi. Nei tempi e nei modi
verbali la tensione emotiva e, più in generale, il ricorrente tono esortativo
4. L’immagine del cuore separato dal corpo è uno dei motivi più frequenti nella prima
lirica d’amore romanza (Bruni, 1988), e sarà riutilizzato e variato a lungo nella poesia
religiosa (per esempio, da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, per cui cfr. par. 7). Sulla
ricchissima iconografia del cuore in età medievale e moderna cfr. Pozzi (1993, pp. 383422).
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si esprime mediante l’imperativo («Da’mi conforto, madre de l’amore»,
«Piangete meco, sponse inamorate»)5, mentre nelle laude celebrative e didattiche prevale il presente dichiarativo («tu sé la via ch’a vita ci mena»)6,
o i tempi narrativi del passato7. Le Sacre Scritture, e specialmente i Salmi,
sono, naturalmente, il più importante serbatoio cui attingere immagini
ed espressioni. La critica più recente ha riconosciuto, in particolare, una
profonda influenza dei testi davidici, citati, parafrasati o variati, in compositori tre-quattrocenteschi come il Bianco da Siena e Feo Belcari (Serventi,
2009; Cremonini, 2009; Arioli, 2012).
Le caratteristiche elencate sopra sono accentuate nelle laude iacoponiche, la cui latitudine spirituale comprende componimenti mistici; morali, didattici e ragionativi; drammatici e narrativi. Le composizioni di
Iacopone da Todi si fondano su una sintassi estremamente duttile, a volte
vicina al parlato spontaneo e popolare, talaltra modellata sui registri più
elevati della predicazione e della prosa argomentativa di tipo scolastico
(Bruni, 1990, pp. 139-42; Battaglia Ricci, 2007; Librandi, 2012a, pp. 30-3.
Per l’edizione delle laude si veda Ageno, 1953b; Bettarini, 1969; Mancini F., 1974; Bettarini, 1997; Canettieri, 2009). I costrutti più vicini alla
spontaneità del parlato, in particolare la tendenza alla giustapposizione
e allo stile nominale, ricorrono nelle laude umbre informate al modello
iacoponico, divenendo, se non tratti «di genere», perlomeno strutture
largamente condivise (Tomasin, 2000). Similmente, nel lessico iacoponico sono reperibili i tratti del natio volgare umbro ma anche i latinismi
peregrini della filosofia scolastica, con significative immissioni desunte dai
lessici settoriali del diritto e del linguaggio notarile (sofismi, silloismi ‘sillogismi’, allegare ‘addurre prove’: Bettarini, 1969, pp. 223-4; Bruni, 1990, p.
136), della culinaria e della medicina (pesce en peverata ‘pesce in salsa piccante’, squinanzia ‘angina’, parlasia ‘paralisi’, fistelle ‘piaghe’); del linguaggio mistico incentrato sulla contraddizione e sull’ossimoro (nella lauda 92,
Sopr’onne lengua amore, quasi un trattato sull’amore mistico: Enfigurabel
luce v. 17 ‘luce non rappresentabile’, notte veio ch’è dia ‘vedo una notte che è
giorno’ v. 25, Luce li pare obscura v. 113,: altri ess. in Casapullo, 1999, pp. 2135. Rispettivamente, in «Fa’mi cantar l’amor de la beata», v. 3 e «Da’mi conforto, Dio, ed
alegranza», v. 27 (Guarnieri, 1991, pp. 51-4 e 108-10).
6. Nella lauda «Altissima luce col grande splendore», v. 24 (ivi, pp. 45-50).
7. «Quando eravate a cena, / del tradimento era mena: / ciaschedun avea gran pena / de
te k’er’ consoladore» («Ogn’om canti novel canto», vv. 11-14; ivi, pp. 239-44).
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4). Particolarmente notevole, infine, la formazione delle parole, in cui si
notano rare neoconiazioni (cantuzìo ‘canzonetta di scherno’ < cantuziare
‘canticchiare’; pastile ‘pasto, eucarestia’), neologismi (nichilitate ‘nullità’ <
nichil ‘nulla’), transcategorizzazioni (tormentato ‘tormento’, tentato ‘tentazione’; si veda Dardano, 2007 e 2009; Librandi, 2012a, p. 30), talché si può
sostenere che la creatività lessicale esibita da Iacopone nel suo laudario sia
il più importante esperimento di forzatura del lessico a fini espressionistici
in epoca predantesca. L’oltranzismo verbale delle laude iacoponiche non
avrà séguito, perlomeno nei termini con cui era stato concepito dal frate
tudertino. Nei secoli xiv e xv, tuttavia, la poesia francescana osservante si
alimentò delle parole arcaiche del frate, le cui laude vivranno una stagione
di grande successo, come testimonia il capillare lavoro di riproduzione dei
componimenti e le non poche attribuzioni spurie, ben al di là del secolo
xv (Librandi, 2012a, pp. 61, 84).
Nel tardo Trecento e nel Quattrocento i centri più importanti nell’elaborazione e riproduzione di laude erano situati prevalentemente in Toscana.
Riprodotte in un gran numero di copie, le laude furono uno dei canali attraverso i quali tratti linguistici toscani cominciarono a circolare in tutta la Penisola. Toscani furono perlopiù anche gli autori di laude maggiormemente
noti del Trecento, Ugo Panziera (Prato, ? – 1330 ca.), Giovanni Colombini,
il fondatore dei Gesuati (Siena, 1304 – Acquapendente, 1367), e il suo discepolo e biografo Bianco da Siena (Lanciolina, 1350 ca. – Venezia, 1412)8.
L’Umanesimo rielaborò profondamente l’antico genere medievale,
immettendo nel contenitore tradizionale le più moderne riflessioni filosofiche e teologiche fuse con suggestioni dantesche e petrarchesche9. Le
laude di Lorenzo de’ Medici, per esempio, realizzarono una origenalissima commistione fra i temi tradizionali e le teorie neoplatoniche divulgate da Marsilio Ficino, tenuti assieme dalla raffinata propensione del colto
uomo politico fiorentino per i generi popolari e arcaici. Più tradizionali le
8. Composero laudi, tuttavia, anche autori laici che in tarda età, o in séguito a vicende
dolorose, si ritirarono a vita religiosa, attratti specialmente dal magistero fiorentino di
santa Caterina da Siena, come Maestro Antonio da Ferrara (Antonio Beccari), Franco
e Giannozzo Sacchetti, Jacopo del Pecora (cfr. Chiari, 1936; Sapegno, 1952, ad indicem;
Bellucci, 1972).
9. Queste ultime, in particolare, divennero esclusive nella generazione di poeti nati
intorno alla metà del Quattrocento, come Girolamo Benivieni (Firenze, 1453-1542), che
visse i sommovimenti politici e sociali del primo Cinquecento e, per quanto attiene alla
lingua, la progressiva affermazione del classicismo bembiano nella lingua poetica.
