ScC 140 (2012) 31-47
Franco Manzi
MOSÈ VI HA PERMESSO… MA IO VI DICO
(Mt 19,8-9)
Il matrimonio nel Nuovo Testamento
Sommario: I. Compimento dell’AT nel NT – II. Continuità: 1. Modello
patriarcale e poligamico del matrimonio israelitico; 2. «L’uomo si unirà a
sua moglie… »; 3. Valore pedagogico della legge mosaica – III. Discontinuità: 1. «All’inizio non fu così»; 2. Attualizzazioni delle comunità cristiane primitive; 3. Dio non si arrende alle resistenze umane – IV. Progressione: 1. Il Figlio «esegeta» della rivelazione del Padre; 2. «Amatevi
come io vi ho amato»; 3. «Amatevi siccome io vi ho amato»
I. Compimento dell’AT nel NT
La costituzione conciliare Dei Verbum (n. 4) insegna autorevolmente
che Cristo, «compiendo la rivelazione» dell’AT, «la completa» e la porta a perfezione. Alla luce di questa nitida consapevolezza ecclesiale, illustriamo sinteticamente come, anche a riguardo del matrimonio, l’insegnamento – storicamente certo – di Gesù abbia portato a compimento la
rivelazione dell’AT.
A mettere a tema il modo del compimento cristologico dell’AT è stato soprattutto il documento Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella
Bibbia cristiana, pubblicato nel 2001 dalla Pontiicia Commissione Biblica1.
Focalizzando alcuni temi fondamentali2, esso ha precisato tre livelli di tale
compimento, vale a dire: la continuità, la discontinuità e la progressione3.
La continuità è dovuta al fatto che è l’unico Dio che gradualmente ha
rivelato nella storia se stesso e il proprio piano salviico universale (cf Dei
Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella
Bibbia cristiana (= Documenti Vaticani), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001.
2
Pontificia Commissione Biblica, Popolo ebraico, §§ 19-65, pp. 46-152.
3
Pontificia Commissione Biblica, Popolo ebraico, § 21, pp. 51-54; §§ 64-65, pp.
148-152.
1
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Verbum, n. 14). Il suo desiderio di salvare l’intera umanità a partire da
Israele è stato portato deinitivamente a termine da Cristo, suo Figlio.
Ma la rivelazione di Cristo ha implicato anche una discontinuità rispetto all’AT. Tant’è che anche le persone semplici che seguivano Gesù
si meravigliavano non solo del modo autorevole con cui predicava (Mc
1,22), ma anche della novità del suo insegnamento (1,27).
Emblematico, da questo punto di vista, è il «discorso della montagna» (Mt
5,21-48), in cui peraltro è contenuto il primo «detto» di Gesù sul matrimonio
e sul divorzio (5,31-32). Questa sintesi matteana dell’insegnamento di Cristo,
da un lato, insiste sul compimento integrale della rivelazione anticotestamentaria («Non passerà un solo iota o un solo trattino della legge, senza che
tutto sia avvenuto», Mt 5,18; cf Lc 16,17); dall’altro, prende le distanze dalle
imperfezioni attestate nell’AT («Avete inteso […]. Ma io vi dico»)4. Ebbene,
una di queste «leggi imperfette» dell’AT è proprio «quella sul divorzio»5.
Ma la rivelazione di Cristo si diferenzia da quella anticotestamentaria
non solo in negativo, puriicandone i limiti, ma anche in positivo, attraverso una progressione sostanziale: il Figlio incarnato ci ha fatto l’«esegesi»
autentica e deinitiva della rivelazione di Dio e dei suoi comandi (Gv 1,18),
inalizzati a indicarci la «via» per entrare, già su questa terra, nella vita
eterna e gioiosa con lui (cf Gv 14,6).
Anche a riguardo del matrimonio, la rivelazione di Cristo porta a compimento quella dell’AT a questi tre livelli, che vale la pena di approfondire.
II. Continuità
1. Modello patriarcale e poligamico del matrimonio israelitico
Sul piano della continuità, è fuori discussione la multiforme dipendenza delle leggi dell’antico Israele da quelle delle civiltà circostanti. Evidentemente questa dipendenza riguarda anche l’istituzione della famiglia,
che, dall’antico Israele ino ai tempi di Gesù – e oltre –, si è strutturata
secondo il modello patriarcale e poligamico, tipico di tutto l’antico vicino
Oriente – e non solo6.
Mt 5,21-22.27-28.31-32.33-34.38-39.43-44.
Pontificia Commissione Biblica, Popolo ebraico, § 64, p. 150.
