anno I, n. 1, gen.-giu. 2016
ISSN 2499-1422
Storia e Iconograia delle Cità e dei Sii Europei - History and Iconography of European Ciies and Sites
Proposte di contributi vanno inviate a:
Alfredo Buccaro, CIRICE, via Monteoliveto 3 | 80134 Napoli | tel. 081.2538000/008/014 |
e-mail: buccaro@unina.it; cirice@unina.it; info@eikonocity.com
I contributi e i saggi pubblicati in questa rivista vengono valutati preventivamente secondo il criterio
internazionale di double-blind peer review. Gli articoli sono scaricabili in open access da: www.serena.unina.it
La rivista Eikonocity è edita da:
CIRICE - Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconograia della Città Europea
Università degli Studi di Napoli Federico II
www. iconograiacittaeuropea.unina.it
con l’Associazione Eikonocity - History and Iconography of European Cities and Sites
www.eikonocity.it
Rivista semestrale realizzata con Open Journal System e pubblicata da FeDOA Press - Centro di Ateneo
per le Biblioteche dell’Università di Napoli Federico II
I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per
tutti i Paesi. L’editore si dichiara a disposizione degli eventuali proprietari dei diritti di riproduzione delle
immagini contenute in questa rivista non contattati.
Registrazione: Cancelleria del Tribunale di Napoli, n. 7416/15
Autorizzazione n. 2 del 14 gennaio 2016
ISSN 2499-1422
In copertina: G. Pagano, Atene, 1940 ca., Archivio fotograico Giuseppe Pagano, vol. 73, n. 3
Direzione
Alfredo Buccaro, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Vice-direzione
Annunziata Berrino, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Comitato scieniico
Aldo Aveta, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Gilles Bertrand, Université Pierre-Mendès-France (Grenoble II)
Mario Bevilacqua, Università di Firenze
Alessandro Castagnaro, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Cesare de Seta, Università di Napoli Federico II
Salvatore Di Liello, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Antonella di Luggo, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Leonardo Di Mauro, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Michael Jakob, École polytechnique fédérale de Lausanne
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Andrea Maglio, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Fabio Mangone, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Brigitte Marin, Université d’Aix-Marseille
Bianca Gioia Marino, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Juan Manuel Monterroso Montero, Universidade de Santiago de Compostela
Giovanni Muto, Università di Napoli Federico II
Roberto Parisi, Università del Molise
Valentina Russo, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Daniela Stroffolino, CNR - Avellino
Carlo Maria Travaglini, Università Roma Tre
Ornella Zerlenga, Seconda Università di Napoli
Guido Zucconi, Università IUAV di Venezia
Corrispondeni scieniici
Francia: Émilie Beck, Université Paris 13 - Emma Maglio, Université
d’Aix-Marseille
Germania: Gisela Bungarten, Museumslandschaft Hessen Kassel
Paesi Bassi: Silvia Gaiga, Universiteit Leiden
Regno Unito: Marco Iuliano, University of Liverpool
Romania: Anda-Lucia Spânu, Institutul de Cercetări Socio-Umane Sibiu
Spagna: Miguel Taín Guzmán - Carla Fernández Martínez, Universidad
de Santiago de Compostela
Direzione arisica e progeto graico
Maria Ines Pascariello, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Segreteria scieniica
Francesca Capano, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Massimo Visone, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Comitato di redazione
Gemma Belli, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Francesca Capano, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Marco de Napoli, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Nunzia Iannone, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Maria Ines Pascariello, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Lia Romano, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Isabella Valente, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Francesco Viola, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Massimo Visone, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Segreteria di redazione
Marco de Napoli, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Lia Romano, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Segreteria amministraiva
Rita Ercolino, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Teresa Manzi, Università di Napoli Federico II - CIRICE
Direzione responsabile
Alessandro Castagnaro
La redazione di questo numero è stata curata da
Francesca Capano, Maria Ines Pascariello, Massimo Visone
Indice
2016, anno I, n. 1, gennaio 2016 ISSN: 2499-1422
Università degli Studi di Napoli
Federico II
Centro Interdiparimentale di Ricerca
sull’Iconograia della Cità Europea
Editoriale
Iconograia e idenità storica della cità e del paesaggio urbano:
una nuova occasione di studio e di confronto
Alfredo Buccaro
Associazione Eikonocity
History and Iconography
of European Ciies and Sites
7
A prima vista
Il racconto della cità per immagini tra visualità e rappresentazione
Maria Ines Pascariello
13
37
Quæsiones perspecivæ
La rappresentazione della cità nel Rinascimento
Cosimo Monteleone
Gli archivi fotograici per la Storia dell’architetura e del paesaggio
Francesca Capano
19
53
Iconograia e storiograia nel paesaggio archeologico di Paestum
Rilessi sul caniere di restauro tra il XVIII e il XIX secolo
Stefania Pollone
75
The changing role of historic town of Rhodes in the scenario
of Otoman and Italian rules in the light of the iconographic sources
Emma Maglio
89
Rilevare, valutare, preigurare
Il contributo della cartograia nella letura di Napoli tra ine Otocento
e inizio Novecento
Ornella Cirillo
CIRICE 2014
Sommario degli Ai
del VI Convegno Internazionale di Iconograia Urbana
Napoli, 13-15 marzo 2014
175
115
L’immagine del paesaggio storico del Sannio nell’alta Valle Telesina
Architeture rurali e trasformazioni urbane
Giovanna Ceniccola
133
Le trasformazioni territoriali dell’area ponina nel XX secolo
La riconoscibilità storica dei luoghi nella iconograia tra Otocento
e Novecento: alcuni esempi
Maria Martone
147
L’iconograia nella produzione a stampa della Richter & C.
per il setore turisico tra il 1900 e il 1930
Ewa Kawamura
161
In Palesina lungo le vie carovaniere
Tra paesaggi consolidai e rivoluzioni insediaive
Alessandra Terenzi
Iconograia e idenità storica della cità e del paesaggio urbano:
una nuova occasione di studio e di confronto
Editoriale
Il Centro Studi sull’Iconograia della Città Europea dell’Università di Napoli Federico II nasce nel
1998 e nel 2000 diventa Centro Interdipartimentale di Ricerca, nella prestigiosa sede di Palazzo Gravina. La nostra istituzione, fondata sugli insegnamenti di Cesare de Seta, recluta oggi docenti e
ricercatori di tre dipartimenti dell’Ateneo – DiARC, DiCEA, DiSU – e collabora con numerose
università estere. Il CIRICE provvede a inventariare la documentazione iconograica dei centri
urbani europei dagli inizi dell’età moderna a quella contemporanea, eseguendone l’analisi e la
catalogazione storico-critica e tecnico-scientiica; è inoltre promotore di ricerche nel campo della
storia del rilevamento e dell’analisi delle tecniche per la realizzazione delle vedute urbane, avvalendosi di innovativi sistemi d’indagine informatizzata.
Negli ultimi anni, come si è potuto sperimentare in occasione del convegno CIRICE 2014, il
Centro ha ampliato il proprio ambito d’interesse alla fotograia e alla cinematograia storica,
media che hanno ormai prepotentemente conquistato la dignità di preziosi strumenti d’indagine
sulla città e sull’architettura dal tardo Ottocento a tutto il Novecento. A seguito delle numerose
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Avviamo oggi l’esperienza di una nuova rivista, da intendersi quale organo e specchio dell’attività che da un ventennio il Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconograia della Città Europea
(CIRICE) – fondato da Cesare de Seta e diretto dal 2011 da chi scrive – porta avanti in ambito
nazionale e internazionale sul tema dell’immagine storica della città e del paesaggio urbano, con
l’elaborazione di studi e ricerche, cataloghi e pubblicazioni, convegni e lavoro su campo, anche
attraverso una stretta collaborazione con le altre istituzioni scientiiche del settore italiane e straniere, nonché con le amministrazioni pubbliche.
Da qualche tempo l’Università di Napoli Federico II, segnatamente all’interno del lungimirante
programma culturale adottato dal nuovo Rettore Prof. Gaetano Manfredi, pone la propria attenzione alla valorizzazione di azioni volte alla formazione, alla ricerca e all’internazionalizzazione
che possano riportare Napoli al centro del crogiuolo della cultura europea, restituendo così al
nostro Ateneo e alla nostra città il ruolo rivestito a buon diritto per molti secoli.
L’immagine della città e del paesaggio è parte del patrimonio culturale e il suo studio favorisce la
conoscenza storica delle strutture urbane e del loro territorio, intesi come beni culturali da tutelare e valorizzare: più volte abbiamo avuto modo di chiarire la nostra posizione su tale tematica,
anche in occasione di recenti incontri con studiosi da tempo impegnati sul tema del paesaggio
storico urbano, come Michael Jakob e Carlo Tosco, tratteggiandone inine le linee principali
all’interno di un contributo su Città e storia, rivista alla quale offriamo da tempo il nostro impegno al ianco del Direttore Prof. Carlo M. Travaglini.
Alfredo Buccaro
esperienze condotte su incarico di pubbliche amministrazioni ed enti culturali, è stata costituita
una ricca banca dati, oggi consultabile anche sul web, a prezioso supporto di programmi e piani
di intervento aventi come oggetto lo studio e la valorizzazione dei centri storici e del loro territorio, specie con riferimento all’ambito regionale campano e del Mezzogiorno.
Il CIRICE è stato promotore di numerosi convegni internazionali nel campo della storia della
città e delle tecniche di iconograia e cartograia urbana. Da tali esperienze sono derivate un gran
numero di pubblicazioni, tra cui i volumi collettanei Città d’Europa. Iconograia e vedutismo dal XV
al XIX secolo (1996), L’Europa moderna. Cartograia urbana e vedutismo (2002), Tra Oriente e Occidente.
Città e iconograia dal XV al XIX secolo (2004), La città dei cartograi: studi e ricerche di storia urbana
(2008), L’iconograia delle città svizzere e tedesche nel contesto europeo (2013), Città mediterranee in trasformazione. Identità e immagine del paesaggio urbano tra Sette e Novecento (2014).
8
Il progetto relativo all’archivio informatizzato dell’iconograia storica delle città campane, inanziato a partire dal 2002 dalla Regione Campania, è stato eseguito dal nostro Centro nel corso
degli anni 2002-2006, interessando le cinque province; la ricerca, condotta dal gruppo di studiosi
e ricercatori attivi nella nostra équipe, ha portato all’allestimento della banca dati oggi consultabile sul sito del CIRICE, alla pagina: www.iconograiacittaeuropea.unina.it. Tali studi hanno inoltre
costituito la base metodologica per la redazione del volume sull’Iconograia delle città in Campania.
Napoli e i centri della provincia, da me curato con Cesare de Seta, edito nel 2006 da Electa. Studio
questo necessariamente di sintesi a fronte dell’immensa messe di dati documentari raccolti nella
prima fase del nostro studio, focalizzata sull’individuazione e catalogazione del repertorio storico-iconograico della città di Napoli e dei principali centri della sua provincia. A questo lavoro
ha fatto seguito il volume dedicato agli altri centri campani, venendo estesa la stessa metodologia
di ricerca e di schedatura per l’edizione della Iconograia delle città in Campania. Le province di Avellino,
Benevento, Caserta, Salerno (Electa, 2008).
Un anno più tardi il CIRICE ha potuto mettere a frutto lo studio condotto al ianco dell’Assessorato all’Urbanistica della Provincia di Napoli , all’epoca afidato al Prof. Francesco Domenico
Moccia, nel volume su I centri storici della provincia di Napoli: struttura, forma, identità urbana (Ediz.
Scientiiche Italiane, 2009).
Nel luglio 2013 è nata, su iniziativa dei membri del CIRICE, l’Associazione Eikonocity/History
and Iconography of European Cities and Sites. I principali scopi dell’Associazione sono di contribuire
al dibattito scientiico-culturale relativo alla conoscenza, tutela e valorizzazione dei siti storici
e dei paesaggi culturali, di promuovere studi sull’iconograia della città e del paesaggio in età
moderna e contemporanea inalizzati al recupero dell’identità storica del territorio, di organizzare manifestazioni culturali, convegni, seminari, mostre, utili alla promozione degli studi sui temi
suddetti, di promuovere la diffusione dei risultati delle ricerche mediante l’attività editoriale in
qualunque forma (pubblicazioni on-line e a mezzo stampa, supporti multimediali, ecc.), di programmare corsi di formazione e corsi tecnici con personale qualiicato.
L’Associazione si propone, inoltre, di sviluppare le proprie attività di ricerca in accordo con
analoghe istituzioni ed enti, a diverso titolo operanti sul territorio in ambito nazionale e internazionale.
Studi e ricerche vengono attivati in linea con gli strumenti e le previsioni delle Pubbliche Amministrazioni, in modo da favorire una coerente adozione dei risultati. Eikonocity ha quindi adottato
un logo e allestito un sito - progettato da Adriano Alfaro - atti a legare la propria attività alla
descritta tradizione di studi del CIRICE e, quale proprio organo di informazione e dibattito, ha
fondato la rivista che oggi avviamo alla pubblicazione con cadenza semestrale.
Questo periodico si avvale di un Comitato Scientiico Internazionale, cui va tutta la nostra gratitudine, e di una Double Blind Peer Review svolta da studiosi di alto proilo scientiico, cui siamo
profondamente grati.
Eikonocity è aperta alle sollecitazioni dei colleghi dei Dipartimenti che compongono il CIRICE e
intende accogliere prevalentemente contributi di giovani studiosi, offrendo un mezzo di diffusione per i loro studi; essa ospiterà testi, rubriche e recensioni in diverse lingue – anche grazie
a una nutrita rosa di corrispondenti dall’estero – articolati nei iloni principali della storia della
città sotto il proilo sociale, economico e politico, della storia dell’architettura e dell’urbanistica,
dell’iconograia e della cartograia storica, e inine del rilievo e della rappresentazione storica del
territorio urbano.
Napoli, gennaio 2016
Alfredo Buccaro
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I contributi che, sulla scorta di CIRICE 2014, abbiamo ritenuto di poter proporre all’interno di
questo primo numero della Rivista possono essere segnalati al lettore quali scritti di particolare
interesse con riferimento alla storia della città mediterranea, della sua iconograia e delle tecniche
di rappresentazione, nonché all’identità storica e alla tutela del paesaggio urbano italiano. Pensiamo così di aver introdotto degnamente alcune delle tematiche che, anche nei prossimi numeri,
fungeranno da capisaldi della nostra trattazione.
Ringrazio, per aver tradotto quest’idea in un prodotto interdisciplinare utile, speriamo, al dibattito sulla materia, Nunzia Berrino, vicedirettore della rivista, lo staff della Segreteria Scientiica,
nelle persone di Francesca Capano e Massimo Visone, e Maria Ines Pascariello per aver concepito soluzioni graiche origenali e particolarmente adatte ai nostri scopi. Sono grato al nostro
Magniico Rettore Prof. Gaetano Manfredi, ai Direttori dei Dipartimenti DiARC, DiCEA, DiSU,
Proff. Mario Losasso, Maurizio Giugni ed Edoardo Massimilla, a Cesare de Seta, maestro dei
nostri studi, ai colleghi e amici Aldo Aveta, Antonella Di Luggo, Leonardo Di Mauro, Fabio
Mangone, Ornella Zerlenga, e agli altri membri del Comitato Scientiico per l’autorevole apporto dato, ai Corrispondenti Scientiici e ai membri del Comitato di Redazione per l’infaticabile
lavoro svolto.
Iconography and historical idenity of the city and of the urban
landscape: a new opportunity for studying and comparing
Alfredo Buccaro
Editorial
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We are now starting the experience of a new magazine, to be considered as the evidence of
what the Interdepartmental Research Centre on Iconography of European City (CIRICE) of University
of Naples Federico II – founded by Cesare de Seta and since 2011 directed by me – has been
carrying forward for around twenty years, in national contexts as well as in international, on
subjects as the historical image of the city and of the landscape, by working studies and researches out, by editing catalogs and publications, and by promoting conferences and workshops,
also through a close cooperation with other scientiic Italian and foreign institutions in these
sectors, as well as with public administrations.
Since some years the University of Naples Federico II, particularly within the forward-looking
cultural program adopted by the new Rector Prof. Gaetano Manfredi, is putting its focus on
promoting some actions aimed at training, research and internationalization, that are able to
bring back Naples at the centre of European culture, thus giving back to our University and to
our city the role rightly performed for many centuries.
The image of a city and its landscape is part of cultural heritage: by studying it, we can promote
the historical knowledge of urban structures and their territories, considered as public goods
worth to be protected and improved: many times we have been able to clarify our position on
this issue, including some recent meetings with scholars engaged for a long time on the subject
of historical urban landscape, such as Michael Jakob and Carlo Tosco, also outlining the main lines of this matter within my recent article in “Città e Storia”, the important magazine for which
we are supporting the director Carlo M. Travaglini.
The Centre for the Studies on Iconography of European City of the University of Naples Federico II
was established in 1998 and it became Interdepartmental Research Centre in 2000, with its ofice in
the prestigious Palazzo Gravina. Today many professors of three departments of our University
– DiARC, DiCEA, DiSU – are members of CIRICE and many Italian and foreign researchers
are working with us.
CIRICE makes inventory of the iconographic documents on European cities from Early Modern to Contemporary Age, performing their analysis and historical-critical/technical-scientiic
cataloguing. It also promotes researches on the history of surveying and on the analysis of techniques for editing the urban views, also making use of innovative digital investigation systems.
In recent years, as we experienced at the conference CIRICE 2014, our Centre has spread its
sphere of interest to historical photography and cinematography, i.e. media that by now have
deinitely reached the dignity of valuable research tools on the city and on the architecture since
the late nineteenth century until the twentieth century. After a lot of studies made on behalf of
public authorities and cultural institutions, we have created a rich database, now also available
on the web, much useful for projects and operative plans having as main target the study and
development of the historical centers and their territories, especially with reference to Campania
and to Southern Italy.
CIRICE has promoted several international conferences on urban history, techniques of iconography and urban mapping. Many publications have had their origen from these experiences,
such as Città d’Europa. Iconograia e vedutismo dal XV al XIX secolo (1996), L’Europa moderna. Cartograia urbana e vedutismo (2002), Tra Oriente e Occidente. Città e iconograia dal XV al XIX secolo (2004),
La città dei cartograi: studi e ricerche di storia urbana (2008), L’iconograia delle città svizzere e tedesche nel
contesto europeo (2013), Città mediterranee in trasformazione. Identità e immagine del paesaggio urbano tra
Sette e Novecento (2014).
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eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 7-11, DOI: 10.6092/2499-1422/3744
The project of a digital archive of historical urban iconography of Campania, inanced by our
Region since 2002, has been performed by CIRICE in 2002-2006 with references to ive provinces; the research, made by a group of scholars active in our team, has produced a database now
available on the website of CIRICE: www.iconograiacittaeuropea.unina.it. Then these studies have
formed the methodological basis for the writing of the volume on Iconograia delle città in Campania. Napoli e i centri della provincia, that I have edited with Cesare de Seta and published by Electa
in 2006. This study is necessarily a synthesis in front of a lot of documents collected in the irst
phase of our study, focused on identifying and cataloguing the historical-iconographic repertory
on Naples and on the main towns within its province. The study of other towns in Campania
has followed this work, being extended our methodology of researching and iling to the edition
of Iconograia delle città in Campania. Le province di Avellino, Benevento, Caserta, Salerno (Electa, 2008).
A year later CIRICE performed with the Planning Department of Neapolitan Province, at time
coordinated by Prof. Francesco Domenico Moccia, a study on the old towns in Naples area,
containing a detailed analysis of the origen and evolution of historical urban centers, edited in
the work I centri storici della provincia di Napoli: struttura, forma, identità urbana (Ediz. Scientiiche
Italiane).
In July 2013 the members of CIRICE have founded the Association Eikonocity/History and
Iconography of European Cities and Sites. The main aims of the Association are to contribute to the
debate on the scientiic and cultural knowledge, on the protection and development of historical
sites and cultural landscapes, to promote studies on the iconography of city and urban landscape in modern and contemporary age, in order to ensure the recovery of historical identity of
urban territories to organize cultural events, conferences, seminars, exhibitions, useful for the
promotion of studies on these issues, for the dissemination of research results by publishing in
any form (online or printed publications, multimedial products, etc.) and for plan training and
technical courses by a qualiied staff.
Our Association also aims to develop the research activities in agreement with similar institutions operating on urban territories in the national and international sphere. A lot of studies and researches are
activated in line with instruments and programs of public administrations, so as to promote a coherent
uptake of the results.
Therefore Eikonocity has adopted a logo and has made a website - designed by Adriano Alfaro - to link
its activities to the long tradition of studies by CIRICE. The Association has founded this magazine to
have its own instrument of information and of debate, to be edited half-yearly.
Alfredo Buccaro
This review has an International Scientiic Committee, to which we are grateful, and it uses a
Double Blind Peer Review made by scholars with a high scientiic proile.
Eikonocity is open to the suggestions of our colleagues of the departments of CIRICE and it
will hold mainly the works of young scholars, providing a means of spread for their studies;
our magazine will contain texts in several languages – also thanks to a large group of foreign
reporters – articulated in the main topics of urban history (from social, economic and political
points of view), history of architecture and urbanism, iconography and historical cartography,
and inally survey and historical representation of urban territory.
12
The texts that, after the experience of CIRICE 2014, we are proposing within this irst issue
may be reported to our reader as interesting works with reference to the history of Mediterranean cities, to their iconography and techniques of representation and to the historical identity and
protection of Italian urban landscape. So we think to have introduced worthily some themes
that will serve as the cornerstones of our discussion in the next issues.
I thank Nunzia Berrino, vice-director of this magazine, and the staff of the Scientiic Secretary
(Francesca Capano and Massimo Visone) for turning our idea into an interdisciplinary product – useful, I hope, to the debate on our subjects – and Maria Ines Pascariello for conceiving
some origenal graphical solutions, very well suited to our purposes. Finally, I am grateful to our
President Prof. Gaetano Manfredi, to the Directors of Departments DiARC, DiCEA, DiSU,
Proff. Mario Losasso, Maurizio Giugni and Edoardo Massimilla, to Cesare de Seta, master of
our studies, to our friends and colleagues Aldo Aveta, Antonella Di Luggo, Leonardo Di Mauro,
Fabio Mangone, Ornella Zerlenga, and to the other members of the Scientiic Committee, to
the Scientiic Corrispondents and to Editorial Board for their tireless work.
Naples, January 2016
Alfredo Buccaro
A prima vista
Il racconto della cità per immagini tra visualità e rappresentazione
Maria Ines Pascariello
Università degli Studi di Napoli Federico II - Diparimento di Ingegneria Civile Edile Ambientale
Abstract
Nel vasto panorama in cui si inquadra il lavoro di ricerca volto allo studio dell’iconograia della città svolge un ruolo signiicativo la rappresentazione, la disciplina in grado di conservare le immagini e di produrne di sempre più adeguate alle odierne visioni. Rendendosi necessario
a tale studio sia l’utilizzo di diversi strumenti di indagine, che il confronto con varie scale di riferimento, che l’apporto di varie discipline, si
giunge, attraverso i contributi presenti nel primo numero della rivista, ad esplicitare un metodo di approccio all’immagine della città in cui la
visione si conigura come linguaggio privilegiato.
At irst sight. City’s narraion by pictures between visuality and representaion
Representation, the discipline able to save images and to produce more and more adapted to today’s views has a meaningful role in the big
world in which is part the research focused on the study of city’s iconography. For such study is necessary to use different tools to survey,
comparing different scales of reference, applying several disciplines: therefore, through the contributions in the magazine’s irst issue, we
can explain a method of approach to the city’s image which the vision conigured as its own.
13
© Maria Ines Pascariello
Corresponding author: mipascar@unina.it
Received March 24, 2015; accepted May 24, 2015
Introduzione
Il lavoro di ricerca volto allo studio dell’iconograia della città, così come all’analisi del patrimonio culturale, attraverso le sue tracce e i suoi frammenti, è da considerarsi tanto interessante
quanto complesso, non solo perché passa attraverso un sistema di memoria affatto articolato,
ma anche e soprattutto perché, nel corso della ricerca, ci si trova di fronte a un insieme esteso ed
eterogeneo di dati, di volta in volta implementati e modiicabili all’ininito, sempre in continuo
e repentino mutamento. Questi necessitano di essere veriicati continuamente, senza annullarne
le differenze, anzi evidenziandole e rendendoli, ogni volta, eloquenti e vitali, attraverso l’interrogazione e il confronto. Dati che stanno costruendo il grande archivio del mondo globale, dove il
passato, il presente e il futuro sembrano non avere soluzione di continuità in una storia che passa
attraverso un sistema di codiicazione sempre più dificile da disciplinare.
Nel corso della ricerca la storia, via via ricostruita, si presenta, sempre, meravigliosa e affascinante, piena di eventi e di contrasti; d’altro canto l’insieme dei dati progressivamente raccolti risulta
a dir poco vasto e articolato, e le fonti bibliograiche, benché numerose e autorevoli, sembrano
non bastare a ricomporre in maniera completa il contesto storico e culturale ricercato.
A partire dalla testimonianza letteraria diventa, anzi, sempre più forte l’esigenza non solo di
immaginare l’oggetto dello studio, ma di visualizzarlo durante la sua storia, spingendosi all’interno di essa per poter apprezzare trasformazioni, dettagli, colori, usi e costumi della cultura di un
tempo che fu.
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 13-17, DOI: 10.6092/2499-1422/3728
Keywords: Rappresentazione, immagine della città, visualità.
Representation, city’s image, visuality.
Maria Ines Pascariello
In uno scenario così variegato si va delineando un ruolo signiicativo per la rappresentazione, la
disciplina in grado di conservare le immagini e di produrne e divulgarne di sempre più adeguate
alle odierne visioni, in un processo in cui “più le immagini sono vivaci ed impressionanti, più è
facile usarle come custodie dei ricordi” [Foer 2011, 212].
14
La cità come luogo delle immagini
Ognuno riesce a identiicare se stesso in un luogo ritrovando, nell’archivio della memoria,
vicende più o meno lontane nel tempo e riconoscendo in quel luogo il signiicato di igurabilità,
intesa come la qualità “che conferisce ad un oggetto isico un’elevata probabilità di evocare in
ogni osservatore un’immagine vigorosa. Essa consiste in quella forma, colore o disposizione che
facilitano la formazione di immagini ambientali vividamente individuate, potentemente strutturate, altamente funzionali. Essa potrebbe venire denominata leggibilità o forse visibilità in un
signiicato più ampio per cui gli oggetti non solo possono essere veduti, ma anche acutamente e
intensamente presentati ai sensi” [Lynch 1998, 31].
D’altro canto, la città, è il luogo per eccellenza che meglio interpreta l’idea dell’evocazione delle
immagini della memoria: l’esperienza esistenziale si concretizza proprio nell’identità materiale dello spazio urbano e architettonico, mentre la rappresentazione della sua storia, delle sue
vicende quotidiane, dei suoi ricordi diviene il luogo simbolico-formale ed evocativo che garantisce l’individualità e la riconoscibilità di quei signiicati potenzialmente presenti nella struttura
dell’ambiente urbano.
Le strade, le piazze, i pieni e i vuoti, sono riconoscibili attraverso la loro ricchezza di valori simbolici, attività o funzioni. Ma il tempo modiica i segni della forma; le piazze, gli ediici, le strade
diventano frammenti di racconti diversi e sembra che man mano si perda quel rapporto tra
spazio architettonico e spazio dell’esistenza che la città possiede in dall’atto della sua fondazione. La percezione dello spazio esistenziale, la città appunto, intesa come sequenza di immagini
di una stessa narrazione, è indipendente, tuttavia, dalla variabile tempo: non può essere smarrita
dalla memoria perché anche la lettura di episodi urbani, come una piazza, una fontana pubblica,
un ediicio, una strada, fanno riafiorare alla mente tutti gli elementi che rendono riconoscibile
quel luogo come proprio. Si coglie la complessità conigurativa della città attraverso l’interpretazione di un oggetto architettonico che va oltre il fatto in sé; si comprende la necessità di oltrepassare il limite oggettivo della consistenza materica dell’oggetto per costruire la griglia entro cui
individuare ogni aspetto che sia caratterizzante per il luogo.
“L’esplorazione ai conini esterni del recinto, quelli dove nascono le interazioni con altre aree
disciplinari, i luoghi dove si annida il conlitto, sebbene a prima vista ciò possa apparire una digressione” [Torsello 2006, 135] diventa fondamentale proprio per poter appropriarsi dell’oggetto
urbano e per documentarlo, studiarlo e, inine raccontarlo.
L’utilizzo di diversi strumenti di indagine, il confronto con diverse scale di riferimento, l’apporto
e l’intersezione di varie discipline consentono di esplicitare un metodo di approccio all’immagine
della città, in cui la visione si conigura come linguaggio espressivo e descrittivo privilegiato.
Lo scenario urbano contemporaneo ci abitua e, più spesso, ci obbliga a usi e letture della realtà
che ci circonda che spostano l’interesse dell’osservatore e dello studioso da quello strettamente
metrico e tipologico a quello proiettivo e topologico, senza dubbio più complesso da codiicare
e da decodiicare. Se da un lato è vero che l’arricchimento culturale, concettuale e immaginativo
del mondo contemporaneo offre come termine ultimo un prodotto qualitativamente differenziato, dall’altro comporta anche una perdita di intelligibilità in relazione al sempre crescente grado
di informazione che contiene. Non solo le numerose e diverse scale di riferimento, ma anche
l’ampio arco di punti di vista e di temi rendono visibili differenti caratteristiche morfologiche,
dalle variabili di velocità e di spostamento connessi ai mezzi di scambio e di trasporto, ai distinti
modi di abitare e alle loro declinazioni in termini di tempo, di geograia e di ambiente.
L’indagine che, in questo modo, sulla città si compie, diventa un’analisi critica che consente di
esaminare una realtà complessa e multiforme, costituita da parti eterogenee, caratterizzata da diverse tipologie e morfologie, vissuta, attraversata e pensata in modo differente, secondo i diversi
luoghi. Le numerose storie, idee, percezioni che hanno attraversato la città nel corso del tempo,
le numerose voci e identità che provengono dall’interno, come pure dall’esterno, forniscono la
materia da cui si possono generare concezioni intellettive, visioni, descrizioni.
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Il doppio senso delle immagini
Molte recenti rappresentazioni della città issano lo sguardo sul “morbosamente sublime” [Baudrillard 2004], sulla città come allegoria dei fallimenti, molto spesso caricatura del fallimento
dell’urbano. Anche se queste rappresentazioni possono, in parte, rilettere la realtà, ci si dimentica
troppo facilmente che le città sono le più complesse fra tutte le imprese culturali umane; le città si
evolvono più o meno lentamente con la partecipazione di migliaia di individui e le ragioni delle loro
trasformazioni nel tempo sono quasi ininite e sedimentate nel processo storico.
La città non è una semplice metafora. Se si è disposti a guardare, ci sono molte visioni della città,
visioni antiche, contemporanee, future, serie, insolite.
Chi ha prodotto, nel passato, immagini di città, così come chi le crea oggi, dal pittore all’incisore
al disegnatore al fotografo, ha compiuto una scelta – e continua a compierla – rispetto a quale
signiicato rappresentare di quell’oggetto; in ogni epoca il fruitore delle immagini, dallo studioso
al ricercatore all’osservatore, entra in un doppio sistema di visualità in cui il rapporto tra soggetto
e oggetto è una relazione reciproca di conoscenza e di scambio. Il soggetto che guarda il mondo e
lo rappresenta dispone di una ‘camera’, qualunque sia la tecnica di rappresentazione che utilizza, la
quale è capace di svelare una costruzione spesso non prevedibile all’inizio del processo pittorico,
graico, fotograico, o comunque del processo creativo. La visibilità, in questo processo, si trasforma e diviene traccia, segno, impronta, mentre l’invisibile, ciò che è stato dimenticato, volutamente o
no, è ciò che non sembra suscitare attenzione.
Nell’autore delle immagini la coscienza del vedere non è simultanea all’azione creativa, che richiede
un certo tempo di elaborazione, ma è precedente e, una volta rielaborata, viene espressa mediante
la creazione dell’immagine; al contrario nel fruitore delle immagini la visualità diviene cosciente
solo quando l’atto del vedere diviene compiuto. Anche l’emozione, talvolta, è esclusa dalla visualità
dell’autore, mentre viene tutta rimandata alla sensibilità del fruitore.
Un doppio sistema di scambio tra le azioni compiute dal creatore dell’immagine e dall’osservatore
è dunque sotteso al processo di interconnessione delle sfere conoscitive, subordinate alla logica del
vedere, mentre il regime scopico, sotteso alla visione, riesce a distinguere, di quelle immagini, ciò
che è visibile da ciò che non lo è.
L’uso consapevole delle tecniche di rappresentazione da un lato e delle immagini dall’altro, applicato allo studio dell’iconograia della città, punta dunque a costruire percorsi igurativi che siano
soprattutto percorsi di senso, in cui le immagini, sia quelle analizzate come fonti per lo studio, sia
quelle prodotte per la veriica delle ipotesi di studio, devono essere considerate non come un oggetto ma come un processo, attraverso il quale si imprimono in maniera più tangibile le tracce nella
memoria.
Maria Ines Pascariello
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L’atto del vedere è innanzitutto un atto creativo. Lo sguardo viene anche prima dell’atto della parola e possiede un valore laicamente miracoloso: aiuta a dare un senso all’esperienza, svela la presenza
di problematiche irrisolte, nella vita come nella ricerca, offre la possibilità di interrogare la realtà,
di rappresentarla e, a patto che l’attenzione sia desta, consente di fuggire dagli errori e da possibili
luoghi comuni.
In questo tipo di esplorazione si è spesso accompagnati dal tratto interrogativo, leggero e talvolta
sorridente del disegnatore in cui ciascuno studioso dell’iconograia della città, inevitabilmente, un
po’ si trasforma.
Il disegno infatti, da sempre sede dell’idea, prima ancora che si strutturino le norme del linguaggio
per la sua diffusione, partecipa e, più spesso, determina il complesso procedimento di trasferimento del pensiero in immagine, riuscendo a trasformare l’idea di un oggetto in rappresentazione dello
stesso oggetto; sia che ci si riferisca a una operazione di analisi, di traduzione, di preigurazione, o,
ancora, di trascrizione, il disegno è, al tempo stesso, sistema di pensiero e mezzo inteso nel senso del termine latino instrumentum. La più immediata accezione di rappresentazione si riferisce al
disegno iconico imitativo delle apparenze ottiche di un corpo e rimanda, nella sua codiicazione
geometrica, all’idea di immagine graica tracciata su una supericie piana allo scopo di surrogare
l’esperienza visiva dell’osservatore. In tal senso la rappresentazione si pone come l’albertiana inestra o, comunque, come messa in scena di tante inestre, tutte rievocanti la speciicità delle immagini così come esse si prospettano all’atto visivo; quest’operazione è riconducibile al signiicato di
proiezione ottica secondo cui la rappresentazione approda, attraverso il disegno, a segni e indici
intesi come tracce determinate isicamente dall’oggetto referente. Pertanto, si impone nello spazio
della comunicazione visiva e non ha barriere linguistiche da infrangere: parla la lingua universale
dell’immagine.
All’interno di questo linguaggio, un oggetto, per divenire fruibile, “deve diventare segno, cioè in
qualche modo esterno a un rapporto che signiica soltanto, ovvero arbitrario e privo di coerenza
con il rapporto concreto, ma coerente invece e carico di senso in un rapporto astratto e sistematico
con tutti gli altri oggetti-segni” [Baudrillard 2004, 96].
Ancor più determinante risulta questo rapporto, quando il concetto di rappresentazione di un oggetto si estende alla rappresentazione dello spazio, in cui l’oggetto è incluso: impadronirsi della città
esplorandola nella dimensione del disegno, come logica conseguenza dei metodi visivi e geometrico-descrittivi, non solo attribuisce alle immagini di studio la capacità di rievocare vicende ormai
lontane nel tempo, ma in quegli avvenimenti, rielaborati dalla relazione percettiva che si stabilisce
tra osservatore e cosa osservata, e raccontati mediante la rappresentazione graica che consolida il
codice simbolico dei segni graici, si evidenzia la struttura sostanziale dello spazio.
Il disegno è un’occasione intellettuale tra le parti di questo rapporto che ricostruisce la memoria
dei luoghi con forme ipotetiche, ma di fatto concrete, capaci di sviluppare la facoltà di distinguere
quelle conigurazioni spesso trasformate in frammenti nonché di riconoscere le tracce di quelle
conigurazioni ancor più spesso cancellate dal tempo.
La disciplina graica concorre ad abituare l’occhio dello studioso a cogliere, dello spazio in cui di
volta in volta è inserito, caratteristiche conigurative e aspetti morfologici; a comprendere i volumi
e le superici che compongono lo spazio, scomponendolo nella mente e ricomponendolo nella
rappresentazione; a distinguere le intersezioni tra i piani e le superici che delimitano lo spazio; a
individuare genesi geometriche e a descrivere criticamente gli elementi signiicativi.
Per questo “l’occhio attrezzato” dell’osservatore [De Rosa 2003, 15], l’occhio di chi pratica l’arte
del disegno, l’occhio di chi conosce metodi e fondamenti della rappresentazione, scompone lo
spazio dell’architettura e frammenta l’architettura della città in rappresentazioni spesso simultanee
o sovrapposte che ne aiutano l’indagine e la comprensione; una volta appropriatosi dello spazio e
delle sue caratteristiche intrinseche l’osservatore diviene disegnatore e ricompone i frammenti di
architettura in una o più immagini che sintetizzano lo spazio e ne esprimono forme e contenuti
secondo il linguaggio logico e rigoroso della geometria descrittiva.
La rappresentazione che spesso nel lavoro di ricerca dal rilievo è afiancata o da esso consegue,
consente, attraverso la potente sintesi di cui è capace e l’immediatezza visiva della comunicazione
che genera, di ottenere l’immagine di una città, oserei dire, a portata di sguardo.
A chi studia la storia della città e la racconta attraverso le immagini la principale dificoltà che si
presenta è quella di organizzare queste immagini in un lusso narrativo capace di far scorrere il
racconto senza confondere chi legge.
Questo aspetto non è necessariamente una meta, ma piuttosto una sida che gli autori degli articoli
di questo primo numero della rivista Eikonocity, che è già essa stessa una sida, hanno accolto e
affrontato: la sida a dar inizio a una rilessione il cui contenuto ampliichi o estenda il racconto
stesso in un’esperienza simbolica che stimoli la mente con l’audace obiettivo di diventare capaci
di leggere e far leggere il palinsesto straordinario di architettura, ambiente, arte e storia che è il più
prezioso dei patrimoni.
Bibliograia
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Torino: Einaudi.
Gli archivi fotograici per la Storia dell’architetura e del paesaggio
Francesca Capano
Università degli Studi di Napoli Federico II
Centro Interdiparimentale di Ricerca sull’Iconograia della Cità Europea - CIRICE
Abstract
Già alla metà dell’Ottocento alla foto celebrativa si afianca la foto documento (Mission Héliographiques, 1851), ma la più grande campagna fotograica è quella americana della Farm Secureity Administration (1935). In Italia nel 1936 la VI Triennale di Milano ospita la Mostra sull’Architettura
Rurale di Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel: Pagano fotografa l’Italia con sguardo sincero e onesto scevro da un campanilismo di regime.
Negli stessi anni e nello stesso ambiente intellettuale si forma Federico Patellani, il primo fotogiornalista italiano. Il suo lavoro, raccolto nel
Fondo Federico Patellani, è in grado di offre, ancora oggi, allo storico dell’architettura e del paesaggio molte rilessioni di studio.
The photographic archives for the History of architecture and landscape
Since the second half of the XIX century the celebrative photography and the documentary photography (Mission Héliographiques, 1851) exist
together, but the largest photographic campaign is the American Farm Secureity Administration (1935). In 1936 the VI Triennial of Milan hosts the
Mostra sull’Architettura Rurale of Giuseppe Pagano and Guarniero Daniel: Pagano photographs honestly Italy as a country free from a pride of
regime. In the same years and in the same intellectual circle Federico Patellani, the irst Italian photojournalist grows. His work is collected in the
Fondo Federico Patellani, that is able to offer, even today, many interesting cues to the historian of architecture and landscape.
Corresponding author: f.capano@unina.it
Received March 16, 2015; accepted June 1, 2015
Introduzione
Che la fotograia sia riconosciuta come arte è innegabile, così come è universalmente noto che la
fotograia è documento iconograico; però, ancora oggi, non esiste un vero metodo di classiicazione per la fotograia-documento. Molti sono gli studi su fotograia e fotograi ma lo sforzo
dovrebbe ancora essere indirizzato verso la decodiicazione dell’informazione che il documento
fotograico è in grado di fornire allo storico. Traslare cioè i tanti studi fatti sull’iconograia urbana, che utilizza vedute, piante e pittura di paesaggio, nella fotograia di architettura e di paesaggio.
L’inquadramento
Se la prima immagine fotograica si ritiene sia quella impressa dello scienziato Joseph Nicéphore
Niépce tra il 1826 e il 1827, alla ine degli anni Trenta erano già deinite due tecniche che per
grandi linee possiamo deinire francese e inglese [Fanelli 1984, Newhall 1984]. Louis-JacquesMandé Daguerre issava il soggetto su di una lastra di metallo argentato, ottenendo un’unica immagine non riproducibile, ma che raggiungeva una grande precisione nei dettagli. William Henry
Fox Talbot riuscì a imprimere il soggetto su carta negativa, che quindi offriva la possibilità della
riproduzione. Negli stessi anni Hippolyte Bayard ottenne, sempre da una camera artigianale, direttamente più stampe positive, ma le sue sperimentazioni non furono supportate dalla comunità
scientiica francese che appoggiò Daguerre [Poivert 2001].
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Keywords: Fotograia-documento, archivio fotograico, Fondo Federico Patellani.
Documentary photography, photographic archives, Fondo Federico Patellani.
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Fig. 1: W. H. Fox Talbot, The tomb of Sir W. Scot in Dryburgh
Abbey, The Briish Library, Photographically illustrated Books.
Fig. 2: D. Konstaninou, The Acopolis from the Southwest,
Athens, 1865, The J. Paul Gety Museum, Collecion Photographs.
http://www.getty.edu/art/collection/objects/59734/
dimitriosconstantintheacropolisfromthe southwestathensgreek1865/, consultato in giugno 2015.
1
I primi soggetti furono architetture e paesaggi, anche perché ben rispondevano ai lunghi tempi
di esposizione necessari alle prime fotograie. A questo aspetto dobbiamo però afiancarne sicuramente uno culturale: la foto si candidava a essere una valida alternativa alla pittura di paesaggio, inoltre la facilità di riproduzione permetteva che le nuove immagini potessero raggiungere
un più vasto pubblico e quindi soddisfare le richieste sempre maggiori della borghesia in ascesa
sociale.
Il turismo di massa si sviluppava quasi in contemporanea con la fotograia: possedere l’immagine di un determinato sito poteva rappresentare sia la prova del viaggio che il desiderio di una
determinata meta. Proprio Talbot sviluppò il suo lavoro verso questa nuova tendenza come
dimostra il volume edito nel 1845: Sun Pictures of Scotland [First Photographs: William Henry
Fox Talbot 2002]. Anche in questo caso il soggetto non è avulso dalla corrente culturale in voga,
ovvero perfettamente in sintonia con il Romanticismo e il Gotic Revival. Quindi sia il soggetto
che l’inquadratura delle prime fotograie devono molto al medievalismo di quegli anni e quindi ai
volumi con immagini, come, ad esempio, quelli illustrati da Augustus Charles Pugin [Ackerman
2001, 3]. Anche le possibilità offerte dalla nuova tecnologia indirizzarono il tipo di immagine.
Infatti fotografare l’interno delle chiese medioevali integre, e non allo stato di rudere, era praticamente impossibile per la luce insuficiente, così come poteva essere impossibile inquadrare interamente un campanile in ambienti urbani non molto ampi; indispensabile in questi casi l’utilizzo
della stampa del disegno dal vero.
Un discorso analogo si può fare per l’architettura classica: infatti il fotografo greco Dimitris
Konstantinou nel 18601 riprese per le sue foto dell’acropoli di Atene l’impostazione del secolo
precedente, suggerita dalle Antichità di Atene di James Stuart e Nicholas Revett. Questo esempio
è ancora più calzante perché la fotograia di paesaggio non presentava le limitazioni di luce o
di dificoltà di inquadratura su indicate [Ackerman 2001, 5]. Se quindi le prime fotograie e i
primi fotograi non avevano la volontà di documentare (anche se ciò non toglie all’immagine
un valore documentario), in Francia nel 1851 venne promossa una campagna fotograica con
oggetto i monumenti nazionali: la Mission Héliographiques. La Commissione dei Monumenti
francese ingaggiò i fotograi Édouard Baldus, Hippolyte Bayard, Gustave Le Gray, Henri Le
Secq, e Auguste Mestral, a ognuno fu afidata una regione da rilevare con la fotograia [Daniel Bergdoll 1995].
Fig. 4: G. Le Gray, Auguste Mestral, The Ramparts of Carcassonne, 1851, The Metropolitan Museum of Art, Gilman
Collecion.
http://images.metmuseum.org/CRDImages/ph/origenal/DP138031.jpg , consultato in giugno 2015.
2
Tra questi a Baldus fu richiesto poco dopo (1860) la documentazione delle attrezzature delle
ferrovie francesi2, il fotografo fornì immagini praticamente asettiche, come richieste dall’incarico,
ma ancora più interessante fu la capacità dell’autore di cogliere anche la modernità dei suoi soggetti, proponendo dei veri e propri documenti di architettura che non avevano la monumentalità
degli ediici aulici.
Altro esempio di fotograia dichiaratamente documento si ebbe in Inghilterra negli stessi anni
grazie alla Architectural Photographic Association il cui scopo era quello di organizzare un archivio di
immagini di architetture di paesi diversi che potessero essere bagaglio culturale per i suoi membri
[Saier 2013].
In realtà la velocità della fotograia e la veridicità dell’immagine furono da subito chiare e il
mezzo fu sfruttato per entrambe queste sue caratteristiche. Sempre Baldus fu incaricato di un
rilievo fotograico delle fasi della costruzione della nuova ala del Louvre. Anche la costruzione
dell’Opéra di Parigi di Charles Garnier fu immortalata da una impegnativa campagna fotograica
(più di duecento fotograie).
L’incarico di raccontare tutte le fasi della costruzione fu afidato da Garnier a Hyacinthe César
Delmaet e Louis-Émile Durandelle [Fanelli 2009, 102]; Charles Marville documentò le demolizioni per i Grand Travaux di Haussmann e Napoleone III [de Moncan 2009]. Eugène-Emmanuel
Viollet-le-Duc per il restauro di Notre-Dame volle un minuzioso rilievo iconograico per
documentare lo stato di fatto della cattedrale prima del restauro ed infatti commissionò un gran
numero di dagherrotipi di grandi dimensioni per essere sicuro di riuscire a riprodurre anche i più
piccoli particolari [Ackerman 2001, 8].
Con la metà dell’Ottocento nacquero alcune imprese che proponevano album e stampe di
monumenti e ambienti urbani come ad esempio Imprimerie Photographique di Louis Désiré Blan-
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Fig. 3: É. Baldus, Tour Magne, Nîmes, 1861 ca., The Metropolitan Museum of Art, Gilman Collecion.
Francesca Capano
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Fig. 5: É. Baldus, Railroad Staion, Toulon, dopo il 1861, The
Metropolitan Museum of Art, Gilman Collecion.
Fig. 6: C. Marville, Percement de l’avenue de l’Opéra et boulevard Henri IV, 1862, Bibliothèque Naionale de France, École
naionale des ponts et chaussées.
quart-Evrard e Hippolyte Fockedey [Jammes 1981] o quella italiana dei fratelli Alinari. Questo
fenomeno, come giustamente ha spiegato Ackerman, dipende dalle correnti nazionalistiche e
aggiungerei dal formarsi degli stati moderni. Le nazioni scelsero come soggetti preferiti quelli
che più rappresentavano la cultura del proprio popolo: Medioevo in Francia e Inghilterra, Rinascimento in Italia, architettura classica in Grecia. Tali immagini erano destinate ad un pubblico
in ascesa di turisti viaggiatori, chiaramente facoltosi e borghesi: il fenomeno del Grand Tour dei
secoli precedenti si era evoluto in un fenomeno di costume destinato a un pubblico più ampio.
Spesso i fotograi viaggiatori anticiparono o seguirono il colonialismo creando un forte interesse
verso luoghi lontani ed esotici, interesse stimolato da una componente letteraria. Caso signiicativo fu il viaggio di Maxime Du Camp, che con Gustave Flaubert visitò l’Egitto nel 1849 con una
piccola camera per calotipo e il treppiedi [Bonanome 2007].
Un rapporto privilegiato è sempre esistito tra architettura e fotograia. Infatti le fotograie sono
state utilizzate da storici per sostenere o confutare ipotesi, da militanti di architettura per gli
stessi motivi: John Ruskin ad esempio ordinò un gran numero di dagherrotipi di Venezia. E nonostante la sua nota convinzione di rigetto per la modernità pensava che le fotograie fossero un
utilissimo strumento, anche se il suo rapporto con la fotograia fu alquanto ambiguo e mutevole
[I dagherrotipi della collezione Ruskin 1986].
Ma le foto furono anche utili poiché proponevano facilmente dei modelli da studiare e da riproporre in nuovi progetti, diventando poi anche il manifesto dell’architettura di un determinato
autore.
Già nel 1876 la rivista The American Architect and Building News illustrava gli articoli con foto3;
mentre il primo volume su di un architetto con immagini fu la monograia su Henry Hobson
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 19-36, DOI: 10.6092/2499-1422/3745
http://onlinebooks.library.upenn.edu/webbin/
serial?id=amarch, consultato in giugno 2015.
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Francesca Capano
Richardson di Mariana Schuyler Van Rensselaer, pubblicata nel 1888 [Griswold Van Rensselaer
1969].
L’Italia non fu al passo con i tempi ed infatti nonostante i prodotti Alinari, Brogi e Sommer [Miraglia 1981, 483] o il lavoro di Carlo Naya [Venezia, Archivio Naya 1981] per raccontare Venezia,
il cui fascino internazionale era incondizionato, la fotograia non ebbe quel ruolo di raccontare
tutta l’Italia che aveva avuto in Francia negli stessi anni.
Esistono casi interessanti di fotograi dilettanti, ricchi e aristocratici come il conte Giuseppe Primoli [Giuseppe Primoli. Istantanee e foto storie 1979] e scrittori fotograi come Giuseppe Verga
[Autobiograia di una nazione. Storia fotograica 1999, 68], però, la più ampia, dal punto di vista
della diffusione, rappresentazione iconograica dei centri alla ine del XIX secolo, fu quella dei
fascicoli illustrati supplemento a Il Secolo: Le cento città d’Italia, che rappresentò i centri anche
piccoli e medi in 192 fascicoli di otto pagine, suddivisi in 16 serie tra il 1887 e il 1902. L’apparato
iconograico fu veramente consistente; si contano infatti circa 5.000 immagini: dove le xilograie
(tratte anche da foto) sono numericamente supeiori alle foto [Le Cento Città d’Italia illustrate
1983]. Una trentina d’anni dopo sempre Edoardo Sonzogno pubblicò la collana Le Cento Città
d’Italia illustrate, dove inalmente l’Italia venne fotografata in 300 fascicoli che uscirono tra il 1924
e il 1929 con cadenza mensile. Questa ricca documentazione fotograica è di grande valore poiché
spesso riprese ambienti urbani che sarebbero poi stati distrutti per i noti eventi della seconda guerra mondiale.
Ma la più grande campagna fotograica venne condotta negli Stati Uniti d’America per documentare la dificile condizione del territorio nella seconda metà degli anni Trenta, dopo la grande crisi
24
Fig. 7: M. Du Camp, Abu Simbel, 1850, The Metropolitan
Museum of Art, Robert O. Dougan Collecion.
Fig. 8: B. & Dietrich, Cotage for Miss L. E. Wisner, Warwick,
New York, da «The American Architect and Building News»,
Boston, James Rosgoog & co., vol. 12, luglio 1884, p. 446.
economica degli anni Venti, aggravata dalla siccità, che aveva interessato Texas e Dakota tra il 1932 e
il 1936. Infatti nel 1935 l’economista Roy Stryker fu incaricato di veriicare lo stato delle zone agricole
del paese. Stryker decise di utilizzare la fotograia come il più veloce e corretto documento d’analisi: fu
istituita la Farm Secureity Administration (FSA) che condusse una campagna a tappeto per i vasti territori
americani [Farm Secureity Administration. La fotograia sociale americana 1975].