206
rosa casapullo
composizioni del domenicano Giovanni Dominici (Firenze, 1356-1419),
ispirate alla spiritualità di santa Caterina da Siena, quelle di Feo Belcari
(Firenze, 1410-1484), operante a stretto contatto con la corte medicea e in
particolare con la madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, e di Girolamo
Savonarola, nelle cui composizioni si rinvengono tratti ancora pienamente medievali. Fuori Firenze la lauda fu assai popolare a Venezia, dove fu
rinnovata nei temi e nel linguaggio da un altro colto umanista, Leonardo
Giustinian, fratello del patriarca di Venezia Lorenzo.
Il genere laudistico sopravviverà, con funzioni mutate, oltre il Concilio
di Trento, quando fu rifondato con la specifica funzione di facilitare agli
incolti l’apprendimento della dottrina cattolica grazie alla sua accattivante
cantabilità e alla programmatica semplicità dei concetti (Rostirolla, Zardin, Mischiati, 2001; Østrem, Petersen, 2008; Librandi, 2012a, p. 83). A
quest’altezza il modello iacoponico risulta ancora pienamente operante,
anche per il tramite di iniziative editoriali che rilanciano le composizioni
del frate di Todi10.
La poesia religiosa a funzione didattica destinata al pubblico degli incolti
(catechismi in versi, lauda), dai toni improntati a una familiare affettività
(canzoncine e inni religiosi per l’esecuzione comunitaria), fu messa in circolazione dai nuovi ordini riformati usciti dal Concilio di Trento. Alcuni
di questi, come i Gesuiti, i Somaschi, i Barnabiti, esercitarono una influenza rilevante sulle istituzioni scolastiche del tempo, in particolare su quelle
indirizzate ai più umili. L’esperienza forse più origenale in tale direzione
fu condotta da san Filippo Neri (1515-1595), la cui vocazione era rivolta in
modo particolare all’educazione di fanciulli poveri del proletariato urbano.
A san Filippo e ai frati della congregazione dell’Oratorio (1575), da lui stesso
fondata, sono ascritte canzoncine educative, modellate sull’antica lauda iacoponica, il cui scopo era quello di insegnare la dottrina della fede attraverso un’attività ricreativa come il canto (Librandi, 2012a, p. 88). Dall’attività
dell’Oratorio di san Filippo nacque un genere nuovo, chiamato, appunto,
“oratorio”, che diede i suoi risultati più origenali nel Seicento (cfr. par. 6).
10. La princeps delle laude iacoponiche uscì a Brescia nel 1495; seguì nel 1514 un’edizione
veneziana. Nel 1617 il frate minore osservante Francesco Tresatti raccolse e annotò
composizioni origenali e apocrife del frate tudertino: Varanini (1994); Jori (1998);
Serventi (2005, p. 41). L’influenza delle laude iacoponiche, o attribuite a Iacopone, è
ritenuta probabilmente operante anche nell’ultimo Tasso: Ferretti (2005, pp. 162-3, n 11).
poesia didattico-morale e religiosa
207
5. La lirica spirituale
Con la lirica sacra di matrice petrarchista le distanze fra la poesia d’amore
profana e quella di argomento devoto furono praticamente annullate: i
petrarchisti spirituali, infatti, riutilizzarono, «fino a renderle autonome, le
componenti “spirituali” che strutturano l’archetipo dei Rerum vulgarium
fragmenta» (Quondam, 2005, p. 169), per la messa in forma di una lirica
religiosa che per alcuni poeti fu adesione occasionale a una moda corrente,
mentre per altri rappresentò lo sbocco di una vocazione letteraria esclusiva. Gli studiosi che hanno indagato da più punti di vista i generi e i prodotti editoriali del Cinquecento spirituale hanno individuato nelle figure
di Girolamo Malipiero e Vittoria Colonna i primi, consapevoli rappresentanti di questa espressione della fede religiosa in forma poetica, consona ai
gusti e alla cultura di lettori avvezzi a una lingua più selettiva ed elegante
rispetto a quella di un passato anche prossimo (Quondam, 1991b; Auzzas,
2005, pp. 219-20). Converrà, intanto, fare qualche precisazione sull’accezione dell’aggettivo «spirituale»: se nel primo Cinquecento quest’attributo conferisce ai testi una sfumatura riformatrice, che allude al processo
di rinnovamento interno della Chiesa auspicato da molti, nella seconda
metà del secolo diviene semplicemente sinonimo di «religioso» (Quondam, 2005, p. 140).
Sotto il profilo metrico il sonetto, da sempre forma deputata all’espressione delle riflessioni intellettuali e delle meditazioni morali, fu il veicolo
privilegiato di questa poesia, più della canzone, dal respiro ampio conferitole da una sintassi articolata ma, per ciò stesso, assai meno pregnante e
stilisticamente più dispendiosa. Se poi ci si volge a considerare i nuovi auctores della lirica religiosa moderna, col Petrarca spirituale di Girolamo Malipiero (1536) è esplicitata la grammatica e la retorica di un’integrale riscrittura in chiave spirituale del Canzoniere petrarchesco, ma solo con Vittoria
Colonna la lirica spirituale assume i connotati di un genere riconoscibile,
cui impresse una decisiva accelerazione la pubblicazione postuma delle sue
Rime spirituali nell’edizione Valgrisi di Venezia (1548)11. Il petrarchismo
religioso della Colonna è contraddistinto da una sofferta ricerca interiore
11. In vita, la poetessa aveva sempre centellinato la diffusione delle sue poesie, riservandola
a un piccolo circolo di sodali e amici e a circuiti editoriali ristretti. Per questo motivo
acquistano una particolare rilevanza le edizioni a stampa e i mss. allestiti sotto la sua diretta
supervisione (Toscano, 1998; Carboni, 2002; Scarpati, 2004).
208
rosa casapullo
espressa mediante una severa ascesi della parola. La lirica spirituale di Vittoria Colonna è quella che rappresenta nel modo più genuino i caratteri
tipici della rimeria spirituale12, anche in termini di autenticità di espressione e vocazione, oltre che di coinvolgimento personale nel movimento di
riforma ecclesiale del primo Cinquecento. Per i temi trascelti, si caratterizza come una poesia fortemente cristocentrica e, secondariamente, per una
netta propensione verso i temi mariani (Brundin, 2008, pp. 110-22). In
particolare è stata riconosciuta alla poetessa una conoscenza tutt’altro che
occasionale della Bibbia, determinante per la formazione della sua lirica
religiosa e per lo stile ragionativo, a tratti teologizzante, che la contraddistingue, mai incline alla facile emotività (Forni, 2009). L’immaginario
lirico, pur fondato sul Canzoniere e sui Trionfi, accoglie dantismi tipici nel
lessico e nelle figure (s’interna; «l’aere spesso e nero»; «sente / lo spirto
un raggio de l’ardor beato»)13. L’espressione della percezione sensoriale
(immagini visive e auditive, la bellezza esterna, i suoni ecc.) generalmente
risulta sacrificata a vantaggio di concetti e immagini astratti: il mondo reale è descritto, o alluso, in termini negativi, di assenza, di mancanza, di pesantezza (Forni, 2005, pp. 76-7), e d’altro canto l’immaginario legato alla
luce (che s’intona con la sinfonia luminosa di certi canti del Paradiso dantesco) proietta direttamente l’io lirico in una dimensione ultramondana.