6
Per una trattazione sintetica e completa delle istituzioni familiari, cf R. de Vaux,
4
5
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33
Da un punto di vista teologico, si può riconoscere che Dio, con sapiente
pedagogia, ha fatto in modo che il popolo d’Israele «si sviluppasse armonicamente secondo le leggi storiche, traendo vantaggio dal contatto con
altri popoli culturalmente più progrediti e da tutte le proprie esperienze
e vicende»7. Anzi, considerando la storia retrospettivamente alla luce di
Cristo, si può osservare come quest’opera educativa nei confronti d’Israele si sia attuata attraverso una preparatio evangelica anche di altri popoli,
conformemente al progetto origenario di Dio di condurre alla salvezza
l’intera umanità (cf Dei Verbum, n. 14). L’istituzione del matrimonio, con
tutti i valori che sgorgano dall’amore di coppia aperto alla generazione
dei igli, è stato uno dei modi fondamentali dello Spirito per attrarre, in
dall’antichità, tutti i popoli verso la «bella notizia» che «Dio è amore»
(1 Gv 4,8.16).
Questo non toglie che Dio, nella sua amorevole discrezione, abbia fatto
maturare la coscienza iliale degli Israeliti, rispettandone sempre la libertà. Per questo, ha consentito che altre nazioni esercitassero su di loro inlussi socio-culturali e religiosi, in parte contrari alla sua volontà salviica.
Pur tuttavia nei confronti di questi elementi deleteri, Dio ha operato una
progressiva puriicazione, già nella fase anticotestamentaria della storia
della salvezza, ma soprattutto, grazie a Cristo e al suo Spirito, nella storia
della Chiesa.
2. «L’uomo si unirà a sua moglie…»
Con questa consapevolezza credente, iniziamo a evidenziare gli elementi essenziali di continuità della rivelazione di Cristo sul matrimonio
rispetto a quella anticotestamentaria.
Oltre al riferimento esplicito di 1 Cor 7,10-11 al «comando» del Signore, sono quattro i passi in cui Gesù prende posizione sul matrimonio monogamico e indissolubile: da un lato, Mc 10,2-10, parallelo a Mt 19,3-9 e,
dall’altro, Mt 5,31-32, parallelo a Lc 16,18.
Les institutions de l’Ancien Testament. I. Le nomadisme et ses survivances − Institutions familiales − Institutions civiles, Cerf, Paris 19895 [1960], 37-91.
7
A. Rolla, «Le “cose imperfette e temporanee” dell’A.T. alla luce dell’antico vicino Oriente», in G. Canfora (ed.), Costituzione conciliare “Dei Verbum” (= Associazione Biblica Italiana; Atti della XX Settimana Biblica), Paideia, Brescia 1970,
388-398: 389.
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A. L’insidiosa domanda sul divorzio rivolta a Gesù dai farisei
Il contesto di Mc 10,2-10 e del parallelo Mt 19,3-9 è polemico: alcuni
farisei si avvicinarono a Gesù per metterlo alla prova con una domanda.
Stando a Marco, gli chiesero se fosse lecito a un marito ripudiare la
moglie (10,2). La risposta sarebbe dovuta essere scontata, perché la legge
di Mosè permetteva il ripudio (cf Dt 24,1). Tuttavia, dal Vangelo secondo
Marco traspare che la speranza dei farisei fosse che Gesù contraddicesse
la legge, ofrendo loro un capo d’accusa contro di lui. In realtà, è molto
probabile che Marco abbia sempliicato l’interrogativo, ben sapendo che i
cristiani per cui scriveva, in gran parte provenienti dal paganesimo, non
erano né a conoscenza né interessati alle sottigliezze delle consuetudini
matrimoniali ebraiche.
Matteo, invece, che stende il suo Vangelo per una comunità giudeocristiana, sembra rispecchiare con più accuratezza le discussioni rabbiniche dell’epoca. Pare, quindi, storicamente più fondato che i farisei abbiano chiesto a Gesù non tanto se a un marito fosse lecito divorziare, quanto
piuttosto se gli fosse lecito farlo «per qualsiasi motivo» (Mt 19,3).
B. Discussioni rabbiniche sul divorzio
Il testo su cui verte la domanda dei farisei è Dt 24,1, che recita così:
Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi
avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei
qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni
in mano e la mandi via dalla casa.
Il problema interpretativo consisteva nel determinare questo «qualcosa
di vergognoso». A questo riguardo, le due scuole rabbiniche allora più in
auge, quella di Shammay e quella di Hillēl, avevano posizioni diferenti8.
La prima, più rigorista, dava della prescrizione deuteronomica un’interpretazione restrittiva: la clausola «qualcosa di vergognoso» si sarebbe
riferita soprattutto all’impudicizia della moglie, ma poteva comprendere
Un elenco abbastanza ampio di testi rabbinici – da cui attingiamo le seguenti citazioni – è oferto da H.L. Strack - P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch. I. Band: Das Evangelium nach Matthäus erläutet
aus Talmud und Midrasch, C.H. Beck, München 1922, 303-320.
8
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anche atteggiamenti disonorevoli dal punto di vista delle consuetudini
sociali, come, ad esempio, uscire da casa con i capelli sciolti. In buona
sostanza, però, Shammay consentiva al marito di ripudiare la moglie se
essa avesse commesso adulterio.