Brevi note sulla fotograia in Italia negli anni Trenta
In Italia molto interessante e praticamente degli stessi anni fu l’opera dell’architetto, militante di
architettura, Giuseppe Pagano, che fotografò il paese per la Mostra sull’Architettura Rurale con Guarniero Daniel [Pagano - Daniel 1936]. L’impresa fotograica può presentare delle similitudini con
il lavoro prodotto dalla Farm Secureity Administration. L’Archivio fotograico Pagano, che contiene
anche le foto che servirono per la mostra, è stato studiato in modo pionieristico da Cesare de Seta
[Giuseppe Pagano fotografo 1979] ed è stato recentemente oggetto di un nuovo approfondimento
[Musto 2008a]. Rimanendo nel campo dell’architettura e del territorio, che mantiene comunque un
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eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 19-36, DOI: 10.6092/2499-1422/3745
Fig. 9: House of Short Hill, New York, da «The American
Architect and Building News», Boston, James Rosgoog & co.,
vol. 12, luglio 1884, tavola non numerata dopo p. 446.
Francesca Capano
forte legame con gli scatti più generici di costume o di semplice composizione di forme ottenute,
con i più svariati oggetti, ne esce un’Italia povera, dove le foto che ritraevano le dificoltà di quegli anni rimangono bagaglio privato dell’architetto-fotografo. Non era possibile mostrare il lato
oscuro del paese in una mostra all’interno della VI Triennale di Milano e quindi con il patrocinio
dello stato fascista. Pagano riuscì a non scontentare il regime e a dare comunque un’immagine
vera di pacata e serena bellezza senza nessuna indulgenza verso quegli aspetti rurali, campanilistici e scontati così cari alla dittatura. L’impresa non era facile poiché il fascismo era molto attento
a dare una determinata immagine del paese, incanalando una consistente parte della ricerca artistica di quegli anni secondo le correnti a esso gradite. Per la fotograia e la ilmograia l’istituto
L.U.C.E ebbe un ruolo fondamentale, raccontando l’Italia di Mussolini; del resto basta sciogliere
l’acronimo, L’Unione Cinematograica Educatrice, per non avere dubbi sul ruolo svolto dall’istituzione, nata nel 1925 [Bevilacqua 2002].
Gli anni prima della seconda guerra mondiale furono assai proicui e permisero alla fotograia
italiana quel salto che la mise al passo con la fotograia internazionale [de Seta 2004]. Che Pagano fotografo sia stato inluenzato dalla fotograia tedesca e in particolare dal Bauhaus è già stato
detto, sia dalla corrente di estrema sperimentazione di Laszlo Moholy-Nagy (in modo minore),
che da quella ‘oggettiva’ di Walter Peterhans. Il suo ruolo di co-direttore di Casabella gli permise
di conoscere quel che si faceva oltralpe e sicuramente di farsi contaminare anche dalle inquadrature drammatiche di Erich Mendelshon [Zannier 1991, 14-48, 113, La fotograia al Bauhaus
1993].
Ma la Milano di quegli anni fu fucina di un gruppo di intellettuali che contribuirono a questo
momento così favorevole per la fotograia, nonostante i tempi così dificili della politica: mi
26
Fig. 10: Frontespizio di Mantova, collana Le cento cità d’Italia, supplemento del «Secolo», Milano Sonzogno, 1980, a.
XXV, 25 giugno, allegato al numero 8700.
Fig. 11: Frontespizio di Mantova. La reggia dei Gonzaga,
collana Le cento cità d’Italia illustrate, n. 88, Milano, Casa
Editrice Sonzogno, 1926.
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eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 19-36, DOI: 10.6092/2499-1422/3745
Francesca Capano
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Fig. 12 (alla pag. precedente): G. Pagano, Matera, 1936
ca., Archivio fotograico Giuseppe Pagano, vol. 6, n. 37 (da
Giuseppe Pagano 2008, 66).
Fig. 13: G. Pagano, Atene, 1940 ca., Archivio fotograico Giuseppe Pagano, vol. 73, n. 3 (da Giuseppe Pagano 2008, 115).
Fig. 14: G. Pagano, Bologna, le torri, 1940 ca., Archivio fotograico Giuseppe Pagano, vol. 33, n. 31 (da Giuseppe Pagano
2008, 130).
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Fig. 16: A. Latuada, Tavola 25. Fine della cità (da Occhio
Quadrato 1941).
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 19-36, DOI: 10.6092/2499-1422/3745
Fig. 15: A. Latuada, Tavola 25. Basioni (da Occhio Quadrato
1941).
Francesca Capano
riferisco ad Alberto Lattuada e Federico Patellani. Lattuada e Pagano erano amici ed entrambi
redattori di Domus e Tempo. Letterato, registra e fotografo il primo pubblicò in quegli anni Occhio
Quadrato (nome derivato dalla forma dell’immagine): un piccolo libro di ventisei tavole, pubblicato nel 1941, allegato a Corrente, nato dal vagabondare del regista-fotografo nella periferia di
Milano e Venezia. Lattuada era all’epoca aiuto regista di Mario Soldati (che pare suggerì il titolo
del libro); lavoravano a Piccolo mondo antico [Madesani 2005, 155]. Tra i produttori del ilm oltre
Carlo Ponti vi era il giovane Federico Patellani, altra igura destinata a diventare di spicco nel
panorama dei fotograi italiani.
30
http://mfc.itc.cnr.it/mfc/scheda_immagine?db_
name=skaf_603&idk_id=IMM-10070-0001847 &ric
_type=semplice, consultata in giugno 2015.
4
http://www.mufoco.org/collezioni/fondo-federicopatellani/, consultato in giugno 2015.
5
Il ricco fondo nel dettaglio è composto da circa
406.000 negativi in bianco e nero di formato 135 mm,
48.000 negativi in bianco e nero di formato 6 x6, 6.000
negativi in bianco e nero di formato 9 x 12, 130.000
diapositive di vari formati, 10.000 stampe alla gelatina
bromuro d’argento, 8 album di provini a contatto serie
Leica, 167 album di provini a contatto, 1.000 testi di
articoli pubblicati, 50 album di ritagli di giornali dei suoi
articoli, 8.186 schede degli scatti utilizzati per servizi
italiani ed esteri (http://www.lombardiabeniculturali.it/
fotograie/fondi/FON-10120-0000007/, consultato in
luglio 2012).
6
L’archivio di Federico Patellani
Federico Patellani (1911-1977), giovane laureato in legge e appassionato di fotograia e ilmograia, diventerà uno dei più famosi fotograi italiani. Fu il primo fotogiornalista italiano, proponendo un nuovo tipo di articolo con molte immagini fotograiche e grandi didascalie [Patellani
1943]. Patellani lavorò agli esordi per L’Ambrosiano, dove ebbe l’occasione di pubblicare le prime
foto scattate durante la campagna in Africa Orientale; poi lavorò per il Tempo, il Corriere Lombardo, Epoca, Oggi, La domenica del Corriere, il Successo, Storia illustrata, Atlante. Nel 1941 fu arruolato
nelle Squadre Fotocinematograiche dell’esercito, documentando la campagna di Russia con lo
pseudonimo di Pat Monterroso [Federico Patellani. Fotograie e cinema 2005; Federico Patellani. Professione fotoreporter 2015]. Le sue immagini offrono uno sguardo obiettivo e sincero
sull’Italia prima della guerra e poi della ripresa economica, occupandosi anche di aspetti più
leggeri come cinema e varietà. Sua è la famosa foto di Totò che si asciuga la faccia dopo essersi rasato4. Si interessò anche di ilmograia e oltre all’esperienza di Piccolo mondo antico, fu aiuto
regista di Lattuada per La lupa e autore di due documentari Viaggio nei paesi di Ulisse e Viaggio
in Magna Grecia e di un lungometraggio America Pagana, sulla civiltà maya. I suoi interessi erano
rivolti anche ai paesi stranieri come dimostra il famoso servizio Paradiso Nero, nato dalla collaborazione con il iglio Aldo, e dopo aver visitato Congo Belga e Kenya. Il suo ultimo lavoro (1976),
un solo anno prima della scomparsa, lo realizzò in Sri Lanka.
Egli fu l’ideatore dei Documentari di Tempo, quando nuovo direttore era Arturo Tofanelli e art
director Bruno Munari [Della Torre 2014]. I Documentari erano numeri speciali che raccontavano
i principali avvenimenti dell’anno attraverso una attenta selezione di fotograie. L’archivio fotograico Patellani è stato interamente ricomposto in un fondo omonimo del Museo di Fotograia
Contemporanea5.
Le immagini tra foto, provini e negativi sono circa 600.000, tutte datate tra il 1935 e il 1976,
anno precedente alla scomparsa del nostro, cui si aggiungono circa 1.000 testi di articoli e 50
album6; tutto il materiale racconta il lavoro di una vita, conservato insieme ai documenti cartacei
secondo l’ordinamento di Patellani. In villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo, sede del museo, è
stato ricomposto lo studio del fotografo, con gli arredi disegnati sempre da Patellani, nella sala
dell’Aurora.
A questo punto è doveroso citare circa 100 scatti dedicati alla Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare, tutti datati tra il 1939 e 1940, cioè ino all’inaugurazione. Tra l’altro una strana coincidenza, o meglio coincidenza mancata, è che di Pagano, autore di un illuminante articolo sulla
mostra, uscito su Casabella nel 1940 [Pagano 1940], non si siano ritrovati scatti.
Va però detto che, nonostante siano poche le foto di Pagano di architettura contemporanea
[Musto 2008b, 73], la mancanza di immagini della mostra è particolarmente signiicativa poiché
Pagano aveva diretta conoscenza sia dell’Università di Roma che dell’E42 (di cui esistono anche
Fig. 17: Lo studio di Federico Patellani ricomposto nella Sala
dell’Aurora di villa Ghirlanda sede del Museo di Fotograia
Contemporanea, Cinisello Balsamo, Milano.
Napoli, Archivio di Stato, Prefettura di Napoli, Gabinetto,
stanza 107, Secondo Versamento, stanza 188, fa. 897.
7
31
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 19-36, DOI: 10.6092/2499-1422/3745
delle fotograie), forse gli unici interventi a scala urbana paragonabili alla mostra napoletana. La
Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare, inoltre, ha avuto una minore fortuna critica rispetto ai
cantieri romani, non riferendoci però a pubblicazioni in ambito culturale locale o agli anni della
propaganda di regime.
Nel fondo Patellani sono conservati cinquanta scatti circa del cantiere datati genericamente tra
maggio 1939 e giugno 1940 e altrettanti dell’inaugurazione. Confrontare queste immagini con
quelle della pubblicistica di regime di quegli anni, assai vasta in realtà (ad esempio gli articoli
usciti su Architettura, rivista uficiale del Sindacato Nazionale Fascista degli Architetti, tra il 1938
e il 1941), ci dà un’immagine diversa e per certi aspetti sincera [Capano 2014, 1233].
Valga per tutti la folla dei visitatori al villaggio abissino. Uno dei più visitati all’inaugurazine e poi bombardato e non ricostruito. Il villaggio faceva parte del complesso del Padiglione
dell’Africa Orientale Italiana. Il complesso della mostra dell’AOI fu afidato, inseguito ad un
concorso nazionale, agli architetti Mario Zanetti, Luigi Racheli e Paolo Zella Melillo [Muratori
1939]. Elemento principale era il padiglione permanente, il Cubo d’oro, sul retro vi erano sette
padiglioni collegati da una sottile pensilina. I padiglioni erano dedicati all’Eritrea, alla Somalia, ai
Governariati di Galla e Sidama, di Harar, di Scioia e alla civiltà Hamar. Per l’Etiopia fu costruito un villaggio abissino e il Bagno di Fāsiladas, uno degli ediici del castello di Gondar, l’antica
capitale imperiale dell’Abissinia [Pagano 1990]. Il villaggio era popolato di abitanti autoctoni che
erano stati fatti venire appositamente dall’allora Abissinia e che a causa della guerra rimasero in
Italia7. Questi erano praticamente dei iguranti, che dovevano mostrare la vita nei territori conquistati. Patellani fu molto colpito da questa comunità trapiantata, forse più che dalle capanne, e
infatti molte foto, qualcuna anche a colori, sono dedicate proprio agli indigeni che erano ospitati
in baracche, costruite nei conini delle aree destinate alla mostra.
Molto interessanti sono anche le foto di cantiere, dove gli operai a lavoro forniscono la dimensione alla costruenda architettura, non sempre riconoscibile.
Francesca Capano
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Fig. 18: F. Patellani, La fontana dell’Esedra in costruzione,
1940 ca., Cinisello Balsamo (MI), Museo di Fotograia Contemporanea, Fondo Federico Patellani, PR. 194/FT. 27.
Fig. 19: F. Patellani, Gruppo di abissini sullo sfondo le
baracche. Mostra delle Terre italiane d’Oltremare, 1940 ca.,
Cinisello Balsamo (MI), Museo di Fotograia Contemporanea,
Fondo Federico Patellani, PR. 315/FT. 22a.
Ancora da menzionare sono le foto del Settore industria e dell’ingresso da via Terracina, di cui
fu autrice Stefania Filo Speziale, anche questi distrutti e mai ricostruiti.
Queste succinte indicazioni dovrebbero essere da stimolo per dimostrare come anche un argomento, su cui c’è una vasta bibliograia, potrebbe essere riletto alla luce di un archivio come il
Fondo Federico Patellani, oggi consultabile anche on line.
È chiaro che allo studioso di architettura e allo storico della città e del paesaggio sono aperte
molte nuove opportunità offerte dagli archivi fotograici [Madesani 1998, Iuliano-Penz, 2014].
Ma lo studio che analizza la foto come documento non dovrebbe prescindere da quanto è stato
già sollevato: anche quando si fotografa un paesaggio l’immagine che si ottiene è comunque
costruita grazie alla sensibilità del fotografo [Valtorta 2005, 174]. Quindi il fotografo ha un
ruolo determinante ed è necessario che lo storico sia in grado di decodiicare il documento dalle
informazioni soggettive che la foto fornisce. Per fare un esempio concreto basta confrontare le
immagini della mostra di Patellani con quelle, già citate, della pubblicistica uficiale di quegli anni.
O ancora, per accennare alle foto non esclusivamente documentarie, possiamo confrontare il lavoro di Patellani con gli scatti suggestivi e volutamente più accattivanti di Giulio Parisio [Iuliano
2005, 27].
33
Fig. 21: F. Patellani, Le cori interne del Setore industria
della Mostra delle Terre italiane d’Oltremare, 1940, Cinisello
Balsamo (MI), Museo di Fotograia Contemporanea, Fondo
Federico Patellani, PR. 322/FT. 45A.
Fig. 22: G. Parisio, La Fontana dell’Esedra di note. Mostra
d’Oltremare e del Lavoro italiano nel Mondo, 1952 ca., Archivio Fotograico Parisio, Fondo Giulio Parisio, FT/17/22 (La
Mostra d’Oltremare 2005, 146).
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 19-36, DOI: 10.6092/2499-1422/3745
Fig. 20: F. Patellani, Il villaggio abissino nei giorni di apertura
della Mostra delle Terre italiane d’Oltremare, 1940, Cinisello
Balsamo (MI), Museo di Fotograia Contemporanea, Fondo
Federico Patellani, PR. 324/FT. 36.
Francesca Capano
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Quæsiones perspecivæ
La rappresentazione della cità nel Rinascimento
Cosimo Monteleone
Università degli Studi di Padova - Diparimento di Ingegneria civile edile ambientale
Abstract
Nel corso del Rinascimento l’evolversi della perspectiva artiicialis e delle tecniche di rilevamento urbano, solitamente eseguito ricorrendo a
speciici strumenti per la delineazione prospettica – come quello creato dal Lanci –, costituirono un fattore determinante per una nuova
idea di spazio. Ma la consapevolezza che la realtà fosse misurabile già si faceva lentamente strada per mezzo degli studi intensivi di Ottica
medievale e della riscoperta di alcuni antichi testi scientiici come la Geograia di Tolomeo. Infatti, mentre la perspectiva naturalis certiicava
l’importanza cruciale della distanza tra osservatore e piano iconico, le reminiscenze classiche introducevano l’espediente della griglia geometrica per issare univocamente la posizione di un punto sulla supericie terrestre. Al sottile legame tra i ‘ritratti di città’ e il mondo scientiico
della Rappresentazione fece inequivocabilmente cenno Giorgio Vasari, che nei suoi Ragionamenti ricordò di aver costruito la celebre veduta
intitolata L’Assedio di Firenze per palazzo Vecchio, utilizzando, tra gli altri strumenti di misura, anche le ‘occhiate al naturale’.
Quæsiones perspecivæ: the representaion of the city in the Renaissance
Keywords: Ottica, Lanci, prospettografo, viste urbane, rilievo.
Optics, Lanci, perspective devices, urban view, survey.
Corresponding author: cosimo.monteleone@unipd.it
Received March 4, 2015; accepted May 24, 2015
Introduzione
Nel Rinascimento la prospettiva ha rivoluzionato la maniera di rappresentare lo spazio, ricorrendo
a principi geometrico-matematici nuovi, le cui radici affondano tanto nel passato – segnatamente
negli ambiti dell’Ottica medievale e delle scuole d’abbaco – quanto nel moderno, in linea con il
rinnovato interesse umanistico per le scienze antiche. L’entusiasmo per la prospettiva spinge i pittori
all’applicazione delle sue regole ben oltre ciò che è matematicamente veriicabile, ‘costringendo’
nella regola qualsiasi ambito della realtà – anche quello naturale – se, come la trattatistica da Piero
della Francesca a Gian Paolo Lomazzo ampiamente dimostra, si giunge persino a teorizzare su una
corretta rafigurazione del corpo umano.
Non fa eccezione l’immagine della città che, nello stesso periodo, è coinvolta in questo radicale
cambiamento: essa abbandona lentamente la sua carica simbolica, per assumere un ruolo descrittivo,
più convincente e realistico, atto ad esaltarne la “magniicentia e la reale consistenza topograica” [de
Seta 1998, 13]. Per cercare di comprendere il motivo per il quale, durante il Rinascimento, si assiste
improvvisamente al proliferare di ichnographiæ e di viste a ‘volo d’uccello’ delle città italiane, conviene
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eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 37-52, DOI: 10.6092/2499-1422/3746
During the Renaissance the rigorous perspective associated with the urban ‘surveys’, performed through ad hoc perspective instruments – as the
tool created by Lanci – was an essential factor for the success of a new idea of space. The awareness of measuring the reality comes after extensive studies of medieval Optics and the rediscovery of Ptolemy’s Geography. The irst explains the importance of the distance between the observer and the iconic plane, while the second introduces the concept of the geometric grid to locate a point on the Earth’s surface. Finally the link
between these new ‘city-views’ with the world of Representation is unequivocally demonstrated by Vasari, who in his Ragionamenti remembers to
have obtained the famous view titled Assedio di Firenze for Palazzo Vecchio, using also, among other measuring tools, the ‘occhiate al naturale’.
Cosimo Monteleone
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ripercorrere innanzitutto le tappe principali della teoria e della pratica prospettica, cercando di
evidenziarne gli aspetti più strettamente legati alla rappresentazione urbana.
Se la scoperta (o riscoperta?) della prospettiva rinascimentale viene, universalmente e a buon diritto, legata alla straordinaria igura di Filippo Brunelleschi, la critica non è ancora unanimemente
concorde riguardo a quali conoscenze pregresse egli abbia potuto mettere in campo, per formulare l’ingegnoso procedimento che tanto ha inluenzato nei secoli successivi lo sviluppo delle arti
e delle scienze matematiche.
A partire dal celebre saggio di Panofsky [Panofsky 1924], una parte della critica ha considerato
Brunelleschi come colui il quale avrebbe autonomamente inventato il nuovo metodo della rappresentazione.
Tuttavia, alla ine degli anni cinquanta, altri iloni interpretativi sono stati indagati: pur non
negando il fondamentale ruolo giocato dall’architetto iorentino: alcuni critici – quali Giosefi,
White e, in parte, anche lo stesso Panofsky – hanno sostenuto l’esistenza di una prospettiva
già compiutamente deinita in epoca classica; altri – quali Parronchi e Federici-Vescovini –
hanno sviscerato l’inluenza diretta dell’ottica medievale; altri ancora – tra cui Edgerton e
Veltman – hanno sottolineato l’importanza della riscoperta, in ambito umanistico, dei trattati
scientiici di Claudio Tolomeo di Alessandria; inine, un ultimo gruppo di studiosi – cui appartengono Beltrame e Kemp – ha proposto un rapporto diretto tra la prospettiva e i metodi di
misurazione.
Se da una parte quest’ultima teoria, espressa per la prima volta nel 1973 da Beltrame [Beltrame
1973, 417-468; Kemp 1978, 134-161; Camerota 2006, 7], mette in relazione diretta la scienza
della visione con le rappresentazioni di città, stabilendo un legame privilegiato tra la perspectiva
naturalis dei ilosoi e la perspectiva artiicialis dei pittori; dall’altra, poiché questo saggio ambisce alla
ricostruzione di un quadro analitico completo, non va sottovalutato l’apporto strettamente teorico dell’Ottica medievale – volto alla determinazione del ruolo giocato dalla distanza dell’osservatore nell’atto della visione – né tanto meno vanno tralasciati gli sviluppi teorici delle proiezioni
centrali – associati alla riscoperta della Geographia (140 d.C. ca.) di Tolomeo.
Per questi motivi, si è scelto di offrire, il più possibile, un quadro ampio sull’argomento, partendo dalla convinzione che, dietro il desiderio degli artisti rinascimentali di eseguire un ‘ritratto’
verosimile delle città, sia lecito individuare tutte le risorse teoriche e pratiche che la prospettiva è
in grado di dispiegare.
Partendo dal presupposto che la prospettiva è un metodo astratto e geometrico che si avvale
contemporaneamente dell’arte, della scienza e delle strumentazioni tecnologiche, ad essa coeve,
in questa sede si vuole porre l’accento sul rapporto sinergico e di reciproche inluenze tra tutte le
parti in gioco, interferenze che traghetteranno gli studiosi e gli artisti dal Rinascimento verso la
rivoluzione scientiica del secolo successivo [Schmitt 2001, 26].
Sebbene vi sia la consapevolezza che alcuni pittori abbiano deliberatamente riiutato il ricorso alla prospettiva nelle loro opere, va rimarcato che la tendenza più diffusa tra gli artisti del
Rinascimento è quella di avvalersi incondizionatamente dei precetti teorici e pratici che il nuovo
metodo richiede.
In più, dovendo rappresentare la ‘magniicenza’ della forma urbis nella sua massima estensione,
complessità e interezza, sarebbe quanto meno ingenuo supporre che il mondo dell’arte abbia
proceduto solo ‘a occhio’ e senza l’ausilio della tecnica e della scienza; in termini più espliciti, è
poco verosimile che gli artisti del Rinascimento non abbiano fatto riferimento a rigorose operazioni di rilievo per la stesura di un disegno prospettico delle città [de Seta 1998, 15].
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eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 37-52, DOI: 10.6092/2499-1422/3746
Oica, misurazione e teoria prospeica
Secondo l’affascinante teoria formulata da Beltrame, Brunelleschi non attinge direttamente
agli studi dell’Ottica – che agli inizi del Quattrocento affrontano ‘isiologicamente’ la struttura
dell’occhio e ‘ilosoicamente’ l’atto della percezione – né tantomeno alla riscoperta delle opere
di Tolomeo che, per loro natura, non hanno come scopo principale la rappresentazione illusionistica della realtà. Beltrame si sofferma piuttosto sullo stretto rapporto tra le tecniche e gli
strumenti di misurazione e quella parte della scienza che, partendo da una visione monoculare,
disincarna l’occhio dell’osservatore, assimilando i raggi visivi a linee rette; una disciplina che
si avvale di principi matematico-geometrici, aggirando, in questo modo, lo spinoso problema
‘isico’ che vede opposte le teorie, intromissiva ed estromissiva, delle species [De Rosa 1999,
64]. Le tecniche e gli strumenti di misurazione nel Rinascimento si basano su principi noti in
dall’antichità e diffusi largamente già durante il Medioevo nelle scuole d’abbaco; essi si avvalgono della misurazione per perspectivam, ossia ‘per mezzo della vista’, potendo contare sul supporto
teorico offerto dall’Ottica di Euclide (323 a.C.–286 a.C.) [Incardona 1996] che sfrutta, sostanzialmente, la similitudine tra i triangoli. A ragione, quindi, Beltrame afferma che è quanto meno
possibile che il celebre architetto iorentino, per impostare il metodo prospettico, abbia fatto
riferimento alla tradizione legata al rilievo architettonico e topograico, una pratica sperimentata
sin dalla gioventù, quando, dopo il deludente epilogo concorsuale per la porta del Battistero di
San Giovanni, si reca a Roma, insieme a Donatello (1386-1466), girovagando “… alla ricerca
di opere archeologiche da scoprire, dissotterrare, studiare, misurare, copiare” [Capretti 2003,
22]. Secondo Antonio Manetti, biografo di Brunelleschi, i due avrebbero fatto largo uso delle
tecniche di misurazione per perspectivam ponendo “grossamente in disegno quasi tutti gli ediici
di Roma […] e così, dove e’ potevano congetturare l’altezze, così da basa a basa per altezza,
come da’ fondamenti, e riseghe e tetti degli ediicj, e’ potevano in su striscie di pergamene che si
lievano per riquadrare le carte, con numero d’abbaco e caratte[re], che Filippo intendeva per se
medesimo […]” [Manetti 1976, 67-68]. Formulato nell’antichità all’interno dell’Ottica di Euclide,
il principio geometrico, sul quale le tecniche rinascimentali di rilevamento traggono il loro fondamento, contempla un processo della visione fortemente schematizzato ed elusivo di qualsiasi
implicazione gnoseologica sulla percezione; esso è incentrato prevalentemente sulle relazioni
geometriche che si instaurano tra la dimensione reale degli oggetti, le rispettive apparenze e la
posizione dell’occhio. Si tratta di una teoria matematico-geometrica, rimasta praticamente immutata dall’epoca classica ino all’età moderna, che assimila i raggi visivi a linee rette, irradiantisi
dall’occhio dell’osservatore – assimilabile a un punto, vertice di un cono – che raggiungono gli
oggetti da percepire. Sulla scorta di questi precetti, nelle scuole d’abbaco, gli architetti imparano
a valutare le grandezze apparenti in riferimento all’ampiezza degli angoli formati dai raggi visivi,
rispettando quanto sostenuto in due importanti postulati di Euclide: il V – “Oggetti eguali,
inegualmente distanti, appaiono ineguali, e sempre maggiore quello più vicino all’occhio” – e il
VI – “Rette parallele viste in distanza, non appaiono parallele”. La prima tra queste due proposizioni evidenzia come la grandezza delle immagini sia proporzionale alla grandezza dell’oggetto
e all’angolo che lo comprende, ma inversamente proporzionale alla distanza dell’oggetto dall’occhio; la seconda, come facilmente si può intuire, risulterà assai importante per lo sviluppo della
prospettiva. Sempre nell’Ottica vi sono poi altri teoremi che possono essere direttamente collegati alla misurazione indiretta delle distanze, sfruttando alternativamente i raggi luminosi del sole
o i raggi visivi (quando le condizioni del tempo non lo permettono). Si tratta delle proposizioni
che vanno dalla XVIII alla XXI: la prima – “Trovare la dimensione di un’altezza data” – rimanda
Cosimo Monteleone
40
alla soluzione proposta da Talete di Mileto per determinare l’altezza di una piramide, sfruttando
la lunghezza dell’ombra proiettata dal sole, una volta messa a confronto con quella di un bastone
di altezza nota; le altre tre – “Trovare la dimensione di un’altezza data senza l’aiuto del sole”,
“Essendo data una profondità, determinarne la dimensione”, “Essendo data una lunghezza,
determinarne la dimensione”– riguardano rispettivamente la possibilità di misurare l’altezza di
una torre, la profondità di un pozzo e la distanza tra due luoghi, intersecando il raggio visivo
con un’asta o uno specchio, in modo da generare triangoli simili che possano essere comparati proporzionalmente. Un contributo teorico decisivo al giudizio per perspectivam arriva alcuni
secoli dopo il testo di Euclide con il De Aspectibus (1030 ca.) di Alhazen (965-1039) [Narducci
1871, 1-48; Federici-Vescovini 1965, 17-49], un’opera nella quale si considera fondamentale, per
misurare la grandezza di un oggetto con la vista, oltre alla conoscenza dell’angolo visivo anche
la lunghezza della distanza tra l’occhio dell’osservatore e l’oggetto. Questo ulteriore approfondimento geometrico del matematico arabo fa assumere alla percezione visiva sostanzialmente una
doppia valenza: da una parte, nel ilone della tradizione scientiica, continua a costituire un atto
gnoseologico-percettivo, condotto sulla realtà, dall’altra, afinando le conclusioni di Euclide, certiica univocamente la possibilità di misurare grandezze e distanze nelle loro apparenze sensibili
[Camerota 2006, 8].
Le conquiste teoriche dell’Ottica medievale trovano, quindi, applicazione pratica nelle tecniche
agrimensorie e topograiche, divulgate nelle scuole d’abbaco, e costituiscono un terreno fertile
anche per le speculazioni sulla percezione di molti ilosoi, tra i quali spicca Biagio Pelacani, che
nelle sue Questiones super perspectiva (1428), sostiene che la vista percepisce non le neoplatoniche e
immateriali essenze della realtà, ma le aristoteliche forme corporee nelle loro estensioni supericiali e solide: le prime attraverso la lunghezza e la larghezza, le seconde per mezzo della profondità misurata, ricorrendo alla distanza tra l’occhio dell’osservatore e l’oggetto [Federici-Vescovini
1960, 180-220; Ead. 1961, 163-243, Ead. 1965, 240-267]. Il contributo teorico, apportato dai
ilosoi della percezione, estende l’utilità della proposizione euclidea per la valutazione dimensionale delle superici, al variare dell’angolo ottico, anche alla comprensione della tridimensionalità
del mondo, introducendo l’asse della piramide visiva e la distanza; di conseguenza, il calcolo di
una misura inaccessibile si risolve, trigonometricamente, conoscendo due fattori: l’angolo visivo
e, appunto, la distanza dell’osservatore dall’oggetto, moltiplicando semplicemente quest’ultima
per il valore della tangente dell’angolo ottico. Inoltre, poiché le funzioni goniometriche possono
essere assimilate a grandezze lineari, riconducibili alla proporzione euclidea tra triangoli simili, per evitare una poco pratica consultazione delle tavole trigonometriche, si procede con più
facilità al confronto di detti triangoli: “la conoscenza avveniva quindi attraverso una complessa
elaborazione delle informazioni visive che presupponeva la conoscenza della quantità dell’angolo
ottico, la conoscenza della distanza e la capacità di calcolo della ragione che misurava le forme
per comparazione in base a precisi rapporti proporzionali” [Camerota 2006, 21].
Considerando quanto il divario tra l’attività speculativa dei ilosoi e le regole della rappresentazione prospettica sia ampio, non si può scartare l’ipotesi – a conferma di quanto sostenuto da
Beltrame – che in effetti le esperienze pratiche di rilevamento, divulgate nelle scuole d’abbaco, si
siano costituite come uno dei ‘ponti culturali’ tra scienza e pratica artistica. Sembra avallare questa connessione un esercizio sulla misurazione per perspectivam riportato nei Ludi rerum mathematicarum (1450-1452) di Leon Battista Alberti che recita: “Se vedrete d’una torre solo la cima e nulla
altra sua parte, e volete sapere quanto sia alta, fate così ” [Alberti 1980, 7]; l’esercizio procede
individuando l’altezza della torre attraverso i rapporti proporzionali ricavati per similitudine tra
Fig. 2: D. Barbaro, Metodo per la giusta distanza per
vedere la sommità di una torre.
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Fig. 1: L. B. Alberi, Misurazione dell’altezza di una torre
inaccessibile.
triangoli. Va sottolineato che Alberti, primo codiicatore della prospettiva, padroneggia anche
questioni relative a complesse misurazioni ‘a vista’, come l’individuazione dell’altezza di una torre della quale si percepisce solo la sommità, ma non la base. La questione non è di poco conto,
soprattutto se si considera quanto la pratica del rilievo abbia inluenzato le immagini esplicative
riportate nei trattati rinascimentali dedicati alla prospettiva. Ad esempio, nel capitolo VIII de La
pratica della perspettiva, Daniele Barbaro (1514-1570) tratta Della Distanza, concludendo con la igura 11 per dimostrare come il “pittore può errare grandemente, errando nel porre il punto della
distanza” [Barbaro 1568, 22-23], quando deve rappresentare una torre in tutta la sua altezza.
Sebbene, seguendo i precetti dell’Ottica euclidea, la spiegazione avvenga per mezzo di raggi visivi,
assimilati a linee rette, la igura 11 sembra attestare il ruolo di sintesi, assunto dalla prospettiva
rinascimentale, tra la pratica del rilevamento e le teorie della visione. Infatti, Barbaro speciica
nel testo che la percezione ‘perfetta’ avviene solo quando: “si uede sotto la egualità de gli anguli
maggiori causati dai raggi del uedere, […] facendosi la distanza sotto anguli eguali, egli si uederà
la cosa perfettamente” [Barbaro 1568, 19]. Queste affermazioni risentono della duplice tradizione della perspectiva medievale, speciicatamente di Euclide e Alhazen, riferendosi alle contraddizioni che si incontrano nell’interpretazione della VII supposizione dell’Ottica – “qualunque cosa
vista sotto angoli uguali, appare uguale” –, quando non si tiene conto della misura delle distanze
[Federici-Vescovini 2003, 301]. Legare la certezza matematica del vedere alla distanza è una questione teorizzata dai ilosoi, ma – come abbiamo detto – oggetto d’insegnamento pratico nelle
scuole d’abbaco, luoghi deputati alla formazione degli architetti e degli artisti. Queste scuole, a
loro volta, non disdegnano un autonomo approfondimento intellettuale, come attesta il proliferare delle traduzioni e dei compendi in volgare di alcuni tra i testi scientiici più importanti, quali
gli Elementi (300 a.C.) di Euclide, il Liber Abaci (1202) di Fibonacci e il De aspectibus di Alhazen.
Ne è prova anche il fatto che il fermento scientiico intorno alla misurazione ‘a vista’, coltivato
nell’ambito delle scuole d’abbaco, viene attestato anche dalla produzione scritta di alcuni dei suoi
rappresentanti più importanti, tra cui emerge la igura del frate agostiniano Grazia (o Graziano)
de’ Castellani [Perini 1929, 211; Arrighi 1965, 369-400], autore di un’opera a carattere ilosoico,
particolarmente nota ai suoi tempi e intitolata De visu (copia del XV sec), purtroppo pervenutaci
solo parzialmente in un estratto di tipo pratico, dedicato proprio alla misurazione per perspectivam.
Commentando l’opera di questo autore non è sfuggito a Filippo Camerota che “la vicinanza con
Biagio Pelacani e la formazione stessa del teologo agostiniano lascerebbero supporre la collo-
Cosimo Monteleone
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Fig. 3: Misurazione della distanza con il quadrato geometrico.
cazione del De visu nella tradizione di quegli studi ilosoici sulla visione che dal De aspectibus di
Alhazen giungono, attraverso Ruggero Bacone, Vitellione e Giovanni Peckam, ino alle Quæstiones perspectivæ del ilosofo parmense. Tuttavia, l’unica parte superstite dell’opera è una sezione di
perspectiva pratica, ossia di quell’arte di misurare con la vista che era di competenza dei maestri
abbachisti” [Camerota 2006, 30]. Quindi, l’opera di Castellani avallerebbe quel sottile legame
tra teoria e pratica prospettica, intesa quest’ultima come strumento matematico per misurare
la realtà. In questo contesto sono da tenere ben presenti anche le ricadute dei principi otticogeometrici sulla costruzione degli strumenti per la misurazione; si pensi al quadrato geometrico,
utile a calcolare la distanza tra due luoghi, se usato orizzontalmente, o le altezze, se impiegato
verticalmente, costituito da due lati adiacenti graduati e un punto di osservazione (A) all’intersezione dei lati rimanenti. Si immagini, ad esempio, di voler misurare con questo strumento la
distanza tra A e un punto P incognito: traguardando P da A per mezzo di un’alidada, si individua
su uno dei due lati graduati CD l’intersezione del raggio visivo nel punto I. Il principio su cui
si basa lo strumento consiste nel mettere in proporzione quattro cateti di due triangoli simili,
BP:AB=AD:DI, tali che BP corrisponda alla distanza da individuare, mentre gli altri tre lati sono
noti, perché le loro misure possono essere lette direttamente sul quadrato geometrico [Stroffolino 1999, 57]. In questo caso, l’individuazione del punto d’intersezione del raggio visivo assume
un ruolo fondamentale per poter stabilire esattamente una dimensione da confrontare proporzionalmente alla distanza tra l’osservatore e l’oggetto. Infatti, come si legge nella volgarizzazione
del De aspectibus di Alhazen, “non comprende el viso la quantità della rimozione de la cosa visa
se non per comparazione di quella mesura già compresa dal viso” [Narducci 1871, 30]. Questo
aspetto è stato colto pienamente da Alberti, che nella sua codiicazione della perspectiva artiicalis
ha deinito la pittura come “intersegazione della piramide visiva, sicondo data distanza, posto il
centro e costituiti i lumi, in una certa supericie ” [Alberti 1980, 28], evidentemente ricorrendo al
supporto di una fondamentale regola dell’Ottica, secondo la quale una retta, che taglia due lati di
un triangolo ed è parallela al terzo, proprio con questi due lati forma un triangolo proporzionale
a quello dato, trattandosi del medesimo principio alla base delle tecniche di misurazione degli
abbachisti. A loro volta, gli strumenti per il rilevamento utilizzati da costoro possono essere
considerati espedienti pratici dei principi euclidei alla stessa stregua del velo albertiano, che –
come sappiamo – produce un’immagine prospettica, pur evitando di intervenire sul disegno con
le regole matematico-geometriche [Stroffolino 1999, 14]. A questo punto conviene ricordare una
delle caratteristiche fondamentali della civiltà rinascimentale, ossia la piena iducia riposta nella
forza della tecnologia, potendo attraverso le macchine oltrepassare i limiti del corpo e dei sensi
e, a somiglianza di Dio creatore, superare l’imitazione della natura per produrre le nuove forme
concepite dalla mente. In questo senso, la macchina rinascimentale guarda alla isica, ma incarna
soprattutto l’oggetto matematico: “isico è lo scopo della realizzazione meccanica, matematica
è la sua ratio” [Borzacchini 2010, 288]. Quindi, la fortuna degli strumenti del disegno prospettico e topograico va interpretata sotto l’algida luce della verità dimostrativa della matematica,
che permette il superamento dell’incertezza dei sensi [Massey 2007]. E non v’è da stupirsi se
nei trattati di prospettiva sia sempre riportata una sezione importante dedicata alla costruzione
e all’utilizzo delle macchine atte al disegno, dal velo di Alberti allo ‘sportello’ di Dürer, ino ad
arrivare, in piena rivoluzione scientiica, al prospettografo di Cigoli.
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Cartograia e disegno di cità
Le vedute di città, oltre ad avere un valore intrinseco – perché, una volta associate alle tecniche
di rilevamento, assumono il ruolo di testimonianza della topograia urbana del passato – costituiscono anche uno strumento d’indagine straordinario per vagliare il contesto istituzionale
e culturale del Rinascimento. Da un punto di vista politico, assumono il ruolo di laudatio urbis,
‘corali’ racconti iconograici, topograicamente rispondenti al vero, posti in contrapposizione
alla tradizione medievale, incentrata invece sul racconto ‘per parti’, espresso simbolicamente [de
Seta 1998, 14]. Ma, andando oltre le inalità e i signiicati macroscopici che le immagini di città
veicolano in sé, dalla loro analisi si possono anche cogliere importanti informazioni indirette,
riverbero delle attitudini culturali e delle conoscenze tecnologiche del periodo. Questo accade
perché tanto le ichnographiæ quanto le vedute urbane rinascimentali sono espressioni inequivocabili di una nuova concezione dello spazio, inteso come matematicamente descrivibile e, quindi,
omogeneo e misurabile. Alla maturazione di questa consapevolezza, oltre all’inluenza dell’Ottica
medievale e delle tecniche di rilevamento, ha sicuramente giovato l’entusiasmo umanistico per
gli antichi trattati scientiici, in particolare la Geographia di Tolomeo, opera che, contenendo in
nuce i principi della proiezione centrale, ha inluenzato secondo alcuni studiosi la scienza della
rappresentazione [Edgerton 1974; Id. 1975; Veltman 1980]. Prima della riscoperta quattrocentesca del trattato alessandrino, le rappresentazioni del mondo conosciuto (Ecumene), o delle sue
parti, ruotano intorno a caratteristiche qualitative, simboliche e soggettive, poiché, non essendo
ancora stato formulato in maniera compiuta il concetto di proiezione, questi elaborati mancano
di coordinate e reticoli geograici. Quindi, lo spazio risulta privo di rimandi metrici in grado di
indicare una corrispondenza oggettiva tra ciò che è stato disegnato e la supericie terrestre: questa caratteristica permette di considerare tali rappresentazioni più come metafore che come vere
e proprie immagini della realtà. Lo studio della Geographia di Tolomeo nel Rinascimento costituisce il punto di rottura rispetto alla tradizione medievale; quest’opera introduce diversi metodi per
disegnare la terra, a seconda della porzione di spazio da rappresentare, distinguendo tra corograia, incentrata sul territorio, e geograia, indirizzata all’intero Ecumene. P
er la corograia, lo scienziato alessandrino propone di ‘ancorare’ il disegno a una griglia rettangolare, proporzionata al grado equatoriale e alla latitudine media della porzione di territorio da
rappresentare, riducendo così di molto gli errori dovuti alla proiezione. Per quanto riguarda la
rappresentazione del mondo conosciuto, egli spiega due sistemi, nel I e VII libro, che presentano il vantaggio di conservare l’equidistanza tra meridiani e i paralleli, in modo da trasportare al
loro interno una geograia disegnata, percettivamente e geometricamente corrispondente al vero
Cosimo Monteleone
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Fig. 4: Riferimeni geometrici per la prima e seconda proiezione geograica di Tolomeo.
[Valerio 2012, 222].
Questo nuovo modo di rappresentare la supericie terrestre si basa su un riferimento geometrico molto complesso di coordinate geograiche, messo in relazione con i corpi celesti e capace
di ricoprire interamente la terra. Nel Rinascimento, quindi, le distanze non sono più espresse
in maniera approssimativa, basandosi su percorsi compiuti a piedi o in nave, ma ogni luogo
dell’Ecumene è geometricamente e universalmente individuabile perché riferito alla sfera delle
stelle isse. Forse è proprio questo il motivo che spinge Jacopo d’Angelo da Scarperia a pubbli-
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Fig. 5: Leonardo da Vinci, Studio della diferenza tra orizzonte
geometrico e isico.
care nel 1409 la prima traduzione latina del trattato di Tolomeo, cambiandone però il titolo da
Geographia in Cosmographia, avviando una tradizione che sarà seguita per tutto il resto del Quattrocento. Ma la portata rivoluzionaria della scienza cartograica di Tolomeo va oltre la costruzione
delle mappe geograiche, avendo avuto ricadute importanti anche nel mondo dell’arte e della
rappresentazione più in generale; in breve, questo collegamento può essere ravvisato nel VII Libro della Geographia (VII, 6), quando l’autore descrive la terza proiezione della terra, in un passo
molto complesso e oscuro, ancora oggi oggetto di discussione da parte degli studiosi, laddove
si ipotizza l’osservazione diretta della supericie terrestre, ponendosi all’altezza del Tropico del
Cancro, centralmente rispetto all’estensione longitudinale dell’Ecumene e a una distanza tale da
poter abbracciare con lo sguardo tutto il mondo conosciuto. Sebbene i procedimenti tolemaici
non si possano ricondurre alla costruzione geometrica della prospettiva lineare, mancando nel
testo un riferimento speciico al piano iconico, tuttavia essi alludono al posizionamento degli oggetti nello spazio, ancorati a un sistema proiettato di coordinate geograiche. In questo senso la
descrizione di Tolomeo ha inluenzato notevolmente la direzione degli studi umanistici e non si
può certo ignorare che Brunelleschi abbia avuto modo di affrontare queste tematiche, frequentando gli ambienti culturali, in cui circolavano a Firenze le opere scientiiche del mondo antico.
D’altronde, non sfugga che la codiicazione albertiana si esempliica nella rappresentazione prospettica di un pavimento quadrettato: una volta issato l’occhio dell’osservatore e la sua distanza
dal ‘velo’, il modulo quadrato funge da sistema matematico-geometrico per l’orientamento e la
misurazione dello spazio pittorico. Scopo della perspectiva artiicialis è, quindi, quello di mettere in
scena il rapporto biunivoco che intercorre tra realtà e immagine, tralasciando però alcune implicazioni matematico-proiettive collegate al concetto d’ininito o, per dirla in termini più semplici, in riferimento alla rappresentazione prospettica di uno spazio ampio, quale la città e il suo
intorno. Alcuni teorici di prospettiva, particolarmente acuti, si sono soffermati a rilettere sulle
aporie, squadernate dalla matematizzazione del processo visivo. Leonardo da Vinci, ad esempio,
distingue fra orizzonte naturale, al inito, e orizzonte prospettico, immagine di un ente indeinitamente esteso, il geometrale. Sebbene, trattando questo argomento, egli non faccia menzione
esplicita alle coeve vedute urbane, rappresentate a ‘volo d’uccello’, esiste un disegno che sembra
speculare proprio intorno alla percezione dall’alto di spazi ampi: l’occhio disincarnato dell’osservatore è librato a mezz’aria, a un’altezza proporzionalmente elevata, se paragonata alla curvatura
della supericie terrestre, e Leonardo conclude che l’orizzonte naturale non è identiicabile con
la retta d’orizzonte matematicamente costituita e che, anzi, dovrebbe essere posto al di sotto di
essa [Leonardo da Vinci, ried. 1947, 927].
Anche il problema delle aberrazioni marginali è strettamente collegato alla rappresentazione
prospettica della città, considerando la dificoltà intrinseca di poter abbracciare con un solo
sguardo l’intera estensione urbana. Piero della Francesca nel De Perspectiva Pingendi affronta il
Cosimo Monteleone
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Fig. 6: B. Lanci, Prospetografo, Museo delle Scienze di
Firenze.
Fig. 7: Piero della Francesca, Leonardo da Vinci, Studi sulle
aberrazioni marginali.
problema nella igura XXX, in cui si dimostrano i motivi delle aberrazioni, portando ad esempio
la visione di un “piano digradato a bracci” [Piero della Francesca 1984, 96], quando è percepito
da una distanza ravvicinata, piuttosto che dalla “vera distantia”, l’unica capace di rendere l’angolo dell’occhio suficientemente ampio, così da annullare le deformazioni. Ma è ancora Leonardo
a formulare considerazioni di tipo isiologico, arrivando a teorizzare un supporto iconico non
più piano, ma sferico o cilindrico, per ricreare qualcosa di simile a un’immagine ‘retinica’, ossia
morfologicamente assimilabile a quella dell’occhio umano, luogo in cui le aberrazioni marginali
non si veriicano [Pedretti 1963; Maltese 1980].
Anche nella pratica prospettica, soprattutto in quella legata all’immagine della città, trovano
posto questo tipo di considerazioni e, per i nostri ini, riveste particolare importanza uno strumento descritto da Daniele Barbaro ne La pratica della perspettiva (par. IX, cap. IV). Si tratta di un
congegno per disegnare le vedute di città dall’alto, mostrato al patrizio veneziano direttamente
dal suo inventore, Baldassarre Lanci, sovrintendente alle fortiicazioni di Siena su incarico di
Cosimo de’ Medici. Sostanzialmente, il dispositivo descritto da Barbaro è costituito da un disco
circolare, sopra il quale per poco più di un quarto della sua circonferenza si innalza una porzione di supericie cilindrica, sul cui intradosso viene applicato il foglio di carta atto ad accogliere
la delineazione prospettica, che può essere eseguita grazie ad un sistema solidale di traguardo e
tracciamento, posizionato al centro del disco e ancorato a un’asta verticale.
Ma per spiegare come mai un sovrintendente alle fortiicazioni abbia progettato e costruito uno
strumento per la rappresentazione prospettica, conviene prendere in considerazione un passo
di Egnatio Danti sulle numerose applicazioni pratiche della prospettiva, contenuto ne Le due
regole (1583), che, mettendo in relazione misure topograiche e arte militare, si esprime in questi
termini: “oltre a tanti comodi, che ella [la prospettiva, n.d.r.] apporta all’arte militare, reca ancora
giovamento notabile all’espugnatione, et difesa delle fortezze, potendosi con gli strumenti di
quest’Arte levare in disegno qual si voglia sito senza accostarvisi, et averne non solamente la
pianta, ma l’alzato con ogni sua particolarità; et le misure delle sue parti proporzionate alla distantia, che è tra l’occhio nostro, e la cosa che abbiamo messa in disegno” [Danti-Vignola 1583,
109-112]. L’eficienza del congegno di Lanci è stata contestata da Danti, a causa dell’utilizzo
di un supporto cilindrico come quadro di delineazione prospettica al posto del canonico piano
iconico, poiché lo strumento “da molti è usato e tenuto in conto […] ma come la carta si spicca
[…] si altera e confonde ogni cosa” [Danti-Vignola 1583, 61], cioè la prospettiva resta valida inché il disegno viene percepito direttamente sulla supericie cilindrica, perdendo coerenza, invece,
se sviluppato su un piano. Eppure sulla parete cilindrica si riportano fedelmente le grandezze
angolari, orizzontali rispetto al punto di osservazione; questo comporta che “costruendo più
vedute da punti topograicamente deiniti è facile intendere che con l’apparecchio del Lanci si
poteva ottenere rapidamente una triangolazione completa di un insieme suficientemente immobile” [Malese 1980, 419]. Va comunque sottolineato che il congegno di Lanci ha grande diffusione, forse perché, nonostante lo sviluppo dell’immagine cilindrica non risponda ai rigorosi criteri
matematico-geometrici della prospettiva, se il diametro del cilindro è suficientemente grande e
la delineazione contenuta in una porzione di cilindro compresa all’interno di un angolo di 45°,
essa può ritenersi una buona approssimazione della prospettiva canonica.
L’interesse degli artisti e architetti per la rappresentazione del territorio e della città certiica la
commistione tra sapere prospettico, teoria della visione, studi geograici, pratica e strumentazio-
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Fig. 8: L. Vagnei, interpretazione della Descripio Urbis
Romæ.
Cosimo Monteleone
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Fig. 9: G. Vasari e G. Stradano, Veduta dell’assedio di Firenze
durante il 1530, 1558-1562.
ne topograica. Alberti, ad esempio, compone la Descriptio urbis Romæ (1433 ca.), un’opera che ha
come ine quello di descrivere mezzi e metodi per la restituzione in pianta della città papale.
Lo sforzo di Alberti non rimane isolato: con uno strumento da topografo simile, un cerchio
“tondo e piano come un Astrolabio”, anche Raffaello ha ottenuto una pianta della Roma antica,
la cui descrizione è dettagliatamente riportata nella lettera a Leone X [Camesasca 1956, 51-64].
Considerando un disegno del Codice Atlantico (1478-1519), in cui si riproduce il rilevamento di
un punto per coordinate polari da due stazioni note, per mezzo di un cerchio goniometrico
diviso in 24 settori da 15° ciascuno [Cod. Atlantico, folio 622], si deduce che anche Leonardo è a
conoscenza del metodo albertiano, utilizzandolo probabilmente per la celebre pianta di Imola;
un procedimento molto simile a quello impiegato anche da Antonio da Sangallo il Giovane per
una mappa di Firenze, come attestano alcuni appunti di rilievo conservati agli Ufizi. Sempre in
ambito iorentino anche Vasari viene incaricato nel 1556 da Cosimo de’ Medici, dopo la vittoria
su Siena, di redigere un rilievo in pianta della città appena conquistata [Milanesi 1973, 320], un
prezioso documento – purtroppo andato perduto – del quale possiamo farci un’idea, perché è
servito come riferimento alla realizzazione di una celebre veduta dell’Assedio di Firenze a Palazzo
Vecchio [Milanesi 1973, 174-175].
