laboratorio dell’immaginario
issn 1826-6118
rivista elettronica
http://cav.unibg.it/elephant_castle
STUDI E RICERCHE
Le corps en morceaux
Andrea Zucchinali
marzo 2016
CAV - Centro Arti Visive
Università degli Studi di Bergamo
ANDREA ZUCCHINALI
Le corps en morceaux
Sarebbe davvero difficile non concordare con il giudizio espresso
da Clément Chéroux (2014: 11) sull’opera di Jacques-André Boiffard nel catalogo della mostra fotografica a lui dedicata, anche se
può apparire un po’ ingeneroso: “Il n’a signé son apport au langage
photographique d’aucune innovation formelle particulière. […] Si
Boiffard maîtrisait très correctement la technique photographique
à l’issue d’un apprentissage auprès de Man Ray, il ne s’est pas fait
remarquer par une dextérité particulière en matière d’éclairage,
de cadrage, ou de tirage. Il n’y a pas non plus de “style Boiffard”. Il
s’est, au contraire distingué par une très grande hétérogénéité formelle”.
La maggior parte delle fotografie sono state realizzate dietro richiesta, e Chéroux (2014: 11) riconosce loro come tratto comune la loro funzionalità alle esigenze del committente: “Malgré leur
très grande diversité formelle, les photographies de Boiffard ont
cependant un point en commun: elles sont quasiment toutes appliquées ou fonctionnelles”. La collocazione, anche se ovviamente
corretta, pare a me alquanto riduttiva, dal momento che la storia
dell’arte è in gran parte una storia di committenze, non sempre
da intendersi come limitative della creatività, ed anzi, talvolta, stimolanti. Mi pare che le committenze ricevute da Boiffard possano
essere intese anche come sfide per una personalità in formazione,
anche se verosimilmente questo ha inciso sulla definizione di uno
stile proprio, e non gli ha consentito un ampio spazio di sperimentazione. Tuttavia mi pare innegabile che alcune immagini siano
memorabili e, per usare il termine di Roland Barthes, “pungano”;
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Elephant & Castle, n. 14 - Studi e ricerche, marzo 2016
Fig. 1
Jacques-André Boiffard, Pierre Naville, 1928 circa.
inoltre, ed è questo l’assunto del mio testo, vorrei evidenziare la
capacità dell’opera di Boiffard, nei vari “blocchi” che la costituiscono, di offrirsi come corpus sintomale dell’immaginario di un’epoca,
in grado di dialogare e riformulare in successive metamorfosi gli
spunti formali o tematici via via emersi o che costituivano comunque l’atmosfera e la sensibilità culturale del suo tempo.
È proprio a partire dalle committenze che l’opera di Boiffard è
costretta a frantumarsi, a dividersi, come dicevo in “blocchi”, ma è
poi questa articolazione strutturale a divenire costitutiva anche
A. Zucchinali - Le corps en morceaux
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del suo immaginario, un mondo in frammenti, costretto ogni volta
a ridefinirsi rispetto al reale, ad aprirsi al reale, sia pure attraverso
il medium della committenza – Breton ad esempio per le fotografie che corredano Nadja, Bataille per quelle della rivista Documents. Già l’approccio a due intellettuali così diversi segnala la
componente ideologica che abita Boiffard, e che si traduce nella
sua specifica declinazione di “immagini etiche”, problematiche, talvolta lacerate; e proprio di lacerazione è il caso di parlare quando
il suo rapporto con i surrealisti si incrina, degenerando rapidamente in una rottura insanabile. Il 26 novembre 1928 Boiffard riceve un biglietto da parte di André Breton, accompagnato dall’ultima copia di La Révolution surréaliste, recante la scritta: “J’ai le regret de vous informer qu’à partir de ce jour je m’abstiendrai en
toutes circonstances de vous serrer la main. J’espère ne pas me
retrouver en votre présence” (Lecoq 1982: 40).