Invece, la scuola più “liberale” – e più “maschilista” (diremmo noi) –
di Hillēl includeva nella clausola qualsiasi altra cosa potesse dispiacere
al marito. Ad esempio, era suiciente che la moglie sciupasse del cibo o
addirittura che il marito s’innamorasse di un’altra donna.
Dalla scuola di Hillēl sarebbe uscito anche il famoso rabbi ‘Aqībā (50
circa-137 d.C.), secondo il quale un marito avrebbe potuto ripudiare la
moglie per uno solo di questi tre motivi: se essa non avesse trovato grazia
ai suoi occhi; se egli avesse rintracciato in lei qualcosa di vergognoso e per
«qualsiasi altra cosa». Certo, rabbi ‘Aqībā ricavava questi tre motivi da Dt
24,1, anche se – a dire il vero – ne forzava il testo9.
Sta di fatto che soprattutto l’interpretazione della scuola di Hillēl favoriva la prassi difusa specialmente nelle classi più facoltose del popolo
ebraico, in cui, tra l’altro, gli uomini si permettevano più mogli. D’altronde, la poligamia era attestata già negli antichi racconti biblici sui patriarchi, orientata com’era alla generazione di numerosi igli, un valore
fortemente sentito in tutte le civiltà antiche. Quindi, anche all’epoca di
Cristo, la poligamia rientrava tra gli «antichi costumi» del popolo ebraico10. Tuttavia, essa – analogamente al divorzio – era presupposta dalla
legge mosaica (cf Dt 21,15), ma mai direttamente prescritta. L’unico argomento su cui si discuteva era il numero delle mogli11. Ad esempio, nel
Talmud Babilonese, compilazione giuridica giudaica del V secolo d.C., un
rabbino sosteneva: «Un uomo può sposare quante donne vuole» (Jebamot,
65a). Poi, in realtà, il numero delle consorti dipendeva in gran parte dalle
possibilità economiche dell’uomo.
Sta di fatto che, ai tempi di Cristo e anche oltre, la poligamia era praticata, per cui venne successivamente codiicata nel Talmud. Ed è proprio
Cf A. Tosato, Il matrimonio nel giudaismo antico e nel Nuovo Testamento. Appunti per una storia della concezione del matrimonio, Città Nuova, Roma 1976, 28, n. 6.
10
Così attesta Flavio Giuseppe, Antiquitates Judaicae, XVII, 14.
11
Cf Talmud Babilonese, Jebamot, 44a; Mišnah, Jebamot, 4,11; Mišnah, Ketuboth,
10,1-6; Mišnah, Kiddušin, 2,7; Mišnah, Bekhorot, 8,4; Mišnah, Keritot, 3,7. Si veda
anche la testimonianza di Giustino, Dialogo con Trifone, 134 e 141.
9
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nell’ampia raccolta di testi talmudici che possiamo rintracciare passi di
una «durezza» sconcertante (cf Mc 10,5; Mt 19,8):
Una cattiva moglie è come la lebbra per suo marito. Qual è il rimedio? Che
egli la ripudi, e (così) sia guarito dalla sua lebbra.
Se uno ha una cattiva moglie, è un dovere religioso ripudiarla12.
Del resto, è innegabile che la prospettiva maschilista già segnasse le
interpretazioni di Dt 24,1 non solo di Hillēl, ma anche di Shammay. Anzi,
questa prospettiva già aiora dallo stesso testo deuteronomico, secondo
cui ad avere il diritto di ripudio è unicamente il marito. Soltanto in seguito si riconobbero alla donna alcuni diritti. Di per sé non era previsto che
la moglie ripudiasse il marito, cioè che lo mandasse fuori di casa, semplicemente perché era lei che, al momento delle nozze, era andata ad abitare
dallo sposo13. La moglie ripudiata aveva soltanto il diritto di farsi consegnare dal marito l’attestato di divorzio, così da potersi sposare di nuovo.
Tuttavia, questo era lecito solo in casi molto limitati, come: certe malattie
del marito, quali la lebbra; alcuni suoi mestieri legalmente impuri14; la sua
impotenza15; la sua decisione di non consumare il matrimonio16 o alcuni
voti che egli avesse imposto alla moglie17.
Ebbene, come testimonia Matteo, i farisei domandarono a Gesù di pronunciarsi sui motivi del divorzio, probabilmente per poterlo accusare di rigorismo o lassismo. Ma, come in altre occasioni, Cristo riuscì a sfuggire alla
trappola, non lasciandosi appiattire sull’opinione né della scuola di Hillēl né
di quella di Shammay. Anzi, non cadde nemmeno nell’errore d’invitare a
trasgredire la legge di Mosè. Al contrario, ai suoi avversari che si appellavano al precetto della legge di Mosè (Dt 24,1), Gesù ribatté con altri due passi
della stessa legge, presi dal libro della Genesi (1,27 e 2,24). Mostrò così la continuità sostanziale tra la sua posizione, chiaramente contraria al divorzio, e
l’intenzione salviica origenaria di Dio, che desiderava che la via alla felicità
dei coniugi fosse quella del matrimonio monogamico e indissolubile:
Entrambi i testi si trovano nel Talmud Babilonese, Jebamot, 63b.