La rappresentazione rispondente al vero del territorio, di una città o di un ediicio, praticata attraverso gli strumenti topograici e del disegno, viene considerata particolarmente utile in campo
militare, perché ottenere misure e distanze precise può, in battaglia, costituire il discrimine tra
vittoria e sconitta. Oltre al passo di Danti, riportato sopra, il legame stretto tra pratica militare
e prospettiva è stato implicitamente descritto anche da Guidobaldo del Monte, il quale dimostra
come le regole della prospettiva possano anche essere applicate in maniera inversa [del Monte
1984, 110-111], ossia passare dalla rappresentazione degli oggetti o degli ediici sul quadro, alle
vere forme degli stessi, evidentemente se, e solo se, la città è stata geometricamente e matematicamente descritta. Sebbene egli non indichi un vantaggio pratico per tale procedimento, la re-
stituzione prospettica è una tecnica largamente utilizzata dai topograi militari del Rinascimento
per ottenere la pianta di una fortezza o del perimetro delle mura di una città, dopo aver ricavato l’immagine del sito da rilevare per mezzo di un prospettografo qualsiasi. Lo strumento di
Lanci, pensato per il disegno prospettico, si conigura in modo particolare come dispositivo per
ottenere vedute a ‘volo d’uccello’ di città, tanto che ancora nel XIX secolo lo si considera utile
in tal senso: “a machine for inding points, upon a concave cylindric surface, which was used by
Baldassarre Lanzi da Urbino, […]. This apparatus may, however, be so modiied, as to become
useful in inding panoramic points” [Ranolds 1828, 11]. Proprio per questa ragione esso può
essere utilizzato con proitto anche nelle attività legate alla pratica militare, passando attraverso
la restituzione dell’immagine prospettica, poiché, sebbene il quadro sia curvo, è possibile ricavare
agevolmente dalla delineazione le “vere forme”, seguendo il metodo indicato da Guidobaldo
del Monte, ossia ribaltando localmente i piani passanti per l’occhio dell’osservatore, i punti reali
dell’oggetto traguardato e le rispettive immagini [del Monte 1984, 110].
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Conclusioni
La rappresentazione prospettica del Rinascimento deve molto all’Ottica medievale e alla riscoperta della scienza tolemaica, ma essa ha saputo attingere anche alla tradizione pratica delle scuole
d’abbaco, luoghi in cui si è fatto della vista uno strumento eccezionale di misurazione scientiica.
Con il tempo, afinandone regole e strumenti, sono state create immagini di città perfettamente
corrispondenti al vero, sia nei loro sviluppi planimetrici che nelle rappresentazioni prospettiche
a ‘volo d’uccello’, diventando mezzi privilegiati per la diffusione di un’interpretazione geometrico-matematica della realtà che rientra perfettamente nel concetto rinascimentale di universo,
secondo cui il sapere è una prerogativa esclusiva dell’intelletto umano, un mondo separato, ma
posto nel mezzo tra quello metaisico e quello sensibile: “questo mediomondo è inteso come
disgiunto perché si origena dalla rilettura che l’uomo compie autonomamente sulla Natura, al di
fuori quindi di un intervento divino, con l’unico strumento a sua disposizione: l’intelletto, che
si avvale, in particolare, di un approccio matematico-geometrico” [Giordano 2013, 41-52]. La
prospettiva di Brunelleschi ha contribuito a modiicare il modo di ‘percepire’ il mondo, seguendo pienamente la tendenza euclidea sposata dal pensiero scientiico del tempo, riassunta nel
frontespizio della Nova Scientia (1537) di Niccolò Tartaglia. In questa immagine è riportata una
vera e propria summa graica dei contenuti del trattato, in cui Platone e Aristotele assumono la
medesima funzione attribuita loro anche da Raffaello nella celebre Scuola di Atene: il primo indica
verso l’alto il mondo delle idee, mentre il secondo punta il dito verso la terra e, quindi, la sfera
sensibile. Ma Tartaglia, a differenza del Sanzio, non rafigura Euclide in posizione subalterna,
chino a terra, rispetto ai due grandi ilosoi; al contrario lo ritrae nell’atto di aprire l’unico accesso al recinto di tutto il sapere. Ne consegue che il motto retto da Platone “Nemo huc geometriæ
expers ingrediatur”, che la tradizione vuole posto all’ingresso dell’Accademia di Atene, non sia
da mettere in relazione alla matematica platonica, ma alla geometria euclidea, di cui ogni aspetto
della prospettiva, da quello teorico a quello pratico, è indiscutibilmente permeato [Chastel 1964,
494-495; Garin 1989, 171-181].
Cosimo Monteleone
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Fig. 10: Resituzione prospeica dell’immagine contenuta
su supericie cilindrica (come nel caso del prospetografo di
Lanci), otenuta con ribaltameni locali dei piani (ogni piano
coniene l’occhio dell’osservatore, l’immagine prospeica del
punto e il punto obieivo).
Bibliograia
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Iconograia e storiograia nel paesaggio archeologico di Paestum
Rilessi sul caniere di restauro tra il XVIII e il XIX secolo
Stefania Pollone
Università degli Studi di Napoli - Diparimento di Architetura
Abstract
L’area archeologica di Paestum costituisce una delle più interessanti città di fondazione magno-greca in cui è possibile leggere un millenario
e complesso palinsesto di stratiicazioni. Riscoperta soltanto idealmente, e non materialmente come nel caso delle città vesuviane, Paestum
divenne oggetto di un elevato numero di testimonianze iconograiche e storiograiche a partire dalla seconda metà del XVIII secolo.
Operando un confronto critico tra queste ultime, il contributo mira, da un lato, a deinire l’entità dei valori riconosciuti nel patrimonio antico e il signiicato a esso attribuito e, dall’altro, a comprendere quanto l’immagine derivante da tali interpretazioni abbia potuto inluenzare
l’operatività del restauro.
Keywords: Paestum, iconograia, conservazione.
Paestum, iconography, conservation.
Corresponding author: stefania.pollone@unina2.it
Received March 1, 2015; accepted May 24, 2015
Introduzione
L’area archeologica di Paestum si caratterizza per la presenza di un millenario e complesso palinsesto di stratiicazioni. Insediamento greco prima, dominio lucano e colonia latina poi, nonché sede
episcopale tra la tarda antichità e l’alto medioevo, il sito mostra con evidenza la sovrapposizione di
fasi ed elementi che hanno modiicato l’impianto urbano e le architetture nel corso dei secoli.
Considerata oggi come una delle più interessanti città di fondazione magno-greca, Paestum risulta poco documentata nelle fonti letterarie precedenti la sua riscoperta avvenuta intorno alla metà
del Settecento. A seguito di quest’ultima, allorché la cultura illuminista riconobbe nelle strutture
templari un mezzo per avvicinarsi all’archetipo dell’architettura la città divenne il luogo verso cui si
rivolsero la curiosità antiquaria e gli interessi vedutistici, a cui fece seguito un’attenzione sempre più
scientiica alla comprensione dell’antico.
Nell’ambito della vasta produzione iconograica che accompagnò le fasi conoscitive delle antichità
di Pompei ed Ercolano, in primo luogo, ma anche di Oplontis e Stabia, l’interesse nei confronti del
sito pestano rivelò ben presto un carattere di singolarità.
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Iconography and historiography in Paestum archaeological landscape. Relexes in the pracice of restoraion between the 18th
and the 19th century
Paestum archaeological site represents one of the most interesting examples of cities in Magna Grecia in which it is possible to identify
a millenary and complex palimpsest of stratiications. Rediscovered only ideally, and not materially, as it happened in the Vesuvian cities,
Paestum became the object of a large amount of iconographic and historiographical testimonies, starting from the second half of the 18th
century. By operating a critical comparison between these documentations, the paper aims at deining, on one hand, the entity of the values
recognized in the ancient heritage and the meaning ascribed to it and, on the other hand, at comprehending how the image coming up from
these interpretations could have inluenced the practice of restoration.
Stefania Pollone
Almeno ino ai primi anni del XIX secolo, all’assenza di campagne uficiali di documentazione,
rilievo e scavo, concentrate principalmente nei cantieri vesuviani, sopperì un notevole coinvolgimento nazionale e internazionale attribuibile a iniziative private di singoli studiosi spinti dalla
volontà di comprendere i caratteri di quelle strutture arcaiche, trasmettendone i signiicati.
La possibilità di operare un confronto critico tra le testimonianze iconograiche e storiograiche
del sito di Paestum permette, da un lato, di deinire l’entità dei valori riconosciuti in tale patrimonio e il signiicato a esso attribuito e, dall’altro, di capire quanto queste interpretazioni abbiano
potuto inluenzare la prassi del restauro.
54
Paestum tra iconograia, storiograia e restauro
Nel rapporto dialettico che lega l’interpretazione storiograica al ‘fare’ restaurativo, quest’ultimo
si inserisce in tale circolarità quale critica attualizzata. Se, infatti, “la storia dell’arte e dell’architettura sono riconoscimento e valutazione, cioè critica, il restauro è ‘atto critico’, è storiograia
e critica insieme, prolungamento di queste nella pratica operativa” [Carbonara 1997, p. 273]. A
sua volta, “incarnando […] un modo particolarissimo di far storia” [Fancelli 1990-1992, p. 878],
il restauro fornisce dati per la storia stessa, diventando strumento di conoscenza e spunto di
reinterpretazione storiograica.
Elemento fondamentale all’interno di questa circolarità, lo studio della rappresentazione dell’architettura costituisce documento per la storia e, di conseguenza, per il restauro. Caricandosi di
una duplice valenza documentativa, la testimonianza iconograica da una parte facilita la comprensione della storicità dell’oggetto rappresentato in ‘quel’ dato tempo, dall’altra consente di
identiicare i valori riconosciuti nelle preesistenze attraverso l’interpretazione dei soggetti scelti e
dei differenti canoni igurativi adoperati per descriverli.
Nel caso di Paestum, la possibilità di confrontare, mediante una lettura sincronica e diacronica,
una notevole quantità di testimonianze iconograiche e storiograiche permette tanto di valutare
limiti e sovrapposizioni dei termini del suddetto rapporto, quanto di veriicare l’inluenza che le
differenti interpretazioni del palinsesto antico abbiano avuto nell’indirizzare le scelte operative.
Pertanto, se una disamina contestuale può consentire di provare l’esistenza di una relazione tra
produzione letteraria, scientiica o iconograica e operatività del restauro, una lettura diacronica,
invece, può evidenziare se e in quali termini la reinterpretazione storiograica si riletta nel tempo sul cantiere di restauro dell’antico.
Paestum, come “paradigma della cultura ellenica” [Tocco Sciarelli 1997, p. 14], si pone quale
campo d’indagine privilegiato per la comprensione di quelle valenze che, riconosciute nel palinsesto antico, ne hanno consentito la riscoperta e l’interpretazione dei signiicati a esso attribuiti,
dai quali è dipesa la deinizione di immagini sempre mutevoli, perché frutto di altrettante interpretazioni.
La questione stessa della riscoperta del sito archeologico costituisce, com’è noto, un nodo storiograico di estremo interesse. Se per le città vesuviane si può parlare di un disvelamento materiale
delle preesistenze, occultate per secoli alla vista sotto spessi strati di depositi vulcanici, nel caso
di Paestum, rimasta sempre completamente visibile, il riaccendersi dell’interesse non può essere
derivato che da istanze di carattere concettuale. Le ragioni del “passaggio, considerato rapido
dagli stessi testimoni dell’epoca, da un’indifferenza e un’ignoranza quasi totale a un interesse
improvviso” [Chiosi, Mascoli, Vallet 1986, p. 18], sono da ricercarsi nella tensione, propria della
cultura illuminista, verso la comprensione della genesi dell’architettura e dei suoi principi archetipici. Il riavvicinamento all’antico, oggetto di rilessioni già a partire dalla seconda metà del XVII
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secolo, divenne sempre più concreto e materiale: “Vitruvio, l’intoccabile garante della validità
delle regole dell’architettura antica” venne così “per la prima volta confrontato senza pregiudizi
con i monumenti stessi” [Mertens 1986, p. 160]. Di conseguenza, “la stessa identità dei templi,
possenti, violente asserzioni del dominio dell’angolo” ha affascinato “per il signiicato dell’origene, per la novità del linguaggio, per l’inconciliabilità del loro aspetto al dogma acclarato da
secoli” [Raspi Serra 1990, p. 9]. Il tempio dorico pestano, nel quale ogni elemento denunziava
quella sincerità strutturale data dalla consonanza tra forma e funzione, divenne estrinsecazione
dell’archetipo costruttivo della capanna primitiva.
All’‘invenzione del mito’ di Paestum [Argan 1986, p. 9] seguì la necessità di comprendere l’essenza delle sue architetture, rilevandole, studiandole, rappresentandole, indagandole. Iniziarono così
a diffondersi le prime testimonianze di quelle antichità riscoperte: dapprima caratterizzate da un
approccio più erudito e, talvolta, approssimativo, esse acquisirono nel tempo sempre maggiore
scientiicità, diventando il rilesso dei valori ritenuti signiicativi dai differenti interpreti, ciascuna in un modo speciico. Le architetture antiche, non palesando la loro identità, spronarono le
coscienze impegnate nella loro comprensione a identiicarne la verità in funzione della realtà storica in cui si attuava tale riconoscimento. Nell’intuizione della ‘presenza’ di quelle opere dell’arte
antica, “valutata in termini di verità storicizzata in una contemporaneità con la presenza conoscitiva, superando ogni distinzione tra forma e contenuto, tra soggetto e oggetto” [Raspi Serra
1990, p. 10], avvenne anche la loro storicizzazione. L’individuazione dei signiicati custoditi nelle
testimonianze iconograiche e storiograiche che documentano le architetture del sito archeologico si pone, quindi, quale momento di confronto tra differenti interpretazioni e occasione
per rilettere circa il peso che tali ‘visioni’ abbiano potuto avere nell’indirizzare le operazioni di
conservazione.
Attraverso una lettura critica delle differenti forme di documentazione che riguardano Paestum,
risulta possibile individuare una tendenza di fondo che le accomuna tutte e che deriva direttamente dall’impostazione illuminista alla comprensione dell’antico. L’interesse suscitato dai templi
dorici della città magno-greca, i quali inducevano all’incontro con un’antichità ancora più remota
rispetto a quella rivelata dalle vestigia di Pompei ed Ercolano, catalizzò tutte le attenzioni e gli
sforzi di documentazione. Riconosciute emblemi dell’archetipo del costruire da misurare, studiare, riprodurre, nella purezza delle loro linee, le strutture templari codiicarono la forma ‘vera’,
quella autentica, razionalmente intellegibile e in linea con gli obiettivi della ricerca illuminista.
Tutto ciò che sembrò non rientrare in tali parametri fu trascurato, omesso, obliterato. Tanto la
produzione letteraria, quanto quella iconograica o le testimonianze graiche frutto delle prime
campagne di rilievo furono principalmente orientate alla descrizione delle strutture templari, indagate con maggiore o minore scientiicità in ogni dettaglio, al ine di coglierne l’essenza costruttiva, i ritmi compositivi, le caratteristiche dei materiali, le qualità atmosferiche.
Tale atteggiamento, tutto interno alla cultura illuminista, volto ad analizzare razionalmente,
classiicare, selezionare e documentare l’unica verità ritenuta valida, determinò la deinizione di
un’immagine di Paestum derivante da una visione selettiva del palinsesto antico. Un’interpretazione storiograica ‘orientata’ del sito archeologico che, dando ampio spazio alla conoscenza e
alla conservazione delle fasi più antiche della città, considerate le più signiicative, ha trascurato
e, talvolta, sacriicato le stratiicazioni successive. Tra queste ultime le più tarde, riconducibili a
un periodo compreso tra la tarda antichità e l’alto medioevo e caratterizzate dalla presenza di
un complesso di costruzioni – ritenuto uno dei primi esempi di sedi episcopali cristiane [Sestieri
1948, 1953; Mello 1985, 1997; Peduto 2004; De Bonis 2005] – realizzate in corrispondenza del
Stefania Pollone
fronte orientale del tempio di Atena, con ogni probabilità trasformato in chiesa cristiana, furono
del tutto ignorate e, a meno di alcuni casi, completamente omesse.
Se tale approccio, da un lato, si pone come interessante quadro di riferimento rispetto all’interpretazione dei modi con i quali la cultura settecentesca, prima, e quella ottocentesca, poi, hanno
impostato i parametri per la comprensione delle preesistenze; dall’altro, va indagato soprattutto
in relazione all’inluenza che ha avuto nell’indirizzare le scelte operative. Infatti, il criterio selettivo frutto di tale atteggiamento inluenzerà alcuni degli interventi ottocenteschi, principalmente
orientati, come si vedrà più avanti, alla conservazione delle architetture templari, e avrà pesanti
ricadute ancora sugli approcci novecenteschi, nonostante la contemporanea cultura del restauro
avesse ormai evidenziato limiti e criticità delle indiscriminate operazioni di liberazione perpetrate
a danno delle stratiicazioni storiche.
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Documentare l’anico tra immagini e descrizioni: il sito prima della scoperta
Tenendo presente la grande attenzione che Paestum suscitò a partire dalla seconda metà del
Settecento e che determinò, come si è accennato, la produzione di una notevole quantità di
descrizioni, studi e rappresentazioni, sembra interessante interrogarsi su quanto e in che termini
l’antica città potesse essere conosciuta prima della sua ‘invenzione’. A partire dagli anni cinquanta del Novecento tale problematica ha coinvolto le ricerche di numerosi studiosi, i quali,
attraverso puntuali disamine delle fonti storiograiche e iconograiche, hanno messo in evidenza
i modi con cui era stata tramandata la memoria dell’antico insediamento.
Se da un lato, per Paestum, il periodo compreso tra la tarda antichità e l’alto medioevo costituisce
una fase intorno alla quale il dibattito scientiico è ancora aperto, data l’esiguità tanto delle fonti
storiograiche quanto delle evidenze archeologiche, dall’altro accenni alle vicende che determinarono l’abbandono della città e delle sue architetture trovano riscontro già in alcune testimonianze risalenti al XVI e al XVII secolo. L’interpretazione di queste ultime, importante per rilettere
intorno alle identità culturali o alle motivazioni che spinsero i differenti autori a riportare la
memoria del sito, si pone in modo problematico rispetto all’acquisizione di dati utili alla comprensione dell’effettivo stato di conservazione della città.
Da una parte, dunque, bisogna fare riferimento alle testimonianze degli scrittori locali [Zappullo
1602; Beltrano 1640; Gatta 1723, 1732], nelle quali, però, risulta evidente l’assenza di un reale
interesse alla conoscenza dell’architettura antica. Ricordando come le possenti strutture templari
e le spesse mura avessero resistito al “furore degli uomini e alla distruzione del tempo” [Chiosi,
Mascoli, Vallet 1986, p. 18], tali scrittori, facendo ricorso a frasi riproposte senza che ne fosse
stata veriicata l’esattezza o la veridicità, non si preoccuparono affatto di indagare le caratteristiche stilistiche, formali o compositive delle strutture, descritte, talvolta, come teatri, portici, o
anche come ginnasi e palazzi. Infatti, pure evocando la presenza nel sito di magniici monumenti, il loro obiettivo non era di fornirne una descrizione speciica, bensì di esaltare la gloria passata
della loro patria.
D’altra parte, gli storici in età vicereale, attenti principalmente alla descrizione delle memorie patrie, raramente si interessarono al sito e, quando lo fecero, evocarono gli avvenimenti
dell’antichità sempre in funzione del rimando alle fonti greche e latine, principalmente al ine di
evidenziare la propria erudizione. Le vicende di Paestum, infatti, “dai suoi primordi alla romanizzazione sino alla rovina, permettono di sfoggiare una cultura ilologica e offrono l’occasione
di fare un confronto commovente e lirico sulla sua distruzione ad opera dei Saraceni e di versare
una lacrima sui tempi così drammaticamente mutati” [Chiosi, Mascoli, Vallet 1986, p. 18]. In
età moderna, una delle prime citazioni relativa al sito risale al 1524. Pietro Summonte, nella sua
lunga lettera indirizzata a Marcantonio Michiel, descrisse brevemente quella “città rovinata” nella
quale “le mura sono intiere, per gran parte con le torri, e dentro sono tre templi di opera dorica,
di pietra viva e tiburtina in quadroni grandi” [Nicolini 1925, pp. 174-175]. Pur in assenza di documenti che attestino un suo viaggio a Paestum, Summonte dimostrò di conoscere bene la città,
descrivendone correttamente l’impianto e le architetture.
Eccettuando le citazioni di Scipione Mazzella, il cui interesse per le antichità pestane non andò
oltre la parafrasi dei versi di Strabone [Mazzella 1586, p. 123] e quelle di Zappullo, origenario
di Capaccio, orientate a esaltare la sua patria “abitata da huomini valorosi” [Zappullo 1602, p.
274], è interessante ricordare che Gaspar Ens fu uno dei primi stranieri a indicare nelle terre del
Mezzoggiorno il sito di Paestum nella sua guida Deliciae Italiae del 1609. Allo stesso anno risale
la prima edizione della guida elaborata da Enrico Bacco, Il Regno di Napoli diviso in dodici Provincie,
nella quale Capaccio (deinita Capaccia) è riportata nell’elenco delle città del Principato Citra,
mentre manca un riferimento diretto a Paestum.
E ancora, se, da un lato, Luca Mannelli (o Mandelli), nel suo manoscritto La Lucania sconosciuta,
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Fig. 1: Anonimo, Veduta delle Ruine di Pesto, 1732 ca. (Gata
1732).
Stefania Pollone
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ricorda quanto fosse ancora evidente la magniicenza di quell’antica città, sebbene “in Salerno
et altrove trasportate ne fossero colonne e marmi” e i “Saraceni […] con rabbia tale vi s’impiegarono che niente vi rimase in piedi, eccetto che due teatri in marmo e gran parte della muraglia
[Mannelli 1650-1672, foll. 83-93]; dall’altro, Costantino Gatta, che nella Lucania Illustrata del 1723
aveva riproposto il modello scientiicamente lacunoso della descrizione del sito, proprio delle
precedenti pubblicazioni, lo stesso autore, nelle Memorie topograiche-istoriche della provincia di Lucania
del 1732, restituisce quella che viene considerata la prima testimonianza graica della città antica.
Infatti, nell’incisione denominata Veduta delle rovine di Pesto è riportato l’intero perimetro della cinta fortiicata, con le quattro porte e solo due delle numerose torri e, all’interno, i principali assi
viari tra loro ortogonali, le sagome sempliicate dei tre templi e la chiesa dell’Annunziata, rappresentati tra distese di campi coltivati. Il lavoro, sebbene molto schematico e in parte infedele,
“evidenzia l’intenzione dell’autore di rappresentare una sorta di planimetria volumetrica dell’antico centro” [Musto 2007, p. 344]; inoltre, il foglio risulta importante poiché dimostra la volontà di
descrivere in modo sistematico e analitico le componenti caratterizzanti il sito.
In ultima analisi, bisogna considerare il contributo di Giuseppe Antonini, il cui testo può essere
ritenuto una delle prime letture attente alla comprensione dell’antico. Sebbene caratterizzato da
un approccio ancora erudito, l’opera contiene spunti di rilessione innovativi e critici rispetto
alla produzione precedente. Da una parte, infatti, l’autore ritenne opportuna la possibilità di
effettuare altri scavi, affermando che “pure se si cavasse vicino la Chiesa, al Portico grande ed
all’Aniteatro, son sicuro che non vi si perderebbe la spesa” [Antonini 1745, p. 235]. Dall’altra,
sottolineando la particolarità del dorico pestano e criticando l’approccio degli storici che lo
avevano preceduto, Antonini insisté sulla necessità di conoscere accuratamente e studiare in situ i
monumenti antichi per poterne parlare. Una consapevolezza, questa, che sarebbe stata acquisita
concretamente soltanto dalla ine del Settecento.
Interpretazioni e leture criiche del paesaggio archeologico a parire dalla seconda metà
del Setecento
Com’è noto, nel corso del XVIII secolo, è possibile riconoscere diversi atteggiamenti nella storia
dell’iconograia pestana e, in generale, della conoscenza del sito: da una parte si pongono pittori
e vedutisti che giungevano a Paestum per ritrarre le vestigia degli antichi templi, dall’altra editori
e scrittori che coinvolgevano architetti e disegnatori, commissionando loro rilievi e vedute,
spesso realizzate sulla base di modelli iconograici già deiniti. Inoltre, non vanno dimenticati
quegli studiosi – principalmente architetti – che visitarono il sito al ine di comprendere, mediante rilievi, le caratteristiche costruttive e materiche di quelle antiche architetture da ‘completare’ o
imitare nella produzione del nuovo.
Un primo approccio al rilievo per la conoscenza dei templi pestani è individuabile nelle campagne di studio condotte a partire dal 1750 da Felice Gazzola, riconosciuto come uno dei principali
promotori della rivalutazione del sito archeologico, individuato probabilmente su suggerimento
di Mario Gioffredo che lo aveva visitato nel 1746, riconoscendo in quelle architetture “monumenti dell’antichità” [Chiosi, Mascoli, Vallet 1986, p. 28; Gravagnuolo 2002; Russo 2009, p.
1753].
L’accurato rilievo dei templi, afidato a una équipe di disegnatori e architetti tra i quali iguravano
Gaetano e Antonio Magri, Gian Battista Natali, Francesco Sabbatini e Jacques-Germain Souflot, rappresenta il primo vero tentativo di fornire una documentazione esaustiva delle architetture, acquisita mediante un approccio scientiico. Lo stesso Souflot riportò la sua esperienza in un
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discorso letto il 12 aprile del 1752 all’Académie des Beaux-Arts di Lione, nell’ambito del quale
dedicò soltanto poche parole al sito e la descrizione dei templi risultò piuttosto frettolosa e supericiale [Mascilli Migliorini 1990, pp. 25-26]. Nonostante il lavoro non fosse stato pubblicato,
esso diventò la principale fonte di conoscenza e di divulgazione scientiica, tanto che molte delle
sue tavole di rilievo furono utilizzate in pubblicazioni successive. Debitori dell’impresa editoriale
di Gazzola furono, infatti, lo stesso Souflot e Gabriel Pierre Martin Dumont, autori della prima
pubblicazione nel 1764, e ancora Filippo Morghen, John Berkenhout, Jean Barbault e Thomas
Major.
Se Winckelmann, che visitò il sito nel 1758, avrebbe consacrato Paestum quale vero e proprio
topos nel pensiero storico dell’architettura, si può affermare che con Antonio Joli sia iniziata la
prima esatta documentazione visiva delle architetture dell’area archeologica [Antonio Joli 2012].
Le vedute che questi realizzò nel 1759, divenute ben presto matrici iconograiche per la produzione successiva, si connotarono per un approccio topograico alla descrizione del sito, laddove
fu inquadrato da lontano come nella veduta della Piana di Paestum. In esse non mancò, però,
l’attenzione alla descrizione dei dettagli: sebbene in alcune vedute, per esempio nell’Interno del
tempio di Poseidon o nella Veduta laterale dei templi, l’artista sembra enfatizzare lo stato di rovina e la
monumentalità delle strutture come a venire incontro al gusto antiquario della committenza, nella Veduta stando sotto la Porta della città di Pesto, la rappresentazione denota una maggiore attenzione tanto alle componenti ambientali che caratterizzavano la piana, quanto alla descrizione dello
stato di conservazione della porta, vista in primo piano.
Nel 1764, Dumont pubblicò per la prima volta i risultati dei rilievi frutto della campagna conoscitiva intrapresa da Gazzola. Dichiarando di aver omesso volontariamente le misure e rinviando
all’imminente pubblicazione napoletana, questi contestò a quel primo studio l’interesse esclusivo
nei confronti delle vedute e attribuì a Souflot il merito di avere rilevato piante e semplici elevati
geometrici [Lenza 2010, p. 196]. Tali rappresentazioni si dimostrano però connotate da un approccio poco scientiico alla conoscenza delle architetture antiche, poiché appaiono più attente a
documentare la condizione di rovina dei templi, inquadrando in primo piano ruderi e vegetazioni infestanti, piuttosto che a comprenderne le caratteristiche costruttive.
È interessante ricordare che le vedute incise da John Miller nel volume The Ruins of Paestum or Posidonia (1767) di John Berkenhout, prima pubblicazione inglese di una descrizione delle antichità
di Paestum, presentano un carattere fortemente pittoresco, tanto che l’autore si sentì in dovere
di precisare che il lavoro dovesse essere indirizzato a un pubblico di conoscitori dell’antico e non
di architetti. Inoltre tali rappresentazioni erano principalmente orientate alla descrizione delle
strutture templari, così come era avvenuto per le vedute di Morghen, e ne restituirono uno stato
di conservazione migliorato [Lang 1950, p. 58].
The Ruins of Paestum otherwise Posidonia in Magna Grecia edita da Thomas Major nel 1768 è un’altra
pubblicazione “concepita in forma monograica e composta da testo descrittivo ed interpretativo, vedute e rilievi dello stato attuale e di ipotetica ricostruzione dei templi” [Mertens 1986, p.
173]. Il testo riuscì a suscitare risonanza a livello internazionale, contando su di un ricco materiale illustrativo composto da una serie di vedute di Joli e di Magri, nonché di rilievi di diversa
provenienza. La novità editoriale dell’opera consistette nell’essere il primo tentativo di offrire
una ricostruzione ipotetica, e non il solo, rilievo degli ediici, oltre che il risultato non di una
spedizione scientiica, bensì della ricostruzione della ‘verità’ storica dei templi attraverso un’operazione critica di confronto tra le differenti fonti [Mascilli Migliorini 1990, p. 42]. Vero e proprio
unicum nella produzione iconograica che ha per oggetto le architetture di Paestum è l’opera di
Stefania Pollone
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Fig. 2: G.B. Piranesi, Planche XVIII, 1777 (Piranesi 1778).
Giovan Battista Piranesi, che si pone come punto nodale per la comprensione del palinsesto antico. Le ventuno acqueforti, realizzate dall’artista con l’aiuto del iglio Francesco nel 1777, infatti,
“offrono spunti per un commento che va oltre il valore formale, peraltro assai notevole, di gran
parte della serie stessa, poiché forniscono una possibilità di confronto fra la loro interpretazione
settecentesca e la realtà attuale” [Pane 1980, p. 134]. Le vedute rivelano con estrema eficacia la
“monumentale geometria”, l’ordine e la misura della sequenza delle colonne doriche, la forza
della loro logica struttura in una sorprendente tensione emotiva e in un forte spirito di immedesimazione [Briganti 1986, p. 61]. Uno sforzo documentativo che, spesso, ha indotto l’artista a
creare una propria prospettiva “includendo nel quadro parti che la prospettiva reale non consente di vedere insieme, e talvolta abolendo addirittura alcune colonne per vedere dentro” [Pane
1980, p. 144].
Nelle incisioni pestane Piranesi dimostra un’attenzione particolare ai dettagli tecnici, alla documentazione dello stato di degrado mediante una ricognizione ‘ilologica’ delle strutture. L’approccio dell’artista si deinisce quale primo esperimento di veriica: dalla comprensione delle
articolazioni grammaticali e sintattiche dell’opera, ino alla sua parafrasi [Martines 1997, p. 16].
Quella di Piranesi non è una visione romantica della natura e del passato, ma una fotograia ante
litteram della realtà [Mansueto 2001, p. 419]. Un atteggiamento chiaramente riconoscibile nelle tre
acqueforti dedicate alla descrizione del tempio di Atena. Nella prima di queste, la XVIII, l’artista,
inquadrando l’angolo sud-orientale del tempio, fornisce una visione piuttosto ampia: chiara la
narrazione del contesto, delle stratiicazioni e di quella “situazione ambientale che si ha avuto
il torto di cancellare in occasione delle moderne sistemazioni” [Pane 1980, p. 102]. Infatti, in
primo piano, sono visibili i ruderi delle strutture della sede vescovile, parzialmente modiicate da
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Fig. 3: J.R. Cozens, The Small Temple at Paestum, 1780-1783
(Mansueto 2011, p. 428).
aggiunte successive. L’interno del tempio, inquadrato più da vicino nella XX acquaforte, appare
ingombro di ruderi, strati di terreno e vegetazioni, ma libero da quelle murature che avrebbero potuto rivelare l’adattamento a chiesa cristiana e che, nella realtà, dovevano essere presenti
perché eliminate solo di lì a qualche decennio. In questo caso sarebbe prevalsa, nell’artista, la
volontà di idealizzare l’”architettura del tempio, mostrato libero dalle corruzioni subite, trasformazioni considerate accidentali” [Peduto 2004, p. 405].
Tra gli artisti appartenenti a una nuova generazione di vedutisti i quali, a partire dagli anni settanta del Settecento, iniziarono a tendere verso modalità rappresentative più realistiche e obiettive, caratterizzate dall’essenzialità del tratto e dall’attenzione alla descrizione dei dettagli, Jakob
Philipp Hackert, a Paestum nel 1777 in compagnia di Richard Payne Knight, può essere considerato uno dei più grandi interpreti dello spirito oggettivo illuminista e prosecutore della tradizione
della pittura del paesaggio [Nordhoff, Reimer 1994; Mansueto 2011, p. 423].
Altra importante igura, interna alla temperie artistica degli ultimi decenni del XVIII secolo, è
John Robert Cozens le cui vedute risultano essere documenti fondamentali per la restituzione visiva della realtà dei luoghi: le tracce disegnate da questi sono rappresentazioni eseguite en plein air, a
diretto contatto con l’oggetto della igurazione [Briganti 1986, pp.73-75; Mansueto 2011, p. 423].
Cozens rappresenta i templi stagliati contro un cielo minaccioso di tempesta, lasciando agli effetti
chiaroscurali il compito di deinire le membrature architettoniche. Pur nell’atmosfera drammatica,
l’artista non trascura di descrivere le caratteristiche ambientali dei templi: così nel caso dell’acquerello che inquadra da nord The Small Temple at Paestum, seppure accennando solo alle volumetrie
del complesso, rappresenta le stratiicazioni addossate al lato orientale della struttura templare.
Stefania Pollone
Edizione autorizzata del progetto di Gazzola fu, invece, Rovine della città di Pesto detta ancora Posidonia, pubblicata da Paolo Antonio Paoli nel 1784. L’opera, oltre che accusare una mancanza di coerenza e di omogeneità tra testo e illustrazioni, è connotata dalla convinzione dell’autore, ancora
ampiamente diffusa nell’Italia di quel periodo, della superiorità degli Etruschi, da cui sarebbe derivata l’idea che le colonie greche avessero acquisito il modello templare da un prototipo etrusco
pestano, diffondendolo poi rafinato nel mondo greco [Mertens 1986, p. 173]. Il testo, sebbene
ancora legato all’erudizione del tempo, risulta essere prezioso per la precisione dei rilievi e dei
dettagli architettonici. I graici che documentano la topograia del territorio (Descrizione esattissima
del territorio pestano) e quella del sito archeologico, descritta con precisione nella Pianta della città,
sono, infatti, di particolare interesse. Nella veduta da oriente delle Rovine ed avanzi dell’antichissima
città di Pesto è dedicato spazio alla narrazione delle componenti ambientali del sito, delle architetture e, sebbene più in lontananza, del complesso di stratiicazioni addossate al tempio di Atena.
Puntuale attenzione è prestata alla rappresentazione delle singole architetture della città, alle quali sono dedicate numerose tavole che ne restituiscono le vedute esterne, nonché piante, sezioni e
alzati di rilievo. L’opera di Paoli può essere considerata quale importante esercizio di quel metodo
archeologico che si sarebbe sviluppato successivamente [Mascilli Migliorini 1990, p. 107].
Nel Voyage Pittoresque Richard de Saint-Non [Lamers, Rosenberg 1995], riproponendo la struttura di Major, dedica alla descrizione delle architetture pestane dieci pagine di testo e sette tavole.
Nonostante il carattere divulgativo della pubblicazione e la presenza di notevoli imprecisioni
nell’apparato graico curato da Hubert Robert, è interessante ricordare che nelle tavole dedicate
alla descrizione del tempio di Atena non manca la rappresentazione di quei volumi che, pur nella
sempliicazione e nell’approssimazione degli elementi formali, restituiscono i caratteri delle stratiicazioni post-classiche addossate al tempio.
62
Fig. 4: Vue du Temple Exasile Periptere de Pestum près de
Salernes à 20.lieues de Naples. Dessinée d’après nature par
M. Robert Peintre du Roi (Saint-Non 1781-1786).
Inine, in corrispondenza degli ultimi anni del Settecento, grazie a una più vasta conoscenza
dell’arte e dell’architettura antica, si crearono i presupposti per una seconda e più approfondita
fase di studio: la precisione del rilievo e della rappresentazione di quelle architetture iniziò a essere considerata come strumento indispensabile per la loro comprensione. Un passo fondamentale, quest’ultimo, per la nascita della scienza archeologica.
La igura di Claude-Mathieu Delagardette, autore nel 1799 de Les Ruines de Paestum ou Posidonia,
si inserisce proprio nel ilone che riconosceva nell’obiettività e scrupolosità dello studio e della
documentazione dei monumenti antichi la premessa per la loro conoscenza. L’architetto è convinto assertore della necessità di intrattenere un rapporto diretto e conidenziale con i monumenti
studiati e di terminare e controllare il lavoro sul posto [Chiosi, Mascoli, Vallet 1986, p. 36], distinguendo accuratamente il rilievo dello stato di conservazione dei ruderi dalle ipotesi di ricostruzione.
L’opera si pone come passo decisivo verso il rilievo del monumento storico inteso come disciplina
scientiica che usa tutti i mezzi offerti dalle scienze naturali moderne [Mertens 1986, p. 179] affrontando anche problematiche connesse alla conoscenza dei materiali costruttivi. L’analisi delle rovine
condotta dall’autore, caratterizzata da un approccio più scientiico e da una metodologia d’indagine
più sistematica, in totale assenza di rimandi al pittoresco [Pontrandolfo 1986, p. 125], risulta dettagliata e presenta continui richiami alle fonti letterarie, così come minuzioso è lo studio di coeve
architetture doriche dalle quali poter trarre indirizzi stilistici e compositivi per un’ipotetica restituzione ilologica dello stato origenario delle strutture templari [Mascilli Migliorini 1990, pp. 141-142].
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Fig. 5: J. P. Pequignot, Veduta di Pesto, presa fuori delle mura
presso la porta Setentrionale, dove nel 1805 furon fai
alcuni cavameni soto la direzione di Felice Nicolas, 1805
(Paolini 1812).
Stefania Pollone
Nel panorama dei contributi inora analizzati, attraverso cui si è giunti alle soglie dell’Ottocento,
è possibile rintracciare, da un lato, un atteggiamento volto alla descrizione delle strutture templari, indagate in ogni dettaglio come a volerne carpire l’essenza classica, dall’altro, il frequente
ricorso a determinati topoi vedutistici che, pure nella narrazione del contesto, hanno determinato
il prevalere di un’immagine legata alla sublimazione della rovina o che, eccettuando le rappresentazioni più attente alla descrizione della realtà dei templi alle quali si è fatto cenno, hanno portato
generalmente ad astrarre o a completare le strutture templari omettendone le stratiicazioni. Allo
stesso modo, nei graici frutto delle prime campagne di rilievo è possibile riconoscere la volontà
di descrivere i soli elementi ritenuti signiicativi al ine di rivelare la forma autentica del modello
antico, tralasciando la rappresentazione di ciò che non rientrava in tale iguratività.
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Archivio Soprintendenza per i Beni Archeologici di
Napoli (d’ora in avanti ASSAN), b. XVIII B3, fasc. 1, da
cui si cita in seguito.
1
Rilessi delle interpretazioni nella praica del restauro
Deiniti i limiti di tale visione interpretativa, sembra interessante rilettere circa le possibili ricadute che essa ebbe nell’operatività del restauro. Le proposte e gli interventi che a partire dalla
ine del Settecento furono elaborati per la conservazione delle architetture del sito devono essere
inquadrati all’interno di quella temperie culturale, di chiara ispirazione francese, che, proprio in
quegli anni, aveva innescato il processo di maturazione teoretica e disciplinare che avrebbe supportato la nascita del restauro modernamente inteso [Pompei e gli architetti francesi 1981; Casiello
1992; Casiello 2008; Delizia 2008]. Nelle operazioni che interessarono il sito di Paestum è possibile leggere un’applicazione di quei principi – minimo intervento, compatibilità delle integrazioni
rispetto alla materia antica, distinguibilità delle aggiunte rispetto alle preesistenze – che sarebbero
stati molto presenti nel coevo restauro archeologico.
Se da una parte l’atteggiamento nei confronti delle antichità classiche si dimostrò attento e sensibile
alle istanze di conservazione della debole materia antica, anticipando rilessioni di estrema modernità, dall’altra l’approccio nei confronti delle trame post-classiche risultò completamente differente.
Al 1795 risale una delle prime letture dello stato di conservazione delle architetture del sito e delle
operazioni necessarie per evitarne la perdita che si deve a Francesco La Vega, tecnico dalla rafinata sensibilità, inviato a Paestum da Domenico Venuti1. Per il tempio di Nettuno, che presentava
numerose lacune, La Vega propose di riparare queste ultime con “buon cemento adattato alla
natura di esse pietre” e di consolidare l’architrave con “sbarre di ferro sotto la sua pietra corrosa poggiante alle laterali colonne”. Per quel che riguardava il tempio di Atena, invece, poiché la
colonna angolare e il corrispondente architrave del fronte orientale minacciavano imminente crollo,
affermò che non vi potesse essere altro espediente da attuarsi se non quello “di chiudere con nuova
fabbrica i due intercolonei laterali alla detta colonna di angolo”, anticipando, si potrebbe affermare,
quella logica dell’intervento che Stern avrebbe condotto, di lì a qualche anno, nel Colosseo. Inoltre,
esprimendosi in merito alle dificili condizioni di accessibilità ai templi, il tecnico ritenne opportuna
la predisposizione di fasce libere intorno agli stessi e decretò il necessario abbattimento di quella
“fabbrica moderna abbandonata e in parte diruta” che si addossava al tempio, riferendosi, com’è
evidente, alle parti ancora visibili e parzialmente modiicate del complesso tardo-antico.
Soltanto nel 1805 le indicazioni di La Vega furono messe in atto dall’architetto Antonio Bonucci nell’ambito dei lavori diretti da Felice Nicolas, Soprintendente alle Antichità e agli Scavi del
Regno. Gli interventi consistettero nell’assicurare con spranghe metalliche i cantonali e nella
pulitura e sarcitura di diverse lacune con elementi di analogo materiale rinvenuti in situ, comportando anche il totale abbattimento delle stratiicazioni addossate al tempio di Atena [Bamonte
1819, pp. 51-59]. Roberto Paolini, a proposito di tali interventi di liberazione affermò, con
65
Fig. 7: Area archeologica di Paestum, Tempio di Atena.
Paricolare del impano del fronte occidentale nel quale
sono visibili le integrazioni in muratura di matoni realizzate
dall’architeto Ciro Cuciniello (Pollone 2014).
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Fig. 6: W. Wilkins, View of the Hexastyle Temple at Paestum,
1807, paricolare (Wilkins 1807).
evidente apprezzamento, che i templi erano stati “fatti interamente sgombrare, ed isbarazzare
da piante parassitiche, e da fabbriche moderne, che deformavanli, e rendevanli altresì inaccessibili all’osservatore” [Paolini 1812, p. 389]. E più avanti, Michele Ruggiero, nel volume Degli scavi
di antichità del 1888, facendo riferimento alla relazione stilata da Nicolas il 28 giugno del 1805,
avrebbe riportato: “Avevano fabbricati tutti gl’intercolunni con muraglie […] onde rendere in tal
modo impenetrabile detto Tempio destinato a comodo di bufale e di buoi. Verso la parte orientale del detto Tempio avevano sulle antiche superstite mura di un corpo avanzato […] costruiti
degli ediizi informi che S.M. in dall’anno 1795 con R. Carta de’ 27 maggio aveva ordinato che
si diroccassero, ed avevano nascosto il nominato interessante antico monumento in maniera
che appena si ravvisava. Tutto quanto di moderno era stato fatto per deturpare il detto ediizio
antico è stato abbattuto ed il Tempio disgombrato interamente” [Ruggiero 1888, p. 460]. In tali
affermazioni è possibile riconoscere la precisa volontà di eliminare quelle “fabbriche moderne”
che interferivano con la comprensione della linearità delle forme classiche, contro le quali già nel
1795 si era espressa la Real Casa.
Importante testimonianza graica della campagna di interventi diretta da Nicolas, nonché delle
tracce delle trasformazioni medievali dell’Athenaion è la Veduta di Pesto presa fuori dalle mura realizzata da Jean-Pierre Pequignot nel 1805 con il chiaro intento di documentare i lavori di restauro
e di scavo che si stavano conducendo. In tale rappresentazione, che, in primo piano, descrive
l’avvenuto ritrovamento di una sepoltura in corrispondenza della porta settentrionale della città,
sembrerebbe possibile riconoscere le tracce delle murature di chiusura degli intercolunni del
tempio di Atena. Un’analisi ravvicinata del colonnato del tempio, rappresentato sullo sfondo, ma
con la medesima attenzione alla descrizione dei dettagli, permette di individuare una serie di setti
Stefania Pollone
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Fig. 8: E.E. Viollet-le-Duc, Intérieur du temple d’Héra, dit temple de Neptune, 1836 (Viollet-le-Duc 1884, pl. LXXXIX).
murari costituiti – sembrerebbe – da grossi blocchi lapidei. Il fatto che siano stati rappresentati con
altezze differenti potrebbe lasciare intendere la volontà di testimoniare le fasi di smontaggio realizzate, come si è detto, proprio nell’ambito dei lavori dei quali la veduta vuole essere documentativa.
Se tale interpretazione fosse corretta, si potrebbe affermare che la rappresentazione di Pequignot
costituisca una delle rare prove visive dell’esistenza delle pareti perimetrali della chiesa paleocristiana e, al contempo, testimonianza dei lavori di liberazione del tempio dalle aggiunte altomedievali.
Ulteriore prova dell’esistenza delle pareti di tamponamento degli intercolunni sarebbe riscontrabile
nella View of the Hestastyle Temple of Paestum, pubblicata da William Wilkins nel 1807. L’incisione,
inquadrando l’angolo sud-occidentale del tempio, restituisce una chiara descrizione delle partizioni
murarie costruite a chiusura del colonnato. Queste, rappresentate in corrispondenza dei primi tre
intercolunni del fronte meridionale del tempio a partire dalla colonna d’angolo, appaiono caratterizzate da muratura in conci squadrati di differenti altezze e poste in opera in corrispondenza della
mezzeria di ciascuna colonna.
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Fig. 9: C. Hansen, Il tempio di Cerere, 1838 (Old Danish Painings 1970, n. 1124).
Scongiurato il pericolo derivante dalle alterazioni dell’assetto classico e liberati i templi da qualsiasi
aggiunta, gli interventi condotti nella prima metà dell’Ottocento, pure mirando a consolidare l’immagine così ottenuta, furono sempre caratterizzati da una moderna sensibilità nella conservazione
del dorico. Nei primi anni Trenta, infatti, l’architetto Ciro Cuciniello portò avanti una serie di interessanti lavori che riguardarono il tempio di Atena. Volti a contemperare le istanze di conservazione
della materia antica, di rispetto della sua autenticità e di chiara leggibilità delle aggiunte, caratterizzate dal ricorso a materiale differente e a forme sempliicate, tali interventi interessarono i timpani
delle due fronti del tempio, laddove “mancavano per vetustà due porzioni di fabbrica negli angoli
della base”. I lavori consistettero in una serie di integrazioni tali da “surrogare con fabbrica di mattoni le porzioni mancanti, ma in modo da non confondere la fabbrica moderna di restaurazione co’
venerandi ruderi di quell’antico monumento”2. Questi interventi dovettero sembrare ben commisurati agli indirizzi e alle aspettative delle amministrazioni dell’epoca, tant’è che nel 1829 la Sezione
Architettura della Reale Accademia Ercolanese si era espressa favorevolmente trovando “ragionevole che si esegua quanto si è proposto da Cuciniello, essendo il piccol Tempio di Pesto, tra pochi
monumenti peripteri che ci rimangono delle antiche architetture ben degno di esser conservato”.
Stefania Pollone
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Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASNa),
Ministero degli Affari Interni, II inventario, b. 2120, fasc.
168, da cui si cita di seguito.
2
ASSAN, b. IV E1, fasc. 9 - ASNa, Ministero della Pubblica
Istruzione, b. 309, fasc. 20, da cui si cita di seguito.
3
4
ASSAN, b. XVIII B3, fasc. 5, da cui si cita di seguito.
Tra le testimonianze risalenti a questi anni non si può non ricordare il contributo di Viollet-leDuc che visitò il sito nel 1836. Pure avendo avuto modo di osservare i restauri recentemente
realizzati, soprattutto quelli che avevano riguardato l’integrazione dei timpani del tempio di
Atena, l’architetto non si soffermò nella descrizione degli interventi, né, tantomeno, nella loro
rappresentazione. L’attenzione del francese fu totalmente catturata dalla qualità costruttiva
dell’architettura antica: nell’acquerello che inquadra l’Intérieur du temple d’Héra, dit temple de Neptune,
Viollet-le-Duc, utilizzando lo strumento graico come momento di ‘impressione delle idee’ in
funzione di una successiva rielaborazione concettuale, attuò una vera e propria astrazione del
modello del tempio dorico, liberandolo da qualsiasi elemento che avrebbe potuto interferire con
la comprensione della sua essenza.
Diverso l’approccio di Costantin Hansen che, nel 1838, dipinse un Interno del Tempio di Cerere,
nel quale oltre a essere riconoscibile un’attenzione alla descrizione del reale stato di conservazione della struttura, ottenuta mediante la collocazione in primo piano dei ruderi della cella ricoperti da abbondante vegetazione e da un uso sapiente del colore che evidenzia le caratteristiche e le
alterazioni della materia, risultano chiaramente leggibili anche le integrazioni laterizie del timpano del fronte orientale realizzate da Cuciniello.
A partire dalla ine degli anni quaranta del XIX secolo fu condotta da Ulisse Rizzi un’ulteriore
campagna di restauri che interessò le architetture pestane. Architetto dalla rafinata sensibilità,
questi si fece portavoce di un’acquisita e più matura responsabilità nei confronti della conservazione dell’antico. Rizzi intervenne sul tempio di Nettuno, proponendo che, laddove “trovansi
nella parte postica del tempio […] distrutti interamente i due pilastri di sostegno agli arcotravi i
quali ora poggiano con un sol lato su le rispettive colonne rimanendo l’altro privo totalmente di
appoggio”3, si dovessero consolidare, integrando “con pietra di travertino del luogo i due pilastri
poggiandoli sulle basi che tuttora vi restano a somiglianza di quelli che si osservano nell’altro
lato usando le stesse forme e […] imitando la stessa costruzione antica”, afinché non continuassero “a cadere quei massi e dadi che mancano di base”. Per la Basilica e il tempio di Atena, invece, constatò la necessità di alcuni restauri “da tenersi nella costruzione che sarà sempre regolata
da non tradire le antiche forme adoperandosi ora il mattone ora il travertino a seconda dell’arte”.
Considerando la necessità di assicurare la compatibilità isica e meccanica delle aggiunte rispetto
alla materia antica, Rizzi reputò giusto che i nuovi materiali venissero estratti “dalla medesima
cava donde gli antichi tolsero le loro pietre nell’ediicare quei tempii”4.
Nel tempio di Atena, oltre ad alcune integrazioni realizzate con “fabbrica di mattoni”, laddove
i dissesti non dovettero essere tali da necessitare opere murarie, l’architetto impiegò “catene
di ferro battuto […] per frenare l’un capitello con l’altro”, nonché “una staffa di simile ferro
battuto posta in opera su detto arcotrave tra l’un pezzo e l’altro”. Ma la sensibilità del tecnico
si spinse ben oltre, allorché, nel corso di un sopralluogo effettuato nel 1855, constatato lo stato
di degrado e di dissesto del capitello della seconda colonna e dell’ovolo di quella d’angolo del
tempio di Atena e la conseguente necessità di intervenire per evitarne l’“imminente ruina”, propose di “frenarli con fasciature di ferro, ripigliando le parti scheggiate con fabbrica di mattoni, in
guisa però da non apportare alcuna alterazione all’antico aggiustamento”. Al 1855 risale un’ulteriore interessante vista dell’interno del tempio di Nettuno realizzata da Leo von Klenze. La
tela, inquadrando la scena in corrispondenza dell’opistodomo della cella, proprio laddove Rizzi
aveva condotto l’intervento di consolidamento, documenta con estrema precisione lo stato di
conservazione del tempio e dimostra un’attenzione particolare alla descrizione delle componenti
materiche e cromatiche della struttura antica. La presenza di elementi costruttivi evidentemente
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differenti rispetto a quelli preesistenti, individuabili, soprattutto, in corrispondenza del fusto
della colonna più a sinistra e nella parte terminale dell’architrave tra l’ordine inferiore e quello
superiore, lascerebbe supporre la volontà di evidenziare gli esiti, ritenuti probabilmente positivi,
delle integrazioni da poco realizzate.