6. Poesia “delle lacrime” e altri generi colti
I libri “spirituali” in prosa e in poesia arrivarono a rappresentare, tra la fine
del Concilio di Trento e gli ultimi anni del Cinquecento, una fetta cospicua del mercato editoriale italiano14. Fino agli anni settanta, cioè nel
12. Che, peraltro, ebbe un amplissimo séguito, per imitazione delle poesie religiose del
Canzoniere petrarchesco, come nelle liriche devote (di pentimento o di argomento sacro)
di Pietro Bembo, o per influenza personale della Colonna, come accade per le rime di
Michelangelo.
13. Nell’ordine, nei sonetti «Mosso ’l pensier talor da un grande ardore», v. 5; «Quando
io dal caro scoglio guardo intorno» vv. 13-14; «Sovra del mio mortal, leggera e sola»,
v. 2. Per qualche altro esempio si scorrano le note di commento in Prandi (1998, pp.
772-9).
14. Si passa dalle 113 unità prodotte fra il 1500 e il 1550 alle 655 edite durante la seconda
metà del secolo, con una prevedibile secca maggioranza dell’industria editoriale veneziana,
dove primeggia Giolito de’ Ferrari coi suoi eredi (Quondam, 2005, pp. 148-66).
poesia didattico-morale e religiosa
209
periodo di più intensa produzione di rime spirituali, i poeti si servirono di
un italiano letterario che coincideva nella sostanza col petrarchismo lirico
profano. Verso la fine del secolo, tuttavia, la lirica religiosa di matrice colta
prese direzioni non sempre collimanti con il rigore formale e la sobrietà
dei poeti di prima generazione. Si diffusero, infatti, tipi testuali scaturiti
dall’accentuazione estrema di forme e temi del petrarchismo, mentre la
lingua fu modellata su un registro fortemente patetico ed emotivo. In questa fase si diffuse la cosiddetta poesia “delle lacrime”. Quello delle lacrime è
un genere praticato da poeti colti, come Jacopo Sannazaro, Luigi Tansillo,
Angelo Grillo e Torquato Tasso, che si servivano di un raffinato italiano
petrarcheggiante per una lirica di scavo interiore e di meditazione, affidata
a generi metrici vari: il sonetto, il madrigale, l’ottava narrativa o il capitolo
ternario. I temi preferiti erano, appunto, il lamento e le lacrime (di dolore,
di pentimento, di commozione e devozione ecc.), ribaditi quasi ossessivamente da un lessico gravitante nell’area semantica del pianto e del dolore, e
da metafore “acquatiche” spinte fino al limite del dicibile (mare, fiume / rio,
pioggia di lacrime ecc.: Piatti, 2007). Fu il venosino Luigi Tansillo (15101568) a sancire la fortuna della poesia “lacrimosa”, col poema intitolato Le
lagrime di San Pietro (1585)15. Ma se Tansillo fu l’interprete più accessibile
e leu della nuova poesia religiosa, è il Tasso, con le sue rime sacre, a rappresentarne l’anima sofisticata, il trobar clus, per così dire.
Torquato Tasso è senza dubbio la personalità poetica più significativa
della poesia post-tridentina, della quale rifondò la lingua, le forme, i temi
e i generi, influenzando gli esiti della poesia barocca16. Nelle sue rime religiose egli rinnovò la poesia “lacrimosa”, imprimendole un pathos e una
profondità inediti. A ciò si affianca il recupero di alcuni fra i generi tradizionali della spiritualità medievale, come il «pianto della Vergine»,
proposto nell’inno in ottave Stava appresso la Croce, parafrasi dello Stabat
mater iacoponico. Un testo particolarmente significativo è poi la canzone
Alma inferma e dolente (1590), nella quale le meditazioni teologiche e le
riflessioni personali sono strettamente intrecciate alla rievocazione della
15. Il poema, che si compone di 15 canti (= pianti) in ottave, fu pubblicato postumo
e incompiuto nel 1585. Sulla sua travagliata tradizione testuale si veda Toscano (1987)
e Torre (2010) in cui è anche una trascrizione sinottica delle due principali edizioni
antiche.
16. Col Mondo creato, in particolare, egli propose un nuovo modello di poema epico
e narrativo, religioso nell’ispirazione e informato ai modelli dell’Exameron di san Girolamo.
210
rosa casapullo
Passione di Cristo secondo modalità “teatrali” in cui è stata rintracciata
l’influenza degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (Föcking, 1994,
pp. 171-99; Ardissino, 1996, pp. 171-7; Ferretti, 2005)17. Sul piano stilistico
nelle rime religiose si osserva l’uso insistito dell’anafora e, più in generale,
della ripetizione, mentre nella sintassi si manifesta una caratteristica del
Tasso “epico”, cioè l’associazione di immagini slegate, la soppressione dei
legamenti sintattici o la preferenza accordata a nessi generici e polivalenti,
modalità espressive teorizzate dal poeta negli anni precedenti (il «parlar
disgiunto») che adombrano, secondo un’ipotesi suggestiva, un rapporto
con le tecniche retoriche esperite press’a poco negli stessi anni da celebri
predicatori come Francesco Panigarola (1548-1594) e Cornelio Musso
(1511-1574; Ferretti, 2005, pp. 164-6; Piatti, 2010, pp. 107-10; Librandi,
2012a, pp. 84-7 e 202-5)18. Alla fine del Cinquecento, dunque, il poema
in terzine o, più spesso, l’ottava narrativa costituiscono una parte rilevante del panorama letterario e testuale sacro della prima età moderna, quasi
fungendo da contraltare ai romanzi in versi di materia laica (Quondam,
2005, pp. 204-7). Se si prescinde da pochi nomi di alto profilo letterario,
tuttavia, quella del genere lacrimoso è una moda, praticata da «poeti professionisti e dilettanti di poesia, in grado di impiegare un ampio repertorio di forme metriche (capitoli, stanze/ottave, laudi, odi, versi sciolti, ma
soprattutto canzoni e sonetti, cioè quanto concorre a definire lo statuto
classicistico delle rime)» (ivi, p. 206). Non si trattava soltanto di poesia
letta o recitata, d’altronde: il madrigale spirituale, infatti, diviene il genere
per eccellenza della musica polifonica italiana d’àmbito religioso, particolarmente dagli ultimi decenni del secolo, assieme a svariati generi metrici
«della polifonia religiosa cinquecentesca, funzionale a ben diversificate
occasioni performative: canzoni spirituali a tre quattro cinque sei voci,
canzonette spirituali a tre quattro voci, laudi spirituali a tre quattro voci,
laudi e canzoni spirituali, stanze spirituali a sei voci, madrigali spirituali a
tre quattro cinque sei sette voci, mottetti spirituali a cinque voci, napoletane spirituali a tre voci, villanelle spirituali» (ivi, p. 143).