Cf Giuseppe Flavio, Antiquitates Judaicae, XV, 259-260.
14
Cf Mišnah, Ketuboth, 7,10; Toseta, Ketuboth, 7,11, 270.
15
Cf Mišnah, Niddah, 11,12.
16
Cf Mišnah, Ketuboth, 13,5.
17
Cf Mišnah, Ketuboth, 5,5; 7,1-5; Toseta, trattato Ketuboth, 7,4, 268; 7,6, 269.
12
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Non avete letto – chiese Gesù – che il Creatore da principio «li fece maschio
e femmina» [citazione di Gn 1,27] e disse: «Per questo l’uomo lascerà il padre
e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne» [citazione di Gn 2,24]? Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo
non divida quello che Dio ha congiunto» (Mt 19,4-6).
Con questa interpretazione della legge mosaica (Mc 10,3b), Gesù mostrò di essere l’«esegeta» di Dio Padre (Gv 1,18), mandato da lui stesso a
spiegarci ciò che, in dal «principio» (Gn 1,1) – cioè in dall’eternità –, egli
desiderava per la nostra salvezza.
Ma il fatto stesso che sia i farisei sia Gesù abbiano citato la sacra Scrittura a sostegno del proprio modo antitetico d’intendere il matrimonio,
non potrebbe far sorgere il sospetto che la Bibbia contenga delle contraddizioni? Non è che Dio, che ha ispirato l’intera sacra Scrittura, si è contraddetto?
3. Valore pedagogico della legge mosaica
In quanto cristiani, crediamo – sulla base della stessa rivelazione di
Dio – che «tutta la Scrittura sia ispirata da» lui (2 Tm 3,16; cf 2 Pt 1,20).
Questa consapevolezza ci porta a superare il rischio di un’interpretazione
tendenzialmente «marcionita» dell’AT, quasi che Gesù lo avesse semplicemente accantonato. In realtà, Gesù condivideva con tutto il suo popolo
– avversari inclusi – la convinzione di fede sull’origene divina delle sacre
Scritture e, quindi, anche sull’ispirazione della prescrizione del Deuteronomio sul divorzio.
Ma se il Figlio di Dio fatto uomo efettivamente prese le distanze da
questa legge deuteronomica, quest’ultima era davvero ispirata da Dio?
Certo! Ma nel senso che, presupponendo l’uso già invalso del divorzio,
essa cercava di arginarne la facilità d’attuazione. Potremmo dire che era
una legge con un intento pedagogico, già orientato all’insegnamento di
Cristo (cf Gal 3,24-25; Dei Verbum, n. 15). Difatti, il marito, che cacciava
di casa la moglie, era obbligato a darle il «libello di ripudio», che attestava
la propria rinuncia ai diritti coniugali su di lei.
Quindi, sul versante della ripudiata, questa norma era protettiva: con
quel documento, essa avrebbe potuto vivere del cosiddetto mōhar, cioè
della somma di denaro che lo sposo aveva versato al momento del con-
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tratto matrimoniale al padre di lei18. Ma soprattutto essa avrebbe avuto la
possibilità di andare in sposa a un altro uomo che l’avrebbe mantenuta.
D’altronde, sul versante del marito che ripudiava la moglie, Dt 24 era
una norma restrittiva, perché conteneva questa clausola:
Se ella [= la donna], uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro
marito e anche questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio,
glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o se quest’altro marito, che
l’aveva presa per moglie, muore, il primo marito, che l’aveva rinviata, non
potrà riprenderla per moglie […]» (Dt 24,2-4).
Insomma, la moglie non è lasciata al puro arbitrio del marito: una volta
che la ripudiata avesse sposato un secondo uomo, non avrebbe potuto più
essere ripresa dal primo marito, nemmeno in caso di morte del secondo.
All’interno della prassi divorzista d’Israele – inequivocabilmente per
noi «imperfetta» – intravediamo in questa norma due correttivi, suscitati
dallo Spirito di Dio e volti a salvaguardare la persona più debole, cioè la
moglie ripudiata.
III. Discontinuità
1. «All’inizio non fu così»
La discontinuità della risposta di Gesù rispetto alla prassi del divorzio – presupposta e arginata da Dt 24,1-4 – è evidente soprattutto in Mt
19,3-9. Dopo aver ascoltato l’appello dei farisei alla prescrizione deuteronomica – «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e
di ripudiarla?» (Mt 19,7) –, Gesù ricorda l’intenzione origenaria di Dio
chiaramente contraria al divorzio e poi accentua il suo disaccordo con un
«ma io vi dico»:
Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così
[prima affermazione della discontinuità]. Ma io vi dico:… [seconda sottolineatura della discontinuità]» (Mt 19,8; cf Mc 10,5).
Questa discontinuità si pone ad un duplice livello, perché tocca non
solo il merito della questione, ma anche il metodo con cui leggere la prescrizione del Deuteronomio.