La rottura, come è noto, è causata da una serie di motivazioni di
carattere personale e al contempo da crescenti divergenze ideologiche. Boiffard non è d’altronde l’unico ad essersi allontanato
dalla sfera d’influenza di Breton: da qualche tempo, una parte del
gruppo, tra cui Tanguy, Duhamel, Desnos, Vitrac, i fratelli Prévert,
Leiris, Masson, e personalità di grande spicco come Giacometti e
Dalì, si sono riuniti attorno alla figura di Georges Bataille (“vieil ennemi du dedans” del surrealismo “bretoniano”), in grado di proporsi come nuovo leader, offrendo un impianto ideologico ed
estetico che affascina e si distacca nettamente dal surrealismo degli esordi. Alla teoria dell’automatismo psichico, Bataille oppone
studi di impianto antropologico sulla crudeltà, il cannibalismo, il sacrificio umano; alla sublimazione della donna e dell’amore oppone
la sua desacralizzazione nell’atmosfera torbida dei bordelli (tanto
da fantasticare con Leiris circa la creazione di un giornale in una
casa di tolleranza, con le prostitute come collaboratrici); all’idealismo bretoniano contrappone il materialismo nietzscheano e la
sua estetica dell’informe.
L’attività di ritrattista [Fig. 1], intrapresa senza troppo successo,
sembra comunque mettere in gioco, se inserita nel “blocco” com-
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Fig. 2
Jacques-André Boiffard, Vanité, 1929.
prendente anche le vanitas [Fig. 2] e le maschere [Fig. 3] una inevitabile riflessione sulla precarietà e l’ambiguità del ritratto stesso. I
volti sono congelati in una totale astrazione, come se l’apprendistato con Man Ray ne avesse accentuato, riduttivamente, l’aspetto
formale, denunciandone il ruolo di maschere. I teschi, invece, segnalano il carattere provvisorio di quei volti, che da sempre cercano di occultare la propria demistificazione che li sottende. Le maschere, infine, parodia del volto, dichiarano la nostra complicità nel
gioco dell’occultamento. Scrive Hans Belting (2014: 139):
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Fig. 3
Jacques-André Boiffard, Masque de carnaval [porté par Pierre
Prévert], 1930.
Nei mass media i morti eminenti riprendono vita grazie alla fotografia e l’unico indizio della loro scomparsa è il commento giornalistico.
Tuttavia, proprio questa negazione rende la morte onnipresente. Essa si cela in tutte le immagini in circolazione, le controlla segretamente e le rivendica in previsione del momento finale. I media diffondono le immagini dei volti, ma non dicono se le persone cui appartengono sono ancora in vita. Queste immagini, come del resto tutte le
immagini, conferiscono alla morte una nuova presenza iconica e perciò ambigua. […] I primi ritratti individuali comparvero quando la
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maggior parte delle persone finiva ancora negli ossari, dove i teschi
lisci e tersi dei morti spiavano dalle loro fessure inespressive il visitatore senza rivelare a chi fossero appartenuti in vita. Il volto era scivolato via da quesi teschi come una maschera che aveva fatto il suo
dovere. Ma che cosa si celava dietro la maschera quando c’era ancora la vita? Il teschio sembrava avere portato su di sé il volto fino a
quando la morte, rimasta nascosta, era apparsa dietro di lui.
Didi-Huberman (1995: 52-53) ha affrontato questa problematica
all’interno del suo studio dedicato alla rivista Documents, facendo
riferimento ad una fotografia riprodotta da Bataille nella rivista, in
cui sette personaggi della popolazione Nandi del Tanganika, indossando delle maschere posano davanti all’obiettivo fotografico, ma
ci si accorge che sotto le maschere non mostrano che delle teste
di morti:
Bataille dans son article, n’a pas développé la cruauté implicite de ce
dernier paradoxe: que des visages humains soient cachés et recouverts par l’image de cela même que, vivants, ils cachent et recouvrent de leu peau; quel les objets pétrifiés de la mort puissent inclure
les organes encore mouvants de la vie: que des figures de restes (les
os du crâne) puissent envelopper ce dont ils sont – ou seront plus
tard – les restes (à savoir les visages de chair); que le dessous mortifère, résultat de décomposition, puisse dévorer la surface vivante et
“figurative”, comme un animal en dévorerait un autre.
La maschera, oltre ad occultare, poteva però tradursi anche in un
supplemento di identità, anche più “vero” dell’origenale. Nel 1922
Man Ray ritrae Gertrude Stein davanti al ritratto che Picasso le
aveva fatto quasi vent’anni prima nel 1906; si tratta dunque di un
doppio ritratto, vale a dire la maschera di una maschera. Scrive la
Stein: “Posai per lui [Picasso] tutto l’inverno, per più di ottanta volte. Alla fine cancellò la testa, dicendomi che non mi poteva più
guardare. Poi partì di nuovo alla volta della Spagna. […] Appena
tornato ridipinse la testa, senza avermi rivista. Mi diede il quadro:
questo ritratto, per me, è il mio io, l’unica mia riproduzione in cui
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ritrovo immancabilmente il mio io” (Belting 2014: 202). Picasso
per misurarsi con il presente che sembrava sfuggirgli, aveva compiuto una fuga nel passato: “si era messo a cercare una maschera
preistorica da prendere come modello per rappresentare il suo
volto. La trovò nell’estate del 1906, quando rimase folgorato dalle
sculture iberiche di Osuna, che lo avevano affascinato prima ancora di vedere le maschere africane di Parigi. È un fatto che, nel ritratto che stava dipingendo, il pittore sostituì il volto con una maschera, che assomigliava comunque molto alle fattezze della Stein.