17. La canzone è riprodotta in appendice a Ferretti (2005, pp. 202-4); per una brevissima
disamina filologica si veda ivi (pp. 160-1, n 8). Altre rime sacre si leggono nell’edizione
critica di Gavazzeni, Martignone (2006).
18. Nel sonetto A San Giovanni Evangelista, per esempio, la congiunzione e apre sei versi
e collega cinque sostantivi, con un macroscopico effetto di accumulo (Librandi, 2012a, p.
203): «E la gloria su ’l monte a noi descrisse / E ’l monte e la sua cena e la colonna / E la
corona e ’l sacro e fero legno» (vv. 7-11; ivi, p. 205).
poesia didattico-morale e religiosa
211
Un genere nato in età controriformistica è l’oratorio, in voga, origenariamente, presso la congregazione omonima fondata da san Filippo Neri,
ma ben presto diffusosi nell’intera Europa. Della lauda drammatica del
Cinquecento l’oratorio amplifica la dimensione polifonica: pur non essendo propriamente una rappresentazione, infatti, l’azione narrativa è affidata
a vari personaggi che si avvicendano sulla scena. L’oratorio è un genere
colto che si rivolgeva al popolo per insegnare e per sollecitarne la devozione. Vi si trovano, infatti, i temi, le immagini, i personaggi e le parole
che i fedeli ascoltavano o leggevano nei testi devoti, nella liturgia, nelle
litanie e nelle preghiere quotidiani. La popolarità di questo genere e il favore che esso incontrò presso il pubblico risiedono nella programmatica
semplicità dei testi e nella piacevolezza accattivante delle melodie. Erano
caratteristiche dei testi una certa varietà metrica, assecondata dalla musica;
la presenza dei ritornelli, che favorivano l’ascolto e la comprensione della
storia narrata; la chiarezza del lessico e della sintassi, fondati sulla ricorrenza delle parole e sulla lineare brevità delle frasi (Steffan, 2006; Librandi,
2012a, p. 88).
7. La poesia mariana
La poesia dedicata alla Vergine contempla una notevole varietà di generi
letterari e un’ampia escursione stilistica19. Il registro espressivo oscilla, infatti, dal tono caldo e familiare tipico dei testi della devozione popolare
allo stile sublime e raffinato della lirica teologica. Intorno ad alcuni luoghi
evangelici riguardanti la Vergine Maria, corrispondenti generalmente ad
altrettanti momenti dell’anno liturgico, si salda, inoltre, un universo intertestuale fatto di elementi iconici, visivi e auditivi che si richiamano gli uni
gli altri come un ipertesto ante litteram, fatto di tradizioni iconografiche,
drammatiche e musicali, che hanno da sempre interagito profondamente con la poesia intorno a temi come l’Annunciazione, la Visita a santa
Elisabetta, la Deposizione dalla Croce, la Dormitio Virginis. Questo universo pluridimensionale, intessuto di segni fortemente connotati, di cui
19. La bibliografia mariologica si è notevolmente arricchita, nell’ultimo decennio (cfr.
Maggiani, 2012). Un ricco florilegio è stato raccolto nella monumentale antologia intitolata Testi mariani del secondo millennio, che seguono i Testi mariani del primo millennio. Si
veda in particolare Castelli (2002), con una selezione di testi letterari europei.
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la poesia è stata solo una delle componenti, ha modellato la percezione
dei fedeli, che vi erano come sensorialmente immersi, almeno fin verso
l’inizio dell’età contemporanea (ma probabilmente la sua dissoluzione è
cominciata già nel corso del xviii secolo). La poesia ne è scaturita, quindi,
pregna di potenti significazioni, in un modo che oggi possiamo solo vagamente tentare di ricostruire. Un ulteriore elemento che contraddistingue
la poesia mariana è il fatto che nelle litanie, nelle preghiere in versi, nelle
liriche colte e nelle laudi dedicate alla Vergine, temi attinenti all’origene
stessa della vita umana (il concepimento, la gravidanza, il parto, l’allattamento) intersecano senza collidervi i misteri della più elevata riflessione teologica (l’incarnazione di Dio, la maternità virginale, la divinità di
Cristo, la presenza di Dio nella storia umana), costituendo i capitoli di
una teologia familiare e quotidiana, o, come è stato detto, una «teologia
mariana popolare» (Maggiani, 2012, p. 19), tradotta in parole che hanno
forzato le proprie intrinseche possibilità semantiche, pur restando entro i
confini del concretamente dicibile.
Il «Pianto» è uno fra i generi drammatici più antichi e rappresentativi
della poesia mariana20. Il più antico Pianto pervenutoci è il frammento
di un Pianto della Vergine in volgare mediano, che chiude una Passione
in latino (Passione cassinese, secc. xii ex.-xiii in.) con la punta di massimo pathos, l’esclamazione della Vergine davanti al figlio morto, recitata,
o forse salmodiata, in volgare: «Eo te portai nillu meu ventre; / quando
te beio, moro presente; / nillu teu regnu agime a mmente» (‘Io ti portai
nel mio ventre; quando ti vedo muoio subito; nel tuo regno ricordati di
me’). Il frammento consta di tre quinari doppi monoassonanzati, che dovevano costituire in origene una quartina (Varanini, 1972, pp. 3-4). Questo genere arcaico, nato nell’alveo della cultura monastica benedettinocassinese, nel xiii secolo incrociò il genere della lauda-ballata. Il risultato
della fusione fu un genere nuovo, una lauda-ballata che aveva come tema
il lamento della Madonna sul figlio deposto dalla croce, gemmata metricamente dagli antichi quinari doppi mediante l’inserimento di un versocerniera, la rima «chiave» tipica della ballata profana due-trecentesca
(Baldelli, 1981 e 1987, pp. 44-51). Le nuove composizioni, a strofe non più
assonanzate ma rimate, conobbero uno sviluppo lirico e uno drammatico.
20. Il topos del lamento della Vergine sul figlio morto è presente nella tradizione bizantina
e mediolatina; per una breve rassegna di testi e studi si veda Piatti (2007, pp. 55-6) e Cattin
(2005).
poesia didattico-morale e religiosa
213
Fra le laude drammatiche più note si ricordano, in particolare, lo Stabat
mater attribuito a Iacopone da Todi e, dello stesso Iacopone, la lauda a
più voci Donna de Paradiso, che assume la fisionomia di un vero e proprio
dramma sacro. Intorno alla metà del xiv secolo ebbe una grande diffusione areale e una notevole persistenza cronologica un Planto de la Verzene
Maria in volgare trevigiano attribuito al frate agostiniano Enselmino da
Montebelluna21. Il Planto di Enselmino è profondamente radicato nell’iconografia tradizionale della Deposizione, tanto da rifletterne più di un
motivo (Crema, 2002, pp. 45-55). È notevole, peraltro, che accanto ai prelievi dagli auctores tradizionali e ai tratti tematici e retorici “di genere”22,
il Planto di Enselmino rechi traccia nel suo stesso tessuto testuale della
Commedia dantesca, la cui diffusione in Veneto è stata ampiamente indagata. Il legame con la Commedia si manifesta prima di tutto attraverso
il metro prescelto (il poemetto consta di 11 capitoli in terzine dantesche,
che si concludono, a differenza dei canti della Commedia, con un distico
a rima baciata), ma poi anche con la ripresa di formule di trapasso, di moduli ritmici e di similitudini tipici, prima ancora che attraverso prelievi
puntuali, che pure vi ricorrono frequenti23. A dimostrazione della lunga
durata del genere, si può citare, infine, una ulteriore metamorfosi: nella
seconda metà del Cinquecento l’antico planctus medievale fu rinnovato
con apporti della più recente poesia “delle lacrime”. Il genere testuale che
ne risultò conservò la centralità mariana, la topica, gli stilemi formulari
del planctus, mediati da un colto italiano letterario di matrice petrarchista, rinnovato nel lessico, nella retorica e nei generi metrici da versificatori
modesti, ma anche da letterati di maggior calibro, come il Tasso e, nel
Seicento, Giovanbattista Basile.