Difatti, il padre della sposa avrebbe potuto goderne personalmente l’usufrutto,
solo se la iglia non fosse stata ripudiata né fosse rimasta vedova.
18
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Sotto il proilo del metodo interpretativo, Gesù insegna che
non basta appellarsi alle tradizioni, bisogna valutarle in base al loro dinamismo profondo, in base a quell’intenzione iniziale che le ha generate e che esse
a modo loro e per il loro tempo (ma spesso anche pagando il tributo alla debolezza degli uomini, alla loro poca fede e ai loro peccati) hanno cercato di
esprimere. È un principio che si deve applicare persino alle Scritture: tutto è
parola di Dio, ma c’è testo e testo. Gesù non mette sullo stesso piano Genesi
e Deuteronomio: il primo rivela l’intenzione profonda di Dio, il secondo
paga un tributo alla durezza di cuore degli uomini19.
Da questa consapevolezza deriva, dal punto di vista del contenuto, la
critica di Gesù alla legge sul divorzio. Per lui, si tratta di una concessione
di Mosè – e, in ultima analisi, di Dio che l’ha ispirato – all’antica prassi
divorzista vissuta dal suo popolo. Ma la causa di questa consuetudine va
rintracciata non nella volontà di Dio, bensì nella «durezza di cuore» degli
(antichi) Israeliti (Mt 19,8; Mc 10,5). Gesù denuncia la loro immaturità
morale, per cui non coglievano la dinamica salviica dell’amore coniugale
monogamico e indissolubile, voluto origenariamente da Dio. Potremmo
dire che Dio, per il divorzio – come per la poligamia e per molti altri usi
e costumi – ha portato pazienza nei confronti del suo popolo (cf Ne 9,30;
Rm 3,25-26).
Si noti, comunque, che anche a riguardo del passo di Dt 24,1-4 l’interpretazione di Gesù è più fedele al senso origenario rispetto a quella dei
farisei, proprio perché questa norma non intendeva essere una legalizzazione del ripudio, ma una regolamentazione del suo esercizio, a difesa
della moglie ripudiata.
Si capisce perché Cristo non abbia rimproverato Mosè di avere mal
interpretato la volontà salviica di Dio: «[Mosè] – afermò Gesù – scrisse
per voi questo comandamento [del divorzio] per la durezza del vostro
cuore». La responsabilità della concessione divina non è stata imputata a
Mosè, in quanto mediatore della legge ispiratagli da Dio, ma al popolo,
la cui «durezza di cuore» era la stessa dei farisei, venuti a mettere Gesù
alla prova.
19
B. Maggioni, Il racconto di Marco (= Vangelo e Vita), Cittadella, Assisi 19792, 148.
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In sintesi: come in altri casi20, Cristo critica qui le interpretazioni ipocrite di Dt 24,1-4. In particolare, denuncia la conseguente prassi divorzista, allontanatasi dall’intento restrittivo della concessione ispirata da Dio.
Ma, soprattutto, Cristo mette allo scoperto quanto tale prassi non fosse
conforme all’intenzione origenaria di Dio sull’amore coniugale, emergente da un’interpretazione fedele di Gn 1,27 e 2,24. La legge sul divorzio
– come tutte le altre «cose imperfette e caduche» attestate nell’AT (Dei
Verbum, n. 15) – è attribuibile alla «durezza di cuore»21 degli Israeliti,
oltre che ovviamente alla loro initezza creaturale e ai condizionamenti
socio-religiosi, provenienti in maniera consistente dai popoli dell’antico
vicino Oriente.
2. Attualizzazioni delle comunità cristiane primitive
Va notato poi che la critica di Gesù al divorzio è univoca in tutti e cinque i passi del NT che la ricordano, benché da essi appaia anche come le
comunità cristiane primitive abbiano applicato questo suo insegnamento
a variegate situazioni problematiche.
A. Vangelo secondo Marco
Più esattamente, l’evangelista Marco non si limita a riportare il divieto
di Gesù che un marito ripudi la moglie per sposarne un’altra (10,10), ma
estende tale divieto anche al caso della moglie che ripudia il marito per
sposarne un altro (10,12). Questa seconda fattispecie non si veriicava in
ambiente ebraico, dove la donna – come si è detto – non poteva cacciare
di casa il marito. In ambiente greco-romano, invece, poteva capitare che
una moglie benestante ripudiasse il consorte. Di conseguenza, Marco, che
scrive il Vangelo per una comunità cristiana in gran parte proveniente dal
paganesimo, inserisce – unico tra gli evangelisti – questa precisazione.
Cf specialmente Mt 6,1-6.16-18; Mt 15,3-6 (parallelo a Mc 7,6-13); Mt 23,1-36 (parallelo a Mc 12,38-40 e a Lc 11,39-52; 20,46); Lc 12,1 (parallelo a Mt 16,6 e a Mc
8,15); Lc 13,14-16; 16,15.
21
Cf Sal 4,3; 81,13; 95,8; Ger 7,24; 9,13; Ez 2,4; 3,7 e anche Mc 3,5; 6,52.