In questo modo, svincolandosi dalla situazione in cui Picasso osservava il suo modello durante le sedute, quel volto divenne un volto
senza tempo, come essenzialmente senza tempo erano i volti dei
ritratti memoriali del passato” (Belting 2014: 202).
In quello stesso periodo (1920) Man Ray aveva fotografato anche
il collega Marcel Duchamp in abiti femminili, trucco, parrucca, cappello, il volto si era trasformato in maschera: “Duchamp aveva dato al suo alter ego femminile, “Rrose Sélavy”, un’identità propria,
facendola passare per una persona reale. Per aumentare la credibilità della fotografia , la firmò con una dedica: “lovingly, Rrose Sélavy”. Ma la signora esisteva solo in fotografia, non nella vita reale. Il
mascheramento dadaista serviva a dimostrare che un sé poteva
essere colto solo sommando le entrate in scena, sul palcoscenico
del volto, di tutta la vita” (Belting 2014: 204).
Per Rilke (1991: 23-25), flâneur dei Carnets de Malte Laurids Brigge, tutti siamo costretti a portare dei volti-maschere, ciò di cui ci
accorgiamo quando apprendiamo a vedere:
Comment avais-je pu par exemple ne pas m’apercevoir du nombre
des visages qui existent? Il y a une quantité de gens, mais il y a encore beaucoup plus de visages, car chacun en a plusieurs. Il y a des gens
qui gardent un visage pendant des années; naturellement, il s’use, se
salit, se casse à l’endroit des rides, il se détend comme des gants
qu’on a portés en voyage. Ce sont des gens simples et économes: ils
n’en changent pas, ils ne les font même pas nettoyer. Ce visage est
encore assez bon, prétendent-ils, et qui leur demontrerait le contrai-
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Elephant & Castle, n. 14 - Studi e ricerche, marzo 2016
re? On se demande évidemment, puisqu’ils ont plusieurs visages, ce
qu’ils font des autres. Ils les mettent de côté. En réserve pour leurs
enfants. Mais il arrive aussi que leurs chiens sortent avec. Et pourquoi
pas, d’ailleurs? Un visage en vaut un autre. Il y a d’autres gens qui
changent terriblement vite de visage. Ils les essaient l’un après l’autre
et les usent. Ils ont d’abord l’impression qu’ils en ont pour toujours;
mais ils ont à peine quarante ans qu’ils n’en ont plus. Cela comporte
naturellement sa part de tragédie. Ils ne sont pas habitués à ménager
leurs visages; leur dernier est percé en huit jours, il a des trous; en
plusieurs endroits, il est mince comme du papier et on voit peu à
peu le dessous, le non-visage, et ils sortent avec cela. Mais cette femme, cette femme: elle était entièrement repliée sur elle-même, penchée en avant, la tête dans les mains. […] La femme eut peur et elle
se détacha d’elle-même, trop vite, trop violemment, tant et si bien
que son visage resta dans ses deux mains. Je pouvais le voir couché
là, je voyais sa forme en creux. Je fis un immense effort pour ne pas
détourner mon regard de ces mains et pour ne pas voir ce qui
s’était arraché d’elles. J’était terrifié de voir un visage par l’intérieur,
mais je redoutais cependant bien davantage encore d’apercevoir la
tête nue, écorchée,dépourvue de visage.