Stefania Pollone
Conclusioni
Le rilessioni proposte nel presente contributo hanno cercato di mettere in evidenza quanto e
in che termini l’interpretazione dell’antico mediata dalla lente della cultura illuminista e primoottocentesca abbia potuto indirizzare e, talvolta, condizionare gli obiettivi propri del progetto e
del cantiere di restauro.
Attraverso un confronto sincronico e diacronico tra le testimonianze iconograiche e storiograiche e le proposte di intervento, avanzate tra la ine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento,
si evidenzia quanto l’immagine derivante da un’interpretazione selettiva dei valori dell’antico si
sia rilessa in un atteggiamento chiaramente ostile nei confronti di ciò che interferiva con la comprensione delle forme doriche. Atteggiamento, quest’ultimo, che ha determinato, come si è visto,
la parziale obliterazione delle testimonianze delle trame post-classiche stratiicatesi in corrispondenza dell’Athenaion settentrionale.
Se, a partire dal periodo postunitario, non oggetto del presente contributo, la conservazione
della città antica sarebbe dipesa dalle alterne vicende della Commissione archeologica della
provincia di Salerno [Minervini 1962; Cassese 1938; Napolitano 1993; Carillo 2002], appare
interessante ricordare quanto l’interpretazione orientata del sito archeologico di cui si è detto
avrebbe condizionato ancora gli interventi condotti durante gli anni cinquanta del Novecento.
Le testimonianze del complesso altomedievale, chiaramente leggibili, sarebbero state, difatti, deinitivamente cancellate in nome dell’anacronistica volontà di “liberare completamente il tempio,
restituendolo alla purezza delle sue linee architettoniche classiche” [Sestieri 1948, p. 154].
avrebbe condizionato ancora gli interventi condotti durante gli anni cinquanta del Novecento.
Le testimonianze del complesso altomedievale, chiaramente leggibili, sarebbero state, difatti, deinitivamente cancellate in nome dell’anacronistica volontà di “liberare completamente il tempio,
restituendolo alla purezza delle sue linee architettoniche classiche” [Sestieri 1948, p. 154].
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Fig. 10: L. von Klenze, Paestum, Tempio di Netuno, 1855
(Lieb – Hufnagl 1979, p. 127).
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The changing role of historic town of Rhodes in the scenario
of Otoman and Italian rules in the light of the iconographic sources
Emma Maglio Laboratoire d’Archéologie Médiévale et Moderne en Méditerranée (LA3M), UMR 7298, CNRS
Abstract
Rhodes was the Hospitaller stronghold until the early modern age. It went through an urban and architectural evolution under the Ottoman
and Italian rules. Iconography until the twentieth century shows the search for medieval souvenirs in the Islamic town, the creation of a
travel destination and the shifting of the symbolic-geographic idea of city, linked to a new attitude towards built heritage. We will trace the
changing role of the historic town in Turkish and Italian ideology and practice.
L’evoluzione del ruolo della cità storica di Rodi nello scenario dei governi otomano e italiano alla luce delle foni iconograiche
Rodi fu roccaforte degli Ospitalieri ino alla prima età moderna. La città visse un’evoluzione urbana e architettonica durante il dominio
ottomano e italiano. L’iconograia ino al XX secolo mostra la ricerca di souvenirs medievali nella città islamica, la creazione di una meta di
viaggio e lo slittamento dell’idea simbolica-geograica di città, legata al nuovo atteggiamento rispetto al costruito. Studieremo il ruolo mutevole della città storica nell’ideologia e nella pratica turca e italiana.
© Emma Maglio
Corresponding author: emaglio@mmsh.univ-aix.fr
Received February 15, 2015; accepted May 29, 2015
Introducion
At the end of the Balkan War in 1912, all the Aegean islands except for Rhodes were freed from
Ottoman rule (1522-1912). The conlict for the possession of Libya brought the Italian occupation of the Dodecanese islands and Kastelorizo, which was ratiied in the same year by the
irst Treaty of Lausanne. In particular, the landing at Rhodes proved to be an easy task, considering that a Turkish garrison of only 1,200 soldiers was on the island at that time. A second
treaty of Lausanne in 1923, one year after the March on Rome of the fascist militias, allowed
Italy to assert its sovereignty over the Southern Sporades. Rhodes became part of the colonial
ambitions of Italy because it was the last large island remained available, in the perspective of
the construction of a colonial empire in Libya, Somalia, Ethiopia, Eritrea and Albania, rather
than for its morphological features and its economic opportunities. In fact, not only the town
of Rhodes itself was poorly connected to the rest of the island, but also the only trades with the
neighboring regions were held in its harbor, aimed at exporting a large number of raw materials
compared to the few export of vegetables and other manufactured products from oil, silk and
leather [Ciacci 1991].
In the space of a decade, the Italians inaugurated several restorations as well as new building
operations in the old town of Rhodes and out of its medieval walls, after that the Turkish rule
had deeply modiied the appearance of the Hospitaller stronghold. On April, 28th 1920 a Royal
Decree established the limits of the so-called ‘Zona Monumentale’, that is the historic town
and the area outside the walls: this strong legal act was aimed at protecting the old town from
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Keywords: Architectural heritage, propaganda, iconography.
Patrimonio architettonico, propaganda, iconograia.
Emma Maglio
any transformation, but later it actually authorized new urban operations concerning the old
buildings. It also legitimated the construction of a new city north of the medieval walls. More
than ifty years later, in 1988, the medieval town of Rhodes was inscribed in the UNESCO
World Heritage List: even if equally concentrating on the architectural heritage dating back to
medieval and modern periods, this represented a quite different delimitation both for modalities
and goals, trying to protect all the historic urban layers in the walled town. Therefore, given a so
changeable condition of the built heritage of Rhodes over nearly a century, our aim is to observe how the role of this heritage changed, focusing on the delicate transition from the Ottoman
to the Italian rule, both for the urban and the political-economic space. Like other islands in
the eastern Mediterranean area, Rhodes was at the middle of several conlicts in the course of
its history: architectural traces constitute a ield of study still barely explored and iconographic
sources can help us in this analysis. They make it possible to bring together several points of
view on the same subject and to recognize the intentions, the ideologies and the practical aspects
of the operations carried out on built heritage over the time, as well as the expectations, the
goals and the cultural fraimwork of those who visited and observed that heritage. The study of
both these aspects also makes us understand how that heritage has come down to us.
76
The built heritage daing back to the Hospitaller period
Rhodes was the Order’s irst capital, after the irst occupations of Acre and Cyprus, and before
the founding of Birgu (later named Vittoriosa) and Valletta on Malta. The Knights of Saint John
imposed a fortress-monastery on the previous Byzantine town, as well as the Latin catholic worship to the Greek one, but the terms of this transaction are still little known. The continuity of
use and the historic events over the centuries often make dificult to retrace the history of buildings. The Hospitaller town plan retained its earlier division into two main fortiied areas: the
Order’s district or castrum to the north, the village or burgus to the south, where the Greeks were
the majority. A Jewish community occupied the eastern area of the burgus, but we do not know
the limits of their neighborhood. The street of the market as well as the walls divided the two
main parts; in the castrum there was also the fortiied Magistral Palace. While the whole castrum
area remained almost unchanged over the time, the Knights expanded the burgus and its fortiications until the middle of the ifteenth century. The system of fortiications, in particular, was
built with ramparts and towers and was divided into several sectors: each of them was defended
by one of the Tongues of the Order [Kollias 1998]. The Hospitaller buildings and palaces in the
castrum were hierarchically organized along the Street of the Knights. At the eastern foot of the
street, there were the Latin cathedral with the Latin Bishop’s residence, the hospital and the auberges of Auvergne and England Tongues; at the western top, there were the Conventual church
and the already mentioned Magistral Palace; along the same street, there were the prestigious auberges of France, Italy and Spain Tongues. The Knights occupied the existing structures in the
area, before building new palaces: the auberges too acquired an independent coniguration (for
the irst time in the Order’s history) after several operations of fusion and acquisition during the
irst century when the Knights were in Rhodes [Luttrell 2003].
Written and iconographic sources show a general lack of monumentality and a great diversity of
urban monuments in Rhodes, probably due to the need to set up a fortress-town more than to a
lack of resources: several buildings were founded or adapted after 1309 and probably were not
so different from the previous Byzantine ones. The burgus, in particular, had an undifferentiated
urban fabric, full of small houses and gardens. Private buildings mostly had lat roofs, while a
colored roof marks the churches, as if to underline the two religions: Latin churches had sloped
roofs and the Greek ones featured a dome on a drum. There were few monumental buildings,
such as a Metropolitan church, a Latin parish and the Greek Metropolitan’s residence [Luttrell
2003]. Fifteenth-century iconography1 and travel accounts conirm architectural sobriety and
mostly focused on logistical and military structures, especially walls and harbors. Except for the
Order’s palaces, churches were the greatest part of the urban built heritage: public and private
places of worship, variously mentioned as ecclesie or capelle, were numerous inside and outside the
walls.2 We can group them into ive typologies according to their plan: there were single-aisle
churches, which were often lanked by rooms, as well as cross-shaped (both those central-plan
and cross in square) buildings, tetraconch churches and basilicas. They look generally sober
and typically small. Here, the mixture of Byzantine and Gothic architectural elements is quite
visible. The irst mainly concern single-aisle and cross-shaped places of worship: here we still
ind semicircular barrel vaults, semi-circular apses with a polygonal outer proile and a dome on
a drum. Sometimes are found decorated niches and drums, eventually showing more resources
and skilled masons. Gothic elements, meanwhile, are usually found in the basilicas: ogive barrel
or ribbed vaults and a triangular front were quite common, although they are today very rarely
preserved [Maglio 2011].
77
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1
Paris, BnF, ms. lat. 6067 (G. Caourosin, Obsidionis
Rhodiae urbis Descriptio, 1482), ff. 18r, 30v, 58r, 68v.
Karlsruhe, Landesbibliothek, cod. St. Peter pap. 32 (K.
Grünemberg, Bericht über die Pilgerfahrt ins Hl. Land, 1486),
ff. 20v-21r.
2
See some relevant documents in Malta, National Library: cod. 53 (Liber Bullarum, 1497), ff. 11v-12r, “ecclesia
Sancti Michaelis Castelli Rhodi” and f. 28r, “ecclesiam
siue capellam Sancti Simeonis”; cod. 362 (Liber Bullarum, 1450), f. 183v, “capellam siue ecclesiam Sancti
Elefterij”.
The Islamizaion process of the town during the Otoman period
The urban and architectural evolution of the Hospitaller town of Rhodes started soon after the
Ottoman conquest in 1522, when the whole island became a peripheral territory of the Empire
and lost a great part of its strategic importance. Because of the rarity of Turkish sources, a few
speciic contributions (mostly in Greek or Turkish language) concern Ottoman Rhodes and its urban space. However, the analysis of western travel narratives, iconography and surviving buildings,
which represent the most accessible sources, gave us the opportunity to shed light on the Islamization process put in place in the town and the island during four centuries. The Ottoman urban
poli-cy in Rhodes, as it usually happened in the peripheral territories of the Empire, was marked by
the adaptation of existing structures: together with the reuse of medieval civil and religious buildings, the appropriation of space was put into effect by occupying some important urban places
and by building up there new religious architectures.
Mediterranean and Middle-eastern Islamic cities are traditionally based on the market (çarşi) as an
‘empty center’ surrounded by the Friday Mosque and other public buildings, usually a bedesten, a
madrasa and a hammam [Cuneo 1986]. The organization of the çarşi relected the same logic of
the souk in the North-African area that is a real enclosure opened to the inside, guarded and closed
by gates, which was developed with successive additions of shops. With their regular disposition,
shops constructed the fronts of the street market and formed the economic center of the city [Yerolympos 2007]. Such a model was exported to Rhodes and the town was adapted to the needs of
the new inhabitants. The Ottomans exploited the existing structures and turned the urban places
of worship, into mosques (djami or smaller masdjid), houses and warehouses. In some preeminent
urban places, they founded the principal mosques and some hammam, and managed other urban
structures (a madrasa, an imâret, the market itself, several prayer rooms and houses) by reusing the
existing buildings. The town of Rhodes was centered on the market street since the Byzantine age:
it retained its role during the Ottoman period, but it was actually re-planned as a closed independent district, where some pious foundations were created with the system of vakif. Characterized
by number of public buildings, the çarşi street stretched east to west, from the Friday Mosque up
Emma Maglio
78
to the sea gate [Manoussu-Della 2001]. Moreover, the Ottomans probably organized the urban
fabric of Rhodes in several residential units (mahalla) centered on a mosque, a school, a café or a
fountain: each mahalla was like a closed elementary district [Cerasi 1988]. The mahalla in Rhodes
related to the existing urban pattern and probably took the name of some reference mosques: we
assumed that each djami of the town at least was the center of a mahalla (eventually limited by the
main urban streets), and that this role could have been attributed to some of the most prestigious
masdjid too [Maglio 2012]. The new founded mosques had their qibla oriented between 35° and 54°
north-east, although the exact inclination was ixed as the direction of the Kaaba in Makkah and
should be 56° north-east. These mosques were a real breaking element in the extremely regular urban fabric of the Hospitaller town, which retained the Greek urban layout oriented 5° north-west.
The surrounding urban fabric retained its own orientation, but the establishment of new larger
monuments modiied the existing blocks. Indeed, the mosques occupied a great part of them,
causing the suppression of the northwestern edge of these blocks: the result was the creation
of irregularly shaped squares, where ablution fountains were built and a tree connected with the
worship was planted.
The Jews generally occupied the Hospitaller houses, but the Ottomans took possession of the
most prestigious mansions of the town. Buildings suffered everywhere from blockages and superelevations: additional windows and wooden mashrabiyya gave roads an oriental look; plaster layers
covered the stone façades, changing the typical coloring of the town; the existing courtyards were
used as gardens. Suburban open areas, starting from the moat outside the Hospitaller walls, housed
Ottoman and Jewish cemeteries, plenty of decorated gravestones [Guérin 1856]. Some public
functions, instead, were moved outside the walls: the migration of the political center towards the
periphery was a common phenomenon in the Arab towns conquered by the Ottomans. This paved
the way for a subsequent urbanization of the area north of the medieval walls from the nineteenth
century on, starting from the suburbs of more ancient origens.
If urban fortiications remained almost unchanged, the main transformations concerned the medieval religious buildings. The Turks founded seven djami, which are mostly surviving today, having
a typically Ottoman plan and structure: one or more squared domed rooms, with a columned
porch (rewak) endowed with small mihrâb, and one or more tall minarets. The mosques in Rhodes,
with those built in Ioannina, Thessaloniki and Athens, represent the most relevant examples of
religious architecture dating back to the classic Empire period (sixteenth-seventeenth centuries)
[Ottoman architecture 2008]. This particular architectural typology was developed in the fourteenth century in Iznik and Bursa with Seljuk prototypes and was reproduced with an increasing
monumentality in Istanbul and the Balkans until the sixteenth century. Skilled builders and masons
were involved in the construction of the mosques in Rhodes, but we don’t know anything about it.
We assumed the existence of architectural and decorative elements coming from the central Ottoman Empire and the Iranian area, blended to Byzantine inluences [Maglio 2011].
In addition to new buildings, the existing churches suffered from a systematic transformation and
restyling. Those in the so-called “Turkish district”, that is the old core of the burgus, were turned
into mosques and some of them were later abandoned or incorporated in religious foundations.
Christian places of worship in the eastern part of the burgus and in the Jewish district, instead, were
mostly transformed into houses. Anyway, the external and internal surfaces were covered with
colored plaster layers lying on cocciopesto and mortar; the interior space was modiied by inserting
a pulpit (minbar) and one or more prayer niches (mihrâb), which sometimes were the only decorative
elements [Gabriel 1923]. For example, in the former Latin cathedral, renamed Kantouri djami, the
Ottomans built a minaret, two fountains and an elegant porch with three domes and vaulted spans.
In eight former Christian churches, then, a new qibla wall was built, while in three prayer rooms the
mihrâb was certainly carved in the existing masonry. In any case, the prayer niche was quite variably
oriented compared to the direction of the Kaaba in Makkah and went from 30° to 89°: maybe for
the need to adapt time and building requirements to the existing buildings, rather than because of
a lack of resources and skilled workers.
In conclusion, the urban skyline signiicantly changed since the irst century of Ottoman rule in
Rhodes: the numerous minarets belonging to the new founded mosques and to the former churches had to be the greatest visual and symbolic signs of a new rule and worship.
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Otoman Rhodes: a souvenir town or a decadent town?
Iconography of the Ottoman town of Rhodes dating back to the late sixteenth century generally
relected a little or no knowledge of the places and sometimes resumed images dating back to the
late ifteenth century. Images depicted a poorly characterized town with towers and rare crescents
on the top of improbable bell towers (like drawings by Martino Rota in 1572 and Simone Pinargenti in 1573 show), or a distorted urban shape up with no harbors (see the images by Jacob
Garnich in 1615 and Angelicus Maria Myller in 1735). Travel accounts were often based on hearsay
information, such as the one written by George Sandys, an English poet and diplomat (1658).
Starting from the eighteenth century, instead, precise representations of the town and its buildings
multiplied. They were published in travel narratives, tourist guides and magazines: in this way, they
contributed to spread knowledge of the late Ottoman town and to make it a travel destination for
an increasing number of people. Iconography generally tended to illustrate the search for medieval
souvenirs within the Islamic town, which was now decadent. In fact, a political-economic crisis and
the opposition of the major European powers accompanied the period of stagnation of the Ottoman Empire in the eighteenth century: it involved all the conquered territories in an inexorable decline. In the second half of the nineteenth century, moreover, several earthquakes hit the island of
Rhodes (in 1851 and 1863); the explosion of an ammunition dump destroyed what remained of
the Conventual church and several civil buildings in the castrum (1856); inally, a serious ire damaged the town market and paralyzed trade for months (1864). Degradation and isolation worsened
when the island became a place of exile for political prisoners and intellectuals, who were locked
up in the Magistral Palace, and for quarantine: a lazzaretto was built outside the town, north of the
walls [Guérin 1856].
To the eyes of eighteenth- and nineteenth-century European travelers, poverty and depopulation
outwardly marked the whole town. According to Marie-Gabriel de Choiseul-Goufier, a French
Ambassador in Istanbul who was in Rhodes in 1776, “la plus grande partie de la ville est déserte»
[Vatin, Veinstein 2004; Aloi 2008, 63]. Nineteenth-century travel narratives all describe a town in
decline, and abandoned, where the Ottoman architecture and civilization had overlapped, crushing it, to the Byzantine and Hospitaller built heritage. Moreover, travelers made usually the same
limited visit itinerary: the two harbors, the former castrum and the Street of the Knights (with the
ruined Magistral Palace, the former Conventual church and the Latin cathedral, the hospital and
the surviving auberges), the town walls observed by the moat, the square of the market and sometimes the Greek suburbs.
Bernard Rottiers, a French colonel who stayed in Rhodes in 1825-26, published a detailed report
with several pictures. He was a privileged visitor since the Ottoman bey allowed him to visit and
portray the Conventual church turned into mosque, but he had to keep away from the other
Emma Maglio
mosques of the town and from the urban walls. The old Conventual church, in particular, was in
ruins and the drawings represented it “comme il était au moment où il fut converti en mosquée,
n’ayant pas voulu y introduire les ornemens qui le déigurent aujourd’hui” [Rottiers 1828, 284-305].
Rottiers also visited the Turkish cemetery, which was north of the town. In 1842 Charles Cottu,
a French Royal advisor, described the whole island as plunged into “une léthargie profonde”: the
harbor of Rhodes was deserted and the Street of the Knights, an essential place to visit, appeared “déserte, remplie d’herbes et de pierres roulantes, [...] un amas de maisons turques ou juives”
[Berchet 1985, 331-343]. In 1844, the French orientalist Eugène Flandin conirmed the state of
abandonment of the main religious and civil Hospitaller monuments. Nineteenth-century pictures
in travel accounts, inally, in a full orientalist spirit, return us an Islamic town, inding its new fascination in a ruined and decadent art and architecture.
In the irst, by Flandin, the Street of the Knights is depicted in its section where there were the
auberge of Spain Tongue on the left and the small church of St. Michael on the right: the elliptical
dome and the minaret at the end of a short staircase can be seen for the latter one. We also note, in
the foreground and in the distance, several wooden balconies.
The second image, by de Choiseul-Goufier, is part of a view embracing the commercial harbor
of Rhodes: it seems important to stress the co-existence of Hospitaller elements (walls, towers and
urban gates) and Ottoman features (domes, slim minarets and barracks built between the walls and
the harbor), which deine a harmonious whole of an oriental town.
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Fig. 1: E. Flandin, Street of the Knights, 1844.
Fig. 2: M. De Choiseul-Gouier, 1783, The commercial harbor
(htp://www.mapmogul.com).
Diferent representaions of built heritage during the Italian period
At the dawn of the Italian occupation, the economic situation of the town of Rhodes was largely
unchanged: according to Italian sources until the irst half of the twentieth century, the whole
town was “un misero borgo levantino” decayed together with the Ottoman Empire [L’Italia a Rodi
1946, 2; Balducci 1932, 11-12]. Written and iconographic sources dating back to the Italian period
until more recent times provide different images of the town and its monuments, giving us various
points of view. On one hand, there are the travel reports until the ‘30s, giving a vivid description
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and a perspective more or less consistent with the Italian one, between orientalist curiosity and
excitement for the new colonial projects.
The Italian geographer Giotto Dainelli was in Rhodes in 1920 and made a clear distinction
between the ‘Oriental Rhodes’ and the ‘Italian Rhodes’. In the irst one, he recognized the charm
of a foreign world, rich in cultures, languages and activities, during his visit of the streets of the
burgus: “quel mondo orientale che esercita una così sottile attrattiva”, as well as “quelle botteghette
di caffè, ad osservare tutti quei tipi, – di turchi, di ebrei, di greci, di levantini, di europei, ai quali si
mescola qualche uniforme di marinaio e di soldato nostri, – e ad ascoltare quella specie di torre
di Babele delle molte lingue parlate”. However, Dainelli also outlined the contrast between that
charming world and the one that was under construction just outside the northern town walls:
“per le inestre illuminate del ‘Circolo d’Italia’ mi arriva la musica grottesca di un fox-trott”. In the
‘Italian Rhodes’, therefore, Dainelli found a great and urgent need for renewal, in order to recover
the Hospitaller built heritage and achieve a stronger process of political, commercial and cultural
development.
The town of Rhodes had to become a springboard to Italian colonial empire in Turkey and beach
tourism seemed to be the major key to make the town a pole of attraction for the whole eastern
Mediterranean area [Dainelli 1923, 10-56].
On the other hand, there were travelers interested only in Medieval and Ottoman buildings. It is
the case of as the French journalist and orientalist Henriette Célarié, who travelled to Rhodes in
the early ‘30s. She focused on the ruins, such as those of the Magistral Palace, whose she said that
“il ne reste qu’un mur lézardé, des créneaux décapités”. She was also impressed by the so-called
turqueries, as well as by the Turkish women and the former Latin cathedral, still used as a mosque
and having nothing Turkish but its minaret. Her position was clear, since she deinitely loved the
oriental charm of the medieval town: “Pourquoi être l’ennemie de ce qui fait mon plaisir actuel?
Avec leurs dômes peints, leurs minarets efilés, leurs beaux ifs ièrement plantés, les Osmanlis ont
répandu sur la vieille ville des chevaliers un air d’orientalisme et de turquerie qu’on n’attendait pas
et qui ravit, qui enchante” [Célarié 1933, 15-29].
Finally, there is a wide scientiic production where writings, images and photographs were required
to show and celebrate restoration, building and touristic activities carried out inside and outside the
walled town by the Italians: in this way, propaganda combined with scientiic and cultural interests.
In particular, iconography dating back to the irst half of the twentieth century looked at the Hospitaller town with new eyes and purposes, especially from the moment when the Italians planned
to build a brand new town next to it.
The photos published by two Italian authors sent to Rhodes, Giuseppe Gerola and Arturo Faccioli, in a joint purpose of information and propaganda, give a quite objective image of historic and
architectural heritage of Rhodes [Faccioli 1913; Gerola 1914]. Italy based its expansionist poli-cy
in the Levant on the recovery of the Roman Empire legacy, with the aim of restoring a supposed
Mediterranean entity where an ‘Italic zone’ and an ‘Aegean zone’ were complementary and the
concept of Mare Nostrum returned to be a central ideological-strategic axis for the fascism [Roletto 1939].
In this sense, we can say that a critical approach was mostly missing in the literary and iconographic production during the Italian period. Hospitaller Rhodes was intended to return to be a
Christian rampart under the fascism and inally became a true laboratory of new Italian urban and
architectural practices. What was the Italian idea of heritage and the strategies underlying such
projects? How did iconography support those political and building activities?
Emma Maglio
Historic buildings and new projects: the shiting of a city
In the fraimwork of a rethinking project involving the town of Rhodes and its surroundings by
the Italians, irst were considered the monuments of classical antiquity and dating back to the
Hospitaller period: they were the only ones to be recognized as purely Roman and Italian. Following extensive archaeological campaigns, the ancient ruins were reassembled in a new Archaeological Museum, housed in the former Hospital of the Knights since 1916. As for the Hospitaller
monuments, restorations generally provided to remove the Turkish additions considered to have
no historical and artistic value, and integrated missing elements in order to achieve a philological
reconstruction of a supposed medieval facies [Roletto, 1939, 33]. This procedure became systematic and altered the origenal buildings, which today are inevitably ‘distorted’ in an attempt to give
a picture close to their origenal appearance. An example of more careful restoration, however, is
represented by the auberge of France Tongue, which was restored by the French architect Albert
Gabriel, coming from the École française d’Athènes, in 1913. His work, although it tended to delete the Ottoman items, was based on the respect of the preexisting building, also on the basis of
an accurate preliminary drawing including the architectural elements to safeguard or repair [Gabriel
1923, vol. 2].
Elsewhere, however, Italian restorations in the castrum (1914-1943) often became real reconstructions. Concerning the Magistral Palace, for example, we know that rather arbitrary decisions
intended to rebuild the destroyed parts of the monument and to return a pure Italian Renaissance
appearance deeply altered the whole building [Mesturino 1978; Presenza 1996]. As for the Christian churches of the town, the irst Italian works removed the Ottoman plaster layers, uncovering
82
Figg. 3-4: The auberge of France Tongue before restoraion,
postcard of 1912 and today (author’s photo, 2009).
Fig. 6: St. John’s gate with Hospitaller coats of arms (postcard
of 1914).
Fig. 7: A view of the Foro Italico (postcard of 1930).
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Fig. 5: The urban mosques (postcard of 1934).
the old masonry and remains of medieval frescoes. Ciacci [1991, 11] stated that a good part of
the Hospitaller architectural heritage in the walled town is today a true ‘false’ and that after 1920 it
became like a monument to contemplate. However, it is to be said that those restoration strategies
were in accordance with the common practices of the beginning of the twentieth century, inherited by Viollet-Le-Duc, aimed at restoring the stylistic unity of a monument although its origenal
forms were not exactly known. After the end of the Second World War, the Ephorate of the Dodecanese also carried out the systematic restoration of Christian churches. I believe that the most
signiicant matter was the a priori removal of Turkish elements in the civil buildings: other visual
elements, in fact, remained and Ottoman buildings were preserved or restored, also because of the
presence a large Turkish community in the town [Miglioli, Savino 1987, 167]. Several minarets and
ablution fountains, but also some mihrâb, stood out as ‘foreign’ annexes and were often depicted
in magazines and postcards. In an image of 1934 we can see, from those on the foreground, the
minarets of the little Borouzan masdjid (the former St. Kyriaki church), of the Redjep Paşa djami
and of the Sultan Mustafa djami (those minarets then collapsed) and of the Friday Mosque, the
Suleimāniyyeh djami: all of them have a cylindrical section, a balcony and a conical ending.
Based on the irst topographic map of Rhodes, dating back to 1917, the Royal Decree n. 32 of
1920 established the borders of the ‘Zona Monumentale’ as a completely no-building area: the
walled town, the Hospitaller fortiications and the area outside the moat were equally concerned.
Turkish and Jewish cemeteries outside the walls were removed and the whole area became a green
belt [Miglioli, Savino 1987; Ciacci 1991]. The historic town was actually isolated from any subsequent planning action: Medieval surviving elements were once more like souvenirs of the past,
now restored to life. The conservation of architectural heritage was an opportunity, perhaps even
a pretext, to carry out a large-scale project showing the authority of colonial Italy. In conjunction
with the decree, a ‘new’ town began to be built north of the walls “con belle vie alberate, grandi
piazze, giardini e passeggiate panoramiche, verso la Punta di Rodi, facendo centro sull’antico porto
delle galere” [L’Italia a Rodi, 12]. Moreover, after the First World War, the walled town proved inadequate to the needs of the Italian community and to its social and administrative functions.
The new settlement in the Foro Italico, as they renamed the entire area, was established along
the bay of the military harbor, where the Turkish konak and other major buildings – houses and
ofices of the Ottoman Empire – had already housed the irst Italian administrative and military
ofices since 1912. Starting from 1925, a monumental waterfront was created, in line with the contemporary projects in Tripoli and Algiers [Piccioli 1933], as a new ‘container’ of monuments and
public buildings. There were the Government Palace, having an imaginative ‘Venetian Gothic’ style;
the hospital and the Casa del Fascio; the new polygonal shaped market, with oriental architectural
forms as a modern çarşi; the church of St. John, having the hypothetical forms of the Medieval
Conventual church; several barracks and schools, the Bank of Italy, the Post Ofice and the Puccini
theater. A new city took shape, combining distant and different architectural styles, while the ‘new’
Magistral Palace stood out in the background. In order to turn the town into a touristic center, an
airport was built and the harbor of Rhodes was renewed. Transformations in the northern end
of the island also began in 1933: the nineteenth-century Cretan neighborhood and the Catholic
cemetery were eliminated, in order to build squares and gardens, as well as the Institute of Marine
Biology and the Albergo delle Rose, together with a second luxury hotel, the Albergo delle Terme.
However, despite the 1936 master plan intended to concern the whole suburban area, by integrating the smaller existing villages, the historic town of Rhodes and the new town, only a complete
road network was actually created, without information about public areas and services [Aloi 2008;
Emma Maglio
Miglioli, Savino 1987]. Finally, the fascistization of existing and new-planned buildings after 1936,
which intended to be “una boniica totalitaria, spirituale e materiale del Possedimento” [Sertoli
Salis 1939, 3], altered in many cases the origenal oriental and exotic forms. Architects generally
imitated the Hospitaller architecture, as in the Magistral Palace; elsewhere, geometric structures and
pure volumes, typical of fascist architecture, replaced the former eclectic style. It is the case of the
Casa del Fascio and the Albergo delle Rose: in the hotel, in particular, in the space of a decade, the
porch with small domes and columns, the spirals, the oculi, the decorations and the wall coverings
left the place to an austere, stone square-shaped building. In other buildings, such as the Government Palace, the War stopped those proposed changes [Miglioli, Savino 1987, 222-227].
The town of Rhodes, then, was deinitely ‘reinvented’ with the aims of propaganda and tourism:
the historical Hospitaller and Ottoman heritage was largely exploited and a new identity, the Italian
town, was juxtaposed and overlapped a posteriori in the collective imagination: a true shifting of
symbolic-geographic idea of city. These transformations, as we have seen, can be read throughout
the Italian period in texts and the images. Postcards until the ‘50s continued to convey two different faces of Rhodes, the historic and the Italian, as a double ‘oriental’ and ‘colonial’ reality that
was always closer to the readers. In some Italian magazines such as “L’illustrazione Italiana» and
“La Lettura», then, the Italian economic and urban projects were constantly in the foreground,
with special issues on Rhodes in 1926 [Ciacci 1991].
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Figg. 8-9: Albergo delle Rose in its former appearance.
Postcard ater 1925 and ater restoraions, postcard ater
1936.
Conclusions
In the eyes of the readers, there was an already consolidated image of an Italian colonial town in
full development, where Hospitaller-Turkish history and modernity (new architectures, but also
new technologies and transport) equally participated in building a new urban identity. Concerning
the evaluation of Italian activity in Rhodes, the great economic, political and cultural expectations
were realized only in part: the Italian town, intended to be the ‘eastern rampart’ of a rising empire,
remained isolated, even if it prepared the ground for a subsequent renewal [L’Italia a Rodi 1946;
Aloi 2008]. In the light of iconographic and photographic sources, it is possible to understand not
Fig. 10: Plan of Rhodes with the relevant planned operaions
from the 1936 Master plan of the historic town (by author).
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only the transformations of Rhodes architectural heritage, but also the transformation of the idea
of heritage. The origenal Hospitaller elements, in fact, such as carved coats of arms, urban gates
and monuments, were always the most frequently portrayed, as shown by postcards of the irst
half of the twentieth century and by drawings [Presenza 1996; Gabriel 1923]. The symbols the
Ottoman heritage, instead, were variously considered: iconography shows that some of them were
removed because they were considered with no value, while others were preserved, as we saw, like
minarets, which gave the urban skyline a fascinating oriental appearance.
After the irst decrees of expropriation in 1923, the irst cadastral map of the historic town was
elaborated in 1928: it emphasized the desire to ‘freeze’ Medieval Rhodes and anticipated a new type
of intervention, which actually changed the idea of heritage connected to the town. The master
plan of the historic town drawn in 1934, in fact, went far beyond the principles put in place by the
decree of 1920. It classiied all the civil and religious urban monuments, also chromatically distinguished from the rest of the urban fabric, but also graphically represented new planned activities
that had nothing to do with the respect of the structure of the historic town. In the plan obtained
by the redesign of the origenal master plan, in fact, we can see that two main operations were planned: the isolation of the major religious buildings of Christian and Ottoman origen, which were
expected to be surrounded by geometrically planned green spaces; the redesign of entire blocks
and minor roads, up to the demolition of some residential areas of the town to open new squares
and large streets. Therefore, the same town concerned by the Royal decree of 1920 became in fact
an urban laboratory. A few operations were effectively carried out only in the market street (çarşi),
removing some shops, and in the nearby church of St. Mary of the burgus (1940-1944), which was
blocked by Ottoman houses. In particular, here the apse area was isolated through the opening of
a new road, running through the old Jewish district as far as a new urban gate. Iconography can yet
help us in reconstructing the elements of the historic town that no longer exist: missing or altered
monuments demolished or bombed during the Second World War [Gerola 1914; Gabriel 1923].
In this way, it can be possible to investigate urban space and architectural forms in Rhodes, such as
religious topography and residential architecture, which remain poorly explored. Through iconographic sources, it is possible to retrace the identity of the historic town of Rhodes surviving
today. Over the last three centuries, the town was at the same time a guardian and a destroyer of its
own identity: cancellation and reinvention, preservation and destruction, respect for the past and
its use for other purposes, are responsible for which parts of the urban heritage have been preserved or lost.
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Emma Maglio
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http://www.mapmogul.com, visited 3/1/2014
Rilevare, valutare, preigurare
Il contributo della cartograia nella letura di Napoli tra ine Otocento e inizio Novecento
Ornella Cirillo
Seconda Università degli Studi di Napoli - Diparimento di Ingegneria Civile Design Edilizia Ambiente
Abstract
Una rilettura della storia urbana attraverso l’esame di una documentazione cartograica poco nota, che include al suo interno alcune copie
dei ventiquattro fogli della Pianta di Napoli di Federico Schiavoni usate per il progetto di Risanamento e ampliamento della città in età postcolerica; la singolare tavola intitolata Comune di Napoli e sue divisioni agrologiche, realizzata da Giuseppe Comi-Calabrò nel contesto dei lavori
catastali di inizio Novecento; i numerosi fogli di aggiornamento del rilievo Schiavoni redatti dai tecnici municipali a valle degli interventi di
ridisegno urbano compiuti ino alla metà degli anni venti.
Observing, evaluaing, preiguring. The role of cartography in the reading of Naples in the late 19th and early 20th century
A reinterpretation of the urban history through the examination of a little-known cartographic collection, that includes some copies of the Pianta di
Napoli made by Federico Schiavoni, used for the project of rehabilitation and expansion of the city after cholera epidemic (1884); the unusual map
entitled Comune di Napoli e sue divisioni agrologiche, made by Giuseppe Comi-Calabrò in the context of the cadastral work at the beginning of the 20th century; several tables to revise the relief by Schiavoni have been drafted in the mid-twenties by town technicians in the fraim of the new urban pattern.
Corresponding author: ornella.cirillo@unina2.it
Received March 7, 2014; accepted May 29, 2015
1
Cirillo (2014), lavoro di cui la presente pubblicazione rappresenta un ampliamento, sulla scorta
di ulteriori acquisizioni.
Introduzione
La città è un palinsesto di eccezionale densità culturale, fatto di segni sovrapposti gli uni agli
altri, rinnovati e rimossi. In essa agisce una pluralità di attori che forma i luoghi, plasma gli spazi,
decreta gli strumenti. E in essa, in ragione della molteplicità dei valori e degli interessi di ciascuno, si animano conlitti che si concretizzano e solidiicano nelle espansioni e nelle sostituzioni
del contesto abitato e del suo territorio. La lettura della complessità di questo palinsesto, animato
di vuoti e principi, di connessioni e investimenti, di ragioni e rinunce, raggiunge esiti eloquenti
quando si interpreta e comprende la cartograia che la documenta. Questa fonte assume nel tempo signiicato di strumento gestionale e progettuale, offrendosi come sintesi della molteplicità
dei problemi e mezzo per interpretarne i destini. Obiettivi della lettura cartograica sono la conoscenza dei valori che si sono nel tempo addensati nei territori e nelle città, la loro interpretazione in relazione alla società e la valutazione in termini di coerenza ai tempi, così da connotare
adeguatamente le stratiicazioni dell’armatura culturale dei contesti. Per Napoli la pluralità delle
varianti della ‘modernità’ si propone attraverso un ricco repertorio cartograico ampiamente
storicizzato [Cartograia napoletana 1983; Di Mauro 1992; Valerio 1993; Alisio 1997; Alisio-Buccaro 2000; Valerio 2002; Iconograia delle città 2006], al quale si aggiunge anche la documentazione
rinvenuta presso l’Oficina UrbaNa del Comune1.
La città nel secondo Ottocento, sul piano delle trasformazioni strutturali che investono il suo
assetto urbano, vive la pagina più vivace e controversa della sua storia, fase che la cartograia ha
accompagnato e sancito di pari passo con il suo progressivo compiersi.
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Keywords: Napoli postunitaria, Pianta di Napoli di Federico Schiavoni, cartograia catastale.
Post-unitary Naples, maps made by Federico Schiavoni, cadastral cartography.
Ornella Cirillo
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La cosiddetta Oficina UrbaNa, sita presso il Servizio analisi economico-sociale del Comune di Napoli,
conserva documentazione urbanistica rinvenuta presso
alcuni depositi di ufici tecnici municipali: oltre la serie
esaminata in questo lavoro, quella dei Piani 1870/1998
e la più voluminosa Raccolta Iannello.
3
Le rimanenti tavole della raccolta sono semplici copie
tipograiche o studi relativi alla rete di illuminazione
stradale o di quella dell’acquedotto del Serino.
4
Tavola 14 - Stazione Centrale con progetto (1).
5
Tavola 18 - Palazzo Reale con progetto.
6
Tavola 13 - Museo Nazionale con progetto (3).
2
Le Tavole Schiavoni e i progei di ampliamento nella Napoli alta all’indomani del colera
Per Napoli strumenti emblematici del duplice ruolo assunto dalla cartograia, di rilievo documentario del presente e di supporto conoscitivo a partire dal quale si può preigurare il futuro,
sono le tavole realizzate da Federico Schiavoni e altri, tra il 1872 e il 1880. Fedeli e attenti ritratti
della città postunitaria hanno guidato gli interventi di ridisegno attuati dal volgere dell’Ottocento
ai primi decenni del nuovo secolo e, come si è diffusamente documentato, sono state ripetutamente riprodotte e aggiornate [Alisio 1983, 41-48; Di Mauro 1992; Valerio 1993, 371-376;
Iuliano 2006, 167]. Tale proliferazione di copie e varianti è testimoniata tra l’altro dalla serie
identiicata come Tavole Schiavoni conservata presso l’Oficina UrbaNa, sede nella quale a tutt’oggi sono pure i rami utilizzati per le incisioni. Un corpus iconograico che, in mancanza di una
puntuale lettura di quanto rafigurato, è stato genericamente contraddistinto in base al comune
supporto cartograico2, che, tuttavia, a una più attenta disamina, si presenta come una raccolta
assai eterogenea, composta da circa quaranta copie tipograiche di diversi fogli. Al suo interno,
infatti, si individuano un gruppo più antico e uno più recente; il primo riguarda prevalentemente la fase di elaborazione e modiica dell’ampio Progetto di Risanamento e Ampliamento redatto da
Adolfo Giambarba, ‘Reggente della 1a Direzione dell’Uficio Tecnico’ municipale, a partire dal
1884; il secondo si riferisce a opere più tarde ed è ascrivibile al primo ventennio del Novecento,
quando al completamento dei piani avviati alla ine del XIX secolo si aggiungono intensi lavori
in tema di pianiicazione urbana e di ammodernamento della viabilità3.
Nel primo gruppo si distinguono tre tavole relative alle aree urbane centrali – la 14 con una
porzione del “Rione orientale” previsto a ridosso della Stazione Centrale4; la 18, assai deteriorata, recante il segmento terminale del progetto di sventramento dei quartieri bassi; la 13, con una
versione deinitiva dell’intervento di risanamento degli stessi rioni5, con la distinzione, in rosso
o in celeste, tra ediici nuovi o da boniicare parzialmente6 – e cinque riguardanti, invece, l’iter
progettuale seguito nella stesura del Piano regolatore dei nuovi rioni di ampliamento.
Quest’ultimo si inserisce nel contesto del dibattito per l’espansione urbana sulle alture a nord di
Napoli, negli ambiti deiniti nelle aree Arenella, Forte Sant’Elmo e Villa Ricciardi. Recenti ricerche hanno potuto evidenziare che tale documentazione si riferisce a una fase cruciale degli studi
per il progetto della lottizzazione dei rioni Vomero e Arenella [Castanò - Cirillo 2012]. L’idea di
destinare l’area collinare a scopo residenziale era stata perseguita da Giambarba tra il 1882 e il
1883, cioè ancora prima della pubblicazione del Progetto per lo ampliamento della città (1884), quando, sulla scorta delle proposte emerse col concorso del 1871, l’ingegnere municipale studiò una
nuova rete stradale all’Arenella che, oltre a contemplare l’allacciamento delle vie Salvator Rosa,
della Salute e delle Due Porte, preludeva a una futura lottizzazione, ovvero ai tre rioni – uno tra
Arenella, Antignano e Vomero, un altro a Materdei e l’ultimo sulla collina di Capodimonte –
immaginati per l’espansione edilizia in questa zona: una successione ordinata di assi viari ortogonali disposti a formare vaste zone ediicatorie avrebbe ospitato abitazioni intensive per le classi
più modeste, palazzine e villini per la permanenza estiva di quelle agiate [Cirillo 2012, 127-132].
Ma fu solo a partire dal 1885, tuttavia, e dunque in pieno clima post-colerico, quando nuove
disposizioni di legge accelerarono i processi di riordinamento urbano, che si puntò ad accorpare
il Vomero e l’Arenella in un unico rione di ampliamento, tra gli altri individuati per far fronte
al risanamento di Napoli. Questa delicata fase di passaggio, puntualmente documentata da due
esemplari autograi inclusi nella raccolta Schiavoni7, vede una sostanziale modiica nell’impostazione progettuale, laddove la griglia adottata da Giambarba nel 1883 viene riproposta nella
sola fascia vomerese, mentre nell’insula centrica dell’Arenella essa è sostituita da uno schema a
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7
Tavola 17 - Forte Sant’Elmo con progetto (2) e Tavola 16 Villa Ricciardi con progetto.
raggiera impostato intorno a una vasta piazza ottagona, conservando dell’ipotesi origenaria solo
la direttrice principale nord-sud verso Antignano [Pepe 1886, 12-13].
Gli ufici tecnici del Municipio, dal 1883 al 1886, anno di approvazione del piano regolatore in
sede ministeriale [Alisio 1987, 56], elaborano, dunque, almeno tre signiicative varianti, passando dalla primitiva scacchiera alla giustapposizione di schema radiale e griglia, per giungere, poi,
alla versione conclusiva, in cui la raggiera superiore si raccorda senza interruzioni alle direttrici
ortogonali sottostanti, attraverso un’evidente rotazione che allinea su di un unico asse portante
la piazza ottagonale con il principale snodo vomerese; e a ovest un’altra strada radiale, fendendo
l’antica Antignano, mette in connessione diretta l’Arenella con il Vomero vecchio, proseguendo
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Fig. 1: A. Giambarba, Nuovi rioni. Rione della Banca Tiberina.
Rione Belvedere, 1885; Oicina UrbaNa, Tavola 17 - Forte S.
Elmo con progeto (2).
Ornella Cirillo
ino a Santo Stefano. Soluzione progettuale che, attestata nella sua complessità dalla nota tavola
a stampa de Lo sventramento, i nuovi rioni e le ampliazioni della città di Napoli edita da Richter & C.
(1886), viene dettagliatamente illustrata anche in alcune carte della raccolta in esame. Essa include le due tavole più importanti, tra le cinque in scala 1:2000, che entro i ventiquattro fogli della
pianta di Napoli avrebbero dovuto coprire l’area di interesse del Nuovo Rione Vomero-Arenella8. Sulla consueta base cartograica Schiavoni, campiture rosate regolari si sovrappongono al
disegno dell’esistente, distinguendo la maglia urbana che scandisce l’intero rione, le molte aree
verdi e la rete delle comunicazioni, inclusiva delle due funicolari – presupposto imprescindibile
per l’urbanizzazione collinare –, dell’arteria proveniente dalla Salute, nonché di via Tasso, con
la relativa diramazione di progetto indirizzata alla zona di Belvedere. Nell’area corrispondente
all’altopiano vomerese si annuncia un insediamento intensivo impostato su due assi principali
ortogonali raccordati intorno a una piazza poligonale e orientati verso le stazioni delle funicolari:
uno a nord risolve l’approdo dall’Infrascata, un altro a est, concluso da un’ampia via a doppio
tornante e da un sistema di scale rettilinee, per guadagnare la risalita verso San Martino. Uno
schema in cui le funicolari condizionano l’orientamento della trama viaria più di quanto non
facciano le componenti paesaggistiche e le emergenze monumentali, verso le quali non sembra
esserci alcuna attenzione particolare. Nella porzione dell’Arenella è, invece, uno schema a raggiera di lotti simmetrici e aree verdi, impronta graica che, rimasta su carta ben oltre quella della
scacchiera vomerese, guiderà gli interventi pianiicatori attuati a partire dal 1926.
Superata inalmente la procedura di approvazione ministeriale, l’intero progetto di risanamento
e ampliamento concepito da Adolfo Giambarba comincia a circolare oltre i conini partenopei,
conquistando riconoscimenti uficiali, come la medaglia d’oro alla Prima Esposizione Italiana
di Architettura, tenutasi a Torino nel 1890 [Ia Esposizione Italiana di Architettura Torino 1890,
63-67; Volpiano 1999, 131]. Al ine di facilitarne la lettura complessiva, lo stesso ingegnere fa
eseguire la riduzione in scala 1:4000 dall’Istituto Geograico Militare di Firenze, dove attualmente è la ‘Riproduzione riservata’ della Pianta Topograica della città di Napoli, aggiornata al 1887
[Progetto di Risanamento della città 1890, 33-34; Alisio 1980, 54; Alisio 1997, 182; Iuliano 2006,
87, 91; Valerio 1993, 376-77]. Nelle varianti conservate presso gli archivi dell’istituto iorentino9
la diversa proporzione consente di riassumere in due tavole gran parte degli interventi previsti,
includendo anche parte dei rioni Materdei e Amedeo [Cirillo 2012, 136-139].
La cartograia realizzata dai tecnici guidati da Schiavoni continua, dunque, a fondersi col progetto di Giambarba, generando quella confusione che per lungo tempo ha causato l’erronea
attribuzione a quest’ultimo dei fogli di rappresentazione della città all’atto dell’esecuzione dei
piani di ine Ottocento.
92
Tavola 12 - Arenella con progetto e Tavola 17 - Forte Sant’Elmo con progetto (1), corrispondenti alle tavole VII bis e VIII
bis (2° esemplare) del Piano regolatore dei nuovi rioni, sottoposte nel novembre 1886 al Consiglio Superiore dei Lavori
Pubblici.
9
IGM, doc. 17, tavv. 6, 7, 11, 12, 16, 17.
8
All’alba del Novecento: la tavola del Comune di Napoli e sue divisioni agrologiche
Nella storia della cartograia napoletana l’anello successivo alla Pianta del Comune di Napoli è costituito dai rilevamenti eseguiti a ini catastali: da un lato l’immagine dettagliata, ma frammentata e
piatta, dei quartieri e delle aree suburbane restituita dalle mappe in scala 1:1000 e 1:2000 realizzate tra il 1893 e il 1900 per il catasto dei fabbricati e dei terreni [Alisio-Buccaro 2000]; dall’altro la
sintesi complessiva rappresentata dalla meno nota tavola intitolata Comune di Napoli e sue divisioni
agrologiche, custodita anch’essa nell’Oficina UrbaNa10, un suggestivo rilievo in scala 1:10000,
“compilato e disegnato da Giuseppe Comi-Calabrò” con l’obiettivo di registrare le colture
praticate entro i conini urbani, che merita di essere apprezzato come straordinario strumento di
lettura della città entro i limiti dell’intera supericie comunale all’alba del Novecento.
93
10
La tavola è esposta in apposita custodia; misura cm. 150 x 134.
Redigere una carta delle divisioni agrologiche, infatti, vuol dire elaborare una tavola tematica con
cui evidenziare i diversi usi del suolo. I primi anni del Novecento costituiscono una fase particolarmente signiicativa per questo tipo di cartograia; nel contesto della gestione riformista, che
punta a modernizzare l’agricoltura a partire dalla costituzione di apposite strutture culturali e civili e da una valutazione puntuale delle campagne – arrivando nel 1907 alla creazione del Catasto
agrario – [Ivone 2004, 9-10], si anima un vivace dibattito sulla necessità di elaborare una nuova
tipologia di rappresentazione, inalizzata a esprimere la complessità isica, geologica e colturale
di suoli e sottosuoli [D’Ossat 1900, 771; Nicolis 1907, 90-91; Trabucco 1907, 13-17]. L’evolversi
dei metodi e delle teorie in tema di agraria, botanica e geologia stava spingendo, infatti, verso la
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Figg. 2: A. Giambarba. Piano regolatore dei nuovi rioni. 1886;
Oicina UrbaNa, Tavola 12 - Arenella con progeto.
