Content-Length: 165133 | pFad | https://www.academia.edu/21725887/HOC_EST_CORPUS_MEUM

(PDF) HOC EST CORPUS MEUM
Academia.eduAcademia.edu

HOC EST CORPUS MEUM

Text for Exhibition: Enrique Moya González. Awarded with Premio Ora: http://www.premio-ora.it/2013/ITA/EN/utente_dettaglio.php?id=3640

Enrique Moya HOC EST CORPUS MEUM 4 6 10 12 16 17 18 19 2 Collage n°1 Critica italiana Collage n°2 Critica spagnola Collage n°3 Collage n°4 Portfolio Guida alle immagini Per Ada. 3 4 5 “ Non si può scrivere senza l’energia del corpo. […] Non è solo la scrittura, lo scritto, è il grido degli animali della notte, quello di tutti, quello di voi e di me, quello dei cani. È la volgarità greve, disperante, della società. Il dolore, è anche Cristo e Mosè e i faraoni e tutti gli ebrei e tutti i bambini ebrei, ed è anche la felicità più violenta. Questo io credo, sempre. ” Marguerite Duras, 36. Scrivere. “ Corpus: un corpo è una collezione di pezzi, parti, membra, zone, stati, funzioni. Teste, mani, cartilagini, bruciature, soavità, zampilli, sonno, digestione, raccapriccio, eccitazione, respirare, digerire, riprodursi, ripararsi, saliva, sinovia, torsioni, crampi e nei. È una collezione di collezioni, corpus corporum, la cui unità resta una questione in sé. Come corpus corporum simbolico, senza organi, contiene in sé almeno cento corpi, e ognuno vive di vita propria, ciò disorganizza il tutto e non fa raggiungere un’unità. ” Jean-Luc Nancy, 58. Indizi sul corpo. Una scatola invita sempre a profanare i suoi segreti. E nrique Moya ha rinchiuso in un baule i tesori che ha trovato nei suoi viaggi e incursioni lungo il tempo. Nella sua rete è caduta tutta una serie di pezzi e reliquiari: un ventaglio in miniatura, un delicato barattolo di profumo realizzato in legno, elementi per tagliare il cristallo e per misurare circonferenze, monete, pezzi di ferro ossidati, meccanismi di orologi, gusci e molti pezzi d’avorio. Una vera e propria collezione: un abitacolo dove l’immaginario inizia a prendere corpo. Scavando negli avanzi del passato, perdendosi per i corridoi pieni di oggetti dimenticati e polverosi, macchiandosi le mani, toccando rune, è come se Enrique Moya reiniziasse la storia particolare di ogni opera e come se a sua volta rimettesse in moto, sotto nuova luce, la vecchia Storia. La Storia che, da Erodoto, viene rinchiusa nella scatola delle scatole, nell’abitacolo per eccellenza: il libro. Sono i libri il luogo dove l’uomo ha versato la sua concezione ordinata del mondo: 6 la narrazione dei suoi lavori e dei suoi giorni. Nelle pagine dei libri sembrano essere stati lanciati i dadi della necessità [ig. 1]. Il libro è sì il luogo del lancio di dadi, così come lo concepì Mallarmé, ma è anche il simbolo di tutto quello che è rimasto in bianco: nel libro si può giocare una partita frenetica e sidare gli dèi, profanarne le parole e ballare nell’abisso del suo tramonto, trovare nuove costellazioni e cosmologie. Svegliare i battiti di mezzanotte. E iniziare a disegnare dai suoi angoli tutto quello che è rimasto bandito o condannato al naufragio: la carne, i pori, la sporcizia, il sesso. Il bestiario del corpo. E le sue chimere. *** Quando si deve pensare al corpo, che altro non è che pensare al mio corpo e, in questo caso speciico, pensarlo per iscritto, si inisce per attingere all’esperienza diretta dello stesso. Questo corpo, che ora sta qui seduto per scrivere, ha le gambe rilassate, appena percettibili perché appoggiate su una comoda sedia d’uicio, i piedi nudi sul pavimento; il torso leggermente eretto ma allo stesso tempo proteso in avanti; le braccia tirate e le mani attive, coscienti della polifonia motoria delle sue dita, sommerse nel gorgo tipograico che genera queste parole. Questo è quello che si evidenzia quando sento, tutto a un tratto, ciò che mi è stato rivelato nel presente più immediato, proprio