20
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41
B. Prima Lettera ai Corinzi
Analogo – anche se non identico – è il caso su cui interviene l’apostolo
Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi. Anche i cristiani di Corinto erano
per la maggior parte di cultura ellenistica. Perciò, Paolo applica fedelmente l’insegnamento di Cristo non solo al caso del marito che ripudia la moglie, ma anche a quello della moglie che si separa dal marito per sposarne
un altro:
Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito
[…] e il marito non ripudi la moglie (7,10-11).
Si nota la fedeltà di Paolo all’insegnamento di Cristo. Anzi, l’apostolo
giunge a puntualizzare che «qualora [la moglie] si separi, rimanga senza
sposarsi o si riconcili con il marito» (7,11). Quindi, l’ideale sarebbe che i
due si riconcilino. Tuttavia, se non vi riescono, per lo meno la moglie che
si è separata non si risposi.
C. Vangeli secondo Matteo e secondo Luca
L’evangelista Matteo riporta l’insegnamento di Gesù sul divorzio
all’interno del cosiddetto «discorso della montagna». Come Mosè diede
agli antichi Israeliti la legge ricevuta da Dio sul monte Sinai, così Gesù
sale sulla montagna per donare ai credenti in lui la legge nuova e deinitiva che porta a compimento l’antica.
[Da Mosè] fu pure detto [ecco la continuità con Dt 24,1]: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». Ma io vi dico [ecco la discontinuità che
si dischiude alla progressione della rivelazione]: chiunque ripudia la propria
moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (Mt 5,31-32).
A proposito dell’ultima precisazione, che riguarda il caso – inora non
considerato – di un uomo che sposa una donna divorziata, la testimonianza di Matteo sul divieto di Gesù concorda con quella dell’evangelista
Luca. Difatti, anche nel terzo Vangelo, Gesù, dopo aver dichiarato con
chiarezza che «chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra,
commette adulterio» (Lc 16,18a), aggiunge: «Chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio» (Lc 16,18b).
42
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D. «Tranne il caso di porneía»
All'interno dello stesso detto di Gesù l’evangelista Matteo inserisce
un’altra precisazione, che ha fatto scorrere iumi d’inchiostro di biblisti,
teologi e canonisti: «Chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di
porneía, la espone all’adulterio».
Siccome questa clausola ricorre soltanto nel Vangelo secondo Matteo, è
improbabile che sia un detto che risalga a Gesù stesso; il che non signiica
che essa non sia moralmente cogente per i cristiani.
Resta il fatto che questa «eccezione» sia stata aggiunta da Matteo per
applicare la parola di Gesù ai casi della comunità giudaico-cristiana cui
era destinato il suo Vangelo. Tant’è che l’evangelista ripete questa clausola in 19,9, nel contesto della suddetta disputa sul divorzio di Gesù con i
farisei22.
La traduzione più fedele di porneía è «impudicizia», che designa un
comportamento sessuale contrario alla legge di Mosè. È possibile ma improbabile l’opinione di vari biblisti, secondo cui Matteo riconoscerebbe
così la liceità della separazione del coniuge per l’impudicizia dell’altro,
ossia per il suo adulterio23. Se così fosse, l’evangelista avrebbe usato molto
probabilmente il sostantivo greco che indica l’«adulterio», cioè moicheía.
Tanto più che egli lo usa in 15,19 e, nei due detti di Gesù sul divorzio, ricorre al verbo moichâsthai («commettere adulterio»)24.
Tenuto conto i ciò, sembra più corretta la traduzione proposta attualmente da numerosi biblisti e dalla stessa Conferenza Episcopale Italiana,
vale a dire: «Se non in caso di unione illegittima». Difatti, è più probabile
che con porneía Matteo indichi le unioni coniugali vietate dalla legge di
Mosè in quanto incestuose (Lv 18,6-18), che efettivamente erano designate con il sostantivo ebraico zenût25 e con il termine greco porneía. A
I biblisti ritengono concordemente che sia un’aggiunta esplicativa e applicativa,
simile a quelle che di frequente ricorrono nel Vangelo secondo Matteo, soprattutto
al termine delle parabole di Gesù.
23
Ma anche se si trattasse di adulterio, il coniuge fedele potrebbe separarsi, senza però
accedere a nuove nozze, secondo quanto ha raccomandato Paolo (1 Cor 7,10-11).
24
Mt 5,32 e 19,9; cf anche moicheúein («commettere adulterio», 5,27.28.32; 19,18); e
moichalís («adultera», 12,39; 16,4).
25
In questa fattispecie rientrava anche il caso di un matrimonio poligamico in cui
fossero in gioco legami di secondo grado. Perciò doveva essere sciolto, com’era ri22
Mosè vi ha permesso... ma io vi dico
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quell’epoca, queste unioni erano ritenute come matrimoni leciti dai non
Ebrei. Anzi, anche gli Ebrei non ortodossi le praticavano. Stando però a
vari passi della letteratura rabbinica26 , quando un non ebreo, che viveva una relazione matrimoniale di questo tipo, si convertiva alla religione
ebraica, doveva interromperla. Perciò alcuni studiosi odierni catalogano
queste unioni con la categoria di «matrimoni nulli»27.