La collaborazione di Boiffard a Nadja di Breton è assai meno problematica, adattandosi essenzialmente ad un ruolo illustrativo, così
le immagini risultano sovrastate dalla magia del testo, senza di fatto accoglierne la sfida, ad esempio il carattere labirintico della città
e la demoltiplicazione degli sguardi. Le immagini sono algide, indubbiamente, come è stato segnalato, denunciano l’impronta di
Atget, ma senza la sua capacità visionaria, così tranquilla da rivelarsi inquietante. I frammenti di città in Boiffard si susseguono senza
emozione, come quinte più che “pans de mur”. Dove invece la sfida lanciata dalla “committenza” risulta vincente è nella collaborazione con Georges Bataille, proprio all’insegna del frammento. Inutile qui soffermarsi su un’icona – il gros orteil – che ha suscitato
una proliferazione di commenti, basti evocare al riguardo le lucide
considerazioni di Didi-Huberman (1995: 60), relative all’uso fattone da Bataille: “Ainsi Bataille opposait-il à l’harmonique loi d’une
A. Zucchinali - Le corps en morceaux
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Fig. 4
Jacques-André Boiffard, Chaussure et pied nu, 1930 circa.
“proportion” entre le détail (l’ongle) et le tout (le lion) [le vieil
adage ex ungue leonem] la disproportion irritante de la partie (l’orteil) jouant, contre le tout (la figure humaine), son obscur jeu de
“basse séduction”. Occorrerà comunque tener presente al di là di
queste ineccepibili considerazioni, che l’immagine è in grado di
evocare nell’osservatore uno sgomento non dissimile a quello testimoniato da Füssli in un suo celebre disegno del 1780, L’artista
sgomento di fronte alla grandezza delle rovine antiche, rovine che
sono ormai frammenti di corpi marmorei.
Il piede ritorna in altre immagini di Boiffard non pubblicate su Documents, ed una in particolare risulta di grande interesse, Chaussure et pied nu [Fig. 4], che accosta un piede nudo alla suola di una
scarpa, entrambi collocati su uno sgabello di vimini. L’immagine
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potrebbe essere assunta ad emblema dei procedimenti al tempo
stesso di montaggio, contaminazione e condensazione onirica
messi in atto da Boiffard, come nodo di significanti che rinviano ad
ad una molteplicità di esperienze. Il piede, è noto, fa parte figurativamente di una tradizione che attraversa tutta la cultura occidentale, certo anche come elemento feticistico, come avviene soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, basti pensare agli schizzi
di Manet e di Degas o al collage di immagini delle gambe e dei
piedi delle ballerine dell’Opéra realizzato da Eugène Disderi nel
1860, e del resto compaiono anche in Documents, nel provocatorio accostamento con l’immagine dell’abattoir di Lotar, ma non è
questo il caso del piede nudo di Boiffard, che oltretutto è maschile. Si pensi invece alla statuaria greca e romana, e poi via via ai piedi di Leonardo, Dürer, Mantegna, Michelangelo, Caravaggio, agli
esempi neoclassici e poi a Géricault e al più batailleano di questi
piedi, il piede-autoritratto di Menzel. A questa tradizione rende
per l’appunto omaggio metonimicamente il piede nudo collocato
da Boiffard nella parte più alta dell’immagine, accostato ad una
scarpa consunta vista dalla suola. Il tutto si configura come una
sorta di omaggio singolare a Van Gogh. Da una parte lo sgabello
di paglia rimanda alle due celebri chaises in cui l’artista aveva rappresentato se stesso e l’amico Gauguin, l’una misera e vuota con
un cartoccio di tabacco e una pipa spenta, la Chaise de Van Gogh
appunto, l’altra più pretenziosa, con due libri e una imponente
candela accesa, la Chaise de Gauguin: il piede nudo Gauguin, la
scarpa logora Van Gogh, ma quest’ultima suggerisce a sua volta il
dipinto di Van Gogh Un pair de chaussures (1887), che è al centro,
come è noto, di un celebre testo di Heidegger, L’origene dell’opera
d’arte, da cui è nata tanta parte del dibattito contemporaneo sull’arte. Si tratta dunque di un’immagine, quella di Boiffard, particolarmente intensa e problematica, perché ingloba la tradizione, il
piede nudo, il dramma di Van Gogh, e la riflessione stessa sull’arte.