in questo momento, sull’esperienza del mio corpo: il mio corpo è corpus. Cioè una collezione di pezzi, piedi, braccia, mani, dita, una collezione di stadi e funzioni, torsione, concentrazione, respirazione, eccitazione, visione, tatto, pulsione, interpretazione. Ma è anche corpus corporum: la collezione delle collezioni, perché tutti questi pezzi e stadi coesistono, confusi e incoscienti, nello stesso abitacolo. Il corpo è una scatola: recipiente misterioso, stanza intima e intimista che si apre soltanto agli invitati con maggior conidenza, luogo di tesori, passioni, reliquie e impronte, le impronte dell’esistenza che rimangono in ognuno degli angoli isici e mentali, carnali o immaginari. Ma sempre scatola, il corpo ci proietta inevitabilmente a Pandora[ig.2]: in lui giacciono miserie, disgrazie, malattie; bruciature, orrori, digestione, recupero, spasmi, dolore. Tutta una serie di mali che aiorano quando si ha il coraggio di aprire la scatola del corpo e guardare consapevolmente quello che gli dèi hanno voluto lasciare come punizione in esso. Una punizione che è quella della religione, la morale, la Storia, la ragione... Più che sentirsi, il corpo voleva pensarsi, razionalizzarsi, amministrarsi e in questo modo è arrivato a essere scritto, contrassegnato, stigmatizzato per tutti i possessori dello stesso. In Occidente, soltanto Cristo poteva dire, tagliando il pane nell’ultima cena: “Hoc est corpus meum”, “Questo è il mio corpo”. Per tutti gli altri occidentali, il corpo ha attraversato una serie di vicissitudini che lungo i secoli hanno fatto sì che si allontanasse da se stesso, a colpi di ragione e pagine e pagine di scrittura. Ma tutte queste pagine, nonostante le dottrine, le ordinanze e le rivelazioni divine 7 versate sul corpo degli uomini, non potevano contenere lo straziante ululare delle bestie. “Un libro aperto è anche la notte”, ha scritto Marguerite Duras: in esso non solo c’è Cristo, Mosè è i faraoni. Il libro non è unicamente giorno, luce; nelle sue pagine non rifulgono solo le parole dell’autore che ha scritto del suo corpo, la chiarezza accecante di una dottrina, di una storia. Lungi dall’essere un unico corpo, dagli angoli del libro ululano le bestie, le possibilità che sono state riiutate per la stessa scrittura e che la penna non è riuscita ad addomesticare tra le quattro pareti di cellulosa. Questi animali selvaggi - te, me, noi, le nostre grida, le grida degli altri - ronzano intorno al lettore, approittando delle brecce e dei silenzi delle parole per smontare e macchiare la luminosità, la pulizia e la verità sacrosanta della scrittura. *** “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”, racconta la Genesi. La vergogna arrivò con la trasgressione, con il desiderio di mordere e riempirsi la bocca con la conoscenza che l’esuberanza di un frutto promise con tentazione. Quel voler assaporare i segreti della scienza, rossi, dolci, carnosi, portò alla caduta, l’espulsione della Età d’Oro e l’inizio delle stimmate sul corpo origenario che lo sacralizzò e lo riempì di pudore e lacrime[ig.3]. Così si inaugurò la morte in vita: facendo rinascere l’uomo come un nuovo Atlante, caricando le spalle dell’Umanità non solo con il lavoro forzato della terra, ma anche con l’esilio, con la perdita delle radici e l’allontanamento da se stesso e dall’altro[ig.4]. Il panteismo origenario, quel paradiso del canto degli uccelli e della comunione con gli alberi, i iumi, le montagne e le bestie, diventò un passato remoto[ig.5]. Così fu, così è scritto: da quel momento in poi l’uomo e la donna poterono vivere soltanto in perpetua fuga, esiliati davanti alla legge. L’esistenza diventò un continuo vagabondare senza casa, senza issa dimora; e il mondo un deserto pieno di esseri fragili, profanati nella loro stessa pelle per il ricordo tormentoso di un passato che si è impresso nella