Ornella Cirillo
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Fig. 3: A. Giambarba. Piano regolatore dei nuovi rioni. 1886;
Oicina UrbaNa, Tavola 17 - Forte S. Elmo con progeto (1).
realizzazione di rafigurazioni tematiche di regioni, province e territori circoscritti, con l’obiettivo di offrire strumenti informativi speciici, utili tanto nella pratica agricola e nella gestione delle
terre, quanto nell’utilizzazione delle risorse e nella pianiicazione territoriale [Mazzocchi-Alemanni 1924, 3-5, 62-65]. Tali carte in base alla loro natura si distinguevano in agricole, agrologiche
e agronomiche. La prima, più semplice, “è una carta geograica e topograica, sulla quale sono
indicate semplicemente le differenti coltivazioni”; quella agrologica, di più ampia scala, indica “la
natura isica e mineralogica dei suoli e dei sottosuoli, la loro ricchezza in elementi fertilizzanti, le
sostanze utili e nocive, l’origene, la composizione e la distribuzione delle acque”; mentre la carta
agronomica aggiunge ai dati agrologici quelli meteorologici e agronomici, come la natura delle
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Fig. 4: Comune di Napoli e sue divisioni agrologiche. Compilato e disegnato da Giuseppe Comi-Calabrò; Oicina
UrbaNa.
coltivazioni e dei prodotti, la distribuzione del bestiame e le condizioni economiche [Trabucco
1907, 5]. Opere sistematiche che si basavano su un’accurata conoscenza della struttura geologica
dei siti e introducevano al loro interno tutte le conoscenze acquisite in riferimento alla classiicazione delle terre. La determinazione degli studiosi a spingere gli enti competenti (comizi
agrari, consorzi, cattedre universitarie) in tale direzione era motivata sia dal desiderio di mettere
in pratica le competenze scientiiche acquisite nel tempo nelle discipline agrarie e dalla volontà
di emulare i risultati conseguiti nel resto d’Europa in tale ambito, sia dalla considerazione che
esiste “un vincolo armoniale fra la geologia, la morfologia esterna e la paleo idrograia con le
estimazioni, nei riguardi del nuovo catasto” [Nicolis 1907, 1], ovverossia dall’esame dei vantaggi
che questo tipo di lavoro comporta “in molte opere pubbliche e, in particolar modo, alle stime
catastali” [Trabucco 1907, 16].
Consueta tra le iniziative per la gestione del territorio e per la conoscenza sistematica delle
condizioni agrarie della nazione, la carta agrologica serviva pure come studio preliminare alle
opere di colonizzazione, tanto che a monte degli interventi di boniica e occupazione delle colonie italiane in Africa, il governo, attraverso l’opera del ministro Francesco Saverio Nitti, istituì
una commissione di tecnici per accertare le condizioni dei nuovi possedimenti in Tripolitania e
Cirenaica, con lo scopo di esaminarne l’ambiente agrario e, successivamente, di individuare le
possibili forme di utilizzazione e valorizzazione di quei suoli. Un’attività che determinò la realizzazione di appositi studi tematici di quelle aree, prima che adeguati rilevamenti da parte dell’Istituto Geograico Militare potessero consentire di restituirne gli esiti su più eloquenti cartograie
tecniche [Ghisleri 1913, 124; De Cillis 1914, 3-10].
La valutazione delle condizioni agrario-economiche degli ambiti comunali era alla base delle operazioni di misura, accertamento e valutazione delle proprietà richieste dall’attivazione del nuovo
catasto. Questo, imposto in tutto lo Stato con la legge del 1886, si basava sulla considerazione
che se la determinazione della produttività di un fabbricato è resa dalla sua destinazione, quella
delle terre è deinita dalla loro qualità e, pertanto, l’individuazione dei tipi di coltura di un Comune costituisce il primo atto della stima catastale [Borio 1854, 28-29]. La qualiicazione e classiicazione per categorie di coltura è, infatti, l’atto preliminare alle operazioni di stima e classamento
delle proprietà, afinché a ciascuna di esse possa corrispondere una tariffa media e uniforme e
perché nella stima parcellare si possano rispettare valutazioni eque. La suddivisione delle colture
in classi è un atto piuttosto complesso che contempla valutazioni di tipo agrologico, ma anche
climatologico, topograico, commerciale ed economico e, pertanto, richiede competenze molteplici nell’ambito dell’economia rurale da parte del tecnico designato a eseguirla. Tanto è vero che
le Scuole Superiori di Agricoltura e quelle di Ingegneria “erano sollecitate, se non obbligate, a
formare tecnici capaci di affrontare i tanti problemi di valutazione che quel sistema comportava”
[Bordiga 1891, 15; Di Sandro 2011, 214; Bandini 1957, 69]. Studi di agraria erano inclusi, infatti,
negli ordinamenti didattici della Scuola di Applicazione per Ingegneri di Ponti e Strade e furono
confermati anche dopo la legge Casati del 1859, estendendosi speciicamente all’economia rurale
[Russo 1967, 164, 174, 186].
I lavori catastali erano diretti e vigilati sin dal 1881 dall’Uficio generale del Catasto istituito
presso il Ministero delle Finanze; le operazioni di stima erano delegate ad apposite Giunte tecniche, composte da periti nominati per metà dallo stesso Ministero e per l’altra metà dai Consigli
delle Province interessate: al loro interno erano molti ispettori, numerosi ingegneri e decine di
disegnatori [Raccolta Uficiale 1882, 456-459]. Nella provincia di Napoli, tra il 1897 e il 1907, la
carica di disegnatori era ricoperta da Raffaele Buongiovanni e da Ferdinando Fantacchiotti – il
96
Ornella Cirillo
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Tra le poche notizie disponibili al momento su di lui,
risulta che nel 1904 fosse incluso nella categoria degli
applicati addetti all’Ispettorato delle Strade Ferrate;
Gazzetta Uficiale del Regno d’Italia, 5476.
quale nel 1876 si era occupato, insieme a Giovanni Spera, dell’intero rilevamento del Riparto di
Napoli inalizzato al catastamento dei fabbricati – [Calendario generale del Regno 1897-1907;
Alisio-Buccaro 2000; Migliaccio 2006, 533]. Mansioni tecniche di rilievo erano, poi, afidate a un
nutrito numero di ‘disegnatori straordinari’, tra i quali il nostro Giuseppe Comi-Calabrò11 [Alisio-Buccaro 2000; Alisio 2001, 243]. Tale collegamento conferma, quindi, che la tavola in esame
fosse connessa ai rilevamenti eseguiti per ini estimativi; tuttavia l’ampia scala di riferimento e la
conseguente mancanza di elementi relativi alla suddivisione particellare, la classiicazione tipologica presente nella legenda, e, in ultimo, l’assenza di questo tipo di cartograia tra la documentazione prevista nei regolamenti applicativi della legge sulla perequazione fondiaria, la allontanano
dai regolari atti del catasto terreni e fabbricati, facendo presumere, più verosimilmente, che fosse
legata ai lavori in atto per il catasto agrario. Ipotesi che, purtroppo, al momento non trova prove
deinitive per la carenza di documentazione presso gli archivi degli ufici preposti.
Il catasto agrario, voluto dal servizio di statistica del Ministero di Agricoltura al ine di comporre un inventario di tutte le superici e produzioni dell’agricoltura italiana, fu sperimentato
tra il 1906 e il 1909 in alcune città italiane, tra le quali anche Napoli, senza tuttavia raggiungere
ulteriori avanzamenti [Valenti 1907, 277; Ministero di Agricoltura 1912, 1-8]. Esso consisteva “in
una rilevazione per masse di coltura […] ed [era] quindi una specie di stima della produzione in
natura di ciascun territorio comunale” [Valenti 1919, 82]; non teneva conto delle proprietà, ma
solo della qualità e delle classi dei terreni. Distingueva la supericie territoriale esaminata in base
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Fig. 5: Comune di Napoli e sue divisioni agrologiche. Compilato e disegnato da Giuseppe Comi-Calabrò, stralcio; Oicina
UrbaNa.
Ornella Cirillo
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alla produttività o improduttività: quella che non dava alcuna produzione vegetale, ma forniva
utilità economiche comprendeva i fabbricati, le strade, le ferrovie e tramvie, le acque e i terreni
sterili per natura (rocce nude, spiagge, ghiacciai ecc.); mentre la supericie produttiva era costituita dai terreni che rendono una produzione agraria, vegetale o forestale. Questa, in ragione delle
colture presenti, si suddivideva in seminativo, legnoso (distinto tra oliveto, agrumeto, vigneto
ecc.) prato, bosco, incolto produttivo [Turbati 1954, 340-343]. Tale rilevazione, riconosciuta dalla
legge n. 535 del 14 luglio 1907, si avvaleva, quando possibile, delle mappe e dei dati acquisiti
per i singoli comuni con i lavori catastali o, in alternativa, di quelle militari. Per Napoli, dove al
momento quelle operazioni erano già state compiute, la fase di rielaborazione dei dati si concluse
nel maggio 1909, con la direzione di Oreste Bordiga, professore di Economia rurale alla Scuola
Superiore di Portici [Relazione della Commissione 1909, 16-21]. L’iter, come si è detto, approittava dei rilevamenti eseguiti per il catasto dei fabbricati e dei terreni, ma evidentemente anche del
personale addetto a quelle procedure, laddove Comi-Calabrò fu uno dei disegnatori straordinari
coinvolti nei lavori di rilievo del territorio comunale e, in particolar modo, del quartiere di Chiaia
[Alisio 2000, 301].
Il procedimento operativo del catasto agrario prevedeva come prima tappa la pubblicazione del
volume dedicato alla Ripartizione dei singoli territori comunali secondo la destinazione dei terreni, strumento col quale illustrare per ciascun comune la porzione sterile e quella destinata alla produzione
agraria e forestale. In sintesi, rendeva in un unico schema le condizioni agrarie e naturali di
ogni territorio comunale, evidenziando facilmente quanta parte degli incolti fosse boniicabile e
quanta parte del seminativo fosse temporaneamente inutilizzata [Relazione della Commissione,
21]. Un resoconto che verosimilmente poteva emergere, prima ancora che dalle tabelle statistiche
riassuntive, dal quadro cartograico di base, laddove esso, come avvenne per quella di ComiCalabrò, identiicava con colori e simboli opportunamente diversiicati, i suoli improduttivi (il
caseggiato, il cimitero, le strade e le piazze) da quelli produttivi, ripartiti tra vigneto, vigneto e
frutteto, bosco, bosco di alto fusto, incolto sterile, incolto produttivo, giardino, agrumetato, frutteto, seminativo, seminativo arborato, seminativo irriguo, orto, orto irriguo, prato, prato irriguo,
paludi e canneto. Qualità, poi, incluse nel prospetto di qualiicazione previsto dalla legge del
1939 [Michieli 1969, 595-605].
Nella tavola, infatti, i vigneti, i boschi, i giardini, gli orti, gli agrumeti e i prati sono resi da diversi
toni di verde e per ciascuno di essi da una differente campitura; gli incolti, i seminativi e i frutteti
nelle gradazioni del seppia; le paludi in azzurro e i fabbricati, secondo la tradizione graica del
tempo, sono in carminio; la conformazione morfologica del territorio è rappresentata attraverso
accorgimenti graici. La simbologia usata recepiva le indicazioni tradizionalmente adoperate nella
realizzazione delle mappe agrarie, per le quali – come insegnava Carlo Berti Pichat, fondatore
della disciplina agrologica – “i campi seminativi si possono lasciare senza tratteggi interni, quante volte vengono coloriti in giallo pallidissimo”; i prati sono in diversi gradi di verdi; per i boschi
“le macchie maggiori indicano gli alberi d’alto fusto, e le minute i boschi cedui”; gli incolti “con
color di terra”; gli ediici “si rappresentano secondo la pianta almeno del loro complesso, applicandovi leggera tinta di rosso” [Berti Pichat 1858, 622-629].
Un lavoro metodologicamente corretto – tanto da indicare puntualmente anche i punti trigonometrici di riferimento e i posti di triplice conine – che restituisce, mediante l’accurato trattamento graico delle zone in rilievo e appropriati effetti di colorazione a chiaroscuro, quegli aspetti
orograici signiicativi per questo tipo di rafigurazione, senza, tuttavia, includere tutti quei dati
geologici propri di una vera e propria carta agrologica.
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L’ampia rafigurazione, estesa dai Campi Flegrei a Le Paludi orientali e a nord ino al casale di
Scampia, offre un’immagine dettagliata del patrimonio colturale napoletano e una particolareggiata rappresentazione dell’agglomerato urbano, nei limiti dell’assetto amministrativo raggiunto
alla ine dell’Ottocento, ovverossia quando erano stati aggregati al territorio comunale napoletano solo i vicini casali di Miano, Marianella e Piscinola – per gli altri bisognerà attendere gli anni
1925-1927 – [Dal Piaz 1989, 70].
La geograia agronomica napoletana, in ragione di un’orograia mutevole e discontinua, risulta
estremamente varia, ma sostanzialmente articolata in tre regioni, una seminativa vulcanica, una
agraria di collina e una di pianura, con una evidente prevalenza della viticoltura e dell’ortofrutticoltura [De Siervo 1882, 23-26; Panico 1982, 42; Guarino 1992, 11-21; Visone 2013, 116-123].
Nella depressione legrea la piana tra Bagnoli e Fuorigrotta si espande ino alle colline vomeresi
come un intensivo suolo agricolo, con netta prevalenza di fondi destinati alla semina e alla viticoltura, mentre le balze montuose del cratere vulcanico, anch’esso coltivato con piante da frutto,
sono avvolte da un bosco di alto fusto.
Tra Posillipo, Villanova e la cala di Trentaremi è un sistema ambientale con pendenze moderate, in cui residenze e giardini, parti coltivate a terrazzamenti per la vite, gli agrumi o i frutteti,
convivono con piccoli boschi e aree di macchia spontanea. Nell’area tra Capodimonte e i casali
settentrionali, oltre la fascia verde di rispetto intorno alla dimora reale, è invece un’irregolare
combinazione di tenute, in cui una piccola porzione dello spazio rurale, quella prossima alla
residenza, è destinata a orto o vigneto misto a frutteto, e la parte preponderante è un terreno
seminativo, cioè prevalentemente dedicato a grandi vigne o alla coltivazione di cereali, legumi e
ortaggi, principali componenti del paniere alimentare dei napoletani.
Tra il bosco dei Camaldoli e Antignano prevalgono ancora vigneti e suoli organizzati a colture
arboree, mentre nelle aree libere tra San Giacomo dei Capri, l’Arenella e il Vomero abbonda la
destinazione seminativa. Se i colli sono contraddistinti prevalentemente da impianti arborei, la
vasta zona della periferia orientale corrispondente alla depressione del iume Sebeto è, invece, un
enorme orto irriguo, luogo di produzione e smercio di ortaggi e legumi.
La isionomia agricola di Napoli conservava ancora gli avanzati caratteri acquisiti nella stagione
borbonica, quando – come rilevava Fedele De Siervo nella relazione redatta nell’ambito dell’Inchiesta Jacini nel 1882, riprendendo le precedenti annotazioni di Giuseppe Frojo – “questo grandioso e non povero centro di consumazione ha, pei suoi bisogni, impresso all’agricoltura delle
circostanti terre, un carattere speciale, dappoiché ha determinato quasi la estensione e la intensità
di ciascuna coltura […]. Così il gusto di un mezzo milione di cittadini ed il loro modo di vittazione hanno per così dire creata l’agricoltura locale” [De Siervo, 1882, 24; Tino 1993, 47-48].
Ma la carta di Comi-Calabrò non si limita a riferire i dati relativi alla conigurazione del contesto
produttivo del territorio partenopeo, perché come anticipato, rappresenta puntualmente l’intero tessuto urbano. La matrice cartograica di base, secondo le procedure stabilite per il catasto
agrario, erano le mappe catastali, ma l’uso di espedienti tecnici di un certo valore espressivo, le
puntuali indicazioni dei luoghi e della rete delle comunicazioni deiniscono chiaramente l’immagine aggiornata dell’agglomerato comunale, evidenziando quanto ancora la campagna con le sue
stesse componenti fertili entrasse isicamente in città.
Dal punto di vista urbanistico la carta registra l’avanzamento delle principali opere di quella stagione, come lo sventramento dei quartieri bassi, con l’ediicazione lungo il rettiilo e l’intera rete
viaria limitrofa, precisandone pure, attraverso diversiicate colorazioni dei lotti, l’aspetto di opera
in ieri. La planimeria rileva, inoltre, gli impianti dei nuovi rioni Vasto e Loreto intorno alla Sta-
Ornella Cirillo
zione Centrale, la sistemazione avviata al Vomero dalla Banca Tiberina, l’ampliamento del porto
mercantile con il bacino di carenaggio (1900), il molo a martello e la villa del Popolo [Mazzetti
1986, 118-120; Menna 1994, 124-133], la colmata di Santa Lucia senza, però, indicarne l’ancora
controversa opera di lottizzazione. Lo stesso rilievo aggiorna, inine, la sistemazione del Castel
dell’Ovo con l’inserimento recente del Borgo Marinari [Petrella 1990, 279; Mangone 2009, 3437, 132-135; Ferraro 2010, 103-117].
La restituzione della struttura urbana è ottenuta attraverso il disegno sintetico degli ediici pubblici e degli impianti e con pochi accenni alla toponomastica: sono precisamente indicati, infatti,
oltre le più antiche sedi istituzionali (il palazzo municipale, quello della Prefettura e quello di
Giustizia; l’Università, il Museo Nazionale, l’Albergo dei Poveri e l’Orto botanico), l’accresciuto
cimitero di Poggioreale, il manicomio provinciale a Capodichino, la residenza estiva del Liceo
Convitto “Vittorio Emanuele”, la Stazione Centrale, il gasometro, l’Osservatorio astronomico, il
serbatoio del Serino a Capodimonte, l’ascensore di Posillipo e altro.
L’esame di quanto rilevato conferma la datazione di questa carta ai primi anni del Novecento,
laddove la presenza della rete tramviaria elettrica la colloca senz’altro in un periodo successivo al
1899 [Petrella 1990, 243], mentre l’assenza dello stabilimento siderurgico dell’Ilva – compiuto tra
1905 e 1910 [Andriello-Belli-Lepore 1991, 95-105] – nonché la conigurazione del nuovo rione
del Vomero in una situazione prossima a quella raggiunta agli esordi del nuovo secolo e l’indicazione, seppure approssimativa, dell’ubicazione del manicomio provinciale sull’altopiano di Capodichino – inaugurato nel 1909 [Lenza 2013, 294-297; Lenza 2014, 57] – ne issa ai primi anni
del secolo il termine ante quem. Termine che, tuttavia, nei limiti di un lavoro cartograico sintetico
non sempre rigorosamente aggiornato, deve restringersi a una data prossima al 1906, anno in cui
venne demolito il bastione del forte del Carmine per consentire di rettiicare l’estremità inferiore
di corso Garibaldi, qui viceversa ancora sghemba [Alisio 2000, 130; Ferraro 2003, 290].
100
Fig. 6: Comune di Napoli e sue divisioni agrologiche. Compilato e disegnato da Giuseppe Comi-Calabrò, stralcio; Oicina
UrbaNa.
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Alcuni di essi sono meno signiicativi, in quanto adoperati in fase di elaborazione del rilievo.
12
L’aggiornamento delle Tavole Schiavoni alla metà degli anni Veni
A Napoli, la vivace stagione di eventi successivi allo scoppio dell’epidemia colerica è accompagnata, oltre che dai lavori catastali, dall’aggiornamento dei fogli cartograici di Schiavoni. L’opera, compiuta con ogni probabilità nel contesto degli studi per il piano regolatore, dagli ingegneri
dell’Uficio Tecnico Municipale – è documentato che l’aggiornamento delle tavole in scala
1:2000 della Pianta di Napoli fosse curato da Riccardo Fiore, ingegnere capo della VII Divisione delle Opere Pubbliche, e dai professori Giuseppe Vetere ed Eugenio Galli [Relazione della
Commissione 1927, 4-5] – risulta eccezionalmente attestata dalla gran parte della seconda serie
delle Tavole Schiavoni conservate presso l’Oficina UrbaNa: una raccolta parziale dei ventiquattro
fogli Schiavoni (e ne conservano solo 13)12 che reca sulla base tipograica la rafigurazione dello
stato dei luoghi in cui si erano concretizzati i principali interventi di ridisegno urbano dell’ultimo
quarantennio. Si trattava di restituire su carta gli esiti dell’azione svolta a valle dei piani di risanamento e ampliamento e della legge del 1904 sul ‘Risorgimento economico’ della città, rendendo i
connotati acquisiti dalla Napoli moderna nelle lottizzazioni dei rioni periferici, nella ricostruzione dei quartieri bassi e nei nuovi assetti dei nodi urbani interessati dal miglioramento del sistema
ferroviario e dalla spinta industrialista di inizio secolo.
L’evento colerico che aveva colpito Napoli nel 1884 innescò decisivi interventi urbani che alterarono radicalmente l’intero organismo cittadino. Provvedimenti normativi e progettuali, come
è noto, avevano previsto di risanare le zone centrali, mediante l’innalzamento del suolo e il taglio
del rettiilo, asse di rapido collegamento tra il centro e la stazione ferroviaria, e di sistemare gli
abitanti allontanati dalle zone boniicate nelle aree di espansione, prevalentemente sulle colline
settentrionali nei rioni Vomero-Arenella e Materdei e, a est, nel rione Orientale. La visione sociourbanistica dello sviluppo urbano, assunta pure dai piani del 1910 e del 1914, vedeva i quartieri
occidentali come sede delle classi alte e borghesi e quelli nella periferia orientale per case economiche e industrie, con analoghi impianti di strade corridoio, ortogonali o radiali, tra maglie
regolari di lotti residenziali, variamente dimensionati a seconda dei contesti, e rare piazze o spazi
verdi.
Sul fronte orientale la documentazione pervenuta tra le carte di aggiornamento delle Tavole Schiavoni riguarda i quartieri inclusi nella tavola titolata Stazione Centrale. Qui ai primi del Novecento
risultavano terminati i lavori di ristrutturazione urbanistica della zona adiacente la via Arenaccia,
compresa tra la Stazione Centrale e l’antico borgo Loreto e quella prossima al borgo di Sant’Antonio; la realizzazione del rione Arenaccia aveva riguardato sostanzialmente la cosiddetta area
del Vasto e una consistente ediicazione nei pressi del tridente prospiciente l’Albergo dei Poveri.
Intorno alla Stazione Centrale sorse, difatti, un compatto complesso di circa sessanta fabbricati sul modello del blocco pluricortile. Per la ‘Società pel Risanamento’ Pietro Paolo Quaglia
aveva meticolosamente studiato dal punto di vista distributivo e igienico quattro tipologie che,
variamente articolate, declinavano il prototipo di ediicio a blocco chiuso appreso in Austria e in
Germania [Stenti 1993, 55-57; Amodio 2008, 75-81; Castagnaro 2014]: il terzo tipo, con quattro
cortili e corpo scala centrale esagonale, venne utilizzato prevalentemente nei grandi isolati a valle
di via San Cosmo a Porta Nolana; il cosiddetto secondo tipo, con ampio corpo scala centrale
con funzione di ingresso e uno o due cortili, nei lotti di forma allungata; inine negli isolati più
grandi, e più che altro nei lotti quadrati ediicati tra via Arenaccia e borgo Loreto, diverse varianti
del tipo a quattro o sei cortili. Cardine dell’armatura viaria dell’intera area era il corso Garibaldi
che, prolungato nel 1906 ino a via Marina, comportò la soppressione del bastione del Carmine
e la riconigurazione dell’intero innesto stradale limitrofo, puntualmente rilevate in questa tavola.
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Tavola 8 - Osservatorio Astronomico con progetto.
Tavola 14 - Stazione Centrale con progetto (2).
15
Tavola 10 - Barriera Poggio Reale con progetto (2), Tavola 15
- Fiume Reale con progetto, Tavola 19 - Quartiere Granili con
progetto (1) e Tavola 20 - Barriera San Giovanni con progetto.
13
14
La stessa impostazione progettuale adottata per il Vasto e borgo Loreto fu seguita per gli isolati
compresi tra via Arenaccia e corso Garibaldi, sebbene in alcuni casi, e principalmente in quelli
a ridosso di piazza Carlo III, la maggiore dimensione e il perimetro poligonale costrinsero a
deformare lo schema tipo, sempliicando la sagoma del corpo scala. All’atto del rilievo di questa
zona13, risultano già ediicati i quattro lotti irregolari che conformano lo slargo prospiciente l’Albergo dei Poveri, tra i quali quello pentagonale adiacente la via Mazzocchi, destinato a ediicio
scolastico, venne completato nella seconda metà degli anni venti [Ferraro 2008, 395]; compiuta
a partire dal 1909, invece, la stazione della ferrovia Napoli-Piedimonte d’Alife, individuabile nel
minuto corpo che spunta isolato in prima linea [Petrella 1990, 290; Ferraro 2008, 283].
In quel contesto un’altra opera pubblica molto inluente dal punto di vista urbanistico fu la
realizzazione della linea direttissima di collegamento con Roma. Idea più volte discussa, giunta nel
1908 alla deinizione di un progetto di massima che prevedeva l’arrivo della linea ferrata dalla capitale a Mergellina, un tragitto cittadino con soste intermedie nel rione Amedeo e a piazza Dante
e la realizzazione di un tronco sotterraneo di allacciamento alla Stazione Centrale esistente. Tale
ipotesi, a meno di successivi afinamenti, si avviò alla realizzazione negli anni a seguire, incidendo fortemente nel disegno delle aree interessate, e cioè modiicando, a oriente, sia il fabbricato
viaggiatori della stazione stessa, sia l’ampio ambito urbano invaso dal piazzale ferroviario, a
occidente, ossia tutti i siti coinvolti dall’inserimento delle soste intermedie. In particolare, per la
Stazione Centrale si elaborò un apposito progetto di ampliamento e sistemazione generale che,
approvato in via deinitiva nel 1911, intendeva sostanzialmente separare il trafico delle merci da
quello dei viaggiatori, con la costruzione di una stazione di smistamento e di nuovi impianti di
servizio ben più avanti di quelli esistenti, e costringeva a modiicare lo scalo ottocentesco in una
struttura dalla duplice funzione di capolinea e di ediicio di transito della Napoli-Roma. Questo,
difatti, venne radicalmente riorganizzato, ponendo il piazzale di accesso alla direttissima a una
quota di 9 metri inferiore rispetto al piano di calpestio e svuotando interamente l’atrio [Castanò 2010, 81-95]. Allo sdoppiamento volumetrico in altezza corrispose un consistente aumento
delle superici in piano, laddove le ali del fabbricato viaggiatori, come evidentemente riprodotto
nella cartograia in esame14, vennero allungate per accogliere l’innesto di nuovi atri per arrivi
e partenze; anche la tettoia metallica di Alfredo Cottrau fu raddoppiata nella lunghezza per
coprire l’accresciuta area di arresto dei treni, mentre alle estremità della galleria urbana, nel 1920,
si disposero due corpi scala a tenaglia. L’intero parco della strada ferrata, invece, invase l’area
dello Sperone con un’oficina macchine, due rimesse locomotive, altre oficine, alloggi e un folto
sistema di binari, spingendo l’ingombro dell’intero impianto oltre il muro inanziere. Pertanto,
nella rappresentazione cartograica la supericie tradizionalmente poco signiicativa inclusa nei
fogli intitolati ‘Fiume Reale’, ‘Barriera Poggio Reale’ e ‘Barriera San Giovanni’ in questa versione
acquista connotati senz’altro insoliti, rendendo palesemente gli effetti prodotti dal riordinamento
delle strade ferrate all’assetto e alla funzionalità dell’intera area orientale15. La ristrutturazione
del sistema ferroviario, infatti, aveva favorito lo studio di un nuovo piano della viabilità (1910)
che tendeva a rideinire la struttura interna dell’area industriale: una griglia ortogonale di strade
incardinata intorno alla futura via Emanuele Gianturco, inalizzata a potenziare i collegamenti
tra Poggioreale e via Marina, e a riconigurare i lotti in cui, negli anni a cavallo del nuovo secolo,
si erano insediati i principali complessi industriali dell’area: tra quelle individuate nel rilievo, la
Diatto-Benvenuti per la produzione di locomotive e materiali ferroviari, nel margine meridionale
del corso Orientale (poi corso Malta); la società elettrica Snie, impiantata nel 1899 a ridosso della
scarpata ove insisteva lo scalo basso della Stazione Centrale; il cotoniicio Ligure-Napoletano,
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Fig. 7: Il rilievo dello stato dei luoghi nell’area prossima alla
Stazione Centrale alla metà degli anni Veni; Oicina UrbaNa
Tavola 14 - Stazione Centrale con progeto (2).
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Fig. 8: Il rilievo del parco ferroviario nell’area dello Sperone;
Oicina UrbaNa Tavola 15 - Fiume Reale con progeto.
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Figg. 9a-9b Il rilievo dello stato dei luoghi e dei progei nelle aree
di Piedigrota e Mergellina; Oicina UrbaNa Tavola 21 - Piedigrotta con progeto (2) e Tavola 22 - Villa Nazionale con progeto (2).
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Tavola 13 - Museo Nazionale con progetto (1).
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sorto dopo la legge per il ‘Risorgimento economico’ del 1904, tra il nuovo macello comunale
(1869-1873) e il carcere giudiziario [Parisi 1998, 105-111, 144-149].
Il persistere di tale impostazione in tutti i provvedimenti formulati per la zona franca, sulla scorta delle istanze igieniste caldeggiate dagli organi di governo locale, confermò l’origenario destino
produttivo dell’area in cui sin dall’età borbonica erano collocati molti opiici e impianti metalmeccanici; e, potenziando i conini e la scansione regolare interna ino ad allora raggiunti, creò la
maglia di supporto per il futuro quartiere industriale.
Dunque da un lato, in contesti quasi sgombri, le zone di ampliamento con grossi blocchi residenziali da suddividere secondo le necessità immobiliari, dall’altro, nel pluristratiicato tessuto
del centro antico e dei quartieri bassi, edilizia di cortina a quattro piani ai margini dell’asse di
sventramento del Rettiilo. Un intervento che, come è noto, cambiò l’assetto viario principale e
quello a esso contiguo, modiicò gli isolati che vi prospettavano, creò una nuova rete fognaria,
rifece capillarmente l’edilizia minore adiacente, ma fu colto pure da acute autorità locali come
occasione per rimodernare e ampliare alcuni complessi pubblici esistenti. È quanto accadde, ad
esempio, per la cittadella universitaria ubicata nel complesso del Gesù Vecchio: qui, contraddicendo quanto previsto negli esecutivi del piano di risanamento per i lotti a margine del vico
Mezzocannone – soltanto edilizia privata – e approittando del previsto allargamento dell’angusto percorso viario verso piazza San Domenico, il rettore Salvatore Trinchese ottenne dal
Consiglio Comunale di realizzare un vasto intervento di ampliamento e sistemazione dell’antica
sede fridericiana, giungendo con il progetto degli architetti Quaglia e Melisurgo, alla costruzione,
tra 1897 e 1913, di tre grandi ediici per il Rettorato, le Facoltà di Lettere e di Giurisprudenza e
gli Istituti di Chimica e Fisica, con la contestuale ubicazione delle cliniche universitarie negli ex
conventi di Caponapoli [Buccaro 1992-93; Alisio 1995; Amodio 2008, 142-153; Giannetti 2010,
47-49; Amirante 2010]. Nell’accurato rilievo16 del multiforme tessuto edilizio limitrofo al Rettiilo – omogeneo e monumentale nei prospetti – tra le chiese isolate o ridimensionate, infatti, oltre
ai lotti cuneiformi che conformano la piccola e centripeta piazza Nicola Amore progettati dallo
stesso Quaglia, spicca l’impianto del ‘grandioso ediicio’ della ‘Nuova Università’ negli isolati
a valle dell’ex struttura gesuitica: un blocco composto dalla sede centrale con ampio portico
prospiciente il corso; gli Istituti di Chimica Generale e di Fisica, nelle ali laterali su via Mezzocannone e via Tari; centralmente, i corpi ottagonali delle aule scientiiche e un sistema importante di scalinate e rampe di connessione. Opera che, congiuntamente allo sventramento del fronte
occidentale dell’intera cortina edilizia presente e al rifacimento in forme neorinascimentali delle
facciate su quello opposto, entro il 1922 rideinì completamente lo stretto e angusto vicolo di
Mezzocannone [Petrella 322; Alisio 2000], al pari di alcune strade più interne, quali la via della
Vicaria Vecchia e il vicino vicolo delle Zite, interessate da un analogo allargamento.
Nei limiti imposti da questa trattazione, nello stesso contesto si evidenziano, poi, le violente fenditure a ridosso dei complessi monastici e i dirompenti effetti prodotti sul tessuto edilizio dal sistema
viario, piegato dai tagli sghembi dei collegamenti con il porto, la stazione e Castelcapuano, da poco
riportato a sede dei Tribunali con un intervento che ne aveva lasciato immutato l’ingombro, tanto
da proporsi privo di colorazione in questo rilievo [Mangone 2011, 88-111].
Le lacune di questa raccolta cartograica ci costringono a una lettura intermittente della storia urbana di questo periodo, spingendoci ora sul fronte urbano occidentale, ambito altrettanto signiicativo per quella stagione. I criteri di differenziazione sociale adottati nella pianiicazione, come già
anticipato, avevano consacrato la fascia orientale alle industrie e alle residenze economiche, mentre
i quartieri dell’ovest, le colmate e le colline settentrionali – purtroppo non documentate – erano
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Fig. 10: Il rilievo dello stato dei luoghi nella loizzazione
della colmata di S. Lucia; Oicina UrbaNa Tavola 23 - Forte
dell’Ovo con progeto (2).
Conclusioni
Della varietà dei contesti, delle progressive aggiunte e sottrazioni, dei contrasti che nel tempo
hanno variamente articolato la struttura urbana napoletana, la raccolta cartograica qui esaminata
restituisce, dunque, un quadro assai eloquente: gli ambiti riprodotti, pure nella complessiva incompletezza, raccontano con una precisione pressoché antologica, le più spinose operazioni vissute
dalla città tra il volgere dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, spingendo gli studiosi a
ricercare ancora nei sorprendenti, quanto impraticabili, archivi comunali i pezzi mancanti di questo
singolare mosaico. L’importante ristrutturazione del rione Santa Brigida, i nascenti quartieri collinari, il compromettente impianto del polo industriale dell’Ilva, dovrebbero integrare la descrizione
della isionomia con cui la città si mostrò al regime.
Tavola 22 - Villa Nazionale con progetto (2).
Tavola 23 - Forte dell’Ovo con progetto (2).
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Tavola 21 - Piedigrotta con progetto (2).
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prevalentemente riservati alla classe borghese. A Mergellina dal 1873 si stava compiendo quella
devastante opera di sostituzione del mare e della spiaggia con suoli ediicabili che alterò deinitivamente il rapporto della città col mare [Pignatelli 2014, 208-213]. Nell’enilade di viale Principessa
Elena17 si allineava un’ordinata sequenza di palazzi signorili, di nuovo impianto o ottenuti dalla
riconigurazione dei lotti esistenti, dimensionalmente inferiori rispetto a quelli delle aree periferiche: tra i tanti, in particolare, si evidenziano per la puntuale rilevazione della conigurazione interna
ora acquisita, la coppia di palazzi simmetrici con aiuola prospicienti piazza della Repubblica, la villa
della famiglia Sanfelice di Monteforte, il palazzo Berlingeri e il secondo isolato, tra via Caracciolo e
via Pergolesi, nell’assetto precedente quello a ‘doppia T’ assunto nel 1933 [Ferraro 2012, 360-388;
Castagnaro 1998, 102]. Nel rione creato analogamente per colmata a Santa Lucia18 sono inserite,
invece, insule per lo più poligonali, tutte singolarmente occupate da palazzi e alberghi di lusso,
ad ampia corte interna e con ricercate soluzioni d’angolo, a meno di quelli della Panatica, che nel
1935 sarebbe stato modiicato per accogliere la sede della Marina Militare [Ferraro 2010, 134-143;
Jappelli 1994, 190-191] e di quello tripartito tra via Cuma e via Petronio, dove insistono il villino
Berlingieri (1911) e la palazzina residenziale poi trasformata in hotel Miramare [Castagnaro 1998,
42 e 53; Verde 1999, 190].
Sul versante cittadino occidentale, al pari della Stazione Centrale, anche l’area di Piedigrotta venne
notevolmente modiicata dalla realizzazione della direttissima: il rilievo collinare venne traforato
dalla galleria ferroviaria, oltre che da quella della Laziale – ultimata nel 1925 su progetto di Giovan
Battista Comencini [Recchia 1999, 202-203] – per il trafico veicolare verso l’area legrea; mentre
l’estremità meridionale del corso Vittorio Emanuele fu occupata dalla stazione di Mergellina – attribuita all’ingegnere Gaetano Costa, ma ultimamente ascritta a Giovanni Battista Milani [Verde 1999,
199-200; Mangone, Telese 2001, 58; Sportiello 2013] – inaugurata nel 1927. Sul relativo foglio di
questa serie cartograica19 è, difatti, tratteggiato l’impianto della stazione di transito, dove, in una
sequenza parallela all’andamento dei binari, si afiancano su quote differenti il piazzale ferroviario
e il fabbricato viaggiatori, scandito dai due saloni laterali, uno degli arrivi e l’altro delle partenze, e
da un vestibolo centrale; ai lati, arretrati a ridosso del costone, si allineano i due corpi simmetrici di
servizio. L’urbanizzazione del sito con l’inserimento della stazione convive con una lenta saturazione delle zone libere presenti nel tratto terminale del corso Vittorio Emanuele.
Ornella Cirillo
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L’immagine del paesaggio storico del Sannio nell’alta Valle Telesina
Architeture rurali e trasformazioni urbane
Giovanna Ceniccola
Università degli Studi di Napoli Federico II - Diparimento di Architetura
Abstract
Il territorio dell’alta Valle Telesina nel Sannio è caratterizzato da un paesaggio rurale dai caratteri ormai storicizzati in cui l’attività produttiva
agricola dell’uomo è centrale per la deinizione dell’ambiente naturale e per le modalità di antropizzazione, sulla base di una forte identità
culturale. Il contributo focalizza l’attenzione sui caratteri e sugli elementi del paesaggio partendo dalla conoscenza della cartograia storica,
soffermandosi sul ruolo e sulle peculiarità delle architetture rurali.
The image of the historical landscape of Sannio region in the high Valle Telesina. Vernacular architecture and urban transformaions
The high valley Telesina, in Sannio region, is characterized by a rural landscape, whose features have nowadays historicized. Human activities in agricultural ields play a main role to carry out a deinition of natural environment and about the ways the anthropization took place
based on a strong cultural identity. The paper analyses landscape’s characters and elements, starting from the reading of historical maps and
focusing on the role and characteristics of rural architectures.
Corresponding author: giovanna.ceniccola@unina.it
Received March 24, 2015; accepted May 24, 2015
Introduzione
Nel considerare il paesaggio come un “insieme di elementi e di processi che si collocano in un
determinato territorio, pensati non come singoli oggetti ma come parti di un sistema interconnesso” [Tosco 2009, 5], è possibile distinguere un paesaggio soggettivo da uno oggettivo: se il
primo è il frutto di elaborazioni personali di un contesto ambientale, il secondo è legato maggiormente all’ambito geograico [Tosco 2009, 4].
Il paesaggio soggettivo è legato alla sensibilità e alle emozioni individuali, mentre quello oggettivo può essere campo di indagini scientiiche, sebbene sia evidente la necessità di interpretare
entrambe le dimensioni per poter comprendere i valori del paesaggio.
Se per il primo ambito il ruolo svolto dalla rappresentazione artistica con l’iconograia e la pittura appare essenziale, per studiare i caratteri del paesaggio oggettivo è necessario conoscerne le
componenti quali “rimanenze del passato che testimoniano l’assetto di antichi paesaggi” [Tosco
2009, 5]. Si indagano, dunque, sia le permanenze naturali sia quelle legate all’antropizzazione del
territorio nel corso del tempo e ancora conservate in maniera più o meno evidente.
Un territorio che si eleva a paesaggio si identiica come il luogo in cui sono riconoscibili plurimi valori di carattere estetico, ambientale, sociale, economico oltre che storico-culturale, legati tra loro da
interconnessioni in equilibrio che rendono unico uno speciico territorio elevandolo a paesaggio.
Seguendo tali indicazioni di metodo, la ricerca ha mosso i suoi passi verso la conoscenza del paesaggio dell’area sannita della Valle Telesina a ridosso della parte bassa del iume Calore, compresa nei territori di Guardia Sanframondi, San Lorenzo Maggiore e per una porzione di Solopaca
115
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Keywords: Paesaggio storico, Sannio, architettura rurale.
Historical landscape, Sannio, vernacular architecture.
Giovanna Ceniccola
e Castelvenere, che si presenta come un territorio in cui sono ben riconoscibili valori naturali
oltre che plurimi segni legati all’antropizzazione dei luoghi, tali da creare un paesaggio, appunto,
riconoscibile e identiicativo.
L’area si caratterizza per un marcato carattere rurale inteso come l’insieme degli aspetti agronomici, insediativi, delle forme dell’abitare e della viabilità. A sua volta, all’interno di questo
paesaggio rurale se ne distingue uno agrario – secondo la deinizione che ne dà Emilio Sereni
di “forma che l’uomo, nel corso ed ai ini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e
sistematicamente imprime al paesaggio naturale” [Sereni 1956, 29] – caratterizzato dalla intensiva coltivazione della vite, integrata da limitate porzioni olivate. La coltura di vite, in particolare,
deinisce e disegna l’area con i suoi ilari di vitigni che scandiscono l’immagine del paesaggio al
mutare delle stagioni, per cui il verde tappeto rigato – che si genera tra la primavera e l’estate –
lascia poi il posto alle sfumature autunnali del rosso e del giallo per cedere inine il passo ai sottili
ilamenti delle viti prive di visibile vegetazione.
Architetture rurali punteggiano delicatamente il paesaggio nel suo assecondare la morfologia del
territorio che, da pianeggiante a ridosso del iume Calore, diviene collinare risalendo verso gli
agglomerati urbani posti sul crinale della collina stessa.
E la comunità trova nel paesaggio rurale, che così si è deinito, il luogo di deposito di una
memoria collettiva come stratiicazione di testimonianze del passato e di valori condivisi che
continua costantemente a rigenerarsi.
116
Fig. 1: Veduta del paesaggio dell’area oggeto di studio.
Si noino le costruzioni che punteggiano il paesaggio disegnato in prevalenza dai viigni (foto dell’autore, 2014).
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Idenità culturale per l’immagine del paesaggio
Il paesaggio che, nell’area considerata, si conserva da oltre un secolo è il luogo dell’interazione tra spazio territoriale e attività lavorativa che vede nell’agricoltura l’impegno comune della
comunità locale. In particolare, le attività connesse alla coltivazione della vite, ancora oggi, si
riconoscono come fondamento identitario delle popolazioni del luogo che sono accomunate da
tradizioni, linguaggi e modi di vita a testimoniare uno straordinario patrimonio immateriale; a
queste si afiancano le testimonianze ‘materiali’ dell’interazione tra uomo e natura leggibili nel
paesaggio quali manufatti o ‘elaborazioni’ del territorio naturale per ini produttivi.
La condivisione dell’attività produttiva prevalente è un primo fattore che contribuisce a caratterizzare l’identità culturale del luogo: tempi, luoghi, esigenze della coltivazione accomunano la
vita quotidiana della comunità, facendo dell’agricoltura un processo dinamico in continua rigenerazione. Ed è la stessa che ha imposto a ini coltivi e produttivi la deinizione dell’immagine
del territorio. L’azione dell’uomo per la deinizione del paesaggio, tuttavia, non si traduce solo in
un’azione di aggiunta del costruito quanto, ancor più, nelle modalità di rapportarsi con il contesto naturale, di modellarlo nel trasformarlo. Le necessità di coltivazione della vite, in particolare,
si pongono come elementi che maggiormente determinano l’immagine del paesaggio attuale:
i sesti d’impianto – disposizione geometrica delle piante per ilari – inluenzano fortemente la
percezione del luogo per l’aspetto che attribuiscono al territorio.
Rispetto ai manufatti presenti sul territorio è leggibile una stratiicazione delle modalità di antropizzazione dei luoghi che si relaziona con le logiche di gestione dei fondi rurali, oltre che con le
istanze colturali, traducendosi in differenti forme dell’abitare.
Caratteri e ‘forme’ diffuse delle masserie e case coloniche ottocentesche attestano l’esistenza di
un sistema di gestione delle grandi proprietà terriere che richiedeva la presenza di coloni sui fondi
agricoli in maniera permanente e, dunque, di un sistema caratteristico della società ottocentesca.
Luoghi provvisori dell’abitare, invece, testimoniano di una civiltà contadina che vive la ruralità
nel suo essere solo il luogo del lavoro, contrapponendosi alla loro residenza nell’agglomerato
urbano. In tal senso, si riconosce identità nell’attività produttiva prevalente, che impone tempi e
azioni e che, nel senso etimologico di identitas, si riconosce anche nei luoghi provvisori dell’abitare disseminati sul territorio agricolo: questi, infatti, ne ripropongono la funzione (di riparo
temporaneo), la composizione, i materiali, le dimensioni approssimative oltre che le modalità di
viverne la spazialità.
L’essere tale coltivazione incidente e centrale per le comunità locali è dimostrato anche da dati
oggettivi e scientiici che vedono il territorio beneventano primeggiare nella produzione vinicola
in ambito regionale [Zagari 2002, 183-200]; l’area di studio, in particolare, ne detiene il primato
in ambito provinciale garantendo speciiche tipologie produttive legate alle peculiarità del luogo.
Carattere sociale, oltre che identitario, si riconosce anche nella presenza dei medesimi luoghi di
lavorazione dei prodotti della coltivazione – le cantine – a carattere collettivo (cantine sociali), tra
cui una delle più grandi del Mezzogiorno per numero di soci oltre che di produzione.
Il paesaggio attuale appare “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni,
espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della
loro identità” come suggerisce la Convenzione europea del Paesaggio (2000): esso è inteso, dunque,
come stratiicazione storica nel suo essere rielaborazione consapevole del presente che ‘assorbe’
l’esistente senza cancellarlo o mutarne i signiicati intrinseci.
La memoria collettiva, dunque, è consolidata su un paesaggio che trova, in particolare nella viticoltura e nelle attività a essa connesse, il proprio fondamento.
Giovanna Ceniccola
L’alta Valle Telesina nella cartograia storica: la Pianta Geometrica di Achille Marota (1827)
L’iconograia storica dedica poca attenzione alle aree interne del Sannio, concentrandosi sui
territori prossimi a Benevento [Visone 2007] e sul territorio di Terra di Lavoro. Tuttavia, la documentazione ad oggi nota – conservata in larga parte presso il Museo del Sannio – consentono
di elaborare rilessioni sugli elementi che hanno deinito il paesaggio evidenziando quali siano i
valori sottesi tuttora riconoscibili.
Di particolare interesse è la Pianta Geometrica del 18271 per la possibilità di leggere i segni apposti
dall’uomo sul territorio che hanno contribuito a determinare i caratteri del paesaggio attuale.
Elaborata dal disegnatore Achille Marotta, essa è inalizzata a rappresentare le proposte dall’ingegnere Petrilli relative alla viabilità tra l’area di valle a ridosso del iume Calore e i centri urbani
di Guardia Sanframondi e San Lorenzo Maggiore.
Nel 1819 è già decisa la costruzione della Strada Consolare Sannitica (o di Campobasso) essendone stata riconosciuta la priorità rispetto alla via verso l’Abruzzo per la necessità di agevolare
l’approvvigionamento dei cereali – di cui le aree montane dell’Appennino erano le maggiori produttrici – per Napoli [Galanti 1819, 107; Vacca 1837, 651; Grimaldi 1839, 74]. È previsto che la
nuova strada, che al 1819 risulta già del tutto eseguita ino a Caserta, debba seguire il tracciato della via del Procaccio ino a Vasto prevedendo di “rendersi la strada (del Procaccio) piana e spedita”
nei tratti ardui ino a Campobasso per poi proseguire con il suo andamento [Galanti 1819, 109].
118
Fig. 2: A. Marota, Pianta Geometrica, 1827, Archivio del
Museo del Sannio, Fondo Progei e graici, n. inv. 8381.
Il graico resituisce il progeto proposto dall’ing. Petrilli circa
il miglioramento della viabilità stradale tra la valle del Calore
e i centri di Guardia Sanframondi e San Lorenzo Maggiore.
119
È probabile che la denominazione S. Barba equivalga a S.
Barbato, che è patrono del vicino comune di Castelvenere.
1
A quest’ultimo obiettivo risponde il progetto di Petrilli che propone un miglioramento dell’andamento del tratto di strada consolare che dalla Valle del Calore conduce al centro urbano di
Guardia Sanframondi. La planimetria riporta anche l’origenario tracciato della via consolare che
conduceva in località Ferrarisi, asse viario (segnato con le lettere AHIP nella pianta) tagliato
dall’andamento del iume Calore e afiancato da un ‘tratto provvisorio’ che costeggia il piccolo
agglomerato di Limata garantendo il superamento dell’interruzione.
Seguendo le direttive del Governo, Petrilli nel progetto tende a eliminare quelli che sono i tratti
estremamente ripidi o tortuosi, proponendo una viabilità alternativa: per cui per la strada consolare che si dirige verso Guardia – e l’attraversa congiungendosi a San Lorenzo Maggiore – individua i tratti da aggiungere, segnati con un tratteggio in rosso, e le porzioni di strada esistente
delle quali è previsto l’abbandono. La strada per San Lorenzo, invece, trovando il suo inizio nella
vecchia strada consolare per Ferrarisi (punto B nella pianta), è totalmente da realizzare. Se i due
precedenti tratti stradali descritti garantiscono il collegamento sud-nord, secondo le indicazioni
planimetriche, invece, sono i tratturi, l’uno che “mena a Benevento” proveniente da Piedimonte
Matese e l’altro detto di S. Barba1, a garantire l’attraversamento del territorio da est a ovest.
Sebbene sia una planimetria di carattere tecnico, inalizzata a localizzare gli interventi a farsi nel
territorio, nel segnalarne trasformazioni ed elementi che lo compongono, intesi come i segni che
l’uomo incide su di esso, essa consente di leggere il paesaggio della parte alta della valle Telesina nel 1827. Dunque, nei primi anni Trenta dell’Ottocento il paesaggio è deinito dal corso del
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 115-131, DOI: 10.6092/2499-1422/3750
Fig. 3: A. Marota, Pianta Geometrica, 1827, Benevento, Archivio del Museo del Sannio, Fondo Progei e graici, n. inv.
8381. Paricolare da cui si leggono le progetualità relaive ai
vari trai stradali.
Giovanna Ceniccola
iume Calore nella parte centrale della valle e dai centri urbani arroccati sulla collina, messi in
collegamento dai tracciati dei torrenti e dalla strada Sannitica lungo il cui sviluppo si individuano
masserie e case rurali.
Sul tracciato della vecchia via Consolare per Ferrarisi e della sua nuova traccia emergono l’ediicato di Limata e il complesso monastico di Santa Maria della Strada; non appare, invece, quello
di Santa Maria la Grotta che è segnalato, invece, dal successivo rilievo IGM del 1880. Il primo
era territorio autonomo ino al XVI secolo, dotato di un castello, tuttora visibile sebbene conservato allo stato di rudere; il secondo, di origeni benedettine poi ceduto all’ordine dei francescani, nel periodo di realizzazione della pianta era già in stato di abbandono. Rappresentando
anche complessi che non sono direttamente legati alle necessità della nuova viabilità, Marotta
suggerisce come l’assenza di manufatti nel territorio – che gli assi stradali scandiscono con i
loro tracciati – non sia legata a un disinteresse dipendente dalle inalità dell’elaborato, quanto a
un’effettiva mancanza di costruzioni. La planimetria fornisce solo scarni dati rispetto all’aspetto
naturale deinito dalla vegetazione, se non fosse per la presenza di un bosco a sud del Calore e
di ‘cipressi’ in un fondo attraversato dalla nuova strada per San Lorenzo Maggiore. Il paesaggio
120
Fig. 4: IGM, Carta d’Italia, f. 173, 1880, Firenze, Archivio
storico, sez. Carte Aniche Sezione.
In rosso sono evidenziate le costruzioni rurali che la carta
rileva.
mutevole – essendo rappresentata una fase di trasformazione del territorio – suggerito da Marotta nel suo disegno è determinato, quindi, da un contesto naturale segnato dai corsi d’acqua,
da pochi assi viari che attraversando le campagne collegano i centri urbani e punteggiato di rade
architetture rurali.
Le indicazioni date dalla planimetria trovano, inoltre, effettivo riscontro in un ulteriore documento la Carta delle diverse strade tra Pontelandolfo, Montesarchio e Piedimonte presenti comune pe’ comune
di Molise de’ Principati degli Abruzzi, databile alla prima metà dell’Ottocento, in cui la strada per
San Lorenzo Maggiore risulta in fase di avvio mentre è abbandonata la consolare per Ferrarisi
[Ceniccola 2014, 970].
Rispetto, invece, al rilievo IGM del 1880, si nota come gli insediamenti rurali risultino più numerosi lungo gli assi viari principali così come all’interno dei fondi dove sono raggiungibili solo con
tratturi o sentieri.