Due conferme di questa interpretazione di porneía nella clausola matteana si trovano nel «decreto» conclusivo del cosiddetto concilio di Gerusalemme riportato negli Atti degli Apostoli e nel caso della scomunica del
cristiano incestuoso nella Prima Lettera ai Corinzi.
E. Il «decreto» del concilio di Gerusalemme
Il concilio di Gerusalemme, svoltosi intorno all’anno 50, sancì la decisione ecclesiale d’annunciare l’evangelo di Cristo non solo agli Ebrei,
ma anche ai pagani. Tra le condizioni essenziali richieste ai pagani che
avevano creduto in Cristo per entrare nella Chiesa c’era proprio quella di
astenersi dalla porneía (At 15,29), ossia – come traducono anche in questo
caso numerosi biblisti e la Conferenza Episcopale Italiana – dalle «unioni
illegittime». Si tratta, quindi, delle suddette unioni incestuose vietate dalla legge mosaica.
Su questo punto, la Chiesa delle origeni, ponendosi in continuità con la
legge di Mosè, si sentì guidata dallo Spirito santo (cf 15,20-21.28).
F. L’incestuoso di Corinto
Anche Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, scritta pochi anni dopo il
concilio di Gerusalemme, ne applica il «decreto» conclusivo, scomunicando un cristiano di Corinto che si ostinava a mantenere una relazione incestuosa nella scandalosa indiferenza dell’intera comunità (5,1-13).
chiesto anche nel Documento di Damasco (IV, 20) e nel trattato Ketuboth (62b) del
Talmud Babilonese.
26
Cf l’elenco di passi in A. Tosato, Il matrimonio nel giudaismo, 34, n. 10.
27
Cf M.J. Redondo Andrés, «La interpretación de los textos de San Mateo sobre
la indisolubilidad», in P.-J. Viladrich et alii [edd.], El matrimonio y su expresión
canónica ante el III milenio. X Congreso internacional de derecho canónico, EUNSA,
Pamplona 2000, 113-118: 117-118.
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Franco Manzi
Da un lato, si deve riconoscere che in questa lettera il campo semantico
della porneía indica genericamente comportamenti sessuali immorali28.
Dall’altro, però, è decisivo vedere come Paolo usi questo campo semantico in riferimento al caso ben determinato di «uno» che «conviveva con la
moglie di suo padre» (5,1). Quasi sicuramente si trattava della matrigna di
quel tale, ossia una delle mogli – magari la più giovane – del padre, probabilmente defunto. Un’unione matrimoniale di questo tipo era permessa
dalle consuetudini coniugali greche, mentre era considerata – anche dopo
il decesso del padre – gravemente peccaminosa per la legge di Mosè (cf Lv
18,8) e proibita pure dal diritto romano.
3. Dio non si arrende alle resistenze umane
Osservando retrospettivamente la storia della salvezza a partire da
Cristo, ci si accorge che ciò che egli ha insegnato sul matrimonio e che è
stato attualizzato con fedeltà dalle comunità cristiane delle origeni, è in
continuità con un processo di maturazione del popolo ebraico. Suscitata
da Dio già alcuni secoli prima di Cristo, questa maturazione è testimoniata in alcuni scritti dell’AT e del giudaismo.
Tra le molteplici conferme in ambito anticotestamentario, ci limitiamo
a ricordare il netto riiuto del divorzio da parte del Signore, attestato nel
libro di Malachia (2,14-16). Questa profezia va contestualizzata all’epoca
del ritorno degli Ebrei dall’esilio babilonese (V sec. a.C.), quando capitava
non di rado che i rimpatriati ripudiassero le legittime mogli ebree e sposassero donne straniere. Finivano così per assumerne costumi e credenze
idolatriche. Di fronte a questa situazione deleteria, il profeta li rimproverò, perché il Signore, sposo fedele del popolo d’Israele, detestava il ripudio
con cui essi infrangevano l’alleanza matrimoniale con le proprie spose.
Ma, nonostante questo severo richiamo di Dio, la prassi divorzista si
difuse tra gli Ebrei. Come continuarono a denunciare i profeti, anche da
questo punto di vista gli Ebrei «si ribellarono e contristarono lo Spirito
santo» (Is 63,10; cf Ger 7,24; At 7,51; Eb 10,29). «Indurirono il cuore come
un diamante per non udire la legge e le parole che il Signore degli eserciti
Oltre a porneía («fornicazione», 1 Cor 5,1 [2 volte]; 6,13.18; 7,2), il campo semantico comprende i termini pórnē («prostituta», 6,15.16), porneúein («fornicare», 6,18;
10,8 [2 volte]) e pórnos («fornicatore», 5,9.10.11; 6,9).