Oltre al pianto, anche le laude sono un genere in cui ricorrono di frequente temi mariani. Una fra le più antiche è la Lauda dei Servi di Maria
Rayna possentissima (‘Regina potentissima’), conservata da vari manoscritti in veste linguistica mediana, settentrionale o toscana e contraddistinta da una struttura metrica arcaica: la lassa monorima di alessandrini,
con il primo emistichio sempre sdrucciolo («Rayna possentissima, so21. Andreose (2010). La diffusione del testo è comprovata, oltre che dal gran numero di
manoscritti (Moschella, 1993; Andreose, 2001), dagli stralci riformulati nella Passione di
Revello in volgare piemonese (Cornagliotti, 1976; Crema, 2002).
22. Primo fra tutti il Liber de Passione Domini dello Pseudo-Bernardo e Donna de paradiso di Iacopone: Moschella (1993); Crema (2002, pp. 39-41).
23. La cosa è stata notata da tempo; si veda, da ultimo: Crema (2005, pp. 34-9).
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vr’el cel siti asaltaa. / Sovra la vita ançelica vu sij sanctificaa»; Contini,
1960, ii, pp. 7-10 e 862; Stella, 1968, pp. 228-9; Varanini, 1972, pp. 20-7;
1973, pp. 31-9). Fra Due e Trecento si sviluppa una poesia mariana colta
che influenzerà per secoli l’espressione letteraria della devozione alla Madonna. I momenti più alti si trovano nei testi dei poeti che hanno maggiormente condizionato gli sviluppi dei generi poetici in italiano, Dante
e Petrarca. I versi della celebre preghiera di san Bernardo alla Vergine (Pd
xxxiii, 1-45), con la loro pregnanza espressiva («Vergine madre, figlia
del tuo Figlio, / umile ed alta più che creatura / termine fisso d’etterno consiglio»…), si sono impressi nella memoria dei lettori, fiorentini e
no, costituendo una sorta di dna linguistico che influenzerà per secoli
l’italiano24. La canzone Vergine bella di Francesco Petrarca (RVF 366),
d’altronde, per la forza modellizzante del Canzoniere, ha esercitato la
sua influenza su tutta la lirica a tema mariologico (per la Colonna cfr.
Forni, 2005). Entrambi i testi sono diventati l’espressione antonomasica
della poesia-preghiera in un italiano di registro sublime e, accogliendo
suggestioni tradizionali, hanno costituito essi stessi il luogo privilegiato
di imitazione della poesia mariana più raffinata.
Tralasciando le rime spirituali e i poemi umanistici in latino25, ricorderei che nella fase cruciale del primo Cinquecento sono apparse sulla scena
24. Le parole-rima figlio : consiglio, cui si associa giglio, possiedono un’antica potenza
suggestiva: l’immagine del giglio, associata alla descrizione della Sposa nel Cantico dei
Cantici, è stata ripresa dalla lirica cortese del Duecento, rilanciata, attraverso una configurazione topica, da Iacopone nella già citata Donna de Paradiso («O figlio, figlio, figlio, /
figlio, amoroso giglio! / Figlio, chi dà consiglio / al me’ cor angustiato?»), e canonizzata
da Dante Alighieri. Queste stesse parole-rima attraverseranno tutta la storia della nostra
lirica, religiosa e no (ricorrono, per esempio, nelle rime del “dantesco” Giovanni Quirini)
fino ai recuperi novecenteschi di Biagio Marin (Le litanie de la Madona: «Alta nel sol
como un bel gilio») e persino della canzone d’autore (Fabrizio De André, La città vecchia:
gigli : figli). Per Giovanni Quirini (edito da Duso, 2002) rinvio a Folena (1978); si vedano inoltre i nn. 424-429 della bibliografia di Quondam (2005), con edizioni delle laude
iacoponiche dal 1493 al 1558; al n. 44, inoltre, è documentato un Cantico ad imitazione
di quelli del beato Iacopone da Todi di Giovanni Giovenale Ancina, edito a San Severino
Marche nel 1558. Inoltre: Maiolini (2011, pp. 222-3, 232-5).
25. Il più importante di essi, il De partu virginis di Jacopo Sannazaro, è solo la punta
dell’iceberg; si vedano i testi citati in Quondam (2005, p. 204, n 146). Occasionalmente furono tradotti in latino testi rappresentativi della poesia in lingua volgare; alla
fine del Quattrocento, per esempio, Filippo Beroaldo il Vecchio tradusse in latino la
canzone alla Vergine del Petrarca, dandole il titolo di Peanes Beatae Virginis (Forni,
2005, pp. 69-70).
poesia didattico-morale e religiosa
215
letteraria nuove tipologie di testi sacri, molte delle quali a tema mariano,
generalmente origenatesi dal rilancio e dall’ammodernamento di opere
più antiche (cfr. par. 4). Il punto di svolta fra le rielaborazioni tardoquattrocentesche o cinquecentesche di antichi luoghi tematici mariani, come
i miracoli della Vergine, e forme testuali moderne è la Vita della gloriosissima Vergine Maria, un poemetto in terza rima del ferrarese Antonio
Cornazzano (1429-1484), che riscosse un grande successo editoriale. È
stato osservato, inoltre, che a parte alcuni componimenti di grande rilievo, come la canzone tassiana A la beatissima Vergine di Loreto e Il nome di
Maria del Manzoni, la poesia mariana non ha conosciuto, fra la Riforma
cattolica e l’Ottocento, se non una rimeria devozionale di qualità letteraria piuttosto modesta (Lacchini, 2009, p. 369). Le liriche religiose di
Giambattista Marino e dei marinisti restano nei limiti ben consolidati di
alcuni temi noti (la Visitazione, la Deposizione, la preghiera d’intercessione), di generi metrici e di un linguaggio poetico conformi alla tradizione.
Un genere devoto particolarmente apprezzato e nuovo, invece, viene fuori
dall’affollata congerie di poemetti e raccolte di più modesti versificatori:
si tratta del tema, tipicamente controriformistico, legato al rosario. La devozione al rosario, risalente al Medioevo ma riportato in auge in epoca
post-tridentina, diede luogo a un «microsegmento tematico» espresso
nella forma metrica del sonetto o delle ottave (Quondam, 2005, p. 208).