carne, per sempre, come la Sacra Scrittura. Così il corpo rimase sigillato come una scatola che doveva contenere unicamente l’anima, lo spirito, la virtù, la pulizia: come contenuto e non come contenente. Portarsi alla bocca il frutto della conoscenza condannò l’Umanità ad aprire gli occhi nel modo più tragico che si possa immaginare: lo sguardo smise di essere palpabile e abbandonò la sua comunione con la terra. Le pupille si dilatarono, sommergendosi nella percezione della notte e trasformandola nel giudice più implacabile: nel giudizio eterno, quella pietra tombale sarebbe caduta sopra i colpevoli crociiggendo il corpo nell’attesa dell’arrivo della redenzione del pescatore di anime e unico portavoce del possesso del corpo. Hoc est corpus meum... Il tatto fu condannato, la pelle diventò la cornice poco gloriosa della grande opera in essa contenuta: l’anima. I corpi persero la loro condizione di materia vulnerabile per diventare una scorza che doveva apparire pura e pulita[ig.6]. Bianca e assente, la carne sparì con la scrittura, lasciando soltanto l’impronta incancellabile del peccato: il dolore. Un dolore che, sebbene si materializzi in forma deinitiva con la voce di Cristo, si vide già preigurato nella legge di Mosè. Fu con la Torah, “quella guida per centrare il bersaglio”, che la Scrittura acquisì il suo 8 status di realtà intangibile. Dalle sue pagine si stabilì quale sarebbe stato il mondo riservato agli uomini: un nuovo ordine in cui niente si sarebbe potuto toccare[ig.7]. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” Così fu. Il dolore passò dalla scrittura al mondo: il corpo origenario diventò un corpo rapito1. Enrique Moya lo ha capito molto chiaramente: l’uomo continua ancora oggi a essere segnato, macchiato, diseredato dal peso del suo passato. Il suo corpo continua a essere una scatola dove si nascondono tutti i segreti e i misteri che devono essere scoperti, profanati, disfatti e riconvertiti in nuovi supporti della scrittura. Passando dalla Croce al crocevia, dall’espropriazione al rapimento2, tutta la sua opera danza sull’abisso nel quale si trova l’uomo contemporaneo: il territorio ibrido dove lo scritto e il silenzio, il narrato e il pianto trovano il loro posto. Le strategie che Enrique Moya attua per trasformare la Croce in crocevia sono ampie e varie: ritornare all’animale scariicale[ig.8], all’ibrido[ig.9], alla chimera; coprire i volti con maschere del passato remoto e selvaggio[ig.10], ma anche con le mascherine e i bavagli del contratto erotico[ig.11]; concepire l’uomo come essere scindibile, sdoppiabile, parallelo; profanare quelle parole designate intoccabili o confondere i corpi convulsi, caratteristici di quel piacere che emerge nell’anonimato delle stanze chiuse... In questo modo, la sua opera percorre le sventure carnali dell’uomo, riprendendo i tortuosi cammini della sua storia ino alle pietre mortuarie del passato origenario, per arrivare all’esorcismo della colpa mediante le eterogenee pulsioni del desiderio. Sacriicando la divinità della scrittura, al ine di una redenzione pagana della carne, Enrique Moya sottrae degli angoli più remoti del libro le sue urla e svela la praefatio di un nuovo libro: il libro bianco di tutto quel che non fu scritto[ig.12]. Un nuovo ampio corpus in constante progressione: il cassetto che contiene tutti quei pezzi, stati e funzioni del corpo che furono trascinati senza pietà dai poderosi iumi di inchiostro della Storia[ig.13]. Si apre così la soglia di una scrittura immaginata che illustra tutto quel che nasconde l’homo sapiens: la sottomissione, l’inerzia, la dissoluzione, la violenza, l’umiliazione, la dissimulazione, il suono assordante dell’homo demens. Un immaginario selvaggio che Enrique Moya ha già svelato con la serie di emulsioni dedicate a mettere in mostra i desolati paesaggi che ci ha dato l’epoca contemporanea: torbide navi industriali[ig.14], sale di macchine abbandonate e distrutte[ig.15], corridoi asettici e accecanti dove regna la luce dei neon, magazzini di travi e riiuti metallici[ig.16], vetrine polverose piene di teste[ig.17/18]... Dei territori intrepidi, inospitali dove ogni possibilità di vita e comunicazione è rimasta annichilita, nuovi deserti, dove il corpo, senza parola né gesto, si vede condannato a girovagare meccanicamente e all’espulsione deinitiva dal proprio mondo[ig.19/20]. Fossilizzato, lo stato del corpo è in attesa[ig.21], anela la resurrezione della carne in quel nuovo libro delle ininite possibilità ancora da scrivere. Intanto l’uomo è sommerso in un lungo sogno. Riposa. E, lontano, suona un Requiem[ig.22]. Constanza Nieto Yusta, professoressa e storica dell’arte, vive e lavora a Madrid. 1 Ndt: il termine rapito in spagnolo è arrebato. L’autrice fa riferimento anche al ilm cult spagnolo Arrebato del 1980. Ivan Zulueta. 2 Ndt: Vedi nota 1. 9 10 11 “ No se puede escribir sin la fuerza del cuerpo. […] No es sólo la escritura, lo escrito, también los gritos de las bestias en la noche, los de todos, los vuestros y los míos, los de los perros. Es la vulgaridad masiicada, desesperante, de la sociedad. El dolor; también es Cristo y Moisés y los faraones y los judíos, y todos los niños judíos, y también lo más violento de la felicidad. Siempre, eso creo. ” Marguerite Duras, Escribir. “ Corpus: un cuerpo es una colección de piezas, de pedazos, de miembros, de zonas, de estados, de funciones. Cabezas, manos y cartílagos, quemaduras, suavidades, chorros, sueño, digestión, horripilación, excitación, respirar, digerir, reproducirse, recuperarse, saliva, sinovia, torsiones, calambres y lunares. Es una colección de colecciones: corpus corporum, cuya unidad sigue siendo una pregunta para ella misma. Aún a título de cuerpo sin órganos, éste tiene al menos cien órganos, cada uno de los cuales tira para sí y desorganiza el todo que ya no consigue totalizarse. ” Jean-Luc Nancy, 58 indicios sobre el cuerpo, 36. Una caja invita siempre a profanar sus secretos. E nrique Moya ha ido encerrando en un cofre los tesoros que encontró en sus viajes e incursiones a lo largo del tiempo. En sus redes han caído toda una serie de piezas y reliquias: un abanico en miniatura, un delicado bote de perfume realizado en madera, aparatos para cortar el vidrio y para medir circunferencias, monedas, trozos de hierro oxidados, mecanismos de relojes, conchas y muchas piezas en hueso. Toda una colección: un habitáculo donde el imaginario comienza a tomar cuerpo. Excavando en los desechos del pasado, perdiéndose por pasillos repletos de objetos olvidados y polvorientos, manchándose las manos, tocando las ruinas, es como Enrique Moya comienza la historia particular de cada obra y como a su vez pone en marcha, bajo un nuevo prisma, la vieja Historia. La Historia que desde Herodoto se supo que tenía que ser encerrada en la caja de las cajas, en el habitáculo por excelencia: el libro. Son los libros el lugar donde el hombre ha vertido su concepción ordenada del mun- 12 do: la narración de sus trabajos y de sus días. En sus páginas parecen haberse lanzado los dados de la necesidad[ig. 1]. Pero en tanto lugar de la tirada de dados, y así lo entendió Mallarmé, el libro también es el símbolo de todo lo que quedó en blanco: en él puede jugarse una partida maniaca y desaiar a los dioses, profanar sus palabras y bailar en el abismo de su ocaso, encontrar nuevas constelaciones y cosmogonías. Despertar los latidos de medianoche. Y comenzar a dibujar desde sus rincones todo lo que quedó proscrito o condenado al naufragio: la carne, los poros, la suciedad, el sexo. El bestiario del cuerpo. Y sus quimeras. *** A la hora de pensar sobre el cuerpo, lo cual no es sino pensar sobre mi cuerpo y, en este caso concreto, pensarlo por