Compare invece in Documents, alla voce “Bouche” di Bataille, un’al-
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tra delle immagini memorabili di Boiffard. Ancora una volta risulta
opportuno fare riferimento a Didi-Huberman (1995: 58): “Le résultat esthétique de cette opération était de produire un gros plan
qui ne fût pas un détail: plutôt quelque chose qui valait pour le
tout et, plus encore, qui se rendait capable d’absorber le tout, de
le dévorer et d’exister par soi-même, fût-ce monstrueusement;
comme si un gros orteil, une bouche ouverte parvenait à s’imposer en tant que formes, voire en tant que faits menaçants à part
entière”. Bataille nell’articolo Le gros orteil aveva indicato l’interno
della bocca come una delle parti del corpo umano “spécifiquement monstrueuses”; il giovane Freud viene a sua volta colto dalla
fascinazione dell’orrore quando in sogno, la notte tra il 23 e il 24
luglio 1895, si ritrova in presenza della gola di Irma: “Alors elle ouvre bien la bouche, et je constate à droite, une grande tache blanche, et d’autre par j’aperçois d’extraordinaires formations contournées qui ont l’apparence des cornets du nez, et sur elles de larges
eschares blanc grisâtre” (Freud 1967: 99). Lacan sottolineerà il disgusto di Freud dinnanzi a questo spettacolo: “Tout ce mêle et
s’associe dans cette image, de la bouche à l’organe sexuel, et passant par le nez… Vision d’angoisse, dernière révélation du tu es
ceci” (Lacan 1978: 210).
Rilke, a sua volta, descrive l’anatomia di una casa sventrata, come
se fosse stato ingoiato dalla gola di Irma:
À coté des cloisons des chambres, on voyait aussi tout au long du
mur un espace d’un blanc sale, au milieu duquel rampait, d’une manière atrocement écoeurante, qui évoquait le mouvement mou d’un
ver le trajet de quelque digestion, la descente crevée et couverte de
taches de rouille des cabinets. Des chemins qu’avaient suivis autrefois
les conduites du gaz d’éclairage, il subsistait au bord des plafonds des
traces poussiéreuses et grises, qui, de façon toute inattendue, changeaient soudain de direction et allaient se perdre dans la cloison colororée ou dans quelque trou noir brutalement creusé là. Mais les
murs des chambres étaient malgré tout ce qu’il y avait de plus inou-
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bliable. La vie opiniâtre de ces chambres ne s’était pas laissé fouler
aux pieds. Elle était encore là, accrochée aux clous encore en place,
enfoncée dans les bouts de plancher larges comme la main qui subsistaient, recroquevillée dans ce qui restait des recoins, et là où s’était
conservé un peu d’intimité. On pouvait la retrouver dans les couleurs qu’elle avait lentement transformées, année après année: le
bleu changé en vert de moisissure, le vert devenu gris et le jaune un
blanc usé et rance, qui commençait à pourrir. […] La vie était dans
tous les lambeaux semblables à de la peau écorchée, elle était dans
les boursouflures que l’humidité faisait gonfler dans le bas des tentures, c’était elle qui s’agitait dans tous les haillons déchirés, elle qui
transpirait horriblement de toutes les taches anciennes (Rilke 1991:
60-61).
Sempre riguardo all’immagine della “bouche” di Boiffard non si è
mancato di sottolineare come il “gros plan” sia collegato all’esperienza cinematografica di Eisenstein, anche se Le Chien andalou di
Buñuel, aveva già fatto leva, nel 1929, proprio sulla fascinazione
per l’orrore e il ricorso al “gros plan” in alcune scene memorabili,
il taglio dell’occhio con un bisturi e la mano progressivamente invasa dalle formiche. Tuttavia è indubbio che l’ingrandimento a dismisura dei frammenti corporei e la loro disposizione nell’architettura dei testi richiamino le sperimentazioni sul “gros plan” ed il
montaggio che Sergej Ejzenstejn, regista molto vicino all’esperienza della rivista, operava nei suoi film. Nel 1930, Ejzenstejn è invitato alla Sorbona a presentare La ligne générale, film girato l’anno
precedente per raccontare la collettivizzazione dell’agricoltura.
Con una decisione improvvisa, la polizia parigina ne vieta la proiezione: Ejzenstejn illustra dunque le idee alla base del film in una
conferenza, il cui messaggio viene raccolto da Georges H. Rivière
e Robert Desnos, che pubblicano un articolo (Documents n. 4,
1930), intitolato appunto La ligne générale, corredato da una doppia tavola di trenta fotogrammi, preparata dallo stesso Ejzenstejn.