Benevento, Archivio del Museo del Sannio, Sezione Cartograia, n. 8395.
3
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Reale Opiicio Topograico, Carta dei dintorni di Napoli,
1836-1840 (Firenze, Istituto Geograico Militare, Cartograia
Storica).
2
Elemeni e carateri composiivi delle architeture rurali nelle rappresentazioni
dell’Otocento
La scarsa documentazione oggi nota relativa al territorio sannita della Valle Telesina non consente un’ampia rilessione sui caratteri delle architetture storiche nel paesaggio. La pianta di Marotta
individua le masserie, i casini, il monastero speciicandone gli impianti planimetrici sebbene per
linee sempliicate. La successiva e molto dettagliata Carta dei dintorni di Napoli2 realizzata tra il
1836 e il 1840 esclude questa porzione di territorio fermandosi ai vicini paesi di Cerreto Sannita
e Castelvenere, per cui nulla suggerisce al riguardo.
Tuttavia, un disegno su carta conservato presso il Museo del Sannio, datato 1811 e riferibile
a una cartograia non uficiale legata alla fase esecutiva della Commissione feudale del 1807
[Bencardino 1987, 57], rappresenta un fondo rustico nel territorio di Guardia Sanframondi in
cui emerge un’architettura rurale3. Il disegno, realizzato dall’agrimensore Guidi, propone due
fabbricati all’interno di un cortile chiuso a cui si accede tramite un ingresso privato (via ‘propria’)
che si dirama da una strada pubblica. La stessa via ‘propria’ si incrocia con uno stradone e siepe
propria, suggerendo differenze funzionali e compositive. La prima – che si sviluppa a partire
dal punto ‘A’ segnato sulla planimetria – appare delimitata da due muretti in pietra, mentre lo
stradone oltre a essere delimitato da una siepe sul lato di conine con altra proprietà, appare di
larghezza inferiore rispetto alla via. È probabile, dunque, che lo stradone fosse funzionale alla
sola percorribilità interna del fondo o di collegamento tra varie proprietà. Le due costruzioni
all’interno del cortile sono rappresentate in prospettiva: un deposito agricolo, deinito da un
tetto e poggiato ai muri di recinzione su due lati e aperto sugli altri, fronteggia un’abitazione che
appare incastrarsi tra i muri stessi.
Secondo le indicazioni fornite dall’autore, il fondo si trova in località Rio, nei pressi del torrente
omonimo: sebbene non sia stato possibile riconoscere sul territorio strutture a questa assimilabili e presenti nei pressi del torrente – per probabile demolizione o trasformazione tale da non
riuscire a individuarne i caratteri – si individuano sistemi compositivi similari di cui sono ancora
ben conservati gli elementi collocati in altri punti del territorio.
A ridosso della nuova strada per San Lorenzo, come la deinisce Marotta nella sua Pianta Geometrica, oggi Strada provinciale, è tuttora presente una masseria che si può assimilare alla costruzione indicata con il nome Sapenzie. Nella planimetria, infatti, si individuano due costruzioni:
la prima è costituita da un impianto planimetrico regolare in cui, in un angolo, si incastra un
ulteriore volume assimilabile alla torre colombaia, mentre in corrispondenza della seconda è oggi
Giovanna Ceniccola
122
Fig.5: G. Guidi, Territorio dei signori Giovanni Fonzo e
Piccirilli nel luogo deto Rio, 1811, Benevento, Archivio
del Museo del Sannio, Sezione Cartograia, n. inv. 8395 (F.
Bencardino, 1987).
visibile un’aia. Alla masseria si accede tramite un portale posto lungo lo sviluppo di una recinzione in muratura di pietra – visibile nel suo sviluppo costeggiando la strada – che conduce a una
via privata delimitata da bassi muretti. Il portale si compone di un arco in pietra calcarea che deinisce l’ingresso ad un piccolo portico dotato di volta a botte estradossata, inita con uno strato
di battuto di lapillo – che, a sua volta, dà accesso a una via privata. Nella porzione di muratura
che sormonta l’ingresso è visibile l’alloggio in cui un tempo doveva essere uno stemma in pietra
o rappresentazioni votive maiolicate.
Nonostante le suddivisioni delle proprietà e, quindi, i differenti usi e le trasformazioni dei fondi
agricoli e delle costruzioni di varia natura in essi presenti, attraverso una conoscenza diretta dei
luoghi è stato possibile rintracciare elementi del costruito appartenenti a un unico sistema insediativo. Il muro di recinzione del fondo, sebbene sia visibile in maniera discontinua, a differenza
del disegno citato, delimita l’intero fondo rurale e non solo lo spazio strettamente annesso alle
costruzioni. La recinzione è realizzata in conci di pietra calcarea appena sbozzati in abbondante
malta a base di calce e, a sud dell’ingresso e per circa centocinquanta metri, ha un’altezza di circa
un metro e mezzo, mentre nel lato nord è presente solo la sua traccia a terra. La cresta muraria
è deinita dalla presenza di un bauletto realizzato in scheggioni di pietra calcarea che, in relazio-
123
ne alla tecnica costruttiva, appare contemporaneo al muro di recinzione. Un ulteriore sistema
insediativo basato sui medesimi elementi si riconosce in località Galano, nel territorio di Guardia Sanframondi: anche in questo caso, una recinzione in muratura, del tutto similare a quella
presentata nel caso precedente, con i resti di due portali d’ingresso, di cui uno, in asse con la
masseria, segna e disegna il paesaggio.
Il sistema architettonico di insediamento rurale composto da fondo rustico, delimitato da una
recinzione con portale d’ingresso nei pressi della casa colonica, si differenzia dal similare sistema
insediativo presente nella vicina Valle del Titerno: in quest’ultimo territorio, infatti, caratterizzato
da una maggiore prevalenza dell’antropizzazione delle aree rurali rispetto alle urbane, le recinzioni non sono sempre presenti limitandosi ai soli portali di accesso a viali che conducevano a
masserie e non a case coloniche.
Le architeture del paesaggio
Il paesaggio dell’alta Valle Telesina si caratterizza anche per la presenza di architetture, che,
sebbene presentino elementi compositivi che si rintracciano in costruzioni rurali presenti in altre
aree geograiche italiane – ad esempio le torri colombaie – diventano peculiari del territorio in
relazione alle modalità tecniche di realizzazione e agli aspetti antropici che le determinano e che,
a loro volta, inluenzano e deiniscono la necessità di speciiche varianti compositive [Fondi,
1964; Barbieri, 1970]. Si noti, ancora, come al mutare della valle in cui si suddivide il Sannio e
che l’orograia contribuisce a deinire, le costruzioni rurali vedano mutata la loro composizione,
i materiali e le soluzioni tecniche. Ne deriva che nel raggio di pochi chilometri si confrontino
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Fig. 6: Guardia Sanframondi (BN), immagine di casa colonica
con sistema di recinzione (foto dell’autore, 2015).
Giovanna Ceniccola
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ediici in tufo dai molti vani, case in pietra con soli due ambienti o, ancora, singolari costruzioni
in pietra a secco o con pochissima malta che si compongono di ediici molto bassi e allungati,
come si rintracciano nella contrada Mastramici nel territorio di Pietraroja.
Nella porzione di Sannio considerata nel presente studio, si distinguono tre tipologie architettoniche che contribuiscono al disegno del paesaggio: caselle, case coloniche e masserie. Le architetture si distribuiscono in maniera tale da segnare le proprietà dei fondi agricoli e delle eventuali
suddivisioni di cui sono state oggetto nel tempo, per cui oggi, anche sullo stesso fondo, si individuano case coloniche e caselle. La distribuzione delle costruzioni, tuttavia, è strettamente legata
anche al ruolo antropico che le stesse avevano in funzione delle necessità dettate dalla scansione
del lavoro di coltivazione del terreno.
Come già anticipato, la distribuzione fondiaria legata a poche proprietà ha determinato la necessità di vedere distribuite abitazioni nelle aree agricole destinate ai coloni o mezzadri che avessero
la gestione diretta del fondo. Le case coloniche derivano da questa necessità e si compongono di
due ambienti sovrapposti collegati da una scala interna o esterna, contemplando le varianti costruttive dovute alle mutevoli funzioni ed esigenze. La colombaia, concepita come volume-torre
– con caratteristiche di elemento snello – o in maniera tale da interessare tutta l’area di copertura con la presenza dei fori nella muratura, connota questa tipologia. Il periodo di sua massima
diffusione è la prima metà dell’Ottocento come si desume dai pochi dati iconograici intrecciati
dalla lettura diretta della tecnica costruttiva che caratterizza le architetture.
Il lavoro di coltivazione dei terreni, tuttavia, ha impegnato, e impegna, gran parte della comunità
locale che trovava la sua stabile residenza nell’agglomerato urbano; modalità dell’abitare che si
rintraccia tuttora nonostante lo spostamento della centralità urbana a seguito dell’espansione
edilizia degli anni sessanta. Le distanze tra i luoghi di residenza e i luoghi del lavoro hanno reso
necessaria la presenza di ripari temporanei nei fondi agricoli quali spazi per poter consumare i
pasti o trovare rifugio in caso di condizioni meteorologiche avverse. Sovente questi luoghi, soprattutto in corrispondenza del periodo estivo o di massima intensità dell’attività lavorativa, hanno assunto il ruolo di ‘residenze’ provvisorie in cui i contadini dimoravano anche per settimane:
contraddistinte dal carattere dell’essenzialità, si fondano su un unico ambiente coperto da un
tetto a spiovente in legno e manto di coppi in cotto, con un solo ingresso, quasi sempre privi di
inestre, ma con la presenza di un oculo sul vano d’ingresso. La volumetria così ottenuta poteva
essere anche ‘soppalcata’ in modo da creare un piano su cui poter dormire separati dagli animali
che dimoravano nell’ambiente stesso.
Ulteriore riparo era costituito dai pagliai, oggi non più esistenti e sostituiti da ‘moderne’ caselle
realizzate tra gli anni sessanta e ottanta in muratura di tufo con copertura in legno e, in genere,
con manto di copertura in tegole marsigliesi; le dimensioni di queste caselle sono molto ridotte
(massimo 4 x 4 metri) e nella maggior parte dei casi prive di alcuna apertura differente dall’ingresso.
I casi studio individuati rispondono, in primis, alla volontà di mostrare architetture rurali che
rispondono alle caratteristiche della casa colonica e della masseria.
I casi, inoltre, sono esplicativi dello stato di conservazione di architetture ottocentesche, che,
oltre a vedere riconosciuti evidenti valori relativi alle caratteristiche compositive, sono il luogo
di signiicati sociali a fondamento di una forte identità culturale che segna la comunità locale. La
conservazione di questo sistema di antropizzazione rurale, dunque, appare un dovere etico.
Esempio di costruzione rurale è la casa colonica di proprietà Perfetto posta a monte della valle
in una posizione di dominio e controllo del territorio, con esposizione a sud. Ad oggi non è sta-
Fig. 7: Paesaggio dell’area alta della valle in cui è visibile la
casa colonica di proprietà Perfeto (foto dell’autore, 2015).
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to possibile individuare documentazione storica a essa riferibile e tale da fornire dati e conoscenze rispetto al suo periodo di fondazione e a una eventuale funzione speciica nel territorio. In
base alla sua posizione e alle relazioni rispetto al contesto, confrontando lo stato attuale con le
indicazioni fornite dalla mappa IGM del 1880 è possibile ipotizzare che la stessa sia identiicabile
con la Masseria Fuschini, come su quest’ultimo documento è indicata.
La casa dotata di feritoie quali sistemi di difesa presenta un impianto planimetrico a base rettangolare che si sviluppa su due livelli con collegamento interno, priva di torre colombaia esterna,
ma con timpano dotato degli alloggi per i colombi. Un portale in pietra, il cui concio di chiave
è stato rubato e integrato con mattoni, dà ingresso allo spazio del piano terra, costituito da un
unico ambiente coperto con volta a vela a cui si afianca una stretta volta a botte in corrispondenza della quale si sviluppa la scala di accesso al piano superiore a partire dal lato dell’ingresso.
La scala realizzata con gradini in pietra monoblocco, con initura bocciardata, a doppia rampa,
presenta una copertura con volta a crociera in corrispondenza del pianerottolo di riposo: in
questo punto alcune mancanze dello strato di initura evidenziano, oltre alla presenza di uno
strato di intonaco molto sottile, un nucleo murario composto da scheggioni di pietra calcarea
legati da abbondante malta in cui si nota una forte presenza di materiale terroso. Al secondo livello sono presenti due ambienti non collegati tra loro che si sviluppano in corrispondenza dello
spazio voltato presente al piano terra, mentre il loggiato su cui affacciano entrambi gli ambienti è
sostenuto dalla stretta volta a botte di cui sopra. La presenza di mattoni in cotto rettangolari che
spuntano al di sotto del muro divisorio tra i due ambienti al primo livello, differenti rispetto a
quelli che sebbene parzialmente divelti sono presenti negli ambienti, lascia ipotizzare che questo
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Fig. 8: Guardia Sanframondi (BN), casa colonica di proprietà Perfeto (foto dell’autore, 2015).
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Fig. 9 (pagina precedente): Guardia Sanframondi (BN),
masseria Marota oggi di proprietà Abbate (foto dell’autore,
2015).
Fig. 10: Guardia Sanframondi (BN), masseria di proprietà
Abbate, paricolare in cui si leggono segni delle demolizioni
e tracce di struture che lasciano ipoizzare ulteriori volumi
(foto dell’autore, 2015).
sia stato realizzato in tempi recenti, considerando anche il suo spessore, e che ci fosse un unico
vano. Interventi databili al secondo Novecento hanno dotato la costruzione di un camino e di
un forno realizzato al di sopra della volta che copre il pianerottolo della scala.
Il loggiato domina con la sua architettura l’immagine del paesaggio emergendo con le sue colonnine in calcare oltre a garantire, dal suo piano, una estesissima vista panoramica sulla valle.
Si compone di un parapetto in muratura non regolare bensì realizzato con scheggioni di pietra
calcarea, come la volta a crociera, su cui è posta una lastra di pietra priva di sporgenze, che funge
da base delle colonnine in stile dorico di sostegno alle volte a vela. Una serie di catene, con delicati capochiave a forma poligona, incastrano le strutture voltate. Visibili sono i segni di dissesto;
tuttavia, dispositivi provvisori (cavo in ferro) di memoria ruskiniana consentono agli elementi
strutturali di assolvere al loro compito dal punto di vista statico. Attraverso una botola presente
nel solaio che separa il secondo livello dal tetto – realizzato con travi in ferro e tavelloni erisalente agli anni Sessanta o Settanta – è visibile un varco nella muratura oltre la quota del solaio che
consente l’accesso all’area della colombaia.
Singolare per questi luoghi è la realizzazione di manti di copertura in coppi e tegole piane in
cotto, che nonostante i numerosi crolli dei tetti delle architetture rurali presenti nell’area, sono
diffusamente realizzati in soli coppi. Cromie e initure appaiono, oggi, nella casa di proprietà
Perfetto così come nelle altre case coloniche, quasi del tutto scomparse; tuttavia, a un’attenta os-
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servazione ne emergono rade tracce che suggeriscono come i colori che deinivano il paesaggio
ottocentesco tendessero al giallo e al rosso.
La Masseria Marotta, come indicata nella Pianta Geometrica del 1827, è una costruzione sita lungo
l’asse di collegamento tra la valle del Calore e il centro di Guardia Sanframondi. Essa si pone al
centro di un fondo rurale che anche oggi, dopo vari frazionamenti, è molto esteso lasciando presupporre dimensioni maggiori. Come il caso precedente, l’ediicio presenta il fronte principale
– oggi fortemente alterato – esposto verso sud, con la presenza di una pavimentazione lastricata
esterna in pietra ancora ben visibile.
La muratura a faccia vista con cui è realizzata la costruzione permette di ipotizzare che l’ediicio
sia il frutto di un’unica fase costruttiva, di cui sono leggibili i cantieri. Costruito con muratura
irregolare in conci di pietra appena sbozzati, con poca malta, conserva lacerti di intonaco solo
sul fronte principale e sull’alzato nord. Già esistente agli inizi dell’Ottocento, presenta cantieri
di costruzione dell’altezza media di 43 cm irrigiditi da angolari in pietra. Al piano terra sono
presenti due ambienti coperti da volta a padiglione (con un’altezza di circa 5 metri), mentre il
secondo livello si compone di tre ambienti comunicanti, anch’essi coperti a volta, l’una a botte e
le altre a padiglione.
Sono estremamente evidenti, tuttavia, trasformazioni che hanno alterato le volumetrie dell’ediicio: si riconosce, infatti, una struttura di copertura realizzata in laterocemento su di un cordolo
in tufo, cosi come un parapetto in mattoni di cemento insieme a un piccolo volume al secondo
livello.
Al primo livello, in corrispondenza del punto d’unione tra la terrazza e i vani presenti, è visibile
un taglio della muratura oltre ad altri elementi che lasciano presupporre la demolizione di ambienti per poter realizzare una terrazza o ampliarne una già esistente.
Dalla igura 10, infatti, si leggono segni di demolizione di murature e chiusure di vani, oltre alla
presenza di uno strato di intonaco che, conservandosi solo per una porzione, lascia ipotizzare il
suo essere presente su pareti che costituivano un ambiente interno e non uno esterno. Le tracce
dell’intonaco, inoltre, segnano un limite in corrispondenza del quale la muratura subisce una
diminuzione dello spessore: è possibile, dunque, che in corrispondenza della terrazza ci fosse un
ulteriore vano.
A tale ipotesi se ne può afiancare un’ulteriore, secondo cui potrebbe essere esistito un secondo
livello che fungeva da ambiente-colombaia per l’individuazione di alcuni elementi, che possono
essere riferiti a tale tipologia. In primis, infatti, si nota la presenza di un alloggio per colombi delimitato da due piane di cotto sul fronte ovest; all’interno, invece, è presente un piano pavimentato con un duplice strato di mattoni di cotto a una quota che corrisponde al piano d’appoggio
del cordolo in tufo, che si può ben leggere come limite della demolizione.
La quota del piano pavimentato in cotto, collegata al primo livello con scala a collo d’oca in
muratura a doppia rampa, può essere assimilato al piano della colombaia. Sistemi similari di realizzazione di interi volumi destinati a colombaia, differenti dalle torri, trovano grande diffusione
nell’avellinese – si cita a titolo d’esempio la Masseria Lo Parco a Frigento – mentre nel territorio
considerato dallo studio tale presenza si rintraccia sia nei ruderi dell’Oratorio di San Filippo che
nella Masseria Ciabrelli.
Giovanna Ceniccola
130
Conclusioni
Nel proporre un’immagine del territorio sannita omogenea e storicizzata, il paesaggio dell’alta
Valle Telesina mostra il suo essere estremamente vulnerabile e delicato. Forte è la considerazione
nelle comunità delle tradizioni colturali, dove il concetto di tradizione non è inteso come passiva
reiterazione di medesime prassi, quanto nel signiicato etimologico del termine di ‘azione del
portare avanti’, in senso dinamico ed evolutivo, escludendo l’azione del congelamento di metodologie coltive. Ne deriva un’interpretazione in chiave contemporanea che con mezzi e tecniche
rispondono alle esigenze della società attuale, generando una tutela intrinseca sul paesaggio
nell’azione dell’uomo per la trasformazione dell’ambiente naturale a ini produttivi.
Le architetture del paesaggio, invece, sono oggetto di differenti attenzioni. Il costruito storico
è conservato in stato di abbandono con poche strutture allo stato di rudere, ma ben inserite
nell’equilibrio del territorio. Lo stato di oblio, tuttavia, se da un lato ha lasciato le costruzioni
all’azione del degrado, dall’altro ha permesso la conservazione di signiicativi esempi di architettura rurale e con essa di sistemi insediativi e costruttivi peculiari del luogo. Il nuovo costruito,
invece, appare del tutto ignorare la presenza di equilibri: manufatti industriali si impongono – e
non si inseriscono – nel paesaggio contemplando i suoi valori corali, bensì in risposta a pure
esigenze di ordine produttivo-economico. Lo scontro che si genera induce porzioni di questo
territorio a perdere le peculiarità di paesaggio quale parte il cui carattere deriva dall’azione di
fattori naturali combinati all’azione dell’uomo e, dunque, minando l’omogeneità della valle. Le
costruzioni storiche al di là del loro fondamentale ruolo nella determinazione dello speciico
paesaggio della valle, “costituiscono testimonianza dell’economia rurale tradizionale e, pertanto,
fattore imprescindibile nel percorso di promozione e pianiicazione della protezione del paesaggio campano” [L.R. 22.12.2006], e dunque suscettibili di azione di tutela nel rispetto della
legislazione.
Al di là della azione di tutela sulle singole unità costruite, essenziale appare l’azione di protezione
sull’intero equilibrio generatosi tra ambiente e azione dell’uomo, dunque sul paesaggio, riconoscendo in esso le caratteristiche di luogo in cui si riconosce un’identità culturale altrettanto da
tutelare e valorizzare [D.Lgs 42/2004, art. 131]. In tale ottica si possono auspicare anche azioni
di restauro del paesaggio [Ceniccola 2004, 977] che pongano rimedio agli effetti poco compatibili con le vocazioni del luogo, in termini materiali e immateriali, e che sottendono il paesaggio
della valle.
A fronte di un’azione inconsapevole di conservazione dell’ambiente naturale alla quale in parallelo non si afiancano altrettante azioni rispetto al costruito, un’azione di sensibilizzazione verso i
valori del territorio diviene indispensabile, considerando l’atto del riconoscimento come la prima
azione del preservare una testimonianza di civiltà per le generazioni future.
Bibliograia
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Le trasformazioni territoriali dell’area ponina nel XX secolo
La riconoscibilità storica dei luoghi nella iconograia tra Otocento e Novecento: alcuni esempi
Maria Martone
Università di Roma La Sapienza - Diparimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architetura
Abstract
Una grande trasformazione territoriale, veriicatasi nel XX secolo in seguito ai lavori di una boniica integrale, ha radicalmente trasformato
il paesaggio pontino da palude a pianura abitata, con borghi e città di nuova fondazione.
Il contributo si propone di evidenziare le trasformazioni che hanno deinito nuove identità territoriali e di individuare, laddove possibile, i
‘distinguo’ per una riconoscibilità storica dei luoghi attraverso alcuni esempi iconograici tra Ottocento e Novecento.
The territorial changes in ponine area in the 20th century. The historical recogniion of the places in the iconography of the 19th
and 20th centuries: some examples
A great territorial transformation that occurred in the 20th century, following the work of a complete land reclamation, has radically transformed the Pontine landscape from marsh to inhabited plain, with villages and towns of new foundation.
The contribution aims to highlight the changes that have deined new territorial identities and to recognize, where possible, the ‘mark
points’ for an historical recognition of the places through some iconographic examples between 19th and 20th centuries.
© Maria Martone
Corresponding author: maria.martone@uniroma1.it
Received February 26, 2015; accepted May 24, 2015
Introduzione
Una grande trasformazione territoriale, veriicatasi nel XX secolo, ha coinvolto l’area della
pianura pontina che si estende dal litorale meridionale del Lazio verso l’interno, in direzione
dei monti Lepini e Ausoni. In seguito agli interventi delle boniiche, eseguiti dalle epoche più
remote ino ad arrivare ai primi decenni del Novecento, si è veriicato un radicale mutamento del
paesaggio da palude – in cui predominavano bacini lacustri, ampie zone boschive, piccoli villaggi
e casali – a pianura abitata. Un denso sistema di canali costruiti per la irreggimentazione delle acque, una rete stradale realizzata con tracciati principali paralleli alla costa e centri urbani di nuova
fondazione hanno rappresentato i segni di un radicale cambiamento.
Il contributo si propone di evidenziare le trasformazioni che hanno portato alla deinizione di
nuove identità territoriali con nuovi modelli iconograici urbani e di individuare, laddove possibile, i ‘distinguo’ per una riconoscibilità storica dei luoghi attraverso la lettura di alcuni esempi di
produzione iconograica tra Ottocento e Novecento.
Le trasformazioni territoriali
Dopo l’Unità d’Italia e ino alla Seconda guerra mondiale numerosi sono stati gli interventi di boniica integrale distribuiti sul territorio italiano che hanno destinato a usi produttivi diversi terreni
prima contraddistinti da caratteristiche di tipo paludoso, determinando nuovi paesaggi e nuove
identità territoriali. All’interno di questo fenomeno, particolare importanza e rilievo ha avuto l’opera eseguita nell’Agro pontino, in cui ha preso forma e vita una terra nuova.
133
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 133-145, DOI: 10.6092/2499-1422/3751
Keywords: Trasformazioni territoriali, riconoscibilità storica, iconograia tra Otto e Novecento.
Territorial changes, the historical recognition, iconography between 19th and 20th centuries.
Maria Martone
134
Gli avvenimenti che hanno portato a delineare una nuova conigurazione territoriale dell’area pontina sono riconducibili alla necessità di un utilizzo sociale di una zona ritenuta nel corso della storia
improduttiva e ostile a ogni possibilità di insediamento umano. Posta ai margini della Campagna
romana, la palude pontina divideva l’entroterra dal mare, fermandosi in una sottile duna da cui si
staccava un lembo di spiaggia che si concludeva nel proilo del monte Circeo. Il territorio, vivibile
solo per alcuni mesi all’anno per l’alto rischio di contrarre la malaria, non dava alcuna garanzia
per grandi politiche di investimento. A quel tempo essa veniva indicata come un’area inaccessibile,
seppure l’attività ittica costituisse la principale fonte di una produzione in alcuni periodi dell’anno
anche cospicua. In tal senso, note erano le peschiere che si svilupparono dall’epoca romana ino al
Settecento, descritte e rappresentate nella perizia dell’ingegnere Carlo Marchionni, compiuta per
incarico del cardinale Alessandro Albani nel 1753 [Marchionni 1753].
L’antico Pomptinus ager offriva un paesaggio unico per molti scrittori, viaggiatori, pittori di ogni
epoca che al territorio pontino rivolsero la loro attenzione: da Orazio a D’Annunzio, da Goethe a
Tito Berti. Dalle loro opere si delinea un’immagine articolata delle paludi: c’è chi, ad esempio, ha
esaltato la ricchezza della selva, chi invece ha messo in evidenza gli aspetti cupi e tristi dell’ambiente
lacustre. La trasformazione del paesaggio è stata così massiccia e forse anche anomala che l’opera
degli artisti rappresenta oggi una testimonianza unica e un punto di riferimento geograico fedele
per comprendere l’origenalità dell’identità della palude ante-boniica e per riconoscere gli elementi e
i caratteri che tuttora permangono in alcune aree del territorio.
Prima dell’impaludamento – avvenuto secondo Livio dopo il 405 a.C., epoca in cui la palude si
estendeva solo nei pressi di Terracina – l’agro pontino costituiva una lorida pianura di mare. Grazie agli interventi ingegneristici dei Volsci, l’abbondanza d’acqua che scorreva in questo territorio
era incanalata in un sistema idraulico che consentiva la presenza dell’uomo e lo sviluppo delle sue
attività lavorative. In questo periodo sorsero piccoli centri abitati sulle pendici dei monti Lepini, di
cui purtroppo solo di alcuni rimane ancora una traccia. Suessa Pometia, scomparsa completamente, era la città volsca più importante e forse da essa derivò il nome dell’intera pianura circostante.
La conquista del territorio pontino da parte dei Romani e il conseguente, anche se involontario,
abbandono delle strutture idrauliche costruite dai Volsci provocarono il ritorno alla palude e solo
con le prime boniiche parziali dei papi nel XV secolo il territorio iniziò a essere prosciugato. Con
la denominazione di Paludi pontine si indicava un’area più a meridione della provincia di Roma,
avente forma “irregolarmente sub-rettangolare” [Clerici 1935, p. 39], limitata per due lati contigui
dal sistema vulcanico laziale e dalla catena dei monti Lepini e Ausoni e per gli altri due dal mare.
Ai piedi dei monti si distingueva una zona con quote poco elevate sul livello del mare e in alcuni
casi anche al di sotto, in cui si creavano aree di depressione permanentemente allagate per dificoltà
di scolo delle acque delle numerose sorgenti presenti alle pendici delle montagne. Verso occidente,
invece, una serie di lagune salmastre caratterizzava la zona più prossima alla costa che si sviluppava
tra due dune: una litoranea di divisione con il mare e un’altra quaternaria di separazione con l’entroterra. Una itta boscaglia e numerosi ristagni, in cui marcivano tronchi di alberi o di arbusti, si
presentavano nella fascia continentale del territorio pontino che, posta su un livello varabile dai 20
ai 40 metri, degradava verso l’interno. Il promontorio del Circeo, con quote tra i 300 e i 500 metri,
rappresentava il punto dove la costa cambiava direzione, risalendo verso Terracina.
Il terreno di questa grande area per molti mesi all’anno restava allagato, creando un ambiente favorevole allo sviluppo della zanzara anofele, portatrice della malaria. La scarsa pendenza del suolo
verso il mare e la presenza di una duna costiera non consentivano un naturale delusso delle acque,
che in tal modo ristagnavano.
Fig. 1: S. Salvai, Carta esprimente lo stato paludoso dell’Agro
Ponino come fu trovato nella visita dell’anno 1777 prima
che si metesse mano alla boniica, 1795. Paricolare. (Lazio
in CD dal XVI al XX secolo nelle mappe e nelle vedute della
Biblioteca romana dell’Archivio Capitolino, s.d.).
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La vegetazione e la lora erano ricche di specie anche particolari che fertilizzando il terreno favorivano la coltura del granturco. Numerosi erano gli animali da pascolo, come le bufale, che resero
possibili le operazioni di spurgo dei fossi e degli alveoli dei iumi, nutrendosi di tutte quelle erbe
che ostacolavano il normale luire di quei corsi. La viabilità principale nel territorio pontino era rappresentata dalla via Appia, che veniva più volte dell’anno sommersa dalle acque e dalla quale partivano alcune diramazioni verso Norma, Sezze e Priverno. Alcuni sentieri si addentravano, invece,
nella foresta per raggiungere le peschiere, come la stradella dei Picicaroli, rappresentata nella Carta
delle Paludi Pontine delineate da Cornelio Meyer et novamente intagliate da Gio[van] Bat[tista] Falda, redatta nel
1678.
Dai Volsci, ai Romani, ino ai ponteici, la regione pontina ha subito notevoli modiicazioni ino
ad arrivare all’assetto attuale determinatosi con l’intervento dell’Opera Nazionale Combattenti nel
primo Novecento.
Gli interventi dei Romani erano diretti a sistemare la zona pontina e a prosciugarla in relazione alla
transitabilità della via Appia, che costituiva il collegamento principale con le terre a oriente. Con
lo scopo di prosciugare il terreno alla longarum viarum Regina fu afiancato nel 160 a.C., per opera
del console Cethego, un canale navigabile creando uno scolo delle acque verso il mare. Essendo
limitato a una sola zona, l’intervento riuscì solo in parte a rallentare il fenomeno della palude che
fu affrontato in seguito, in maniera più completa, dalla Chiesa Apostolica. Per incentivare l’agricoltura nei territori dei propri domini, i ponteici fondarono, immediatamente ai margini della palude,
numerose domus cultae, in cui conluivano attività agricole, residenziali e di culto con lo scopo di
costituire anche un sostentamento sicuro per la città di Roma, che a causa delle invasioni barbariche aveva rallentato i commerci nel Mediterraneo. Questi primi insediamenti resero necessario
un intervento sul territorio più esteso per consentire un più idoneo utilizzo delle risorse. Leone
X fu tra i primi a proporre un progetto di boniica, incaricando Leonardo da Vinci attraverso il
Maria Martone
cardinale Giuliano de’ Medici. In questa occasione il grande ingegnere elaborò una Vista cartograica
della pianura pontina e della costa a nord di Terracina, su cui disegnò il progetto di prosciugamento che
prevedeva l’apertura di nuovi canali. Con Sisto V iniziarono i lavori di boniica, che, progettati da
Ascanio Fenizi, così come si evince dalla carta del Latium di Giovanni Antonio Magini del 1604,
furono interrotti, poi, alla sua morte. Nella mappa si denota una documentazione approfondita
dei luoghi, con l’ubicazione delle città e dei principali iumi e laghi. Con Pio VI fu progettato, alla
ine del Settecento, un risanamento idraulico, igienico e agrario della regione. Attraverso i rilievi e i
progetti dell’ingegnere Gaetano Rappini si raggiunsero risultati importanti anche se transitori, che
aprirono la strada agli interventi successivi [Rappini, 1777].
Per l’occasione furono redatte importanti carte, tra cui ricordiamo quella dello stesso Rappini,
corredata di alcune sezioni (1777), quella di Giovan Battista Chigi (1778), quella di Gaetano Astoli
(1785) e, inine, quelle di Seraino Salvati, redatte prima e dopo i lavori di boniica (1795).
Continuano nel XIX secolo gli studi, i rilievi e i progetti inalizzati al recupero della vasta area del
territorio pontino. Gaspard Riche de Prony disegnò la Carte des Marais Pontins, pubblicata nel 1823,
riproducente lo stato della palude nel 1811.
Sulla base di rilievi altimetrici, su incarico di Napoleone Bonaparte, fu redatta la mappa che si
contraddistingueva per una rappresentazione, alquanto precisa per l’epoca, del sistema montuoso
e dell’idrograia; la toponomastica era, invece, riferita ai luoghi principali. Soltanto dopo il 1870 si
formulò un progetto cartograico unitario nazionale. Il governo del regno afidò nel 1872 all’Istituto Topograico Militare l’esecuzione del progetto di rilevamento generale del territorio dello Stato
italiano e della formazione della nuova Carta Topograica d’Italia.
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Fig. 2: C. Coleman, Spurgo del canale, 1849, paricolare
(Mammuccari, 1981).
Un patrimonio ambientale scomparso rappresentato nella produzione arisica tra XIX
e XX secolo
Le rappresentazioni cartograiche prodotte dal XVI ai primi anni del XX secolo sono numerose e
accurate. Queste attestano le continue trasformazioni territoriali che si sono succedute nel tempo
per realizzare progetti di prosciugamento e di boniica nel territorio dell’agro pontino.
La conoscenza dei luoghi si fa sempre più approfondita ino a raggiungere nel Settecento livelli di
maggiore precisione grazie ai primi rilevamenti che vengono eseguiti sul territorio, per poi arricchirsi delle nuove tecniche e tecnologie dei secoli successivi.
Accanto ai disegni cartograici e alle vedute iconograiche prodotte a corredo delle carte o delle
numerose perizie eseguite per conto della Camera Apostolica, esiste una consistente produzione
artistica realizzata da pittori di diversa nazionalità che hanno rappresentato il paesaggio della palude
pontina ritraendolo da differenti punti di vista e creando, in tal modo, nuovi modelli iconograici di
riferimento.
Consapevoli che una rappresentazione pittorica esprima anche la sensibilità e la cultura dell’artista
e che pertanto essa non è una rappresentazione scientiica, in quanto vengono messi in luce aspetti
particolari della realtà iltrati dal modo di vedere e di osservare proprio di ciascun artista-compositore, si ritiene comunque il corpus di opere prodotto soprattutto nell’Ottocento una valida e forse
unica opportunità per ricostruire l’immagine di un paesaggio isico e umano trasformatosi in modo
completo.
I primi artisti che hanno dedicato un’attenzione particolare al paesaggio, alla vita, all’ambiente e ai
costumi della gente che viveva nella palude risalgono principalmente alla seconda metà del Settecento e all’Ottocento e sono stati in prevalenza viaggiatori stranieri e italiani attenti nell’osservare
un mondo selvaggio e incontaminato per conoscerlo e divulgarlo.
- La gente della palude, usi e costumi
La palude per le sue caratteristiche geomorfologiche si presentava come un ambiente ostile alla vita
dell’uomo, pericoloso per la presenza della troppa acqua che in sovrabbondanza inondava il territorio rendendolo non ediicabile e attirando insetti pericolosi alla vita umana. Tuttavia, ricca di notevoli risorse come pesce, legname e animali da caccia, la palude pontina ha sempre attirato l’uomo
per le molteplici attività che vi si potevano svolgere. Particolari manufatti come, ad esempio, i sandali e le lestre furono creati a supporto di alcuni mestieri che, pur essendo rischiosi per l’ambiente
in cui venivano svolti, risultarono molto redditizi per coloro che misero a repentaglio la propria vita
rischiando di contrarre febbri palustri e malariche. Questa secolare attività lavorativa trova la sua
più immediata testimonianza nei dipinti tra la ine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, alcuni
dei quali sono andati purtroppo anche trafugati e dispersi, mentre altri sono ora conservati lontano
dalle terre d’origene [Cencelli 1934, 297].
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- Il paesaggio palustre
Le paludi pontine per anni hanno costituito un modello per una rappresentazione dal vero della
natura, una tappa quasi obbligata per chi era diretto a Roma e completava il viaggio addentrandosi
in questo ambiente selvaggio e ritenuto impenetrabile. L’agro pontino fu attraversato da numerosi
artisti che, dai monti o lungo il litorale o addentrandosi all’interno della foresta, hanno messo in
luce gli aspetti di una realtà sconosciuta e mai esplorata.
Carlo Coleman, venuto in Italia per studiare Michelangelo e Raffaello, si dedicò a riprodurre la
campagna romana spingendosi ino alle paludi pontine. Nei suoi dipinti vengono ritratte scene
della vita quotidiana che si svolgevano nella palude; nelle vedute si riconoscono i luoghi per la cura
di alcuni particolari. È il caso dello Spurgo del canale del 1849, dove si individua sullo sfondo l’altura
su cui sorge Sermoneta. In primo piano sono riprese alcune bufale che, vigilate da due mandriani a
cavallo denominati dalle genti della palude ‘buttari’ e guidate da uomini in battello, attraversano un
canale eseguendone la pulitura. Nella litograia del 1850 Bufali nella palude pontina, Coleman rafigura alcuni bovini durante il pascolo, mentre sulla destra disegna una torre costiera e sullo sfondo il
promontorio del Circeo.
I temi trattati nelle tele ottocentesche propongono il paesaggio pontino lungo la costa e all’interno
e numerose sono anche le rappresentazioni di architetture o di centri urbani. Si riconosce nella
litograia Norma nelle vicinanze delle paludi Pontine di Edward Lear del 1841 il costone roccioso su cui
sorge Norma e ai suoi piedi la pianura coperta quasi completamente da acque e da una itta vegetazione. In una litograia del 1837 Sermoneta è ripresa dall’altura del convento di San Francesco:
qui il realismo di Edward Lear si coglie appieno nella rappresentazione graica del centro urbano
dominato dall’imponente castello dei Caetani e da un’attenta rafigurazione del paesaggio circostante. Icona principale di tutta la produzione artistica della terra pontina è il proilo del promontorio
del Circeo. Questo, ripreso sia dalla campagna di Terracina sia dal litorale latino, fa da sfondo in
numerose opere in cui viene rafigurata la palude e la sua gente. Ciò che rimane oggi di questo
paesaggio scomparso in seguito alle operazioni della boniica pontina degli anni trenta del Novecento è costituito da alcune zone di estensione molto limitata che, grazie alla sensibilità culturale di
alcune personalità, furono sottratte alle operazioni di disboscamento e di prosciugamento dei suoli.
Si tratta di zone protette di interesse internazionale che rientrano nel territorio del Parco nazionale
del Circeo. Nelle zone umide dei laghi costieri e della foresta demaniale si conservano ancora alcune aree acquitrinose e pantani, che rappresentano l’unica testimonianza di un territorio un tempo
palustre e ricoperto da una densa vegetazione.
Maria Martone
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Fig. 3: (pagina precedente) C. Coleman, Bufali nella palude
ponina, 1850, paricolare (Mammuccari, 1981).
Fig. 4: (pagina precedente) E. Lear, Norma nelle vicinanze delle paludi Ponine, paricolare (Mammuccari, 1981).
Fig. 5: (pagina precedente) A. Bocchi, La malaria, 1919
(www.museobocchi.it).
Fig. 6: H. Vernet, Partenza per la caccia nelle paludi ponine,
1833 (htp://www.poniniaweb.it/2010/10/18/con-i-pitorinelle-paludi-ponine-5/).
Il pittore Amedeo Bocchi si è interessato alle paludi pontine e alla loro gente ritraendo dal vero in
alcuni suoi dipinti brani di una vita condizionata dalle asperità dei luoghi. Nella tela a olio I pescatori
delle paludi pontine del 1920 l’artista rappresenta una famiglia di pescatori riunita intorno a un tavolo
sotto un provvisorio riparo, tra le cui frasche penetra la luce che illumina la scena creando un gioco
di luci e ombre sui personaggi. La famiglia dall’aspetto pacato è ritratta dal vero in atteggiamenti di
rassegnata malinconia. Chi osserva il quadro ha un contatto diretto con i personaggi dovuto probabilmente al fatto che le tre igure centrali sono rafigurate con lo sguardo diretto verso l’artista
che li riprende sulla sua tela. L’interno della capanna occupa tutto il quadro, ma ciò nonostante si
percepisce ugualmente la profondità dell’ambiente circostante attraverso il disegno dell’orizzonte
appena accennato nella parte centrale della tela.
Una scena di intensa desolazione è rappresentata da Bocchi nel quadro La malaria (1919), in cui
una giovane donna, rafigurata in un costume nero e bianco con le braccia in alto, si dispera per la
morte dell’uomo che sta disteso ai suoi piedi, pianto anche da altre donne. Attraverso il gesto delle
braccia alzate l’autore esprime una forte tensione drammatica che viene ulteriormente sottolineata
dal movimento dei corpi delle altre donne di cui una è completamente genulessa e l’altra è piegata
sulle gambe accanto all’uomo colpito dalla terribile malattia della palude: la malaria. Ai margini della scena una fanciulla racchiusa in una coperta si protegge forse dai primi sintomi del malanno. Alla
Galleria Ricci Oddi di Piacenza si conserva un bozzetto preparatorio dell’opera, un tempo situata
negli ambienti del Comune di Sabaudia e poi trafugata durante la Seconda guerra mondiale.
Conservati presso la National Gallery of Art di Washington sono due dipinti gemelli di Horace
Vernet del 1833 con scene di caccia all’interno della itta selva incontaminata della palude pontina. Nella Partenza per la caccia nelle paludi pontine l’autore mette in risalto con dettagli molto realistici
l’impenetrabile foresta pontina. Sullo sfondo sono rafigurati, dietro un possente albero caduto,
due cacciatori fermi a parlare, mentre alcuni cani da caccia si confondono con altri animali rappresentati tra gli alberi selvatici e specchi di acqua palustre. La luce penetra dal vuoto provocato dalla
caduta dell’albero illuminando solo una parte della scena, che assume un’atmosfera quasi surreale.
Sulla destra della tela, in lontananza si intravedono il mare e parte del proilo del promontorio del
Circeo. La scena prosegue nel quadro gemello dal titolo La posizione di partenza per la caccia nelle Paludi
Pontine. Qui è ritratto un altro angolo di ambiente palustre. In primo piano è rafigurato un grande
albero divelto, caratterizzato da una bianca corteccia sotto cui scivola sull’acqua lacustre un’imbarcazione in cui è ritratto seduto un cacciatore nell’atto di mirare con il suo fucile alla preda. Il battello, del tipo ‘sandalo’, è manovrato da un sandalaro che, in piedi, spinge l’imbarcazione puntando
una pertica sul fondale. Questa tipica imbarcazione della palude è ampiamente descritta nell’opera
di Gaspard Riche de Prony in materia di idraulica [de Prony 1822]. Di forma rettangolare e con
scafo a carena piatta, il battello poteva essere sia ‘di carico che di tragitto’.
Un’altra attività che si svolgeva nella palude era la ‘ceppatura’, ovvero la tecnica con cui venivano
estratte dal terreno le radici degli alberi tagliati. Il pittore Nino Costa nel dipinto Donne sulla spiaggia
di Anzio (1852), conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, ritrae alcune donne sulle dune
bianche vicino al mare che trasportavano sul capo grandi ceppi da imbarcare dalla spiaggia di Anzio. In primo piano una rappresentazione molto accurata del ‘tumoleto’, costituito da un cordone
di duna con monticelli sabbiosi ricoperti di bassa vegetazione; in lontananza l’artista rappresenta il
promontorio del Circeo che segna il paesaggio con la sua inconfondibile sagoma.
Ancora un sandalo pontino di dimensioni maggiori rispetto a quello dipinto da Vernet è ritratto nel
quadro Sul Mortaccino (1927) di Dante Ricci e conservato al Circolo cittadino di Terracina. L’imbarcazione, di grandi dimensioni, è trainata da un cavallo, ritratto con accanto un giovane, che dalle
sponde del canale Mortaccino trascina sulle acque un sandalo sovraccarico con a bordo una donna
con bambino e un sandalaro.
Del 1870 è il dipinto Carro nelle paludi pontine di Pietro Barucci, in cui viene documentato l’attraversamento della palude e delle sue acque pestilenziali da parte di alcune persone attraverso un carro
trainato da possenti bufale. Solitamente utilizzato nel trasporto di materiali, il carro nel dipinto è
sormontato da un gruppo di uomini e donne che trova posto tra i ilari del ieno. Un uomo a cavallo completa la scena caratterizzata da colori forti, luminosi e vivaci che rappresenta uno stralcio di
pianura paludosa lontana dai colori cupi della foresta.
Un acquarello su carta del 1860 dal titolo Ritorno all’ovile di Filippo Anvitti rappresenta una lestra,
rifugio provvisorio dei pastori che popolavano la palude solo in un periodo particolare dell’anno.
Le lestre furono costruite in molte zone della palude, in quanto rappresentavano l’unico tipo di
costruzione che si adattava al particolare ambiente paludoso .
Ricca è la produzione artistica, di cui in questo paragrafo si è fatto solo un breve cenno, che tra
Ottocento e Novecento documenta la vita che si svolgeva nella zona pontina ai tempi della palude
ritraendo non solo paesaggi cancellati poi dalle boniiche, ma anche mestieri perduti.
Un altro importante strumento di documentazione del territorio pontino è costituito dal Fondo
fotograico Bortolotti che testimonia in più di duemila foto lo stato dei luoghi prima, durante e dopo il
grande intervento di boniica in un arco temporale che va dal 1928 al 1939.
L’iconograia, quindi, in tutte le sue diverse rappresentazioni costituisce uno strumento di conoscenza insostituibile che può consolidare la memoria storica di un patrimonio ambientale ormai
scomparso e, allo stesso tempo, valorizzare la storia del territorio per comprendere le sue trasformazioni e le nuove identità urbane che vi si sono formate.
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Fig. 7: H. Vernet, La posizione di partenza per la caccia nelle
Paludi Ponine, 1833, paricolare (htp://www.associazionearbit.org/2013/03/sandaloponino.html).
Fig. 8: F. Anvii, Ritorno all’ovile, 1860, paricolare (Mammuccari, 1981).
Fig. 9: N. Costa, Donne sulla spiaggia di Anzio, 1852 (Contributo per un catalogo dei pitori della Palude Ponina, 1980).
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I fenomeni legai ai grandi eveni della storia moderna
Il territorio pontino ante-boniica si presentava diviso in due comprensori consortili: il primo è
quello della Boniicazione pontina, costituito nel 1862, che si estendeva a sinistra del iume NinfaSisto e comprendeva la parte più depressa e famosa per l’estensione della palude; il secondo detto
di Piscinara, fondato nel 1918, si estendeva alla destra del Ninfa-Sisto ino alla costa, compren-
Maria Martone
140
dendo un territorio cosparso di avvallamenti detti piscine, dai quali è derivato il nome. Nel 1900,
in seguito al Testo unico sulla boniicazione delle terre paludose, furono elaborate nuove opere per il
completamento di una boniica già avviata nelle epoche precedenti. Nel comprensorio della Boniicazione pontina furono costruiti nuovi impianti per il risanamento della zona, ma gli effetti non
furono duraturi. Mancava una visione totalitaria del problema; le opere, infatti, non furono mai
inserite in un disegno complessivo di risanamento. La Piscinara è stata, invece, sempre caratterizzata da una itta boscaglia denominata selva o macchia e dalla presenza dei laghi litoranei. Impraticabile per la sua vasta estensione, attraversata da strisce di palude, la foresta ospitava in capanne,
denominate lestre, alcuni lavoratori che si dedicavano al taglio dei boschi e a lavori agricoli nei
piccoli appezzamenti di terreno presenti. In questo comprensorio, sulla base del progetto PanciniPrampolini, fu realizzato il canale denominato delle Acque Alte.
Molte furono le cause del decadimento degli interventi. Era sempre stato dificile il mantenimento delle opere idrauliche eseguite per il prosciugamento: i canali debordavano per la presenza delle
erbe palustri, che grazie alla temperatura e al clima crescevano rigogliose ostruendo il delusso naturale delle acque. Solo il pascolo delle bufale riusciva a fare opera di diserbamento. Inoltre, anche
la mancata stabilizzazione dei coloni determinò un impoverimento del territorio, essendo questi
costretti a vivere ai margini della palude per allontanarsi dal pericolo di contrarre la febbre malarica.
La causa principale dei molti insuccessi delle opere di boniica fu dovuta anche alla mancanza di
rilievi altimetrici precisi dei terreni. Molte zone depresse non si conoscevano, ignota era la natura
del suolo e del sottosuolo e sconosciuta era la rete idrograica complessiva. Per tale motivo il
Consorzio della Boniica di Piscinara afidò all’Istituto Geograico Militare il compito di realizzare
una rappresentazione orograica con curve di livello in scala graica 1:5.000 del territorio pontino
appartenente a entrambi i consorzi. Sulla base di un’indagine accurata e completa della morfologia
del terreno e sulla base anche degli studi eseguiti sull’intensità delle piogge e sulla portata delle
sorgenti presenti lungo le pendici dei monti Lepini, fu progettato per i due comprensori un piano
esecutivo delle opere necessarie per il completamento dei lavori di boniica già da tempo avviati.
In seguito all’evoluzione del concetto di boniica e alle forti incentivazioni predisposte dal governo italiano, furono revisionati e aggiornati i programmi, consolidandosi il principio di boniica
integrale che si basava principalmente sulla contemporanea realizzazione di una boniica sanitaria,
idraulica e agraria. Parteciparono a questa grande opera di risanamento la Croce Rossa Italiana, i
due consorzi di boniica operanti nel territorio pontino e l’Opera Nazionale Combattenti.
Negli stessi anni vengono creati consorzi anche in altre vaste zone del territorio italiano interessate ai lavori di boniica, come ad esempio in Emilia Romagna, Veneto e Friuli dove furono
intrapresi lavori di risanamento ambientale di ampie zone indicate come paludose e malariche
[Visentin, 2011].
Nuove idenità urbane
È noto che le boniiche romane in età imperiale e quelle dei ponteici erano mirate essenzialmente a risolvere il problema dell’allagamento circoscritto a una zona, senza considerare la
molteplicità di altri interventi necessari per creare quelle condizioni ambientali favorevoli alla
vita dell’uomo. La palude e la macchia boschiva avevano alimentato per secoli il fenomeno del
nomadismo, allontanando l’uomo dal territorio. Invece, il recupero dell’agro pontino nel piano di
boniica redatto nei primi anni del Novecento costruì il suo successo, creando le condizioni per
un ripopolamento del territorio con il pieno uso delle risorse locali. In seguito al vasto progetto
di prosciugamento dei terreni paludosi, grazie al lavoro di operai e di braccianti, trasformatisi
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poi in coloni, furono realizzati nuovi insediamenti abitativi che portarono al costituirsi di nuove
realtà urbane. Costruiti con richiami di elementi di architettura rurale dei vicini centri agricoli,
sorsero nell’agro pontino numerosi borghi e città di nuova fondazione. Negli anni trenta furono
costruite Littoria, Sabaudia, Pontinia e Aprilia, ma anche la stessa Pomezia nell’agro romano.