escrito, uno no puede dejar de atenerse a la experiencia directa del mismo. Este cuerpo que está ahora aquí sentado escribiendo tiene las piernas relajadas, apenas perceptibles por estar apoyadas sobre una mullida silla de despacho, los pies desnudos sobre el suelo; el torso ligeramente erguido a la par que inclinado hacia delante; los brazos estirados y las manos activas, conscientes de la polifonía motora de sus dedos, sumidas en el remolino tipográfico que genera estas palabras. Eso es lo que se evidencia cuando siento, de un plumazo, lo que se me revela en el presente más inmediato, ahora mismo, sobre la experiencia de mi cuerpo: mi cuerpo es corpus. Es decir, una colección de piezas, piernas, pies, brazos, manos, dedos, y una colección de estados y funciones: torsión, concentración, respiración, excitación, visión, tacto, pulsión, interpretación. Pero también es un corpus corporum: la colección de colecciones, pues todas esas piezas y estados conviven, confusa e ignotamente, en un mismo habitáculo. El cuerpo es una caja: recipiente misterioso, habitación íntima e intimista que sólo se abre ante los invitados de mayor conianza; lugar de tesoros, pasiones, reliquias y huellas, las huellas de la existencia que quedan en cada uno de los rincones físicos o mentales, carnales o imaginarios. Pero en tanto caja, el cuerpo nos remite inevitablemente a Pandora[ig.2]: en él también yacen miserias, desgracias, enfermedades; quemaduras, horripilación, digestión, recuperación, calambres, dolor. Toda una serie de males que aloran en cuanto se tiene la osadía de abrir la caja del cuerpo y mirar conscientemente qué es lo que los dioses han querido dejar como castigo en él. Un castigo que es el de la religión, la moral, la historia, la razón… Mas que sentirse, el cuerpo quiso pensarse, racionalizarse, administrarse y de ese modo vino a quedar escrito, marcado, estigmatizado para todos y cada uno de los poseedores del mismo. En Occidente, sólo Cristo pudo decir, cortando el pan en la última cena, “Hoc est corpus meum”, “Este cuerpo es mío”. Para el resto de los occidentales, el cuerpo atravesaría una serie de avatares que a lo largo de los siglos no harían más que alejarlos de su propio cuerpo, a golpe de razonamientos y páginas y páginas de escritura. Pero esa escritura, a pesar de las doctrinas, las ordenanzas y las revelaciones divinas vertidas sobre el cuerpo de los hombres, no podría contener los desgarradores aullidos de las bestias. “Un libro abierto también es la noche”, ha escrito Marguerite Duras: en él no sólo están Cristo, Moisés y los faraones. El libro no es únicamente día, luz; en sus páginas no sólo refulgen las palabras del autor que escribió su cuerpo, la claridad cegadora de una doctrina, de una historia. Lejos de ser un único cuerpo, desde los rincones del libro aúllan las bestias, las posibilidades que quedaron desechadas por la misma escritura y que la pluma no consiguió domesticar entre las cuatro paredes de celulosa. Esos animales salvajes —tú, yo, nosotros, nuestros gritos, los gritos de los otros— rondan siempre al lector, aprovechando los huecos y los silencios de las palabras para 13 destartalar y mancillar la luminosidad, la limpieza y la verdad sacrosanta de la escritura. *** “Estaban ambos desnudos, el hombre y su mujer, sin avergonzarse de ello”, cuenta el Génesis. La vergüenza llegó con la transgresión, con el deseo de morder y llenarse la boca con el conocimiento que prometía tentadoramente la exuberancia de un fruto. Ese querer saborear los secretos de la ciencia, rojos, dulces, carnosos, trajo la caída, la expulsión de la Edad de Oro y el comienzo de los estigmas sobre un cuerpo origenario que lo desacralizarían y lo llenarían de pudor y lágrimas[ig.3] Así se inauguró la muerte en vida: haciendo renacer al hombre como un nuevo Atlas, cargando las espaldas de la