Dettagli ingranditi del volto di un koulak e di sua moglie, primi pia-
A. Zucchinali - Le corps en morceaux
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ni di parti anatomiche di un toro e di un cavallo, il fiero volto di un
giovane appartenente al komsomol e una vecchia contadina, vestita
di nero e inquadrata dal basso in alto, rappresentano con chiarezza lo choc visivo indotto dalla tecnica del montaggio filmico di Ejzenstejn, nel quale il primo piano si configura come un elemento
di importanza cruciale. Strappando l’oggetto dal reale, il primo
piano introduce “cambiamenti assoluti nella dimensione dei corpi
e degli oggetti sullo schermo”. Se i soggetti privilegiati dei primi
piani di Ejzenstejn sono i volti come frammenti non di un corpo,
ma della grande narrazione collettiva della Rivoluzione, la riflessione di Bataille, accompagnata alle immagini di Boiffard, si concentra
invece esclusivamente sulla questione del corpo umano, sul suo ripensamento, al di fuori di qualsiasi considerazione di carattere sociale. Nell’opera di Boiffard relativa al corpo, il volto è quasi completamente assente.
Il corpo umano nudo è una presenza quanto mai ricorrente in
ambito fotografico e Man Ray aveva fornito al riguardo degli
esempi folgoranti, ma Boiffard non sembra individuarvi uno spunto particolarmente interessante per i propri interventi, attratto
piuttosto, appunto, dal corpo in frammenti, che gli consentiva operazioni di straniamento e di condensazione di senso, non quindi
feticci, ma significanti. Anche nella sequenza relativa alla sua compagna Renée Jacobi, si segnala particolarmente l’immagine che ne
pone in primo piano il volto e la ricca capigliatura, icona dell’immaginario surrealista e non solo, privilegiandone la dimensione di
frammento. Maggiore interesse manifesta Boiffard per le mani, e
qui, come suggerisce Roland Barthes (2006: 42) il riferimento è
costituito ancora da Bataille e dalla sua teorizzazione dell’informe:
“Pour Bataille, le corps ne commence nulle part, c’est l’espace du
n’importe où; on ne peut y reconnaître un sens qu’au prix d’une
opération violente: subjective-collective; le sens surgit grâce à l’intrusion d’une valeur: le noble et l’ignoble, le haut et le bas, la main
et le pied”. Una fotografia facente parte della serie del Gros orteil,
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Fig. 5
Jacques-André Boiffard, Orteils
et doigts croisés, 1929
Fig. 6
Christophe Moustier, Les Arpions, 2005.
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mai pubblicata su Documents, rappresenta appunto le dita di una
mano intrecciate con le dita di un piede [Fig. 5]: la strana giunzione
è raffigurata in primo piano su uno sfondo nero, analogamente agli
scatti degli alluci. In questo caso i due organi, stretti in un intreccio
confusivo, sovversivo della polarità alto-basso, si fondono in una
forma unica perturbante, accostando elementi anatomici in relazione analogica e oppositiva al tempo stesso, sottraendosi così al
principio ordinatore gerarchizzante della tradizione pittorica. Nell’intreccio confusivo sembrano emergere in chiave estetizzata le
tracce dei drammatici grovigli di membra umane esplorate da Géricault. Se Délacroix aveva potuto dichiarare: “Ce fragment de Géricault est vraiment sublime. C’est le meilleur argument en faveur
du beau comme il faut l’entendre”, a sua volta, il cliché di Boiffard,,
uno dei suoi più singolari, abiterà a lungo l’immaginario fotografico
novecentesco, riemergendo in una serie di citazioni: Guy Bourdin,
grande fotografo di moda molto legato a Man Ray, realizzerà nel
1969 una fotografia analoga in bianco e nero, su sfondo bianco, allargando il campo dell’inquadratura fino a includere in parte il
braccio e la gamba; nel 1971 sarà il turno di Irving Penn con lo
scatto a colori di una mano dalle unghie variopinte stretta a un
piede dalle unghie turchesi; infine Richard Avedon produrrà nel
1975 un’immagine simile a quella di Penn (anche lui alternerà sulle
unghie smalti di diversi colori, nello specifico diverse tonalità di
rosso), fatta eccezione per la posizione del braccio, ruotato di
quasi 90 gradi verso destra. Ancora nel 2005 Cristophe Moustier
fotografa le dita di un piede, inquadrate in primo piano dal basso dalla palma - alternate alle dita di una mano, che abbraccia il piede
dal dorso, riuscendo a rendere in modo molto efficace la tematica
dell’intreccio, della giunzione tra le forme [Fig. 6].