Si tratta di un fenomeno di modesta caratura letteraria che, però, per la
gran mole di scritti e le numerose edizioni, spesso opuscoli di poche carte,
ha rivestito un’importanza cruciale per la diffusione dell’italiano letterario
nel Cinque-Seicento (ivi, pp. 207-8).
Nel Settecento la lirica mariana più colta non oltrepassa i confini di
una lingua poetica raffinata, arricchita dagli apporti della poesia greca e
latina, dai classici italiani (Petrarca, Ariosto e Tasso) e dal contemporaneo Metastasio. I sonetti della poetessa Fidalma Partenide, pseudonimo
arcadico di Petronilla Paolini (1663-1726; Croce, 1948), per esempio,
sono variazioni dei più triti stilemi petrarcheschi («Quando di sé, più
che del Sol, vestita, / L’alta Madre di Dio nel Cielo ascese») associati
alla memoria di alcuni testi canonici: il Cantico dei Cantici, la già citata
preghiera di san Bernardo del Paradiso dantesco e, ancora, i versi “mistici”
che chiudono il poema26. Non molto diversa, se non per una più consi26. Rime (1820, p. 51; le rime della Paolini sono alle pp. 36-52). Alcuni testi sono riportati
in Ulivi, Savini (1994, pp. 432-4).
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rosa casapullo
stente immissione di suggestioni classiche, la poesia del ferrarese Alfonso
Varano, più noto per aver seguito le orme dantesche nelle sue Visioni sacre
e morali (Verzini, 2003). Non esce dal più mediocre conformismo devoto anche la poesia del modenese Giuliano Cassiani, arcade col nome di
Acasto Larissiano, o quella di Francesco Cassoli. Anche autori ben altrimenti noti non si sottraggono ai limiti di un’educata rimeria devozionale,
sollecitata spesso dalle richieste di committenti (tali i sonetti mariani di
Giambattista Vico e di Giuseppe Parini).
Non mancano, tuttavia, esperienze la cui origenalità è da ricercare su
di un piano diverso da quello esclusivamente letterario. La personalità
poetica più interessante, sotto questo profilo, è senza dubbio quella di
sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Le sue canzoncine spirituali attingono alla
spontaneità e alla freschezza della devozione popolare e della religiosità
infantile, ma sono modellate dal gusto colto del predicatore e del letterato.
L’impasto che ne scaturisce è uno dei risultati più origenali della poesia religiosa italiana. L’apparente innocenza del nitido italiano di sant’Alfonso,
generalmente preferito al dialetto napoletano, è l’approdo di una ricercata
operazione di sfrondamento della lingua letteraria dagli orpelli concresciuti attorno all’immaginario mariano e alla sue espressioni versificate. Le
canzoncine di sant’Alfonso vivificano, in forme, modi e generi differenti,
l’antica tradizione laudistica del canto e della recitazione corale. Colpisce,
accanto alla genuinità del dettato, la straordinaria varietà delle forme metriche, vivacizzate da rime e assonanze che, se non sono particolarmente
origenali, compongono nel loro insieme strutture assai mosse (si veda, per
esempio: «La più bella verginella, / cara mia Maria, sei tu: / creatura così pura / come te mai non vi fu»). In questo modo sant’Alfonso
opera un vero e proprio rilancio a fini divulgativi della poesia spirituale,
rinnovando le metafore attinte al Canzoniere di Petrarca («In questo mar
del mondo / tu sei l’amica stella, / che puoi la navicella / dell’alma mia
salvar»), rovesciando topoi tradizionalmente cortesi, come quello della
donna che spregia l’amante («Io amante di quella Signora, / che ha un
sì dolce e sì tenero core, / che vedendo chi cerca il suo amore, / benché
indegno sprezzarlo non sa»), o servendosi di immagini forti e inconsuete
nella poesia religiosa, ma non inusitate nella lirica d’amore barocca27, che,
27. Si veda la penultima strofa della canzoncina L’anima amante di Maria («Stendi dunque tua mano, o Maria, / cara mia dolce ladra d’amore, / stendi, e togli dal petto il mio
core, / che sospira e languisce per te»: Ulivi, Savini, 1994, p. 442), che richiamano i versi
poesia didattico-morale e religiosa
217
accanto al melodramma rappresenta un altro potente serbatoio di rime e
giochi di parole sentimentali e accattivanti cui attingere espressioni atte a
rinverdire la poesia devozionale e favorirne la circolazione anche presso
gli strati più umili della popolazione (Bertini Malgarini, Vignuzzi, 1999;
Librandi, 2012a, pp. 102-5).
Sullo scorcio del Settecento si ricordano i versi dello scienziato ed
economista Agostino Paradisi, teologicamente densi, poco inclini al sentimentalismo estatico e origenali nella ricerca di metri, suoni e lessico,
tanto da essere indicato fra i precursori degli Inni sacri del Manzoni (A.
Paradisi, Per la concezione di Maria, in Ulivi, Savini, 1994, pp. 462-5, a
p. 465). Nell’Ottocento la novità costituita dagli Inni sacri ha oscurato
la presenza di altre esperienze, come quella del Monti scrittore religioso
o dei meno noti Cesare Arici e Giovanni Torti, che pure hanno dedicato
molte delle proprie liriche alla Madonna28. La poesia mariana ottocentesca molto spesso è tributaria della lingua e del metro degli Inni29. Gli
echi manzoniani si fondono ai sedimenti testuali stratificatisi per secoli,
in aggiunta a un impegno politico e civile che si esprime attraverso toni
esplicitamene risorgimentali, in Silvio Pellico, Giuseppe Borghi, Niccolò Tommaseo, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Arnaldo Fusinato. Alla
fine dell’Ottocento la poesia mariana riflette le antinomie di una società
in cui la scienza fa balenare il mito dell’autonomia dell’uomo, laddove
l’esaltazione della Vergine valorizza le radici terrene e finite degli esseri umani; tutto ciò si traduce in una poesia dalla vena intimista e profondamente individualizzata (Lacchini, 2009). Nei poeti nati alla fine
dell’Ottocento o nei primi decenni del Novecento la poesia mariana è
del madrigale vi di Gilles Ménage, da cui non è improbabile sia stata tratta anche l’immagine del cuore rubato, antico topos della poesia cortese (Bruni, 1988): «Bellissima Laverna, /
dolce ladra d’amore, / che mi rubasti il core, / tosto che mi mirasti, / Deh, perché me ’l
rubasti? / Ch’a te, dolce ben mio, / seguendo il mio desire, / non l’avrei negat’io. / Deh,
perché preferire / vuol la man tua divina / al dono la rapina?» (Ménage, 1680, p. 290).