Humanidad no sólo con el trabajo forzoso de la tierra sino con el destierro, con la pérdida de las raíces y el exilio respecto de sí mismo y del otro[ig.4] El panteísmo origenario, ese paraíso del canto de los pájaros y de la comunión con los árboles, los ríos, las montañas y las bestias, se convirtió en un pasado remoto[ig.5]. Así fue, así está escrito: el hombre y la mujer ya sólo podrían vivir en perpetua fuga, proscritos ante la Ley. La existencia pasó a ser un continuo vagabundeo sin hogar, sin habitáculo; y el mundo, un desierto repleto de seres frágiles, profanados en su propia piel por el recuerdo tormentoso de un pasado que se había hecho carne al ijarse, y para siempre, como la Sagrada Escritura. El cuerpo quedó así sellado como una caja que sólo debía contener el alma, el espíritu, la virtud, la limpieza: como contenido y no como continente. Llevarse a la boca el conocimiento condenó a la Humanidad a abrir los ojos en el sentido más trágico imaginable: la mirada dejó de ser táctil y abandonó su comunidad con la tierra. Las pupilas se dilataron, sumiendo a la percepción en la noche y convirtiéndola en el juez más implacable: en el juicio eterno, esa losa que caería sobre los culpables cruciicando el cuerpo a la espera de la llegada redentora del pescador de almas y único portavoz de la posesión del cuerpo. Hoc est corpus meum… El tacto quedó condenado, la piel pasó a ser el marco poco lustroso de la gran obra contenida: el alma. Los cuerpos perdieron la condición de materia vulnerable para convertirse en una carcasa que tendría que lucir pura y pulida[ig.6]. Blanca y ausente, la carne desapareció con la escritura, dejando sólo en ella la huella imborrable del pecado: el dolor. Un dolor que, si bien se materializaría de forma deinitiva con la voz escrita de Cristo, ya se había preigurado en la Ley de Moisés. Fue con la Torah, esa “guía para dar en el blanco”, cuando la Escritura adquirió su estatuto de realidad intocable. Desde sus páginas se establecería cuál sería el mundo reservado para los hombres: un nuevo orden en donde las cosas no se podrían tocar[ig.7]. en nuevos soportes de escritura. Pasando de la Cruz a la encrucijada, de la desposesión al arrebato, toda su obra danza sobre el abismo en el que se encuentra el hombre contemporáneo: el territorio híbrido donde lo escrito y lo silenciado, lo narrado y lo gemido encuentran su lugar. Las estrategias que Enrique Moya activa para transformar la Cruz en encrucijada son amplias y variadas: retornar al animal sacriicial[ig.8], al híbrido[ig.9], a la quimera; cubrir los rostros con máscaras del pasado remoto y salvaje[ig.10], pero también con los antifaces y las mordazas del contrato erótico[ig.11]; entender al hombre como ser escindido, desdoblado, paralelo; profanar aquellas palabras establecidas como intocables o desdibujar los cuerpos convulsos tan característicos de ese placer que sólo emerge en el anonimato de las habitaciones cerradas… De este modo, su obra recorre las desventuras carnales del hombre, remontando los tortuosos caminos de su historia hasta las losas del pasado origenario para llegar al exorcismo de la culpa mediante las heterogéneas pulsiones del deseo. Sacriicando la divinidad de la escritura en aras de una redención pagana de la carne, Enrique Moya extrae de los rincones más recónditos del libro sus aullidos y desvela el praefatio de un nuevo libro: el libro blanco de todo lo que no fue escrito[ig.12]. Un nuevo y gran corpus en constante progresión: el cajón que contiene todas aquellas piezas, estados y funciones del cuerpo que fueron arrastrados sin piedad por los poderosos ríos de tinta de la Historia[ig.13]. Se abre así el umbral de una escritura imaginada que se ilustra con todo lo que esconde el homo sapiens: la sumisión, la inercia, la disolución, la violencia, la humillación, el enmascaramiento y el