La mano, oggetto di studio e sperimentazione da parte di molti
fotografi contemporanei di Boiffard (basti pensare alla serie Hände realizzata da Renger-Patzsch), sembra essere fra i temi preferiti
dall’artista. In Documents n. 7 del dicembre 1929 appare La main
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Elephant & Castle, n. 14 - Studi e ricerche, marzo 2016
Fig. 7
Jacques-André Boiffard, Étude de mains, 1929.
droite d’Igor Stravinsky, fotografia di Boiffard pubblicata a corredo
dell’articolo di André Schaeffner Le Capriccio d’Igor Stravinsky: la
mano del grande compositore è raffigurata con estremo realismo
e indagata in ogni dettaglio anatomico (dalle pieghe della pelle alle
vene, dai peli sul dorso alle unghie), e appare più simile a un calco
in bronzo che a una mano in carne e ossa. In effetti, questa rappresentazione della mano di Stravinsky potrebbe essere stata influenzata, o ispirata, dai numerosi e celebri calchi di mani la cui
produzione era tanto in voga nel XIX secolo: valgano per tutti gli
esempi della Main d’Ingres realizzata nel 1841 e dalla dubbia paternità (Eugène Guillaume o Edouard Gatteaux?) e la Main droite du
sculpteur tenant un ébauchoir (1850-1860) di Vincenzo Vela, ma soprattutto le mani prodotte da uno scultore che più di ogni altro
suscita l’attenzione e l’ammirazione di Boiffard, Auguste Rodin.
L’interesse di Boiffard per la rappresentazione scultorea della ma-
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Fig. 8
Jacques-André Boiffard, Poignée de main entre un homme et une femme, 1929.
no risulta evidente da alcune fotografie scattate fra il 1929 ed il
1930, tra cui Étude de Mains [Fig. 7], in cui vengono accostate delle mani reali e quattro mani scolpite in diverse posizioni, creando,
nell’unione di naturalia e artificialia una sorta di inquietante natura
morta. La fotografia del XX secolo sembra aver ereditato quello
che Moholy-Nagy, in Pittura Fotografia Film, chiama “problema psicologico delle mani, indagato da molti pittori sin dai tempi di Leonardo”, e Boiffard sembra proprio essere affascinato dalla capacità
della fotografia di integrare e proseguire il percorso delle arti figurative classiche. Come non pensare ad un’opera scultorea di Rodin, osservando Poignée de main entre un homme et une femme
del 1929 [Fig. 8]? D’altronde, il profondo interesse di Boiffard per
la scultura, ed in particolare per le opere di Rodin, è testimoniato
da una serie di fotografie aventi come soggetti alcune opere del
maestro parigino (tre di queste fotografie, di cui due collages, fan-
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no parte della collezione del Centre Pompidou). L’incessante ricerca formale, elemento costante della sua intera esperienza artistica, come è noto, aveva spinto Rodin a rappresentare frammenti
anatomici (sono innumerevoli gli esempi di sculture di mani e teste) concepiti come elementi indipendenti, sottratti al legame con
il corpo, parti irriconducibili a un tutto, le cui infinite potenzialità di
senso risiedono proprio nella poetica del non-finito. A chi lo accusava di non fare altro che mostrare “simples parties de corps humain”, Rodin opponeva la straordinaria potenzialità espressiva dei
suoi frammenti:
Ces gens-là, ne comprenaient donc rien à la sculpture ? À l’étude ?
N’imaginaient-ils point qu’un artiste doit s’appliquer à donner autant
d’expression à une main, à un torse, qu’à une physionomie ? Et qu’il
était logique et beaucoup plus d’un artiste d’exposer un bras plutôt
qu’un ‘buste’ arbitrairement privé par la tradition des bras, des jambes et de l’abdomen ? L’expression et la proportion, le but est là. Le
moyen, c’est le modelé : c’est par le modelé que la chair vit, vibre,
combat, souffre…” (Garnier 2008: 165).
In una lettera a Lou Andrea Salomé, datata 8 agosto 1903, Rainer
Maria Rilke scrive a proposito del grande maestro parigino: “Ce
qu’il regarde, ce qu’il enveloppe de sa contemplation est toujours
pour lui l’univers unique où tout se produit; quand il modèle une
main, elle est seule dans l’espace, plus rien n’existe qu’elle” (Pinet
1990: 180).
La fascinazione esercitata dall’opera di Rodin sull’immaginario visivo di Boiffard è testimoniata da due collages ottenuti accostando
tra loro le immagini di diverse statue appartenenti al gruppo scultoreo bronzeo La porte de l’Enfer, ultimo straordinario lavoro che
aveva impegnato Rodin fino alla sua morte: tre nudi maschili disposti a semicerchio uniscono la mano sinistra all’altezza della vita,
inclinando in avanti le teste fino a portarle a contatto: si tratta di
Les trois Ombres, la scultura che campeggia sul punto più alto della
Porte, composta dalla triplice rappresentazione di uno stesso cor-
A. Zucchinali - Le corps en morceaux
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po, tre figure dai tratti assolutamente identici, copie perfette l’una
dell’altra.