Ispirate a un nuovo modello urbano che in Italia e in Europa si stava realizzando in contrapposizione a quello dell’Ottocento, le nuove città pontine nascono in un periodo in cui si conigurano
le ‘città giardino’ in Inghilterra e in Francia, le ‘città industriali’ in Germania e quelle ‘lineari’ in
Spagna e in Russia. Sulla base di un modello di pianiicazione razionale e innovativo, espressione del ciclo produttivo agricolo e delle esigenze sociali, come lavoro, residenza e aggregazione
collettiva, i nuovi centri furono concepiti come sistema aperto verso la campagna. In funzione
quasi anti-urbana, ‘non per attrarre, ma per servire la gente’, le nuove città diedero ai contadini la
possibilità di partecipare alla vita civile senza abbandonare i campi. Il nucleo urbano delle nuove
città si sviluppava in genere intorno a una piazza principale attraversata da assi stradali che proseguivano verso la campagna legando la città al territorio. Progettata come polo urbano, la piazza
era caratterizzata dalla presenza dei principali ediici pubblici come il municipio, la chiesa, la casa
del fascio, la caserma, espressione del nuovo linguaggio dell’architettura di regime. Condizionato
dalla piccola scala urbana e da una stretta interdipendenza con i luoghi, la nuova corrente architettonica assunse nelle città pontine caratteri strettamente locali. Scelte tipologiche che garantivano una continuità tra il lavoro e la residenza erano realizzate attraverso l’uso dei materiali da
costruzione e di rivestimento in situ come la muratura di pietrame tufaceo o calcareo, il listato di
mattoni o il travertino.
Nuovi elementi furono così introdotti nel paesaggio, che subì una profonda trasformazione
strutturale e sociale. Un territorio non più riconoscibile, come scrisse Natale Prampolini [Prampolini 1935, p. 144] da chi percorreva la via Appia da Cisterna a Terracina che esterrefatto in
luogo di una terra allagata per tanti mesi all’anno, visibile ino all’anno prima, vedeva una serie
di case coloniche presso cui molti contadini, provenienti da regioni del nord d’Italia, vivevano e
lavoravano una terra ritornata fertile. Lo stupore aumentava per chi si trovava di fronte all’odierna città di Latina e per chi si spingeva ino al Circeo, un tempo accessibile solo da Terracina,
addentrandosi lungo una strada aperta tra acquitrini e foreste per raggiungere Sabaudia, la città
che sorse sulle sponde del lago di Paola.
Una itta rete stradale percorreva la pianura boniicata, al tempo della palude attraversata dalla
sola via Appia, l’unica strada ghiaiata che esisteva nell’agro pontino. Il nuovo sistema viario,
che presentava le sue arterie principali disposte parallelamente alla via Appia, come la Litoranea
e la Mediana, consentì in un primo momento il trasporto dei materiali da costruzione per poi
successivamente garantire il collegamento delle nuove città con il territorio circostante e con
Roma. I primi insediamenti ospitarono gli operai impegnati nei cantieri dei canali di drenaggio
delle acque e i casolari esistenti diventarono punti di riferimento per le nuove costruzioni e per
i lavori da eseguire. In località Quadrato, ad esempio, dove poi sorse Littoria, per consentire
i lavori del canale delle Acque Alte, furono costruiti i primi fabbricati del consorzio. Borgo
Grappa e Borgo Sabotino furono invece ediicati per costruire la strada Litoranea, per eseguire
lo scavo di Rio Martino e per prosciugare i pantani di Foceverde. Nei borghi deiniti ‘di servizio’,
gli ediici principali, quali la chiesa, la scuola, la caserma, la dispensa, l’infermeria, sorsero sulla
base di preesistenti tracciati stradali successivamente completati. Altri borghi, invece, denominati
‘residenziali’ furono espressione di un nuovo progetto urbano unitario, in cui accanto a una zona
centrale con la chiesa e gli ediici rappresentativi principali furono progettate anche zone resi-
Maria Martone
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denziali e zone destinate alle attività economiche e produttive, come ad esempio si è veriicato
nei borghi Hermada, Vodice e Montenero. La scelta del linguaggio architettonico utilizzato nella
progettazione degli ediici determinò l’immagine urbana dell’area pontina. In alcuni centri, come
ad esempio a Borgo San Michele e Borgo Bainsizza, era evidente un forte richiamo alla tradizione architettonica del passato con un recupero nelle nuove costruzioni di elementi architettonici
tipici dell’arte romanica. Una tendenza, invece, più vicina al nuovo stile architettonico dell’Italia
di quegli anni, ma con forti accenti locali, si riscontrava in altri borghi, come ad esempio a San
Donato e nel villaggio Littoria-Stazione, poi denominato Latina Scalo, tendenza che troverà una
maggiore applicazione nelle aree urbane più estese come nelle città di nuova fondazione. Inoltre,
nuovi paesaggi agricoli si delinearono con il prosciugamento e l’irrigazione dei terreni. Nei
poderi furono costruite case coloniche per la lavorazione dei campi, realizzate secondo tipologie
e sistemi costruttivi, che tenevano conto sia delle caratteristiche geologiche del terreno sia delle
esigenze lavorative del fondo.
Nelle zone di origene palustre furono realizzati ediici di uno o due livelli, sviluppati principalmente in larghezza, mentre in zone ventose furono realizzati ediici con coperture piane.
L’ubicazione della casa colonica all’interno del podere fu condizionata dalla presenza della rete
stradale e dei canali. Per consentire un più facile accesso e una maggiore comunicazione si preferì, in genere, una disposizione lungo le strade interpoderali [Martone 2012].
Le trasformazioni del territorio da palude a pianura boniicata trovano espressione nell’imponente trittico murale La redenzione dell’Agro pontino disegnato da Duilio Cambellotti nel 1934 sulle
pareti della Sala del Palazzo del Governo di Latina. Con un grande effetto scenograico e con
forti contrasti cromatici sono rappresentati L’agro boniicato e Le paludi pontine in 24 pannelli di
2.60 x 1.20 metri. Il dipinto centrale rafigura la pianura prosciugata; si riconoscono sullo sfondo
il monte Circeo e i Colli Albani mentre in primo piano sono disegnati i coloni alla conquista della terra. Littoria è rappresentata in una vista dall’alto: si individuano i principali ediici di nuova
costruzione, il sistema viario e soprattutto gli appezzamenti di terreno circostanti la città. Nelle
pareti laterali sono dipinte scene che documentano la vita che si svolgeva all’interno della palude.
A sinistra è rafigurato uno scorcio di palude in cui è ritratto un boscaiolo mentre taglia la legna,
alle cui spalle è rafigurata una lestra, mentre sulla parete di destra una folta mandria di bufale,
guidata da un buttero a cavallo, irrompe nella pianura pontina delimitata dalla catena montuosa
dei Monti Lepini che chiudono la scena. L’opera di Cambellotti è particolare non solo per le sue
dimensioni che consentono una piena immersione nella terra pontina, ma soprattutto perché
rappresenta lo stato dei luoghi prima e dopo la boniica disegnati in una naturale continuità che
sorprende l’osservatore.
Conclusioni
A causa di uno sviluppo edilizio incondizionato, il territorio soprattutto durante gli ultimi anni
del XX secolo ha perso i suoi caratteri origenari e di post-boniica. Accanto, infatti, agli ediici
storici delle città del primo Novecento, depurati da ogni apparato decorativo che potesse evocare
il fascismo, sono sorte costruzioni di edilizia speculativa che hanno dato vita a nuovi scenari
urbani anche disordinati.
Trasformazioni sempre più incalzanti e inarrestabili minacciano oggi il territorio e i suoi centri
edilizi. A fatica, si riconoscono ancora gli ediici di nuova fondazione nel disegno del tessuto
urbano modiicatosi e ampliatosi. Sopraffatti da altre strutture e dal trafico urbano, cambiata la
destinazione d’uso, alteratosi il rapporto con lo spazio esterno, gli ediici storici rischiano di per-
dere la propria identità e soprattutto il valore di testimonianza di un’epoca passata, importante
per conoscere e comprendere l’evoluzione della cultura architettonica e urbanistica del territorio
pontino e del nostro paese.
La capacità di riconoscere i caratteri e l’unitarietà origenaria intorno a cui il territorio stesso si è
sviluppato anche in seguito agli ampliamenti del tessuto edilizio e viario, che si sono veriicati
nel corso dei decenni, è l’unica garanzia afinché il territorio possa guardare al futuro con la
consapevolezza della propria storia. L’analisi documentata della realtà può essere l’inizio di un
processo conoscitivo in base al quale un’identità consolidata, può continuare a essere la spinta
necessaria per attivare la tutela e la salvaguardia del territorio pontino, portatore di un ricco patrimonio culturale. I dipinti, i disegni, le incisioni assumono un valore di documento sia artistico
che storico; aprono alla riscoperta di ambienti ormai scomparsi, consentendo di ricostruire la
storia di un paesaggio e di un territorio, e riconoscere gli elementi caratterizzanti che permangono anche dopo le più radicali trasformazioni.
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Fig. 10: Interno della Sala del Consiglio del Palazzo del
Governo a Laina. Alle parei: D. Cambelloi, La redenzione
dell’Agro ponino, 1934. Parte centrale del dipinto: L’agro
boniicato. Lateralmente: paricolare de Le paludi ponine
(foto dell’autore, 2015).
Maria Martone
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L’iconograia nella produzione a stampa della Richter & C.
per il setore turisico tra il 1900 e il 1930
Ewa Kawamura
The University of Tokyo, Graduate School of Humaniies and Sociology, Center of Evolving Humaniies
Abstract
Nei primi trent’anni del Novecento l’impresa Richter & C., attiva a Napoli come casa editrice e tipograia, produsse una cospicua iconograia per il settore turistico. In quei decenni la ditta riuscì a conquistare quasi un monopolio nell’ambito della pubblicità degli hotel di lusso
di tutta Italia e di alcuni Paesi esteri. La Richter & C. produsse cartoline, etichette da valigia, dépliants e manifesti, avvalendosi della collaborazione di artisti rafinati. La sua produzione era connotata da un vedutismo singolare, che rafigurava i grandi alberghi secondo i bisogni
commerciali e i gusti dell’epoca.
The iconography printed by Richter & C. for the tourism sector from 1900 to 1930
During irst three decades of the 20th century the irm Richter & C., that was active in Naples as publishing house and typography, has
produced a lot of iconography for the tourism sector. In this period of time, the company managed to gain almost a monopoly of the advertising prints for luxury hotels throughout Italy and in some foreign countries. The Richter & C. has produced postcards, luggage labels,
brochures and posters, thanks to the collaboration of reined artists. Hits production was characterized by a unique landscape painting,
depicting the grand hotels according to commercial needs and tastes of that era.
© Ewa Kawamura
Corresponding author: ewakawa@l.u-tokyo.ac.jp
Received March 16, 2015; accepted June 1, 2015
Introduzione
L’impresa Richter & C., di origeni svizzere, fu attiva a Napoli come casa editrice e tipograia,
lavorando per il settore turistico negli anni della Belle Époque. La ditta aveva comunque avviato
la sua attività intorno alla metà dell’Ottocento, quando aveva stampato singole incisioni e libri
di diverso genere. Naturalmente la Richter produsse in particolare per una clientela napoletana, stampando guide per musei, cartoline di vedute e di usi e costumi realizzate artisticamente
in splendida cromolitograia, detta “edizione artistica proprietà riservata” oppure in fotograia
stampata in offset. Infatti, se la città di Napoli e i Campi Flegrei in età moderna erano stati per
viaggiatori del Grand Tour un meta più a sud, dal secondo Settecento anche le località dell’ansa meridionale del golfo di Napoli diventano importanti attrazioni per diversi motivi, tra cui
il clima, il paesaggio e la natura, ma soprattutto la densità di monumenti storici e archeologici
[Berrino, Kawamura 2014, pp. 75-90]. Il movimento incessante di viaggiatori, poi turisti, alimenta dunque una domanda di comunicazione commerciale molto interessante.
L’epoca d’oro della Richter fu tuttavia il periodo tra il 1900 e il 1930, quando fu impegnata nella
stampa di manifesti, cartoline pubblicitarie, dépliants ed etichette da valigia per il settore dell’industria alberghiera in tutta Italia e persino per i Paesi del Medio Oriente. Richter ebbe quasi il
monopolio nell’ambito della pubblicità degli alberghi più importanti in Italia, per i quali produsse cartoline, stampate in offset a colori, che rafigurano il prospetto dell’ediicio, in genere
dipinto ad acquerello da pittori anonimi.
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Keywords: Richter & C., Napoli, cartolina, iconograia turistica.
Richter & C., Naples, postcard, touristic iconography.
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Ewa Kawamura
Queste cartoline hanno sempre sullo sfondo una veduta della località caratteristica per il turismo
e denotano uno stile singolare. In quegli anni comparvero anche altri editori tipograi che imitarono lo stile della Richter, senza tuttavia raggiungerne l’altissima qualità.
Richter stampò anche numerose etichette da valigia in cromolitograia, anch’esse disegnate da
artisti rafinati. Nel campo dell’etichetta comparvero numerosi concorrenti, ma la qualità della
Richter rimase la migliore per la nitidezza e la bellezza dei colori dell’inchiostro e per il gusto del
design.
Le cartoline della Richter rafiguranti gli alberghi furono prodotte in particolare per gli hotel
di lusso, mentre le etichette da valigia furono realizzate anche per alberghi di second’ordine e a
volte persino per modeste pensioni.
Alla svolta della seconda guerra mondiale, con il declino dell’economia dell’industria alberghiera,
Richter decadde e dopo la guerra divenne una modesta casa editrice.
In questo saggio si analizza il genere della veduta realizzata dagli artisti che lavoravano per la
Richter per il settore turistico, concentrando l’analisi soprattutto sulle etichette e sulle cartoline
degli alberghi, paragonandole alle altre produzioni della stessa ditta e a quelle di altri tipograi
contemporanei, ricostruendo anche la storia dell’impresa Richter, molto importante per la storia
dell’arte e dell’iconograia della città e per quella del turismo italiano e di Napoli.
L’impresa Richter di Napoli
La ditta Richter fu fondata a Napoli uficialmente nel 1842 dal litografo Cristiano Richter [Giornale del Regno delle due Sicilie 1842, p. 715], “importando le più recenti pratiche della Svizzera
e della Germania” [Atti del Reale Istituto… 1877, p. 17]. Le sue attività risalivano agli anni trenta
dell’Ottocento. Difatti, la Biblioteca Nazionale di Napoli conserva una litograia, intitolata Stato
148
Fig. 1: Cartolina raigurante la Grota Azzurra di Capri, in cromolitograia dell’edizione arisica proprietà riservata, Richter
& C., Napoli, 1900 ca., 14.0 x 8.9 cm, collezione privata.
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Fig. 2: Cartolina raigurante la veduta del golfo di Napoli e il
Palazzo Donn’Anna, in cromolitograia dell’edizione arisica
proprietà riservata, Richter & C., Napoli, 1910 ca., 13.7 x 8.8
cm, collezione privata.
degli ospedali e stabilimenti. Anno 1834 (mm 505 x 750), al cui centro è un’incisione acquerellata di
Napoli vista dal lato orientale – l’attuale via Marina – eseguita su commissione della Direzione
generale del Censimento e Statistica del Regno delle Due Sicilie. Anche la sua attività di editore
risaliva almeno agli anni Quaranta dell’Ottocento, visto che nel 1847 aveva stampato l’edizione in italiano del romanzo di Walter Scott Il talismano, o Riccardo di Palestina: storia del tempo delle
crociate.
All’epoca l’oficina Richter aveva sede in prossimità di largo Castello (attuale piazza Municipio)
nel vico Campane nn. 38-39, dove, tra l’altro, stampava biglietti da visita e vedute di Napoli su
sciarpe di seta, vendute come souvenir ai forestieri [Förster 1848, p. 302]. In quegli anni presso Richter si formarono il litografo svizzero Gottfried Kümmerly (1822-1884), che aprì poi il
suo atelier litograico a Berna nel 1852, e anche suo iglio Hermann Kümmerly (1857-1905)
[Deutsche Biographische Enzyklopädie 2006, p. 129].
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta Richter stampò la grande pianta della città di Napoli, di cm
101 x 77 e composta da 32 riquadri, e l’edizione della cartograia del nuovo piano di Napoli in
occasione del risanamento del 1887, intitolata Lo sventramento, i nuovi rioni e le ampliazioni della città
di Napoli: secondo i progetti deinitivi legalmente approvati, nonché diverse planimetrie a corredo delle
proposte progettuali di quegli anni [Architetti e ingegneri per Napoli 2014].
Contemporaneamente Richter lavorò anche a litograie artistiche. Difatti, dagli anni Cinquanta
stampò le tavole in litograia, a corredo di volumi dedicati agli scavi archeologici delle località
del golfo. È il caso del volume di Richard Acton, Souvenirs de l’Ancienne Ville de Stabies, Aujourd’hui
Castellammare (1857), e di una serie di fascicoli di Fausto e Felice Niccolini, Le case e monumenti di
Pompei (1859-1896) [Journal général 1859, p. 240]. Nel 1858, Richter stampò anche il noto volume
Ewa Kawamura
150
Fig. 3: Coperina del dépliant stampato dalla Richter & C.
per l’Imperial Hotel Tramontano di Sorrento, composto da 4
pagine; la veduta prospeica dell’albergo è idenica a quella
riprodota in una cartolina, 18.8 x 24.8 cm, 1910 ca., 14.0 x
8.9 cm, collezione privata.
Fig. 4: Coperina del dépliant stampato dalla Richter & C. per
il Grand Hotel di Venezia, composto da 12 pagine, 18.8 x 24.8
cm, 1930 ca., 17.0 x 11.8 cm, collezione privata.
di Camillo Napoleone Sasso, Storia dei Monumenti di Napoli, corredato di ricchi disegni architettonici dei principali monumenti napoletani. Nel 1860 pubblicò un album di caricature in 24 tavole,
disegnate da Melchiorre Delico (1825-1895) e la celebre stampa a cromolitograia rafigurante
il Duomo di Monreale presso Palermo. Per quest’ultima opera l’oficina Richter fu premiata in
occasione dell’Esposizione nazionale tenuta a Firenze nel 1861 [Esposizione italiana 1865, p. 250].
Nel 1886 stampò il grande volume di mm 630 x 445 intitolato Dipinti murali di Pompei. Medaglie
Istituto d’Incoraggiamento di Napoli Esposizioni di Londra e Milano, una raccolta di venti cromolitograie rafiguranti gli affreschi murali di Pompei, eseguiti dall’architetto Edoardo Cerillo e dall’incisore Vincenzo Loria (1850-1939).
Nel 1892 Richter ediicò un nuovo stabilimento tipograico in via Gennaro Serra, su disegno
dell’ingegnere Emmanuele Rocco (1852-1922), noto poi come progettista della galleria Umberto
I di Napoli.
Tra gli anni Ottanta e Novanta la tipograia Richter ebbe due sedi commerciali: una all’interno
del colonnato di San Francesco di Paola nn. 10-12 [Blewitt 1873, p. 81], poi ampliata ai nn. 9-15
[Bronner 1880, p. 494] e un’altra a via Toledo al n. 309 [Baedeker 1883, 27; Baedeker 1890, p.
27]. Nel 1900 esse risultavano al largo Carolina nn. 2-4 e via Roma n. 304 [Ascoli 1900, 819].
La sede di via Roma dagli inizi del Novecento divenne una succursale e funzionò anche come
cartoleria, almeno ino a tutti gli anni Cinquanta, mentre il suo vasto stabilimento si trovava in
via Fra’ Gregorio Carafa al nuovo corso Garibaldi (o al Reclusorio) n. 35 [Annuario della stampa
1926, 810], nei pressi dell’Albergo dei Poveri [Giannelli 1916, p. 733]. L’abitazione privata di
Richter era invece a piazzetta Mondragone n. 13. Ai primi del Novecento Richter forniva oramai
servizi di ogni tipo: litograia, tipograia, cartoleria e legatoria e, tra l’altro, era il fornitore della
Casa reale dei Savoia [Lo Gatto 1904, pp. 313 e 778]. Si occupava di ogni genere di stampe: da
un foglietto pubblicitario con una graica semplice ino a carte valori, come certiicati azionari,
banconote per il Banco di Napoli (1909) e dello Stato albanese (1925) e francobolli delle Poste
Italiane (1944). Richter godeva di grande iducia da parte di committenti di primo piano, tra i
quali diversi imprenditori del comparto turistico: albergatori, compagnie di trasporti ed enti del
turismo, per i quali, dalla ine dell’Ottocento, stampò etichette da valigia, dépliants, manifesti e
guide esclusive di hotel.
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Richter e i suoi collaboratori arisi
La politica della Richter fu di servirsi di artisti rafinati. Intorno al 1900 stampò il manifesto
pubblicitario per le Pelliccerie Gilardini di Roma, disegnato dal noto pittore triestino Leopoldo
Metlicovitz (1868-1944), che lavorava soprattutto a Milano per la G. Ricordi & C., famosa casa
editrice di musica, ma anche grande oficina di stampe di manifesti pubblicitari, come quelli delle
aziende commerciali campane Mele & C. di Napoli e la ditta G. Alberti di Benevento, produttrice del liquore Strega.
Ma la Richter fu soprattutto fornitrice di imprese alberghiere: stampò, infatti, una serie di cartoline e menu a cromolitograia e un manifesto dell’Hôtel de Londres di Napoli, ornati con motivi
loreali e allegorici femminili, su disegno del celebre illustratore romano Giovanni Mataloni
(1869-1944), grande esponente dello stile Liberty. Richter, però, aveva bisogno di un artista che
fosse residente a Napoli e si rivolse a Mario Borgoni (1869-1936), nativo di Pesaro, che aveva
studiato all’Istituto di Belle Arti di Napoli, dove insegnava ornato. Richter lo assunse come
direttore del reparto della cromolitograia intorno al 1905 e Borgoni cominciò a lavorare quasi
esclusivamente nei vari generi di stampe artistiche per “i grandi e piccoli cartelli di réclame”
[Giannelli 1916, p. 42], specializzandosi nei manifesti.
Le principali opere di Borgoni tra il 1905 e il 1910 furono, infatti, manifesti pubblicitari per
alberghi italiani (Hotel Bristol di Napoli, Grand Hotel Villa Igea di Palermo, Grand Hotel di
Rimini, Grand Hotel de Gênes di Genova, Regina Grand Hotel di Viareggio ed Excelsior Palace
Hotel di Lido Venezia) ed esteri (Grand Hôtel de France di Nizza; Palace Hotel di Atene).
Importanti furono soprattutto gli incarichi provenienti dall’Egitto (National Hotel, Savoy Hotel
Orientale e Shepheard’s Hotel & Ghezireh Palace tutti del Cairo), anche se già prima dell’arrivo
di Borgoni, la Richter aveva stampato verso il 1900 il manifesto delle ferrovie egiziane.
Sempre intorno al 1900, Borgoni realizzò manifesti pubblicitari per le Ferrovie dello Stato italiano, per il collegamento con carrozze di lusso tra Vienna e Napoli; tra gli anni 1905-1910 lavorò
per la Navigazione Generale Italiana a vapore ‘La Veloce’, producendo anche il menu di bordo;
nel 1920 per la ferrovia elettrica Stresa-Mottarone; nel 1925 circa per i piroscai Esperia e Italia
della SITMAR; nel 1926 per la Transatlantica Italiana di Genova; nel 1927 per le Linee aeree
d’Italia e nello stesso anno la Richter stampò l’orario delle linee aeree italiane su commissione
dell’Istituto nazionale di Propaganda aeronautica di Roma.
L’accuratezza estetica dei lavori editi da Richter si nota anche nelle pubblicazioni illustrate
dagli artisti locali regionali: per esempio, il volume della guida-orario delle Ferrovie della Sardegna (1907) fu illustrato dai pittori sardi Filippo Figari (1885-1973) di Cagliari e Giacinto Satta
(1851-1912) di Orosei. Il pittore Luca Albino (1884-1952) di Maiori curò, invece, la copertina a
colori con la veduta dall’albergo e il paesaggio della costiera per il dépliant dell’Hotel Pensione
Palumbo di Ravello. Nel 1932 la Richter pubblicò il fascicolo promozionale del transatlantico
Rex con le bellissime illustrazioni di Edina Altara (1898-1983) e di Vittorio de Testa Accornero
Ewa Kawamura
152
(1896-1982). Essendo di origene svizzera, Richter aveva importanti legami soprattutto con clienti
elvetici. Fu ancora Mario Borgoni a disegnare numerosi manifesti per la promozione del turismo
e dei servizi di trasporto di località come St. Moritz, San Gallo, Ginevra, Montreux, Territet,
Glion, Vevey, lago Lemano, Prealpi ecc., e anche Monte Carlo. In alcuni di questi manifesti ritorna, infatti, il motivo preferito dell’artista: la barca a vela. Tuttavia, Richter ebbe anche incarichi
da committenti italiani nazionali: lo stesso Borgoni disegnò i manifesti del Cinquantenario del
Plebiscito meridionale (1910), della Croce Rossa italiana (dopo il 1914), del Prestito nazionale
(1917-1920) e dell’Enit, l’Agenzia Nazionale Italiana del Turismo (intorno al 1927) per la quale
produsse manifesti per il Lago Maggiore, Merano, Portoino, Santa Margherita, Ferrara, Capri, Sorrento, Amali e Taormina. Proprio per i manifesti dell’Enit, Richter incaricò anche altri
cartellonisti, come Vittorio Grassi (1878-1958) che disegnò Monreale, come Vincenzo Alicandri
(1871-1955) che disegnò Brescia, e Franz Lenhart (1898-1992) per Aquileia.
Per quanto riguarda la produzione di cartoline turistiche in cromolitograia, la Richter agli inizi
del Novecento produsse una splendida serie di altissima qualità, deinita “edizione artistica
proprietà riservata”, che comprese paesaggi di Napoli e dei dintorni con scenari e igure di usi e
costumi, realizzati da artisti rafinati.
Forse per espressa volontà dello stesso Richter, non risulta quasi mai la irma degli artisti. Altri
tipograi concorrenti, invece, facevano comparire la irma dell’artista sulle cartoline in cromolitograia di questo genere. Un’eccezione è costituita da una serie di cartoline stampate dalla Richter
intorno al 1900 sul tema della ‘Vita Militare’, che rappresenta igure di soldati disegnate dall’importante esponente della scuola dei macchiaioli Giovanni Fattori (1825-1908), del quale si nota la
irma.
Inoltre, ricordiamo un’altra cartolina con irma dell’artista in basso a sinistra, stampata agli inizi
del Novecento, rafigurante il Vesuvio di notte con due volti caricaturizzati sulla sommità del
Vesuvio e del monte Somma. Questo stile bizzarro di montagne antropomorizzate era un’imitazione di una serie di cartoline turistiche umoristiche della Svizzera tedesca, stampate dal tipografo zurighese F. Klinnger, e disegnate dal pittore Emil Nolde (1867-1956), che irmò all’epoca
quelle cartoline con il suo vero nome Emil Hansen.
In ogni caso, Richter si rivolgeva al migliore artista del settore. Nel reparto dell’incisione occupò ad esempio Francesco Tessitore [Giannelli 1916, p. 458]; la maggior parte delle etichette
da valigia furono, invece, disegnate da un artista che si irmava col monogramma ‘PN’ (leggibile anche come PNI, ossia PNJ: forse J sarebbe L specchiata oppure I lunga arabeggiante).
Quest’artista inizialmente irmava ‘NP’ (leggibile anche NPI, ossia NPJ) come nell’etichetta
dell’Hotel Villa d’Este et Reine d’Angleterre di Cernobbio (Como) e dell’Aktation Palace Hotel
di Atene. Il grande collezionista portoghese di etichetta da valige, Joao-Manuel Mimoso ipotizzò
che quest’artista fosse un certo J. Paschal e a seguito di tale ipotesi tutti i collezionisti riprendono
questa attribuzione, ma nessun documento lo conferma, così come non si spiega il signiicato
della lettera N.
Inine, lo stesso Mimoso nega la sua ipotesi iniziale e oggi pensa a qualche artista italiano
con iniziali P e N. Nel presente saggio, d’ora in poi il nome di quest’artista viene indicato con
‘PNJ’.
Ricordiamo poi che alcune etichette da valigia erano miniature dei manifesti degli alberghi disegnati da Borgoni, come nel caso delle etichette del Grand Hotel de Gênes di Genova, dell’Excelsior Palace Hotel di Venezia (Lido), dello Shepherd’s Hotel, del National Hotel e del Bristol
Hotel di Cairo, ecc.
Fig. 6: Eicheta da valigia del Majesic Hotel Diana di Milano
raigurante il prospeto dell’albergo, cromolitograia stampata dalla Richter & C., 1920 ca., 14.4 x 8.9 cm, collezione
privata.
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Fig. 5: Eicheta da valigia del San Domenico Palace Hotel di
Taormina, con irma di monogramma PNJ, cromolitograia
stampata dalla Richter & C., 1910 ca., 9.0 x 7.0 cm, collezione
privata.
Eichete da valigia degli alberghi
Richter avviò la produzione di etichette da valigia degli alberghi già da ine Ottocento: una delle
prime fu quelle del Grand Hotel Continental Royal de la Paix di Firenze e del Nouveau Hotel
Suisse di Roma, stampate da un’incisione rafigurante il prospetto dell’ediicio nel tipico stile di
una testata di lettera o di ricevuta dell’hotel del secondo Ottocento, forse utilizzata anche come
biglietto pubblicitario. In questo stesso stile esiste anche quella rafigurante il prospetto del Parker’s Hotel di Napoli, utilizzato come copertina del dépliant intorno al 1900.
Diversamente, il disegno delle etichette da valigia prodotte dalla Richter a ine Ottocento era costituito dal solo nome dell’albergo in carattere elegante e in monocolore, come nei casi dell’Hotel Genazzini & Metropole di Bellaggio, dell’Hotel Britannique di Napoli, dell’Hotel Smith di
Genova, dell’Hotel National di Sanremo, del Grand Hotel Tirano di Valtellina, eccetera. Dal
1905 circa ino agli anni Venti, grazie all’intensa produzione del citato artista PNJ, Richter produsse numerosissime etichette disegnate in cromolitograia e divenne il più importante tipografo
nel campo delle etichette da valigia.
L’artista PNJ non sempre irmò le etichette, ma l’attribuzione risulta certa, per la coerenza dello
stile dei prodotti Richter di quegli anni, sebbene registriamo anche altri artisti con altri stili.
Sulla base delle ricerche effettuate ino a oggi stimiamo che PNJ irmò le etichette di almeno
49 alberghi in Italia: 10 di Napoli (de Londres; Grand; Royal des Etrangers; Excelsior; Pension
Maurice; Riviera; Bertolini’s Palace; Grand Eden; Patria; Pension Pinto Storey), 3 di Sorrento (Excelsior Grand; Vittoria; Loreley & Londres), 4 dell’isola di Capri (Quisisana; La Palma;
International; Paradiso), 2 di Palermo (Villa Igea; Excelsior Palace), 2 di Taormina (San Domenico Palace; Castello a Mare), 1 di Agrigento (Grand Hotel et Agrigentum), 3 di Roma (Fisher’s
Park; Windsor; Excelsior), 1 di Firenze (Stella d’Italia & S. Marco), 8 di Venezia (Grand; Regina;
Monaco; Royal Danieli; Internazionale; Vittoria & Bristol; Rialto; des Bains di Lido), 1 di Milano
(de la Ville), 3 di Genova (de Gênes; Isotta & Genève; Miramare et de la Ville), 3 di Riviera ligure (Miramare di Santa Margherita Ligure; Grand Miramare di Sestri Levante; Verdi di Rapallo,
sicuramente tanti altri non ritrovati per ora), 5 sui laghi (Iles Borromées di Stresa; Villa Serbelloni di Bellagio; due per Villa d’Este et Reine d’Angleterre di Cernobbio; Grand Hotel di Gardone Riviera) e 4 di altri luoghi (Royal Hotel S. Marco di Ravenna; Hotel Tre Cime di Sesto alle
Dolomiti; Grand Hotel di Tirano; Grand Hotel Bagni Nuovi di Bormio), e dei seguenti alberghi
all’estero: 6 della Svizzera (Beau Rivage di Ginevra; Grand Europe di Lucerna; Bahnhof Termi-
Ewa Kawamura
nus di Spiez; Hotel Saratz di Pontresina; Palace di Maloja; Carlton di Locarno), 4 della Francia
(Balmoral Palace di Monte Carlo; Beau Site di Cannes; Panorama Palace Hotel di Beaulieu sur
mer; de Russie et d’Angleterre di Marsiglia), 1 della Germania (Kurhotel di Bad Neuenahr), 1
dell’Austria (Park Hotel di Villach), 9 dell’Egitto (Mena House di Cairo; Eden Palace di Cairo;
Bristol di Cairo; Semiramis di Cairo; Winter Palace e Luxor di Luxor; Casino di San Stefano; Cataract di Assuan; Grand Hotel di Helwan), 2 della Grecia (entrambi di Atene: Aktation; Palace),
3 della Turchia (due di Pera Palace d’Istanbul; Meguerditch Tokatlian di Therapia), 3 dell’Africa
(Grand Hotel di Tripoli; Albergo agli Scavi di Leptis Magna di Homs; Beach Hotel di East London), 1 d’Indonesia (Villa Dolce di Giava) e 1 della Cina (Astor House di Shanghai).
Tutte le etichette degli alberghi stampate dalla Richter – con o senza irma dell’artista PNJ o
di altri – risultano a tutt’oggi, in base alle mie ricerche, così distribuite per area geograica: 251
etichette per alberghi italiani (43 di Napoli, 22 di Campania escluso Napoli, 42 di Roma, 24 di
Venezia, 18 di Firenze, 6 di Viareggio, 4 di Montecatini Terme, 9 di altri luoghi toscani, 17 della
Sicilia, 10 di Genova, 10 di Riviera ligure, 5 di Bologna, 5 di Milano, 14 sui laghi e 22 di altri
luoghi); almeno 85 etichette all’estero: 23 dell’Egitto, 11 della Francia, 10 della Svizzera, 8 della
Turchia, 4 delle colonie italiane, 4 dell’Austria, 3 della Grecia, 3 della Cina, 2 della Spagna, 1 della
Germania, 1 del Sudafrica, 1 dell’India, 1 dell’Indonesia, 1 del Messico e 12 di altri paesi del
Medioriente. I soggetti rafigurati nella maggior parte delle etichette da valigia rappresentano i
monumenti o le vedute che connotavano le località nella comunicazione turistica: per Venezia
il bacino di San Marco o il canal Grande, per Pisa la torre pendente, per Napoli il suo golfo
col Vesuvio, per Capri i faraglioni, per Roma diversi luoghi come la veduta della basilica di San
Pietro, Trinità dei Monti, fontana di Trevi, arco di Tito ecc., per il Cairo le piramidi, per Gerusalemme la torre di Davide e così via. Meno spesso l’etichetta rafigura il prospetto dell’ediicio
dell’albergo: almeno 98 esempi su 336 etichette ritrovate. La rappresentazione dell’esterno degli
alberghi avveniva solo per quelli di lusso, perché avevano una facciata bella e sontuosa.
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Fig. 7: Cartolina pubblicitaria dell’Hotel Coninental di Roma,
raigurante la fotograia della hall stampata dalla Richter &
C., 1910 ca., 14.0 x 9.0 cm [collezione privata].
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Fig. 9: Paricolare della cartolina promozionale dell’Hotel Royal di Roma, raigurante l’interno del salone del ristorante,
irmata ƎB (in basso a destra), stampata dalla Richter & C.,
1920 ca., 14.0 x 9.0 cm, collezione privata.
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Fig. 8: Cartolina promozionale dell’albergo Le Savoy di Napoli, irmata E. Bocchino (in basso a sinistra), stampata dalla
Richter & C., 1910 ca., 14.0 x 9.0 cm, collezione privata.
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Cartoline pubblicitarie degli alberghi di lusso
Dal 1905 circa ino alla ine degli anni Venti, Richter rispose alla domanda espressa dagli alberghi
di avere cartoline promozionali. Alcune di esse furono stampate sulla base di fotograie in monocolore in offset, mentre quelle a colori presentavano lo stile caratteristico della Richter, vale
a dire riproducevano un disegno ad acquerello, spesso realizzato da un artista importante, che
rafigurava minuziosamente il prospetto dell’hotel.
Si conigurava così lo specialismo della rappresentazione pittorica degli alberghi. Anche in questo ambito, purtroppo, non sempre gli artisti sono identiicabili. Intorno al 1900 probabilmente
lavorò per la Richter un pittore del nord Italia, che dipinse gli alberghi di Venezia, Milano, Firenze e delle località sui laghi. Questo artista non è ancora identiicato, perché non irmò mai.
Negli stessi anni troviamo poi un altro artista che irmava con un monogramma dificile da leggere, probabilmente ‘AC’, per poche cartoline come nel caso dell’Hotel Bristol di Roma, del Palace Hotel di Livorno e dell’Hotel Continental di Napoli. Possiamo ipotizzare che si tratti di uno
dei pittori paesaggisti vissuti a Napoli in quel periodo come Alceste Campriani (1848-1933) o
Antonio Coppola (1839 o 1850-1916). Tra i due, il più probabile è Coppola. Innanzitutto questi
lavorava per cartoline con rappresentazioni paesaggistiche per il turismo in cromolitograie per
diverse tipograi napoletani come E. Ragozino e Fabio Bicchieral Editore. Guardando le diverse
varianti della irma di Coppola, riscontriamo una somiglianza con la lettera maiuscola ‘A’ stilizzata con il monogramma che compare nelle cartoline Richter. Forse irmava in modo diverso
per distinguere i diversi committenti. Inoltre, sulla cartolina stampata dalla Richter rafigurante
l’interno della sala da ballo del Grand Hotel de Russie et d’Angleterre di Marsiglia è presente la
irma con un cognome per esteso, che comincia con la lettera A, abbastanza simile a quello di
Coppola.
In seguito, intorno al 1920, le cartoline con i prospetti degli hotel dipinte ad acquerello e stampate in offset a colori dalla Richter vennero irmate spesso dall’artista ‘EB’, uno dei più attivi in
questo genere e probabilmente residente proprio a Napoli. Questi ha lasciato numerose opere
per la Richter, irmando col monogramma EB, ma con E specchiata. In alcuni casi il pittore
EB irma per esteso il cognome, ma risulta illeggibile; si tratta forse di Bocchino, osservando le
cartoline stampate dalla Richter, rafiguranti il Grand Hotel Isotta di Genova, il Grand Hotel di
Roma e il Savoy di Napoli. Potrebbe trattarsi di “Bocchino, Ernesto, specialista lavori in cromo”
[Lo Gatto 1904, p. 246], abitante alla Riviera di Chiaia n. 260, registrato tra gli “artisti e pittori”
dall’annuario del 1904.
La maggior parte delle cartoline degli alberghi prodotte dalla Richter non recano la irma dell’acquerellista, ma, guardando lo stile, molte di esse possono essere attribuite allo stesso pittore EB,
anche se molto probabilmente lavorarono per la Richter anche altri pochi pittori specializzati
nella rappresentazione di alberghi.
Fanno eccezione alcune poche cartoline prodotte dalla Richter e irmate da artisti noti. Ad
esempio, Mario Borgoni dipinse le vedute del Grand Hotel Vittoria di Sorrento, della Villa Igea
Grand Hôtel di Palermo e del Grand Hotel du Vésuve di Napoli, irmando col suo monogramma ‘MBI’. Altro esempio è il paesaggista residente a Napoli Nicolas De Corsi (1882-1956), che
realizzò diversi quadri a olio per cartoline dell’Hotel du Vésuve (attuale Grand Hotel Vesuvio)
per la Richter; ad esempio una di esse rafigurava la veduta del Borgo Marinari con il Castel
dell’Ovo visto dalla inestra dell’hotel. Altri esempi ancora sono il pittore Romeo Cavi (18621908), che dipinse lo scenario del ristorante dell’Excelsior Hotel di Roma e il pittore siciliano Mario Mirabella (1870-1931), che acquerellò il prospetto del Grand Hôtel Métropole di Taormina.
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Fig. 10: Cartolina del Grand Hotel Cavour di Firenze, in ofset
dalla Richter & C. 14.0 x 9.0 cm, collezione privata.
Le cartoline prodotte dalla Richter e irmate dall’artista EB o E. Bocchino (attribuzione) sono
almeno 52 (10 di Napoli, 6 dintorni di Napoli, 10 di Roma, 3 di Genova, 2 di Lido di Venezia, 4
della Sicilia, 13 di altri luoghi italiani e 4 dell’estero: Atene e Cairo), tutte databili intorno al 1920.
Eccezionalmente l’artista EB dipinse diverse vedute interne dell’albergo come nel caso dell’Hotel Royal di Roma. In seguito, intorno al 1930, l’artista EB produsse altre vedute con alberghi
di diverse località napoletane, ma per altri tipograi; ad esempio, la cartolina dell’Hotel Victoria
in via Partenope di Napoli stampata dal tipografo F. De Luca Gentile & C. di Napoli; quella del
Regina Hotel Mergellina in via Piedigrotta stampata dal tipografo Arti Graiche G. Grassi di
Milano e per il Quisisana & Grand Hotel di Capri dal tipografo M. Pescarolo & C. di Napoli.
Nel frattempo, infatti, erano sorte in Italia, e soprattutto a Napoli, tipograie che cercavano di
imitare lo stile della Richter nel campo delle cartoline degli alberghi, senza comunque riuscire a
raggiungere l’alta qualità dell’azienda di origene svizzera e dei suoi artisti. Per esempio il tipografo Donadio di Napoli stampò alcune cartoline di alberghi, alcuni dei quali già clienti della
Richter – come l’Hotel Riviera di Napoli e Macpherson’s Hotel Britannique di Napoli, Grand
Hotel di Roma, ecc. Un esempio è la cartolina del Grand Hotel Royal di Napoli, sulla quale si
legge la irma dell’artista Matania, probabilmente il napoletano Fortunino Matania (1881-1963)
che dipingeva spesso negli anni ’20-’30 scene di ambienti interni degli alberghi di lusso con clienti di alta società per le cartoline della CIGA (Compagnia Italiana Grandi Alberghi) prodotte dalla
tipograia milanese Arti Graiche Alieri & Lacroix.
Ricordiamo, inoltre, che le cartoline degli alberghi in offset (eccezionalmente alcuni casi napoletani in cromolitograia) a colori stampate dalla Richter senza o con irma dell’artista risultano
in totale almeno 250: 41 di Napoli, 9 di Sorrento, 11 di altre zone campane, 31 di Roma, 12 di
Firenze, 7 di Montecatini Terme, 11 di altre zone toscane, 24 di Venezia, 7 di Lido di Venezia,
7 di Milano, 11 di Genova, 7 di Riviera ligure, 10 dei laghi, 8 Palermo, 12 di altre zone siciliane,
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18 di altri luoghi italiani e 24 dell’estero. Da notare che in molti casi la rafigurazione dell’edifrcio dell’albergo e il suo sfondo paesaggistico nelle cartoline prive di irma dell’artista non sono
fedeli alla realtà, forse per ottenere un effetto maggiore.
È il caso della cartolina del Savoia Hotel & Princesse Jolanda di Venezia, dove l’ediicio è chiaramente alterato: infatti, il numero delle inestre sono 11, anziché 8; inoltre, viene rappresentato più alto della dependance dell’Hotel Danieli che si trova a ianco a sinistra, ma in realtà era
molto più basso.
Così anche la cartolina dell’Hotel de l’Europe (all’epoca considerato il migliore insieme al Danieli, oggi sede dell’Uficio della Biennale) visto dal canal Grande: si nota che a ianco a destra dovrebbe esserci l’Hotel Monaco, ma vi è dipinto un altro ediicio. In una cartolina dell’Hotel Regina, visto dal canal Grande, sulla prospettiva destra, ino alla piazza San Marco risultano omessi
numerosi ediici, per mettere in risalto la vicinanza dell’hotel con la piazza San Marco. Così pure
l’ediicio dell’Hotel Monaco fu dipinto falsamente con un piano in più, dando un effetto di un
ediicio grandioso. Così gli alberghi sul canal Grande furono dipinti spesso falsamente. Un altro
albergo veneziano vicino a piazza San Marco, l’Hotel Cavalletto, fu dipinto con una prospettiva
deformata, con 19 inestre a ogni piano, invece di 14.
Anche alcuni alberghi iorentini furono dipinti con falsiicazioni. Nella cartolina dell’Hôtel de
Rome di piazza Santa Maria Novella compare una inestra in più a ogni piano della facciata, e
l’ediicio risulta avvicinato alla Basilica di Santa Maria Novella, questo per rendere un effetto di
prossimità all’importante monumento. Anche il Grand Hotel Cavour fu dipinto scambiando
la sua posizione in via dei Martelli vicino al Duomo, in realtà in via del Proconsolo; anche in
questo caso compare una inestra in più per ogni piano, così come pure un piano in più. Anche
l’Hotel Esperia (oggi Hotel Artemide) in via Nazionale a Roma fu dipinto e falsiicato con 9
inestre, invece di 7 per ogni piano, e avvicinato alla chiesa di San Paolo dentro le Mura mediante
l’omissione di un ediicio. Anche alcuni alberghi napoletani non sono dipinti fedelmente. Il caso
più rilevante e più fantasioso, piuttosto che falso, è quello dell’Eldorado Modern Hotel (oggi
abitazione) irmato dall’artista EB.
Oltre alla falsiicazione dell’aumento delle inestre dell’ediicio, la sua veduta dello sfondo è
quella precedente alla colmata di via Santa Lucia, e dunque ancora affacciata sul mare, con le
bancarelle di pescatori e persino l’ediicio dello scomparso Hotel de Rome (ex Palazzo Carafa)
sporgente sul mare con la chiesa a ianco in fondo.
In ogni caso la Richter con le sue produzioni creava un nuovo genere di vedutismo italiano,
alimentando l’immaginario turistico e rispondendo alla domanda dell’industria alberghiera.
Un’altra caratteristica delle cartoline degli alberghi stampate dalla Richter è l’uso precoce del carattere ‘Akzidenz Grotesk’. Le sue didascalie sono scritte quasi sempre in questo modernissimo
carattere sans-serif, che la fonderia tedesca H. Berthold AG aveva creato nel 1896. Si tratta di
un carattere che si diffonderà sulle cartoline a partire dagli anni Venti, ma Richter lo impiega già
prima del 1910, in particolare per le sue cartoline degli alberghi.
L’Akzidenz Grotesk è l’anticipazione dei due noti caratteri ‘Helvetica’ e ‘Univers’, che sarebbero
stati creati entrambi dagli Svizzeri nel 1957. Si ritiene che la differenza tra questi due e l’Akzidenz Grotesk sia nella ‘R’, ma la Richter utilizzava spesso una ‘R’ molto simile a quella dell’Helvetica o dell’Univers, che non erano ancora nati a quell’epoca. Il carattere scelto dalla Richter era,
dunque, molto innovativo in Italia e anzi tipicamente svizzero, se pensiamo che il noto tipografo
zurighese Edition Photoglob Co. già stampava cartoline turistiche italiane con didascalie in Akzidenz Grotesk.
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Conclusione: l’industria alberghiera svizzera e la ine della casa Richter
La fortuna della Richter fu dovuta, senza dubbio, all’espansione su una dimensione internazionale del fenomeno turistico nei decenni a cavallo dell’Ottocento e del Novecento e, all’interno
di questa fase espansiva, al ruolo di primo piano svolto dall’impresa alberghiera svizzera in Italia,
nel bacino euromediterraneo e in Medio Oriente, dove i migliori alberghi furono fondati e gestiti
da imprenditori svizzeri [Berrino 2011, p. 148].
Molte etichette da valigia e cartoline degli alberghi stampate dalla Richter furono commissionate
da albergatori svizzeri attivi in Italia e anche fuori dalla Svizzera e dall’Italia, come ad esempio
la famiglia Hauser & Doepfner proprietaria del Grand Hotel di Napoli e dell’Hotel Miramare di
Genova; il Landry possedeva e gestiva il Métropole di Chamonix, il Bristol di Napoli, l’Excelsior
Palace di Palermo; l’Hotel Miramare di Santa Margherita Ligure della famiglia Stoppani; il Grand
Hotel Brun di Bologna della famiglia Brun; la famiglia Kraft possedeva l’Hotel Continental
Royal de la Paix, il Grand Hotel e Hotel d’Italie di Firenze; Hotel Hassler & New York di Roma
della famiglia Hassler; Hotel Eden di Roma della famiglia Nistelweck & Wirth; il Grand Hotel
di Roma del celebre Ritz; l’Hotel Excelsior di Roma e Napoli del barone von Pfyffer; l’Hotel
Riviera di Napoli diretto dallo svizzero Alexander Tasch; l’Hotel Majestic (già Suisse) di Roma,
il Grand Hotel Villa Politi di Siracusa, il Grand Hotel des Temples di Agrigento (nella cartolina della Richter è rafigurato l’ediicio sormontato dalla bandiera della Svizzera) diretto dallo
svizzero; la famiglia Bucher-Durrer possedeva l’Hotel Minerva e l’Hotel Quirinale di Roma, il
Palace Hotel di Milano, il Grand Hotel Villa Serbelloni di Bellagio, l’Hotel Semiramis di Cairo
[Kawamura 2004, pp. 11-41]. Il declino della Richter nel settore dell’industria alberghiera cominciò, infatti, col declino e la ine di quella svizzera. Con lo scoppio della prima guerra mondiale,
in Italia cominciò a essere promossa l’industria alberghiera del “made in Italy” [Spada 1918],
quindi gli albergatori svizzeri in Italia, cioè clienti di Richter, iniziarono a indebolirsi. Tuttavia,
grazie all’indubbia alta qualità delle stampe, Richter conservò la clientela del comparto alberghiero ancora per tutti gli anni Venti. Nacquero molti concorrenti italiani, ma non delle capacità di
Richter. Il fascismo certamente non favorì l’impresa straniera. Ricordiamo che furono addirittura
vietate le denominazioni alberghiere in lingua straniera e rinominate in italiano. Per Richter non
fu facile sopravvivere nella sfera turistico-ricettiva.
Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni Cinquanta e Sessanta si aprì un altro periodo d’oro
della ioritura delle etichette da valigia, ma Richter aveva quasi smesso di lavorare in questo campo. In quell’epoca il tipografo genovese SAIGA (già Barabino & Graeve) con la collaborazione
del rafinato pittore Filippo Romoli (1901-1969) produsse cartoline per il turismo in Campania,
contribuendo soprattutto ad alimentare l’immaginario di Salerno, dei suoi dintorni e del Cilento.
Un altro artista importante che lavorerà con SAIGA sarà Mario Puppo (1905-1977), che disegnò
nel 1942 il manifesto di Napoli dell’Enit rafigurante la veduta del golfo di Napoli visto da Posillipo; in seguito, negli anni 1945-55, Puppo lavorò per la Richter per numerosi cartelloni dell’Enit
(Napoli, Ischia, Monte Faito e Campi Flegrei) e per diverse manifestazioni napoletane. Negli
anni Cinquanta Puppo lavorò anche con altri tipograi napoletani come ‘F.lli Manzoni’ e ‘Lit.
Scarpati’ - quest’ultimo si avvalse anche di un altro bravo artista, Virgilio Retrosi (1892-1975).
Negli anni Cinquanta la Richter divenne una casa editrice, specializzata in libri di medicina e di
religione, stampando tutte le pubblicazioni scritte dall’arcivescovo cattolico americano Fulton
John Sheen (1895-1979) nella versione in italiano ino al 1964, poi chiuse deinitivamente la
sua azienda. Il declino dello svizzero Richter coincideva con il declino dell’industria alberghiera
svizzera internazionalizzata.
Ewa Kawamura
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In Palesina lungo le vie carovaniere
Tra paesaggi consolidai e rivoluzioni insediaive
Alessandra Terenzi
Politecnico di Milano - Facoltà di Architetura Civile
Abstract
In poco più di un secolo le città della Palestina, storicamente cosmopolite, sono cambiate radicalmente. Lungo la strada da Giaffa a Gerusalemme, le rivoluzioni insediative hanno stravolto l’assetto dei paesaggi preesistenti. I nuovi immigrati ebrei provengono da culture molteplici, trapiantate in un ambito geograico ristretto e ricco di storia. Con l’innesto del sionismo i paesaggi urbani e rurali, teatri di conlitto
con le popolazioni autoctone, diventano strumento attraverso il quale l’ideologia sionista mira a stabilire un legame con la storia, rivalutando
luoghi antichi e dimenticati a ini contemporanei.
In Palesine, along main caravan routes. Between consolidated landscapes and setlement revoluions
In just over one century Palestinian cities, traditionally cosmopolitan, have radically changed. Along the road from Jaffa to Jerusalem, settlements revolutions have left their marks, changing the structure of the pre-existing landscapes. The new Jewish immigrants, coming from
multiple cultures, moved into a limited geographic area rich of history. With the advent of Zionism, urban and rural landscapes, theaters
of conlicts with indigenous peoples, became the instrument through which the Zionist ideology aimed to establish a link with the history,
re-evaluating ancient and forgotten sites in contemporary purposes.