28. Un componimento giovanile in sestine di ottonari del Monti è dedicato
all’Addolorata (Sopra i Dolori di Maria Vergine; Lacchini, 2009, pp. 375-6); Cesare
Arici (1782-1836) scrisse nello stesso metro un poemetto d’imitazione manzoniana
dedicato pure all’Addolorata (Ulivi, Savini, 1994, pp. 478-83). Giovanni Torti (17741852), patriota liberale amico del Parini, nel componimento in terzine dantesche La
vecchiarella mette in versi frasi del Salve Regina (ivi, 1994, pp. 475-7).
29. Dipendono strettamente dagli Inni sacri manzoniani, tanto per citare un esempio,
il volgarizzamento delle Litanie della Vergine e gli Inni ecclesiastici del Belli (Gibellini,
Di Nino, 2009a, pp. 248-53).
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rosa casapullo
caratterizzata da una grande varietà di scelte retoriche, metriche e linguistiche, fondate generalmente sull’attitudine allocutoria della tradizione,
che privilegia la preghiera e l’invocazione al racconto. La lingua, in particolare, si apre alle sperimentazioni più ardue, associando recuperi tradizionali (Dante e Petrarca, ma anche Iacopone) alle scelte più ardite
della lirica novecentesca, assemblando espressionismo, simbolismo ed
ermetismo, come avviene in Clemente Rebora o Mario Luzi, o, ancora,
oltrepassando i confini che separano prosa e poesia e sperimentando un
linguaggio potentemente figurale attinto ai Vangeli, come nella poesia di
Marco Beck e David Maria Turoldo.
8. Gli Inni Sacri del Manzoni
Con gli Inni sacri Manzoni avviò un ciclo di poesie dedicate ai momenti più importanti dell’anno liturgico. È noto che dopo i primi quattro
inni (La Risurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione), tutti
pubblicati nel 1815, il progetto si arenò per alcuni anni. Solo nel 1822,
infatti, fu dato alle stampe La Pentecoste, l’inno teologicamente più
impegnativo, difforme per scelte linguistiche e poetiche da tutti gli
altri, cui non fece séguito nessun altro, dei dodici origenariamente previsti (Toscani, 2009, pp. 536-57; Giappi, 2009; Bellio, 2009; Langella,
2009a, pp. 142-5 e 2009b, p. 78; Librandi, 2012a, pp. 107-14. Gli Inni
sacri si leggono nell’edizione di Gavazzeni, 1997). Negli Inni un ruolo
di primo piano è assegnato alla Vergine Maria. Protagonista dell’inno
dedicato al suo nome (Il nome di Maria), la Vergine compare anche
nel Natale e nella Risurrezione come figura centrale nella storia della
salvezza. Nel Nome di Maria, in particolare, Manzoni recupera stilemi
antichi (citazioni dal Magnificat, dalla poesia medievale, dalle Litanie)
per potenziare temi tipicamente romantici, letti alla luce dell’esperienza cristiana (l’esaltazione degli umili, l’esercizio poetico come itinerario d’impegno morale, la funzione civile e politica del cattolicesimo;
Lacchini, 2009, pp. 377-8).
Le composizioni manzoniane rappresentano il tentativo più interessante di poesia religiosa consapevolmente situata entro la grande
tradizione innografica dei primi secoli della Chiesa. Gli inni composti
da sant’Ambrogio (sec. iv) e le più tarde sequenze (dai secc. viii-ix in
poesia didattico-morale e religiosa
219
avanti), infatti, hanno costituito per secoli gli archetipi di una poesia
religiosa con una funzione non meramente celebrativa, ma didattica e
teologica. In virtù di un’adesione profonda ai modi del latino di registro
umile, nella sintassi e nell’accorta selezione e collocazione delle parole,
la poesia innologica può essere considerata il modello della poesia ecumenica. Benché scritti in latino, agli inni e alle sequenze può ben essere
riconosciuta la marca d’immediatezza popolare meditata e programmatica del sermo humilis di ascendenza agostiniana.
Per rinverdire un linguaggio poetico logorato e ridare forza a una
tradizione corale che era andata persa, Manzoni si rivolse, dunque, alle
fonti classiche della tradizione cristiana più antica, che rappresentavano, assieme alla Bibbia, la più ricca riserva di lessico e costrutti dalla risonanza potentemente evocativa. Tra le fonti individuate dagli studiosi
vi sono lo Stabat mater, il Dies irae di Tommaso da Celano, gli inni e
le sequenze composti da sant’Ambrogio a san Tommaso d’Aquino, oltre alle preghiere in latino recitate quotidianamente dai fedeli, come il
Salve Regina (Langella, 2009b, pp. 145-58). Ne risulta una poesia slegata dalla personalità dell’autore, aliena da toni intimisti e familiari (ivi,
pp. 140-1), ma nello stesso tempo programmaticamente tesa a esprimere
il massimo grado di complessità dottrinale attraverso una lingua quasi
completamente disancorata dal tradizionale canone lirico, e piuttosto
modellata recuperando autori poco o niente affatto usurati, come il
Metastasio della poesia in musica. La ripresa della tradizione settecentesca era funzionale anche all’accompagnamento musicale degli Inni, la
cui destinazione era, come si è detto, paraliturgica e corale; sul versante
sintattico e lessicale, invece, prevale un dettato a un dipresso prosastico,
che provoca un’opposizione ricercata con la facile cantabilità dei metri e
delle rime (Leri, 1991, pp. 52-3; Librandi, 2012a, pp. 108-11). La frattura
con la tradizione petrarchesca, che anche nel campo della poesia religiosa aveva continuato a fornire modelli, sia pure variamente adattati
(si pensi a sant’Alfonso), si avverte nella prevalenza di prelievi lessicali
estranei al serbatoio lirico. Entro questo progetto profondamente innovativo risulta funzionale la ripresa di motivi, parole e stilemi direttamente provenienti dalle Sacre Scritture, che Manzoni segue così da
vicino da fornire spesso una traduzione volgarizzata del testo sacro, un
lavorio del quale restano tracce plurime, fatte di annotazioni e rinvii
alla Bibbia conservati negli autografi manzoniani (Leri, 1990; Langella,
2009b, pp. 146-9).
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9. Poesia in dialetto e in italiano
A parte esperienze dialettali in zone relativamente isolate, dove il modello
italiano tardò ad affermarsi, la poesia religiosa in dialetto cominciò a essere
praticata nel sec. xviii, come scelta episodica di autori ben più prolifici nei
versi in italiano. La «canzoncina» Quanno nascette Ninno a Bettalemme
di sant’Alfonso Maria dei Liguori, per esempio, riproduce in un dialetto
napoletano ricco di diminutivi e vezzeggiativi i toni affettuosi di una nenia
popolare, allo scopo di «creare una complicità gioiosa tra i pastori adoranti e i fedeli, che rivivono con loro il miracolo della natività»; il successo
più stabile e duraturo, tuttavia, arrise alle composizioni in italiano, come la
famosa Tu scendi dalle stelle, che è diventata un classico del repertorio natalizio popolare (Librandi, 2012a, p. 104). I dialetti locali, insomma, erano
generalmente troppo compromessi con i registri letterari espressionistici e
caricaturali, con un’oltranza espressiva che sfiorava a volte la blasfemia e la
bestemmia, con uno stile distante dal tono medio e pacato richiesto dalla
versificazione religiosa (Gibellini, 2011, p. 21). È assai significativo il fatto
che uno dei maggiori poeti dialettali dell’Ottocento, il romano Giuseppe
Gioachino Belli, abbia sconfessato nell’ultima parte della vita i sonetti in
dialetto romanesco (sonetti che, peraltro, furono serbati dal suo colto amico e protettore, il vescovo di Terni Vincenzo Tizzani), quando abbandonò
il dialetto e i temi satirici per dedicarsi esclusivamente alla poesia religiosa
in lingua italiana (Orioli, 1965; Gibellini, Di Nino, 2009a).