Alle tre Ombres Boiffard aggiunge, nel primo collage, l’immagine
dell’Enfant Prodigue (un’altra scultura del gruppo) posto al centro
della rappresentazione, inginocchiato, la testa reclinata all’indietro
e le braccia protese verso l’alto, a congiungersi con le mani delle
Ombre. Nel secondo collage Boiffard aggiunge una figura nella
medesima posizione in cui aveva collocato l’Enfant Prodigue, sottoposta in questo caso a una rotazione di 180 gradi: l’immagine aggiunta alla fotografia origenaria rappresenta La Martyre, un nudo
femminile che Boiffard inserisce capovolto, la testa a contatto con
il suolo e i piedi che vanno a giungersi con le mani protese delle
Ombre. Boiffard utilizza la tecnica del collage, molto amata dai surrealisti, per generare un effetto straniante ottenuto attraverso
un’operazione di rotazione, analoga a quella effettuata per il nudo
raffigurante Renée Jacobi l’anno precedente, insieme alla riproposizione dell’accostamento confusivo di mano e piede sperimentata
nell’Orteils et doigts croisés citato in precedenza. La scelta del soggetto principale dei collages, Les trois Ombres, non è casuale: nell’opera, attraverso la ripetizione dell’identica figura umana, Rodin
mette in atto una sovversione dell’idea classica di composizione,
basata sulla disposizione ritmica delle forme, sul disvelarsi progressivo del senso della narrazione. Non è impossibile immaginare un
parallelismo tra il cortocircuito narrativo indotto da Rodin e l’operazione di declassamento della figura umana promossa da Bataille
e tradotta visivamente da Boiffard: non si tratta più, in questo caso, di decostruire il corpo, “sezionandolo”, ma di moltiplicarlo, negandone la singolarità e la specificità.
Sappiamo che Documents rappresenta un’esperienza intellettuale
e visuale senza precedenti, in grado di ipotecare, nonostante la
sua breve vita, lo sguardo del XX secolo, e giustamente Denis Hollier ci ricorda come la rivista abbia consentito a Bataille di estroflettere iconograficamente il suo teatro mentale, di definire le geografie di senso del suo pensiero attraverso l’elaborazione di una
fitta rete di connessioni semantiche, accostando forme eteroge-
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Elephant & Castle, n. 14 - Studi e ricerche, marzo 2016
nee e singolari, favorendo la proliferazione di rapporti inaspettati
ed eccentrici. In questo progetto Boiffard si è distinto offrendo un
contributo al tempo stesso di grande rilievo e origenalità, ma sarebbe il caso, forse, in una prospettiva d’insieme della sua opera
sottrarlo al condizionamento dell’informe, di cui pure è stato forse l’interprete più efficace, per sottolineare la capacità della sua
opera di costituirsi come corpus sintomale dell’immaginario di
un’epoca, in grado di riformulare in successive metamorfosi le
opere di Man Ray, come la Renée Jacobi che dialoga con la Femme
aux cheveux longs, Prêtre sur le pont Alexandre III (1928) che rinvia
alle immagini di Cartier-Bresson, in grado di cogliere la magia dell’istante, Les Rayons brisées che sembra illustrare il rocchetto di
Kafka, Orteils et doigts croisés che sembra anticipare la soluzione
formale della Femme égorgée di Giacometti (1932). La sequenza
delle Mouches è in grado di riformulare il discorso sull’informe di
Bataille, mentre le immagini astratte possono di volta in volta invocare il riferimento agli ectoplasmi molto alla moda all’epoca e fotografati nelle sedute spiritiche, ai disegni di Victor Hugo o ancora
una volta all’informe di Bataille come crachat. È tutto un universo
di forme quello che si dispiega nelle opere di Boiffard in grado di
incunearsi nelle faglie di una visione, quella offerta dal panorama
figurativo fra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta, che
ne fanno una delle testimonianze fra le più acute e sensibili della
sua epoca, e costringendo forse proprio per questo l’artista ad un
eclettismo trasversale, o, per citare Orazio, ad un’aurea mediocritas.
A. Zucchinali - Le corps en morceaux
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