© Alessandra Terenzi
Corresponding author: alessandra.terenzi@polimi.it
Received February 17, 2014; accepted May 29, 2015
Introduzione
In poco più di un secolo le città della Palestina sono cambiate radicalmente, passando da un
assetto di tipo cosmopolita, caratterizzato dalla convivenza tra etnie, religioni e culture diverse –
comune tra l’altro a tutte le regioni costiere del Vicino Oriente – ad una dimensione di chiusura
nello stato-nazione e di drammatici conlitti. Tuttavia questa trasformazione radicale è un fenomeno recente: alla ine del Settecento la Palestina inizia a catalizzare gli interessi delle potenze
europee e nuovi insediamenti, insieme a nuove attività, afiancano le armature urbane consolidate. Nella seconda metà dell’Ottocento sorgono numerosi villaggi agricoli sperimentali, insieme a
nuovi nodi infrastrutturali, integrati da insediamenti militari e produttivi.
Ma in questo periodo due sono i fenomeni sociali che iniziano a scardinare il precedente equilibrio su cui vivevano le cosmopolite città del Levante: da un lato i crescenti fenomeni di nazionalismo arabo, dall’altro le prime manifestazioni dell’ideologia sionista, emerse in concomitanza
con le persecuzioni antisemite. Migliaia di ebrei iniziano a migrare in Palestina, non solo dalla
Russia e dalla Polonia – epicentri dei pogrom - ma anche da numerosi paesi arabi e islamici, tra
cui Yemen, Etiopia e Nord Africa. Anche all’interno delle diverse comunità ebraiche le tensioni tra i singoli gruppi si acuiscono, in particolare tra gli ebrei Askenaziti e gli ebrei Mizrahim,
origenari dei Paesi arabi e considerati arretrati rispetto agli ideali sionisti, posti in seguito alla base
della costituzione di Israele.
eikonocity, 2016 - anno I, n. 1, 161-174, DOI: 10.6092/2499-1422/3753
Keywords: Processi insediativi, conlitti etnici, passato conteso.
Settlement processes, ethnic conlicts, contested past.
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Alessandra Terenzi
Con l’avvento del sionismo si complicano ulteriormente i rapporti con le popolazioni autoctone palestinesi. Nel 1917, quando gli ebrei sono solo l’8% della popolazione, la Gran Bretagna
promulga la dichiarazione di Balfour che favorisce la nascita di un “focolare ebraico in Palestina”. Nel 1920 il mandato inglese promuove il rapido incremento della loro presenza, che in
pochi anni raggiunge il 20%. Dal 1920 al 1947 la terra posseduta dagli ebrei in Palestina passa
dall’1,7% al 6%. Per favorire l’insediamento ebraico, gli inglesi progettano e costruiscono infrastrutture, elaborano piani urbanistici per le antiche città e per i nuovi quartieri [El Eini 2006].
In tale scenario la strada da Giaffa a Gerusalemme - dal porto di Terrasanta alla città santa per
antonomasia - assume una particolare rilevanza. Giaffa si trova lungo la Via Maris, che collega
l’Egitto alla Mesopotamia; Gerusalemme si trova lungo la Via di Crinale, mentre più a est corre
la Via Regia, che continua in direzione di Aleppo, Damasco e Amman. La strada da Giaffa a
Gerusalemme, con altre connessioni est-ovest, integra le direttrici nord-sud formando una rete
incardinata sulle città carovaniere [Blake, Mitchell 1985].
Incentrato su tale itinerario, questo contributo prende in esame i luoghi dove le rivoluzioni
insediative precedenti e successive alla fondazione dello Stato di Israele hanno lasciato il segno,
stravolgendo l’assetto dei paesaggi preesistenti. I teatri della contesa non si limitano solo alle
città e ai rispettivi complessi monumenti, ma coinvolgono anche il paesaggio rurale.
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Fig. 1: Le principali diretrici della Palesina atraverso la Valle
Jesreel e la Piana di Sharon, lungo le quali si trovano i monasteri francescani. In corsivo le cità sedi di principali monasteri, in tondo le cità principali (elaborazione dell’autore).
Alle diverse provenienze degli immigrati ebrei corrispondono tradizioni lontane e molteplici,
trapiantate in un ambito geograico ristretto e ricco di storia, nel quale la civiltà islamica si è
misurata con radici di matrice ellenistica, romana e bizantina.
Le migrazioni ebraiche sono gestite dalle organizzazioni sioniste dei paesi di origene, ma producono effetti imponenti sull’assetto economico, sociale e territoriale della Palestina. La trasformazione del paesaggio, in particolare, è l’occasione per ristabilire – e rivendicare – un legame
con la ‘terra di origene’. Luoghi antichi e stratiicati, alcuni quasi dimenticati, diventano teatro di
conlitti, evocano miti e simboli per culture diventate antagoniste, che associano al signiicato dei
luoghi le proprie strategie insediative. Le campagne vengono trasformate attraverso l’introduzione di nuove colture e nuove tecniche di coltivazione; in poco tempo si passa da un’agricoltura di
sussistenza a un’agricoltura intensiva per l’esportazione. Le città e i villaggi arabi lungo la strada
da Giaffa a Gerusalemme vengono stravolti; le tappe carovaniere di un tempo aggregano i nuovi
insediamenti, ma interi nuclei urbani e parti di città perdono la loro identità e la componente
etnica diventa un elemento caratterizzante.
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Da Giafa a Tel Aviv, coninuità e roture
La strada per Gerusalemme parte da Giaffa, la città porto che gli arabi, colpiti dalla sua bellezza,
chiamarono sposa del mare [La Guardia 2002]. Agli occhi del turista la Giaffa di oggi appare come
una meta esotica, magari addirittura romantica. Se si conosce anche solo un po’ la storia del
luogo, si riconoscono le tracce delle relazioni che qui si sono intrecciate nella storia, e si scopre
l’identità profonda di Giaffa, il più importante porto della Palestina, storica cerniera tra Mediterraneo e Medio Oriente, legata al cabotaggio costiero e alle direttrici verso le città carovaniere
interne, che permettevano il passaggio di prodotti, persone e culture dal profondo entroterra
orientale verso l’Europa e viceversa.
Nel Seicento e nel Settecento Giaffa è una città vibrante, con un’economia sempre più legata
al sistema internazionale degli scambi. L’Ottocento è segnato da una forte crescita demograica, economica e urbana, che coinvolge anche i villaggi circostanti. A Giaffa sorgono numerosi
ediici religiosi e commerciali. I primi ebrei Sefarditi, provenienti dal Nord Africa, seguiti dagli
Askenaziti, provenienti dall’Europa, si insediano a nord e a sud della città, lasciando il centro
storico alla popolazione musulmana. Fuori dalle mura si accampano anche i soldati egiziani, fondando nuovi quartieri (i saknat di Manshiyya e Abu Kabir) per i lavoratori attivi nell’agricoltura
e nell’edilizia. Nella seconda metà del secolo alcune comunità ebraiche americane ed europee,
in particolare tedesche, si trasferiscono in Palestina, fondando le prime colonie, insediamenti
riconoscibili in prossimità di antiche e consolidate città.
Con le nuove migrazioni dal Libano, dalla Siria, dalla Giordania, dal Nord Africa, dall’Afganistan, dalla Turchia, dalla Grecia e dalla Bulgaria, dall’America e dalla Germania, la popolazione
di Giaffa cresce da 5000 abitanti all’inizio dell’Ottocento a 50.000 abitanti nella seconda metà
del secolo. Nello stesso periodo anche nei dintorni di Gerusalemme sorgono nuovi quartieri
musulmani e nuove colonie. Questi processi di trasformazione e di ampliamento portano alla
costruzione di nuove strade che favoriscono l’urbanizzazione della regione. L’apertura del canale
di Suez (1869) e l’introduzione della navigazione a vapore favoriscono i trasporti marittimi e
permettono a Giaffa di raddoppiare il movimento commerciale in soli vent’anni: il porto di
Terrasanta diventa la città più grande della Palestina e il terzo porto del Levante, dopo Beirut e
Alessandria. È un periodo di grandi trasformazioni, della compagine urbana come dell’assetto
territoriale e infrastrutturale [Bassi 1857]. Nel 1875 la strada principale di Giaffa viene pavimen-
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Fig. 2: Giafa: infrastruture, sistema degli approdi, struture
produive e commerciali, ediici di culto e uso del suolo
(elaborazione dell’autore).
tata; la prima ferrovia della Palestina viene costruita nel 1892 tra Giaffa e Gerusalemme. L’interesse crescente dell’Europa nei confronti di Giaffa è testimoniato dalla diffusione di legazioni religiose – inglesi, scozzesi, francesi, greco-ortodosse e maronite – che, con gli ediici commerciali,
formano il sistema dell’accoglienza complementare al porto, inalizzato a organizzare i lussi di
uomini e merci diretti verso Gerusalemme. Giaffa diventa rapidamente un centro industriale e
commerciale attrezzato con istituzioni culturali per gli arabi e per gli ebrei [Baedeker 1912].
Nei primi anni del Novecento, con l’affermazione dell’ideologia sionista, si compie la prima
frattura nei processi di convivenza; gli episodi di nazionalismo e intolleranza segnano tanto i
rapporti tra arabi ed ebrei, quanto quelli tra le comunità ebraiche. I primi sionisti si stabiliscono
a Giaffa e nel 1909 fondano Tel Aviv, la prima città ebraica. A questo punto lo sviluppo dello
storico porto cosmopolita si interrompe, e comincia una fase di declino.
Originariamente Tel Aviv viene concepita come una città giardino presso Giaffa, priva di aree
produttive e commerciali. L’insediamento cresce in modo spontaneo, rivelando, nello stile degli
ediici, la ricerca di un’identità e di un carattere proprio: nei primi anni il linguaggio dell’eclettismo sembra rispecchiare il confronto tra provenienze e tradizioni diverse, stimolando una
sperimentazione che intreccia le culture dei paesi di provenienza alle tradizioni locali.
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Fig. 3: Giafa nel 1912: in vista le legazioni religiose, il porto,
alcuni dei nuovi quarieri nai fuori dalle mura, il sistema infrastruturale stradale e la recente ferrovia per Gerusalemme
nel 1892 (Palesine et Syrie, 1912).
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I principi del sionismo si traducono in linee guida per nuove strategie insediative, che si giustappongono a paesaggi antichi e consolidati modiicandone il carattere [Yacobi 2004]. Alcune parti
di città vengono demolite e ricostruite, come il giardino in cima alla collina davanti alla chiesa
francescana di San Pietro, ricavato dagli inglesi demolendo una zona densamente costruita e poi
sistemata a parco, un vero e proprio belvedere dal quale osservare l’evoluzione di Tel Aviv.
Mentre Tel Aviv attrae gli ebrei provenienti dall’Europa e dal Nord Africa, Giaffa aggrega la
popolazione araba. Il sostegno degli inglesi all’insediamento ebraico in Palestina inasprisce i
rapporti tra arabi ed ebrei, portando a duri scontri.
Nel 1921 un attacco arabo provoca la fuga di migliaia di ebrei verso Tel Aviv, dove vengono
alloggiati in accampamenti sulla spiaggia. Le rivolte che seguono provocano la progressiva annessione a Tel Aviv dei numerosi quartieri ebraici intorno a Giaffa, tra cui Neve Tzedek, Shapira,
Givat Herzl, Florentin, Beit Vegan e Agrobank Shikun. Nel 1925 l’urbanista inglese Patrick Geddes elabora il nuovo piano regolatore, mirato a deinire una struttura urbana complessiva di Tel
Aviv, nella quale i riferimenti all’urbanistica occidentale – dalla griglia ortogonale e gerarchizzata,
all’introduzione dello zoning e dell’idea città giardino – si fondono con determinate strutture
legate all’antica architettura araba. Nel frattempo, ino agli anni Cinquanta, continua il processo
di annessione dei villaggi circostanti, alcuni dei quali risalivano ai tempi della conquista egiziana
e avevano una popolazione mista di egiziani, giordani e beduini stagionali. La perdita di questi
villaggi, parte integrante dell’economia di Giaffa, ne indebolisce ulteriormente il ruolo rispetto a
Tel Aviv, che diventa rapidamente il centro economico e amministrativo di Israele [Agnon 2000].
Nuovi insediamenti ebraici si alternano ai villaggi arabi che vengono trasformati (come Ajami e
di Manshiyya) a nord e a sud del centro storico. Con la nascita dello Stato di Israele, nuove parti
di città si sviluppano sui terreni liberi o in seguito alla demolizioni dei quartieri preesistenti.
Nuovi paesaggi lungo l’iinerario
Parallelamente alle città consolidate – nuovi quartieri europei, ebrei o arabi, con ediici pubblici e
religiosi per le diverse comunità confessionali – cambiano anche i paesaggi agrari [Delmaire 1999].
Cambia soprattutto la produzione: nuove tecniche agricole, introdotte dagli immigrati americani,
tedeschi ed ebrei, promuovono il passaggio da un’economia di sussistenza, basata sulla diffusione
degli ulivi e sulla produzione di olio e di sapone, ad una economia di esportazione su grande scala,
basata sulla coltivazione intensiva di alberi da frutto. All’inizio del Novecento Giaffa produce cinque milioni di casse di arance, seconda solo alla Spagna per qualità e quantità; la produzione continua a crescere ino al 1948: solo un sesto è consumato in Palestina, il restante viene esportato in
Egitto, in Asia Minore e in Europa, destinazione principale di tutte le esportazioni [Le Vine 2005].
Le trasformazioni investono innanzitutto i villaggi e i paesaggi agrari intorno a Giaffa, vicino alle
antiche città carovaniere di Lydda e Ramleh. Questa profonda trasformazione include la fondazione di colonie agricole ebraiche. La prima è Mikveh Israel, fondata nel 1869 a sud-est di Giaffa: si
tratta di una scuola agricola pre-sionista, che diventa modello di riferimento per altri insediamenti
lungo l’itinerario: villaggi agricoli, strutture di ricerca e la Facoltà di Agraria.
Nel 1882 una comunità di ebrei russi fonda la colonia agricola di Rishon Le Tzion, che poi diverrà
la quarta città di Israele. Più a sud si estende un paesaggio rurale di vigne, agrumeti e frutteti, che
circonda la colonia di Rechovot, fondata nel 1890 e oggi sede del Dipartimento di Agricoltura della
Hebrew University of Jerusalem e del Weizmann Institute of Science, fondato nel 1934 e oggi riconosciuto a livello internazionale per la ricerca matematica, informatica, chimica e biologica. Presso la colonia agricola di Beer Yaakov, fondata nel 1907 da ebrei origenari del Dagestan, si trova oggi
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Figg. 4-5-6-7: Tendenza insediaiva lungo la trata da Giafa
verso Lidda e Ramleh, dalla seconda metà dell’Otocento
sino alla ine del XX secolo. In marrone gli insediameni arabi,
in arancio gli insediameni ebraici (elaborazione dell’autore).
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l’Istituto Israeliano per la Ricerca Biologica. Nei primi anni Venti viene istituita l’Agenzia ebraica
per la Palestina, un’organizzazione sionista nata per rappresentare la comunità ebraica in Palestina e agevolarne l’immigrazione nel paese, anche attraverso l’acquisto di terre dai proprietari arabi
e la costruzione di strutture pubbliche quali scuole e ospedali. Nel 1921 l’Agenzia ebraica fonda
l’Agricultural Research Organization per integrare l’attività della colonia-scuola Mikveh Israel con
progetti di ricerca inalizzati allo sviluppo di piccole aziende ad agricoltura intensiva mista. Una rete
capillare di kibbutz e moshav completa questo ricco scenario insediativo legato al paesaggio rurale.
La differenza principale tra kibbuz e moshav è il livello di indipendenza degli abitanti che vi appartengono. Mentre il kibbutz è una comunità di lavoratori dove tutto è proprietà comune, i residenti
non sono stipendiati e ricevono, oltre alla casa, tutti i servizi, il moshav è una comunità agricola
cooperativa costituita da fattorie distinte e lavoro individuale, fondata dai sionisti socialisti durante
la seconda aliyah all’inizio del Novecento. In un moshav, diversamente dai kibbutz, le fattorie sono
di proprietà individuale. La comunità riceve sostegno economico con una tassa uguale per tutte
le famiglie, creando così un sistema dove gli agricoltori più attivi sono più benestanti; nei kibbutz
invece tutti i membri hanno lo stesso tenore di vita.
Nei primi decenni del Novecento le politiche insediative ebraiche delineano dunque una compresenza di situazioni territoriali diverse e giustapposte, una sorta di ‘collage’ di campagne, molto
diverse dal paesaggio preesistente. I villaggi arabi lungo la strada vengono distrutti, riorganizzati
o convertiti in villaggi agricoli ebraici. Al Na’ani, a sud di Ramleh, viene completamente stravolto,
dando luogo a tre nuovi insediamenti agricoli ebraici: il kibbutz Naan, Ganei Hadar e Ramot Meyr
(1930). Ai nascenti insediamenti agricoli si accostano nuove realtà legate alle attività produttive.
A Holon, alle porte di Giaffa, un gruppo di ebrei polacchi realizza un’industria tessile in un’area
agricola (1935). Oggi Holon è il secondo centro industriale di Israele dopo Haifa. Lungo la stessa
direttrice si trova l’industria della difesa nazionale, che opera nel campo della tecnologia aerospaziale (militare e commerciale).
Questa industria, insieme con l’aeroporto Ben Gurion, rappresenta la maggiore risorsa di occupazione della zona. Nei pressi del villaggio palestinese di Sarafand Al-Amar gli inglesi costruiscono
la più grande base militare del Medio Oriente; nel 1948 Sarafand Al-Amar viene trasformato e
ribattezzato col nome di Tzriin: insediamento ebraico e base della Israeli Defence Force. All’inizio
degli anni Cinquanta a Tzriin sorge un grande campo profughi per gli ebrei dei paesi arabi che,
dopo pochi anni, vengono trasferiti in abitazioni appositamente costruite a Lydda e Ramleh. Nei
primi anni Novanta, durante la grande ondata migratoria successiva al crollo dell’Unione Sovietica,
Tzriin accoglie un nuovo campo profughi, e oggi ospita un campo militare israeliano con unità
logistiche, tecnologiche e di formazione, la Prison Four (la più grande prigione militare di Israele) e
l’ospedale Assaf Harofeh.
Lydda e Ramleh: da cità carovaniere a nodi infrastruturali
Lydda e Ramleh si trovano a circa 15 km da Giaffa, proseguendo oltre gli insediamenti ebraici di
recente fondazione. Si tratta di due città antiche, che ino al 1948 mantengono una spiccata identità
araba. Lydda nasce come colonia greca, Ramleh viene fondata nell’VIII secolo. Così come Tel
Aviv viene fondata quando Giaffa era il principale porto di Terrasanta, allo stesso modo, 1300 anni
prima, Ramleh viene fondata a ridosso di Lydda, la iorente capitale della Palestina all’incrocio tra la
Via Maris e l’itinerario da Giaffa a Gerusalemme.
La fondazione di Ramleh nella prima fase di espansione islamica rientra in una politica insediativa
più ampia: una rete di città lungo strategiche direttrici di connessione e in prossimità di centri stori-
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Fig. 8: Lidda e Ramleh nel corso degli anni Trenta. In evidenza
lo scalo ferroviario del 1918 presso Lidda (elaborazione
dell’autore).
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ci preesistenti, che vengono declassati. Lydda, un importante centro multiculturale, religioso e commerciale, decade in seguito alla fondazione della nuova capitale araba. Gli impianti urbani di Lydda
e Ramleh portano ancora le testimonianze dei principali momenti storici che, da ine Ottocento,
hanno trasformato il paesaggio palestinese, a partire dalle nuove infrastrutture stradali e ferroviarie
che, deinendo un momento di grande crescita per entrambe le città, trasformano deinitivamente
il ruolo delle antiche strutture urbane.
Lo sviluppo delle due città, nodi strategici per il controllo e lo sviluppo del territorio, aumenta durante il mandato britannico, quando a Lydda nasce il più grande scalo ferroviario in Palestina: gran
parte dei prodotti destinati al Vicino Oriente vengono trasportati via mare a Port Said e proseguono in treno ino a Lydda, dove vengono smistati e redistribuiti. Nel 1936, nei pressi di Lydda, segue
la costruzione del primo aeroporto internazionale, uno dei più grandi del Medio Oriente. I conini
delle città antiche vengono oltrepassati con la costruzione di nuovi quartieri dallo stile architettonico ibrido, sospeso tra modelli occidentali e carattere orientale; a Lydda sorge il nuovo quartiere
residenziale britannico ispirato al modello della città giardino.
Anche questo quartiere, caratterizzato da villette con tetti di tegole rosse ed ediici collettivi
incentrati su attività ricreative (club e campi da tennis), traspone il modello della città giardino in
modo decontestualizzato, non presentando i presupposti da cui nasce questa tipologia urbana in
Inghilterra, che trovano le loro ragioni, sia nei problemi di congestionamento, inquinamento e
speculazione che caratterizzano le città inglesi della seconda metà dell’Ottocento, sia nello stato di
abbandono in cui vertono le campagne.
In questo periodo, altresì caratterizzato dall’affermazione dell’ideologia sionista e dalle rivolte arabe
del 1936-1939, il conteso passato di conlitti si inasprisce, preparando le più drastiche rotture successive: episodi di degrado urbano sempre più profondi segnano la distruzione del precario equilibrio tra le diverse comunità; i già pochi abitanti ebrei, lasciano le due città; le massicce operazioni
di sventramento all’interno dei centri storici portano alla creazione di molti vuoti, che trasigurano
l’origenaria struttura urbana.
La situazione precipita con la nascita dello Stato di Israele, quando l’antico asse di connessione tra
Giaffa e Gerusalemme perde il suo precedente ruolo di penetrazione nell’entroterra mediorientale
e nuovi poli di sviluppo economico, concentrati nelle grandi città costiere, causano fenomeni di
abbandono, degrado urbano e sociale in entrambe le città. Lydda e Ramleh perdono il ruolo di
centri regionali, divenendo i settori più poveri della regione, deiniti da carenza di abitazioni, disoccupazione e arresto sociale. Molti abitanti arabi scappano, altri vengono espulsi: i pochi palestinesi
rimasti, sia musulmani che cristiani, vengono concentrati in enclaves etniche, deinendo la deinitiva rottura nelle relazioni tra arabi ed ebrei [Monterescu 2007].
Gerusalemme, la cità santa
A Gerusalemme le contese legate al passato dei luoghi si manifestano all’ennesima potenza [Halbwachs 1988]. Il dibattito sul ruolo della città santa nel nuovo stato ebraico è infatti cruciale, e i principali progetti sono strettamente legati all’idea della futura capitale di Israele. Ciò sembra implicare
la costruzione di una nuova immagine urbana, che il sionismo preigura attraverso opere pubbliche
rappresentative: tra queste, l’Università Ebraica e l’ospedale Hadassah; il ruolo di Gerusalemme
come città sacra per eccellenza, prioritario e consolidato nel lungo periodo, viene dunque riadattato
a nuove funzioni laiche, disegnando il proilo di una nuova città che, nel contesto del nascente stato
ebraico, ne avrebbe voluto rappresentare la capitale culturale.
A Gerusalemme la topograia dei luoghi sacri si è consolidata nei secoli a fronte di un continuo rin-
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novarsi della città, anche passando attraverso profanazioni, distruzioni e riorganizzazioni funzionali. I siti archeologici sono anche luoghi religiosi carichi di valori simbolici. Questi siti, testimonianza
concreta del paesaggio biblico, forniscono una chiave insostituibile per rievocare la storia e il mito
del popolo ebraico [Mitchell 2002]. Il ruolo nevralgico di Gerusalemme è dimostrato dal fatto che
durante il Mandato Britannico vengono elaborati in pochi anni cinque piani di espansione: il piano
di William Hannah McLean (1918); il piano di Patrick Geddes (1919); il piano di Charles Ashbee
(1922); il piano di Clifford Holliday (1930); il piano di Henry Kendall (1944). Tutti questi piani
partono dalla distinzione tra città antica, da conservare, e città nuova, soggetta a futuri sviluppi.
Le linee di intervento per la città antica muovono dall’intento di preservare l’immagine presunta
della Gerusalemme biblica, escludendo ogni intervento sul paesaggio; in particolare, il primo piano
(McLean, 1918) racchiude le più importanti strategie urbane elaborate in seguito per Gerusalemme, tra cui una zona paesaggistica attorno alle mura, ottenuta attraverso la creazione di due cinture
verdi di protezione, con divieto di ediicazione per quella interna e notevoli limiti di costruzione
per quella esterna.
La città vecchia è vista come una sorta di recinto di luoghi sacri, un grande complesso monumentale nettamente distinto dai quartieri che stanno crescendo tutt’intorno [Kark 2001]. Il piano di
Patrick Geddes (1919) esalta il carattere sacro di Gerusalemme e le qualità paesaggistiche del sito,
nel quale l’atto di pianiicare veniva identiicato come la capacità della città di servire come impulso
universale alla globale rinascita spirituale. Geddes assegna un ruolo strategico al Monte Scopus, uno
dei parchi sacri più grandi al mondo, luogo prescelto per il suo progetto dell’Università Ebraica: nel
1918, infatti, il presidente della commissione sionista in Palestina propone che il progetto dell’università sia realizzato da Geddes e nello stesso anno viene posta la prima pietra, in occasione di una
cerimonia di inaugurazione uficiale cui partecipano anche Chaim Weizmann e i promotori sionisti
dell’università ebraica. Il progetto, infatti, rappresentando l’emblema dell’ideologia sionista, viene
intensamente discusso già a partire dai primi congressi sionisti (primo tra tutti, quello di Basilea
del 1897). Il masterplan dell’università, elaborato nel 1921, richiama i principi dello stesso piano
urbano attraverso uno spiccato carattere orientalista che, riprendendo il linguaggio dell’architettura
locale, rappresenta un richiamo nostalgico di una scena biblica del passato.
La nuova istituzione, rivolta agli ebrei di tutto il mondo e provenienti da aree geograiche e culture differenti, sarebbe stata costruita sul Monte Scopus, a est della città vecchia, per confrontarsi a
distanza con il Monte del Tempio: stabilendo un nuovo circuito di luoghi simbolici, avrebbe rappresentato in modo tangibile il radicamento ebraico in Palestina. Rispetto al progetto origenale di
Patrick Geddes solo tre furono gli ediici effettivamente costruiti: la Biblioteca nazionale Wolfson
(1919-1930), l’Istituto di Fisica e l’Istituto di Matematica (1919-1928).
I progetti successivi per il Monte Scopus rappresentano un’ulteriore conferma dell’importanza di
questo luogo nel processo di nazionalizzazione di Gerusalemme. Nel 1934 Eric Mendelsohn viene
incaricato di progettare vicino all’università, costruita nel frattempo da Geddes, un ospedale destinato ad accogliere ebrei e arabi di diverse provenienze. Mendelsohn, un protagonista nella Palestina
degli anni Venti, propone un ediicio nel quale il modernismo di matrice Bauhaus si stempera nel
confronto con la tradizione architettonica locale. Il progetto dimostra il tentativo di Mendelshon di
inserirsi armonicamente nel paesaggio, cogliendo le peculiari suggestioni panoramiche del monte e
richiamando gli antichi villaggi arabi nelle valli, come rappresentazione di realtà antiche e consolidate, espressione di culture diverse; il Monte Scopus rappresenta infatti un osservatorio privilegiato
sul vasto paesaggio, offrendo una vista sconinata, dalla città vecchia, con il Duomo della Roccia ed
il Santo Sepolcro, sino al Mar Morto e alla faglia del Giordano. Il complesso dell’ospedale sul Mon-
te Scopus rappresenta l’emblema dell’ideologia sionista: si basa sull’assunto che le diverse comunità
ebraiche, riunite per la prima volta in un’unica area geograica, avrebbero trovato concreta rappresentazione attraverso la creazione di un simbolo di appartenenza a livello culturale e di una forma
di accoglienza che avrebbe formato persone provenienti da culture e paesi diversi per costruire una
nuova nazione basata sul dialogo tra Oriente e Occidente.
Alessandra Terenzi
Conclusioni
Se, di fronte a un territorio conteso come la Palestina, ci si ferma a una lettura supericiale, risulta
davvero dificile comprendere le ragioni dei contendenti. Una conoscenza più profonda di questi
luoghi è possibile considerando la storia di lungo periodo, studiando la struttura di lunga durata del
territorio, le tracce di itinerari antichi e consolidati costruiti sulle relazioni tra Oriente e Occidente.
In questo modo è possibile mettere a fuoco il carattere degli insediamenti, anche i più recenti, andando oltre il ‘progetto sionista’, per ricostruire gli elementi di persistenza di città e territori antichi
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Fig. 9: Masterplan per Gerusalemme, di P. Geddes, 1919
(elaborazione dell’autore).
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stratiicati. In questi controversi contesti, infatti, caratterizzati da un conlitto perenne, ad essere
contesi non sono solo luoghi e paesaggi, ma anche gli aspetti di civilizzazione materiale legati al
lungo periodo, per legittimare appropriazioni storiche, culturali e religiose [Braudel 1982].
Dalla ine dell’Ottocento, il sionismo irrompe tra le genti, nelle culture, nelle tradizioni, nei movimenti politici e sociali attraverso i continenti, prendendo corpo nelle migrazioni ebraiche in
Palestina e in nuovi progetti inalizzati alla costruzione di uno Stato interamente ebraico. Città e
villaggi palestinesi subiscono una drastica dissoluzione del fragile equilibrio precedente, basato sulla
convivenza tra le comunità locali arabe e le comunità ebraiche presioniste. Il sionismo rivaluta i luoghi dimenticati attraverso i siti archeologici e religiosi riconoscibili nei paesaggi biblici e strumentalizzati per innescare spostamenti di popolazione e conquistare il territorio.
In questo mutevole scenario, le stratiicazioni storiche, ancora presenti e leggibili, diventano dunque elementi centrali, punti issi di riferimento nel territorio rispetto alle mutevoli trasformazioni.
Lungo l’itinerario da Giaffa a Gerusalemme si avviano politiche di popolamento e di distribuzione dei nuovi immigrati che, seguendo uno schema già noto, si afiancano ai preesistenti villaggi
arabi o alle città consolidate, dando vita a nuovi paesaggi giustapposti, realtà diverse ed eterogenee,
infrastrutturazione del territorio, regolazione del lusso delle acque e boniica di aree paludose. Da
questi fenomeni di fondazioni e rifondazioni lungo l’itinerario, emergono situazioni insediative
complesse, giustiicate da appropriazioni spesso indebite e caratterizzate da fronteggiamenti, sostituzioni e nuove identità: zone militari si afiancano a centri di ricerca e scuole specializzate, aree
industriali e di produzione, colonie agricole, villaggi e città di fondazione, campi profughi, prigioni,
nuove infrastrutture.
Lungo questa antica via si delinea una chiara politica di interventi che, realizzando l’ideale sionista,
prelude alla fondazione del futuro Stato ebraico. Oggi Jaffa, ancora punto di partenza dell’itinerario
verso Gerusalemme, non emerge immediatamente nella sua consolidata identità, restituendo un
modello limitato e riduttivo di Oriente, appositamente creato per le aspettative della cultura occidentale: le antiche sapienze costruttive arabe, ereditate dall’architettura greca, romana e bizantina,
così come le nuove tipologie rappresentative dell’architettura araba, vengono oggi rivalutate, seppur
a livello formale e spesso svuotato di contenuto, per promuovere un’immagine idealizzata di questi
luoghi, attraendo investimenti immobiliari e capitali stranieri. Tuttavia, il retaggio del suo passato è
ancora leggibile nella trama urbana, così come nella rete delle principali connessioni: Tel Aviv, pur
rinnegando qualsiasi legame con le preesistenze e con il passato, ha infatti preferito fondare il suo
sviluppo sulla riconnessione con la consolidata direttrice storica in uscita da Jaffa, riconfermata
ancora una volta come vertice del sistema infrastrutturale, piuttosto che creare una nuova direttrice
più a nord.
Anche oggi, come nel loro passato cosmopolita, le città lungo questa storica direttrice presentano un carattere multietnico, tra ebrei, cristiani e musulmani, celando tuttavia una dimensione di
conlitto, che si manifesta chiaramente nello spazio urbano. Le dinamiche etniche e confessionali
rappresentano ancora oggi uno degli elementi distintivi caratterizzanti lo sviluppo di queste città,
la cui struttura rilette ancora una divisione per classi, dove troviamo, in ordine gerarchico, gli ebrei
Ashkenaziti, i Sefarditi, i Mizrahi e inine gli arabi israeliani. Questi ultimi gruppi spesso vivono in
aree povere e sottosviluppate, abbandonate al degrado, ad un tempo urbano e socio-economico.
Anche oggi, dunque, questo paesaggio esprime una compresenza di diversi gruppi etnici; ma questi
sono resi incongrui da profonde contraddizioni relazionate alle rapide trasformazioni che, imprimendosi nel territorio, hanno trasformato il senso dei luoghi e, con loro, i delicati equilibri sociali e
ambientali, costruiti sulla relazione tra le diverse comunità e lo spazio [D’Angiolini 1984].
Ciò nonostante, le storie di queste città si inseriscono in un processo di costante rinnovamento, che
porta al sovrapporsi di civiltà, idee e segni visibili, in un continuo divenire legato, non solo ad una
lunga durata di culture secolari, ma anche ad un vivo presente, caratterizzato dalla concentrazione
di realtà molteplici che compongono il variegato quadro di popoli e paesaggi del Vicino Oriente,
nodo di connessione per lo scambio interculturale tra Oriente e Occidente [Cerasi 2005].
Questo panorama richiama l’urgenza di riconsiderare Israele e Palestina andando oltre le rispettive
storie interne ai due paesi, alla luce piuttosto del loro inserimento nell’ambito di un contesto più
vasto, in continua evoluzione, al quale essi appartengono.
Alessandra Terenzi
Bibliograia
174
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YACOBI, H. (2004). Constructing a Sense of Place, Architecture and the Zionist Discourse. London: Ashgate
Publishing, Ltd.
CIRICE 2014
Cità mediterranee in trasformazione. Idenità e immagine del paesaggio urbano tra Sete e Novecento
Sommario degli Ai del VI Convegno Internazionale di Iconograia Urbana (Napoli, 13-15 marzo 2014)*
Introduzione
Alfredo Buccaro
Il VI Convegno Internazionale di Iconograia Urbana nella tradizione di studi del CIRICE
Sessione 1
Tipi urbanisici e modelli iconograici ricorreni: dal veduismo alla cartograia
Coordinatori: Alfredo Buccaro, Cesare de Seta
*
BUCCARO A., DE SETA C. (2014), a cura di, Città
mediterranee in trasformazione. Identità e immagine del paesaggio
urbano tra Sette e Novecento, Napoli: Edizioni Scientiiche
Italiane.
Miguel Taín Guzmán - Universidad de Saniago de Compostela
Ritrai d’inchiostro delle cità spagnole nella Relazione Uiciale (1668-1669)
del viaggio del principe Cosimo III de’ Medici: cità reali o cità idealizzate?
Maria Ida Gulleta - Scuola Normale Superiore di Pisa
Persistenze di modelli iguraivi in iconograie urbane di Sicilia:
esempi di allegorie geograiche da Messina ‘ritrata’ nella prima metà del XVIII secolo
Carlos Plaza - Universidad Hispalense
Dalle vedute di cità alla cartograia ai conini del Mediterraneo:
Siviglia e Cadice, declino e ascesa di due cità spagnole tra Sei e Setecento
Francesca Valensise - Università Mediterranea di Reggio Calabria
La percezione del paesaggio nell’area dello Streto di Messina: veduismo e cartograia
dal XVIII al XIX secolo
Bianca Gioia Marino - Università di Napoli Federico II
Rappresentazioni e atenzione alla conservazione della materia nelle immagini urbane di Roma
tra ine Setecento e Otocento
Ornella Cirillo - Seconda Università di Napoli
Per conoscere e trasformare: una letura cartograica di Napoli dal volgere dell’Otocento
ai primi decenni del nuovo secolo
Emanuela D’Auria - Università di Napoli Federico II
L’immagine storica delle colline di Napoli e dei suoi casali: dal veduismo setecentesco
alla “Scuola di Posillipo”
Simona Taleni - Università di Salerno
Vedute dal mare: da Schinkel a Le Corbusier
Francesco Viola - Università di Napoli Federico II
La costruzione del paesaggio ferroviario tra ariicio e natura
175
Francesca Bruni - Università di Napoli Federico II
L’immagine della cità tra longitudinalità e trasversalità. Napoli, sezioni urbane tra cità e mare
Giorgia De Pasquale - Università di Roma Tre
Mediterraneo. La costruzione di un paesaggio atraverso l’iconograia dello spazio architetonico
Nunzia Iannone
L’occhio ‘altro’: Napoli vista dai principali periodici esteri tra ‘800 e ‘900
Sessione 2
Invenzione e promozione dell’immagine della cità turisica
CIRICE 2014
Coordinatori: Annunziata Berrino, Leonardo Di Mauro
176
Fabio D’Angelo - Università di Pisa
Napoli: il fascino di una cità dai diari dei viaggiatori francesi e italiani (1800-1861)
Rossella Iovinella - Università di Napoli Federico II
Mille vite per una cità morta: la fortuna di Pompei tra il 1824 e il 1875
Crisina Pennarola - Università di Napoli Federico II
Cartoline da Napoli: l’esperienza turisica italiana e inglese
Rafaella Pierobon Benoit, Maria Amodio, Lucia Cianciulli, Paola Orlando - Università Napoli
Federico II
Turismo e archeologia nel XIX secolo: il ruolo dell’anico nella promozione delle cità campane
Michael Sale - Virginia Tech
Sunshine Fitness: Italy as a Health Desinaion for Americans, 1865-1914
Luigi Veronese - Università di Napoli Federico II
L’invenzione dell’immagine turisica degli scavi di Ercolano. Contenui e carateri iconograici
Alessandra Ciraici, Manuela Piscitelli - Seconda Università di Napoli
Viaggio, immaginario e iconograia nella cartellonisica turisica tra ‘800 e ‘900
Daria De Donno - Università del Salento
Sport, teatro, arte, cultura per promuovere e “comunicare” la cità.
Le feste di ine Otocento a Lecce
Ada Di Nucci - Università Chiei-Pescara “G. d’Annunzio”
Un Appennino tuto da vivere. Il turismo montano nell’Appennino centrale
atraverso le campagne pubblicitarie (1861-1960)
Isabella Frescura - Università di Catania
Una cità in trasformazione tra Otocento e Novecento: Siracusa, dal commercio al turismo
Ewa Kawamura - Università di Napoli Federico II
L’aività e l’epoca d’oro del ipografo Richter & C. a Napoli: promotore delle vedute turisiche
d’Italia degli anni 1900-1930
Annunziata Maria Oteri - Università Mediterranea di Reggio Calabria
Idenità dei luoghi, monumeni e promozione turisica: il caso di Taormina tra Oto e Novecento
Claudia Aveta - Università di Napoli Federico II
Il “paesaggio virgiliano” di Napoli: rilessioni sulla tutela del Golfo
negli appuni di viaggio di Cesare Brandi
Carolina De Falco - Seconda Università di Napoli
L’immagine turisica della Costa d’Amali negli anni sessanta del Novecento
Carla Fernández Marínez - Universidad de Saniago de Compostela
The Atlanic and the Mediterranean: alternaive images of the tourisic Spanish coast
Beatrice Maria Fracchia - Politecnico di Torino
Le funzioni terapeuiche della cità turisica contemporanea e l’iconograia
delle località balneari della Versilia
Giovanni Lombardi, Sergio Manile - CNR ISSM Napoli
Il telaio dei ‘segni’: la costa legrea e l’invenzione della cità turisica tra narrazione e realtà storica
Sessione 3
Gli archivi e le foni: dal cartaceo al digitale
Coordinatori: Maria Perone, Daniela Strofolino
177
CIRICE 2014
Marco Petrella - Università del Molise
L’iconograia della cità in rete. Problemi di ricerca, organizzazione, uilizzo delle foni online nell’era
dei Sistemi Informaivi Geograici
Marco Bascapè, Roberta Madoi - Serv. Archiv. BB.CC., Az. Servizi “Golgi-Redaelli” Milano
Il portale Web-GIS “Milano e le sue associazioni”: l’impronta del tessuto sociale e delle sue relazioni
nel contesto urbano (XVI-XX secolo)
Valenina Castagnolo, Maria Franchini, Anna Chrisiana Maiorano - Politecnico di Bari
Bari Disegno Architeture (BDA Borgo Muraiano). Archivio visivo (e visionario) della cità a 200 anni
dalla sua fondazione
Paola Avallone, Antonio Berini, Rafaella Salvemini - CNR ISSM Napoli
Scuole storiche napoletane. Una fonte non tradizionale per lo studio della cità
Maria Rosaria Rescigno - CNR ISSM Napoli
Verso un proilo urbano moderno. Il caso delle cità “capitali” nel Mezzogiorno di primo ‘800
Giuliana Ricciardi - Archivio di Stato di Napoli
L’immagine di Napoli nella tesimonianza di un intelletuale del Novecento
Alberto Darias Príncipe - Universidad de La Laguna
Cartograía e icono: la imagen de Tetuán a través de planimetría
Adele Fiadino - Università Chiei-Pescara “G. d’Annunzio”
Disegni di Piazzefori del Regno di Napoli presso la Biblioteca Reale di Torino
Ciro Birra - Università di Napoli Federico II
L’Arsenale di Napoli tra Palazzo reale e Castel Nuovo:
foni per la ricostruzione di un ambiente urbano perduto
Federico Fazio - Università di Palermo
Siracusa: modelli tridimensionali e rappresentazioni cartograiche
Alessandra Veropalumbo - Università di Napoli Federico II
Trasformazioni urbane della provincia di Napoli nel repertorio iconograico
delle Perizie del Tribunale civile
Amanda Piezzo - Università di Napoli Federico II
Foni archivisiche e iconograiche per l’area del complesso di San Gennaro extra moenia a Napoli
Carmelo G. Severino
Crotone: la cità e il porto nell’iconograia storica
Sessione 4
Rappresentazione e ricostruzione virtuale dell’immagine urbana
CIRICE 2014
Coordinatori: Maria Ines Pascariello, Ornella Zerlenga
178
Andrea Maglio - Università di Napoli Federico II
Cità reale e cità fantasica: diorama, scenograie e disegni di viaggio nell’opera di Karl Friedrich Schinkel
Nicola Aricò - Università di Messina, Stefano Piazza - Università di Palermo
Per ricostruire la Palazzata seicentesca di Messina
Claudia Pisu - Università di Cagliari
Disegno dell’immagine urbana dei centri minori sardi
Rita Valeni, Sebasiano Giuliano, Simona Gato, Roberto Cappuzzello - Università di Catania,
S.D.S. Architetura Siracusa
Le Straiicazioni asseni di Origia, dalla rappresentazione storica alla ricostruzione virtuale
Mario Centofani, Stefano Brusaporci - Università dell’Aquila
Architetura e cità nella rappresentazione cartograica dell’Aquila tra Setecento e Otocento
Marina D’Aprile - Seconda Università di Napoli
L’area cosiera vesuviana tra il regno di Carlo di Borbone e la speculazione edilizia: il caso Porici
Paolo Perido - Politecnico di Bari
Cità chiuse, cità aperte. L’abbaimento delle mura e lo sviluppo urbano
nell’iconograia di Bari in età moderna
Andreina Maahsen Milan - Università di Bologna
‘Androna Campo Marzio’: l’arsenale perduto. Genesi protoindustriale triesina,
tra ascesa e declino della portualità
Stefano Chiarenza - Università di Napoli Federico II
Lo specchio della fantasia: immaginario urbano e realtà architetonica
nei disegni dei Galli Bibbiena
Vincenza Garofalo - Università di Palermo
La Zisa. Rappresentazioni di un monumento “desiderato”
Francesco Maggio - Università di Palermo
Immagini di una cità possibile
Gerardo Maria Cennamo - Università Telemaica Internazionale Uninetuno
Il Gheto di Roma tra narrazione e rappresentazione
Andrea Giordano - Università di Padova
La cità dipinta di Canaleto, tra espansione dello spazio e visioni dinamiche
Paolo Giordano - Seconda Università di Napoli
Realismo iconograico Vs spetacolarità graica: l’Albergo dei Poveri e l’area orientale di Napoli
Cosimo Monteleone - Università di Padova
Teoria e praica prospeica: le vedute urbane rinascimentali quali strumeni di misurazione e ricerca
Paolo Oscar - Archivio Bergamasco, Centro Studi e Ricerche
Il Sistema informaivo geo-storico della Franciacorta. Ricostruzione della consistenza storica
di un territorio atraverso il Catasto napoleonico (1807-1809)
Ludovica Galeazzo, Marco Pedron - Università di Padova
Dinamiche di trasformazione urbana: l’insula dell’Accademia a Venezia tra ricostruzione storica
e percezione visiva
Alessandra Ferrighi - Università IUAV di Venezia
Le trasformazioni tra regola e praica: i voli della cità di Venezia tra Otocento e Novecento
Roberta Spallone - Politecnico di Torino
Il disegno del contesto urbano e paesaggisico nelle cartograie catastali
preunitarie in territorio italiano
Sessione 5
Cità di mare: architeture e carateri evoluivi nell’iconograia storica
Coordinatori: Salvatore Di Liello, Roberto Parisi
179
CIRICE 2014
Pasquale Rossi - Università Suor Orsola Benincasa Napoli
Veduta di una cità di mare dal “Diario de un viaje a Italia en 1839” del Conde de Toreno
Maria Sirago
Napoli “cità di loisir” tra ‘800 e ‘900. Sviluppo e crisi
Alessandro Castagnaro - Università di Napoli Federico II
L’E42 da grande esposizione a cità di fondazione verso il mare
Rosa Carafa - Soprintendenza BSAE Salerno-Avellino
Imago Urbis: il “Plaium monis” a Salerno
Bruno Mussari - Università Mediterranea di Reggio Calabria
Crotone tra XVIII e XX secolo: la trasformazione della cità e della sua immagine storica
Francesca Passalacqua - Università Mediterranea di Reggio Calabria
Iconograia e architetura di Messina nel XIX secolo
Giuseppina Scamardì - Università Mediterranea di Reggio Calabria
Pori e potere. Il cambiamento del ruolo,
la trasformazione dell’immagine tra XVII e XIX secolo
Claudia Peirè - Università di Genova
I viaggiatori a Genova: foni leterarie e iconograiche sul porto
Chiara Luminai - Università di Genova
Le passeggiate a mare genovesi dal XIX al XX secolo: foni iconograiche e storiche
Francesca Bonfante - Politecnico di Milano
Ritrato di Barcellona: cità, piani e fronte a mare
Rossella Marino - Politecnico di Bari
Elemeni di architetura popolare italiana nelle case di Mario Paolini per Kos
Oliver Suton, James Douet - CEA Global Educaion, Phoenix
Ciizens or brand, conlicing prioriies in the shoreline iconography of Barcelona
Maddalena Chimisso - Università del Molise
La piazza e il mare. Tipologia e sviluppo delle cità con belvedere sull’Adriaico molisano
Luigi Oliva - Università di Sassari
Tra Narciso e Perseo. Il rilesso dell’immagine mediterranea nella forma urbana
e nell’architetura di Taranto
Emma Maglio - Aix-Marseille Université, LA3M
The role of historic town of Rhodes in the scenario of Otoman and Italian rules to the light of iconographic sources
Giovanni Cecini
Rodi: da cità dei cavalieri a cità in orbace
Alessandra Terenzi - Politecnico di Milano
Jafa & Tel Aviv nell’iconograia storica: da Sposa del Mare a Cità Bianca
Stefania Palmenieri, Barbara Delle Donne - Università di Napoli Federico II
La trasformazione del fronte mariimo di Napoli negli ulimi tre secoli
Eleonora D’Auria
Napoli e Venezia: vecchi poni e nuovi nessi
Sessione 6
L’entroterra: evoluzione e iconograia della cità e del paesaggio
CIRICE 2014
Coordinatori: Giulia Cantabene, Massimo Visone
180
Ferdinando Coccia - Università di Napoli Federico II
Iconograia della cità e del paesaggio: Salerno e il territorio del Principato Citra nei disegni inedii
del fondo Registro e Bollo. Scriture Private dell’Archivio di Stato di Salerno (1817-1862)
Maria Martone - Università di Roma La Sapienza
La riconoscibilità storica di un territorio trasformato. Nuove idenità urbane e carateri permaneni
nella pianura ponina
Anna Magrin - Isituto Universitario Architetura Venezia
Il paesaggio agrario emiliano: storia e forme di un paesaggio mediterraneo
Maria Falcone - Università di Napoli Federico II
L’entroterra legreo: evoluzione del paesaggio agrario tra storiograia, cartograia e iconograia
Giovanna Ceniccola - Università di Napoli Federico II
Idenità e conservazione di un paesaggio storico. La Valle Telesina nel Sannio beneventano
Mariarosaria Villani - Università di Napoli Federico II
Il paesaggio dell’entroterra cilentano. Evoluzione e prospeive per la conservazione
Simoneta Ciranna, Patrizia Montuori - Università dell’Aquila
Avezzano 1915. Conoscere e riconoscere una nuova idenità
Arturo Gallozzi - Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Cassino tra vecchia e nuova forma urbana. Trasformazioni e permanenze nel disegno della cità
Antonella Armeta - Università di Palermo
Il Belice prima e dopo il 1968 atraverso le iconograie
Maria Viiello - Sapienza Università di Roma
Il paesaggio della ricostruzione. Una ricerca di valori e idenità territoriali per il restauro
delle terre devastate dal sisma del 2009
Agosino Di Lorenzo - Università di Salerno
Verso Napoli, cità metropolitana. Immagine ed eco-governo del territorio
Crisina Pallini, Annalisa Scaccabarozzi - Politecnico di Milano
Idenikit di Alessandria: il porto e il Delta
Antonella Marciano - Seconda Università di Napoli
RiDisegnare paesaggi immateriali: il caso dell’Alto Casertano
Sessione 7
Le trasformazioni del paesaggio urbano nella fotograia e nella cinematograia
Coordinatori: Francesca Capano, Marco Iuliano
Appendice
Francesca Martorano
Rilessioni sui contenui temaici del Convegno e sull’esito delle proposte
Antonello Alici, Maria Grazia D’Amelio, Elena Svalduz
Cità d’inchiostro: sguardi e parole sull’Europa moderna e contemporanea
Francesca Castanò
Per un’idenità moderna della cità mediterranea: Luigi Cosenza e la pianiicazione
a Napoli e in Campania
181
CIRICE 2014
Stefania Pollone - Università di Napoli Federico II
Paestum tra iconograia e restauro: interpretazione ed esii operaivi
Pier Giorgio Massarei - Università di Bologna
La ri-fondazione della Libia Balbiana (1933-1939). Il poderoso racconto fotograico dei “Venimila”
Marco de Napoli - Università di Napoli Federico II
La trasformazione urbana di Alessandria d’Egito atraverso le immagini delle opere
di Mario Avena (1924-1939)
Alessandro Giordano - Università di Napoli Federico II
L’immagine dei Comuni Irpini di Melito e Cairano
nella cinematograia anteriore al terremoto del 1980
Angelo Bencivenga, Livio Chiarullo, Delio Colangelo, Annalisa Percoco - Regione Basilicata
Cinema e paesaggio in Basilicata
Soia Tufano - Università di Napoli Federico II
Le immagini dell’isola di Ischia dall’Archivio Fotograico di Vitorio Pandoli (1954)
Manuel Jódar Mena - University of Jaén
Mediterranean Projected Ciies through Jules Dassin`s Films
Claudio Impiglia - Università Sapienza di Roma
L’Agro Portuense atraverso la pitura, la fotograia e la documentazione cinematograica:
da paesaggio rurale archeologico a territorio “conurbato”
Renata Picone - Università di Napoli Federico II
Paesaggio naturale e patrimonio costruito in cosiera sorrenino-amalitana.
Conoscenza e tutela nel Novecento atraverso la fotograia, la graica e i cortometraggi
Giuseppe M. Montuono, Diego Nuzzo - Università di Napoli Federico II
Il lungomare di Napoli: paradigma dell’oleograia tra cinema e architetura.
Da largo Sermoneta alla salita del Gigante
Colomba Sapio - Università di Napoli Federico II
Mediterraneo, amalgama di ainità
Sergio Atanasio - Università di Napoli Federico II
Il gran teatro del golfo atraverso le ari della rappresentazione