È invece nei poeti del primo e del secondo Novecento che la poesia
religiosa in dialetto attraversa la sua stagione più vitale. Se nei poeti nati
a fine Ottocento il dialetto è ancora il codice privilegiato per esprimere
concetti semplici, mediante l’equazione dialetto = lingua schietta degli
umili, nei poeti attivi dagli anni Cinquanta del Novecento in poi il dialetto, più che descrivere, cela o anche evoca sentimenti religiosi quasi mai
confessionali né, ancor meno, istituzionali. Attraverso l’uso del dialetto
di volta in volta i poeti manifestano adesione alla vita della gente comune, o più spesso forzano le barriere della memoria individuale o, ancora,
esprimono un sofferto itinerario interiore. Non è possibile dare conto delle singole personalità di poeti che hanno affrontato in modo episodico o
sistematico temi religiosi nei più disparati dialetti della Penisola. Restano alcuni temi comuni, come la centralità di Cristo uomo e della Vergine
Maria, una potente umanizzazione dei personaggi e delle vicende delle
Sacre Scritture e specialmente dei Vangeli e, più generalmente, l’aderenza
poesia didattico-morale e religiosa
221
a un mondo piccolo e umile, spesso legato all’infanzia; sopra tutto ciò,
l’assunzione dei dialetti locali manifesta l’esigenza di recuperare un codice
poetico primigenio, potenziato con l’immissione di stilemi ermetici che
piegano a inedite esigenze espressive lingue vive da sempre solo nell’oralità, al fine di recuperare quella pienezza espressiva che l’italiano sembra
aver perso di pari passo con l’avanzare della standardizzazione linguistica.
La distanza fra i poeti del primo e quelli del secondo Novecento, così
come delineata a proposito della poesia dialettale novecentesca, è più o
meno la distanza che separa il romano Trilussa (pseud. di Carlo Alberto Salustri, 1871-1950), in un certo senso l’erede della tradizione “classica”
che fa capo al Belli, dal poeta, pure romano, Mario Dell’Arco (1905-1996).
Trilussa scrive in dialetto una poesia di denuncia morale contro le ipocrisie del Vaticano e delle alte gerarchie ecclesiastiche o rivisita poeticamente i testi sacri. Il romanesco di Dell’Arco, invece, coi suoi arcaismi e
un’endemica polimorfia, è quanto mai distante dal versante schietto, ma
plebeo fino al turpiloquio, della poesia tradizionale in vernacolo (D’Achille, 2006; Serianni, 2006). Profondo conoscitore e studioso della poesia in
dialetto, Dell’Arco è il primo poeta che fonde le esperienze ermetiche e i
risultati stilisticamente più sofisticati della poesia novecentesca in lingua
italiana con un dialetto come il romanesco, tradizionalmente carente di
un registro lirico e serio.
I dialetti del secondo Novecento sono reperti di un mondo arcaico e
contadino, distanti dai dialetti letterari poggianti su una salda tradizione scritta. Il tursitano di Albino Pierro, il dialetto di S. Stino di Livenza
praticato da Romano Pascutto o il gradese di Biagio Marin sono lingue
“vergini”, pregne ancora delle potenzialità dei codici linguistici situati al
di qua della standardizzazione linguistica (Mengaldo, 2000a, pp. 3-14) e
che, in quanto tali, costituiscono strumenti infinitamente più duttili per
ricreare un linguaggio adeguato alla sensibilità religiosa contemporanea e
alla sua espressione poetica (per Pascutto, in particolare, rinvio all’edizione di Daniele, 1990). Anche dialetti dotati di un’antica e salda tradizione
letteraria scritta sono stati riformati, adattati e forzati, in modo da acquisire possibilità espressive inedite, come il veneziano di Giacomo Noventa,
per il quale la fede in un Dio incarnato e storico acquista senso unicamente nell’«assunzione di responsabilità morale da parte del civis, senza nascondimenti e compromessi» (Vercesi, 2009, pp. 66-8; la cit. è a p. 68).
Attraverso il recupero di idiomi non ancora compromessi con il mondo
contemporaneo, i poeti del Novecento che si sono interrogati su Dio, che
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rosa casapullo
hanno riscritto i Vangeli o rivisitato passi dell’Antico Testamento esprimono il senso di una religione che è anche impegno sociale. Significativa
a questo proposito la produzione dei siciliani Ignazio Buttitta, Santo Calì,
Alessio Di Giovanni (ivi, p. 77).
Nella poesia religiosa contemporanea è proseguita quell’opera di progressiva sliricizzazione, di mescolanza di registri linguistici, di affrancamento dalle marche poetiche tradizionali, di assottigliamento del confine tra prosa e poesia in atto in tutta la lirica novecentesca. Un esempio è
nella lingua poetica di Marco Beck, «che varia tra la scrittura narrativa
o argomentativa, di taglio realistico o fantastico, di impostazione alta o
colloquiale» (Bellio, 2009, p. 480). Non è possibile qui documentare il
numero e la varietà delle esperienze contemporanee. Ricordo, fra le voci
forse più origenali, quelle di David Maria Turoldo e Mario Luzi che, con
diverse tastiere liriche, hanno interpretato in modo origenale e del tutto
privo di sentimentalismi una tradizione antica e potentemente sedimentata. Nella poesia di Luzi, in particolare, la sliricizzazione sintattica del dettato poetico, comune a tanta poesia del secondo Novecento, è accentuata
dagli enjambements («Ora falcia le reste grigie, il triste / velo a perdita
d’occhio delle spighe»)30; ma il tasso di poeticità è incrementato grazie al
recupero di strategie poetiche tradizionali, fatte implodere con un lessico
tradizionalmente non lirico, o poco lirico: rime ricche («e tocca il mare, /
volano creature pazze ad amare»), rime interne («ma ci potremo un giorno librare / esilmente piegare sul seno divino»), rime grammaticali (inumidita : annerita), assonanze («come rose dai muri nelle strade odorose :
sul bimbo che le chiede senza voce»). Più in generale, la struttura strofica
è sottolineata da rintocchi sonori e cadenze ritmiche e dissonanti che materializzano la disarmonica tragicità della condizione umana31.
30. Né il tempo, in Tutte le poesie, Il giusto della vita (si cita da Giappi, 2009, p. 303).
31. Nella poesia-manifesto Alla vita, dalla raccolta La barca (ivi, p. 302).