ruido ensordecedor del homo demens. Un imaginario salvaje que Enrique Moya ya había desvelado con la serie de emulsiones dedicadas a mostrar los desoladores paisajes que nos ha legado la época contemporánea: turbias naves industriales[ig.14], salas de máquinas revueltas y abandonadas[ig.15], pasillos asépticos y cegadores donde reina la luz del neón, almacenes de vigas y desechos metálicos[ig.16], escaparates polvorientos repletos de cabezas[ig.17/18]… Unos territorios inhóspitos donde cualquier posibilidad de vida y comunicación ha quedado aniquilada, nuevos desiertos donde el cuerpo, sin palabra ni gesto, se ve condenado al deambular mecánico y a la expulsión deinitiva de su propio mundo[ig.19/20]. Fosilizado, el estatuto del cuerpo será la espera[ig.21], el anhelo de la resurrección de la carne en ese nuevo libro de las ininitas posibilidades aún por escribir. Mientras tanto, el hombre se halla sumido en un largo sueño. Descansa. Y, lejos, suena un Requiem[ig.22]. *** “Y el Verbo se hizo carne y habitó entre nosotros”. Constanza Nieto Yusta, profesora e historica del arte, vive y actua en Madrid. Así fue. El dolor saltó de la escritura al mundo: el cuerpo origenario pasó a ser un cuerpo arrebatado. Enrique Moya lo ha entendido de forma muy clara: el hombre continúa hoy en día marcado, manchado, desposeído por el peso de su pasado. Su cuerpo sigue siendo una caja en la que se esconden todos los secretos y los misterios que han de ser descubiertos, profanados, desembalados y reconvertidos 14 15 16 17 ‡ Guida alle immagini. [Fig.1] Assthetica Ultime Mostre personali e collettive: 2012 - Esposizione collettiva “Micropiscin(..)rcheologica”. Piazza del Popolo. Ar - a cura di Ilaria Margutti ed Enrique Moya Gonz‡lez 2012 - Esposizione collettiva “16 Alieri”. Via Alieri n16.Torino. - a cura di Daniele Ratti e Francesca Canfora 2012 - Esposizione personale “Trasformazione”. Marena Rooms Gallery.Torino. - a cura di Franca Marena 2011 - Esposizione collettiva “Paratissima…E POII?”. Progetto Esposizione Urbana, Torino. - a cura di ParaStaf (giornale) 2011 - Esposizione collettiva (Radar) “Gesto/Spazio/Corpo”. Galleria RiElaborando, Arezzo. - a cura di Daniela Meli ed Enrique Moya ‡ 2011 - Esposizione collettiva Mostra temporanea. “SVM”. Progetto d’Arte Urbana. Scale mobili, Arezzo.- a cura di Matilde Puleo 2011 - Esposizione personale “Avatāra” : Percorso espositivo d’arte contemporanea, Arezzo. - a cura di Enrique Moya Gonz‡lez 2011 - Esposizione collettiva “Arte Fiera 2011”. Galleria Il Ponte, Firenze. - a cura di Andrea Alibrandi. 2011 - Esposizione collettiva “Tanto di cappello Sig. Vasari”. Galleria Tornabuoni. - a cura di Fabio Fornasari [Fig.2] Pan Doron Ultimi Premi e cose: - Realizzazione “Meridiana. Quadrante solare” Palazzo Vescovile 2012, Arezzo. - Vincitore Toro d’acciaio “Paratissima. E POII?” 2011, Torino. - Capo gruppo “Afresco Urbano (250mt)” SEUM. Scale Mobili 2011, Arezzo. - Scelto dalla giuria “Premio Combat” (catalogo) 2011, Livorno. 18 19 [Fig.3] Le Rame d’Or [Fig.5] 8+1 [Fig.4] Atlas II -Studio [Fig.6] Cerotto Bianco 20 21 [Fig.7] Di come le cose non si potrebbero toccare [Fig.8.2] Serie Toros [Fig.8.1] Serie Toros [Fig.8.3] Serie Toros 22 23 [Fig.11] Vescitatoio Liquido [Fig.9] Constante de progresiÓn [Fig.10] Sul Parallelo 24 [Fig.12] Praefatio 25 [Fig.13] Antrophos 26 [Fig.15] Pacto entre caballeros [Fig.14] [Fig.16] Merienda sobre asfalto Concimetruria 27 [Fig.17] [Fig.19] La poupée animiste Estatuto Attesa [Fig.18] Requiem [Fig.20] Cambio de hàbitos 28 29








ApplySandwichStrip

pFad - (p)hone/(F)rame/(a)nonymizer/(d)eclutterfier!      Saves Data!


--- a PPN by Garber Painting Akron. With Image Size Reduction included!

Fetched URL: https://www.academia.edu/21725887/HOC_EST_CORPUS_MEUM

Alternative Proxies:

Alternative Proxy

pFad Proxy

pFad v3 Proxy

pFad v4 Proxy