28
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rivolgeva loro mediante il suo Spirito, per mezzo dei profeti del passato»
(Zc 7,12; cf Ez 2,4). Fu così che si ottenebrò la loro coscienza anche nel
modo di vivere il matrimonio.
IV. Progressione
1. Il Figlio «esegeta» della rivelazione del Padre
In questa situazione di ottenebramento morale, Gesù ha messo in luce
l’interpretazione autentica della rivelazione di Dio nell’AT. Il Figlio, che
«in principio […] era presso Dio» (Gv 1,1), è venuto in questo mondo a rivelarci il senso salviico dell’amore, che, appunto «in principio» (Gn 1,1), il
Creatore aveva disposto come ine dell’uomo. Prendendo le distanze dalle
tendenze divorziste del giudaismo coevo, Gesù – come in altri casi – si è
mosso sulla scia degli antichi profeti, attraverso cui Dio spesso aveva tentato di «correggere» le interpretazioni «umane, troppo umane», delle sue
esigenze salviiche.
2. «Amatevi come io vi ho amato»
In positivo – ecco la progressione nella rivelazione –, Gesù da un lato,
è venuto a donarci il suo Spirito (cf Gv 20,22), per riplasmare il cuore indurito dal peccato in un «cuore nuovo», come Dio stesso aveva promesso
mediante il profeta Ezechiele (11,19; 36,26). Dall’altro, ci ha insegnato – a
fatti, oltre che a parole – come si vive d’amore. Certo, lui l’ha vissuto da
celibe. Tuttavia, coloro che credono in Cristo come il rivelatore deinitivo del Dio-agápē, possono riconoscere nel suo modo singolare di vivere
l’amore i tratti essenziali dell’amore autentico, che poi si declinano nei
diversi stati di vita, matrimonio compreso. Secondo quanto ha rivelato
Gesù, l’amore è autentico nella misura in cui è totale, fedele, indissolubile
e fecondo come il suo.
L’amore di Gesù fu totale, perché, in vita e in morte, egli si donò agli
altri con tutto se stesso (cf Eb 9,14). Fu un amore fedele, perché Cristo
continuò ad amare i suoi amici, persino quando nella passione si comportarono da codardi e traditori. Fu un amore indissolubile, «ino alla
ine» (Gv 13,1), cioè «ino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8; cf
Gv 19,30). E fu un amore fecondo, giacché Gesù riuscì a trasmettere alle
persone amate la vita eterna con Dio.
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Franco Manzi
In questo senso, l’amore totale, fedele, indissolubile e fecondo di due
sposi è molto simile all’amore di Gesù. Anzi, ne è un’autentica partecipazione. Perciò lo lascia trasparire. Ne diventa segno eicace in vista della
salvezza non solo degli sposi, ma anche di chi lo vede, a partire dai igli.
Questo amore è un sacramento (cf Ef 5,32) e «non avrà mai ine» (1 Cor
13,8)!
Chi crede in Cristo riesce a capire che in questo amore sta la speciicità
di una famiglia cristiana, in cui gli sposi – ma anche i igli – coltivano «gli
stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Il credente comprende il motivo per cui seguitare a intendere il matrimonio come un
segno eicace dell’agápē salviica di Cristo. E il motivo è essenzialmente
questo: mediante Cristo, Dio per primo ha amato gli uomini; e l’ha fatto
eicacemente. Anzi, tramite lo Spirito del Risorto, Dio continua ad amarli
eicacemente. Perciò anche − e soprattutto − per la relazione coniugale
vale l’insegnamento della Prima Lettera di Giovanni:
Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. […] Se ci
amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.
[Dio] ci ha fatto dono del suo Spirito. […] Dio è amore; chi sta nell’amore,
dimora in Dio; e Dio dimora in lui (4,11-16).
3. «Amatevi siccome io vi ho amato»
Solo in quest’ottica di fede, anche il comandamento di Cristo «Come
io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34), diventa
il criterio di veriica decisivo dell’autenticità delle diverse forme odierne di
relazione amorosa.
Più radicalmente ancora: l’amore di Cristo designa la condizione di
possibilità del matrimonio cristiano. Gli sposi cristiani sono resi capaci di
vivere la loro relazione coniugale con un agápē «come» quello di Cristo,
«siccome» sono stati amati e continuano ad essere amati eicacemente da
lui29. «Dato che» lo Spirito santo, donato dal Crociisso risorto agli sposi
nel sacramento del matrimonio, versa nel loro cuore l’agápē di Dio (cf
Rm 5,5), anch’essi possono amarsi «come» Cristo ama la Chiesa (Ef 5,25).
L’amore «come» quello di Cristo non è un’utopia, proprio perché è origi-
In Gv 13,34 la congiunzione greca kath́s signiica non solo «come», ma anche
«siccome».
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nariamente frutto dell’azione dello Spirito (Gal 5,22) nel «cuore di carne»
degli sposi (Ez 11,19; 36,26).
20 novembre 2011
Franco Manzi
Seminario Arcivescovile
Via Pio XI, 32
21040 Venegono Inferiore (VA)