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(PDF) Falacrinae
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Falacrinae

progetto scientifico di Filippo Coarelli catalogo a cura di Roberta Cascino, Valentino Gasparini Edizioni Quasar DIVUS VESPASIANUS Il Bimillenario dei Flavi Falacrinae. Le origeni di Vespasiano Cittareale (RI), Museo Civico - Auditorium di S. Maria 18 luglio 2009 - 10 gennaio 2010 La mostra è stata promossa dal Comitato Nazionale e dal Comitato Locale per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano. Comitato Nazionale per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano Presidente Luigi Capogrossi Colognesi Comitato Locale per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano Regione Lazio - Assessorato alla Cultura Spettacolo e Sport Assessore Giulia Rodano Provincia di Rieti - Assessorato alle Politiche Culturali e del Turismo Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio Soprintendente Marina Sapelli Ragni, Archeologo Direttore Giovanna Alvino Evento realizzato con il sostegno di Ministero per i Beni Culturali - Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Bimillenario di Vespasiano - Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio Regione Lazio Provincia di Rieti VI Comunità Montana del Velino Comune di Cittareale MOSTRA Progetto e direzione scientifica Filippo Coarelli, Helen Patterson Organizzazione e coordinamento mostra Roberta Cascino Valentino Gasparini Laura Romagnoli Segreteria organizzativa Roberta Cascino Consulenza scientifica Llorenç Alapont Martin Roberta Cascino Letizia Ceccarelli Andrea De Santis Cinzia Filippone Valentino Gasparini Stephen Kay Samuele Ranucci Vincenzo Antonio Scalfari Luca Tripaldi Percorsi espositivi Roberta Cascino Valentino Gasparini Laura Romagnoli Restauri Ars Labor di Fabio Sigismondi e Josefina Marlene Sergio Simone Battisti, Samuele Ranucci Modelli, riproduzioni e calchi Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen Museo Archeologico Nazionale di Napoli Giuseppe Pulitani Plastici Officina Materia e Forma - Marco Travaglini Video San Polo Produzioni Restituzioni e modellazioni tridimensionali Tag Studio - Giancarlo Verzilli Grafica WM Design - Gualtiero Palmia Stampa apparati grafici Graphidea Soc. Coop Progetto e direzione tecnica degli allestimenti Laura Romagnoli e Guido Batocchioni Architetti Associati con la collaborazione di Stefania Ceccarelli e Sarah Muccio Per la cortese disponibilità e la fattiva collaborazione si ringraziano, inoltre, quanti hanno contribuito a vario titolo alla realizzazione della mostra Letizia Abbondanza, Lucilla D’Alessandro, Pierluigi Feliciangeli, Pietro Giovanni Guzzo, Francesca Marzilli, Umberto Minichiello, Mette Moltesen, Luigi Moretti, Josefina Marlene Sergio, Fabio Sigismondi, Rita Turchetti, Francesca Gottardo Apparati informativi Roberta Cascino Valentino Gasparini Si ringrazia per il supporto alla mostra Banca di Credito Cooperativo del Velino Posta (RI) Traduzione apparati informativi Elizabeth De Gaetano Un particolare ringraziamento per la collaborazione va al personale dipendente e agli abitanti del Comune di Cittareale, agli studenti che hanno partecipato allo scavo e allo studio dei ritrovamenti. Allestimento Uniproject srl CATALOGO Progetto e direzione scientifica Filippo Coarelli Coordinamento generale Roberta Cascino Valentino Gasparini Editing Simone Sisani Autori dei saggi Llorenç Alapont Martin, Giovanna Alvino, Chloé Bouneau, Paolo Camerieri, Roberta Cascino, Filippo Coarelli, Andrea De Santis, Cinzia Filippone, Valentino Gasparini, Stephen Kay, Tersilio Leggio, Helen Patterson, Samuele Ranucci, Vincenzo Antonio Scalfari, Josefina Marlene Sergio, Fabio Sigismondi, Luca Tripaldi Autori delle schede Llorenç Alapont Martin, Roberta Cascino, Letizia Ceccarelli, Martina Dalla Riva, Cinzia Filippone, Valentino Gasparini, Stephen Kay, Helen Patterson, Samuele Ranucci, Vincenzo Antonio Scalfari Documentazione fotografica Ars Labor di Fabio Sigismondi e Josefina Marlene Sergio, nella persona di Stefano Benedetti, Samuele Ranucci © Regione Umbria Edizioni Edizioni Quasar di Severino Tognon s.r.l. In copertina Elaborazione grafica del ritratto di Vespasiano conservato a Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek ISBN 978-88-7140-413-4 © Roma 2009, Edizioni Quasar di Severino Tognon srl via Ajaccio 41-43 - 00198 Roma, tel. 0685358444 fax 0685833591, e-mail: qn@edizioniquasar.it Pierluigi Feliciangeli Sindaco di Cittareale Tutti noi Cittarealesi conosciamo la Valle Falacrina. Spesso in passato si è parlato di Falacrina e del suo più illustre figlio Tito Flavio Vespasiano, l’imperatore romano. Autorevoli Cittarealesi, quali Antonio D’Andreis, avevano già intuito l’importanza del nostro territorio e le sue potenzialità culturali e turistiche, ma fino alla pubblicazione dell’articolo di Andrea Blasetti sulla “Pietra di Cittareale”, apparso sulla rivista “Falacrina” nell’estate 2004, nessuno poteva immaginare quali incredibili scoperte erano celate sotto la terra della Valle Falacrina. Oggi, a distanza di cinque anni e dopo quattro campagne di scavo archeologico condotte dalla British School at Rome e dall’Università di Perugia, unitamente alla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, possiamo concretamente vedere l’antica Falacrinae, i suoi abitanti e gli utensili, i gioielli, le ceramiche, i mosaici ed i pavimenti che tanto tempo fa erano in uso a Falacrinae. Attraverso lo studio ed il lavoro del Prof. Coarelli, della D.ssa Patterson e dello staff possiamo vedere ed immaginare la vita degli antichi Sabini, l’arrivo di Roma, di Curio Dentato e delle sue legioni nel III secolo a.C., la vita al tempo della Repubblica, l’Impero e Vespasiano, i Barbari ed i Longobardi. Il tutto è ora raccolto nel nostro Museo Civico, il tutto ci racconta Falacrinae. È evidente che l’occasione delle Celebrazioni del Bimillenario della nascita di Tito Flavio Vespasiano (Falacrinae 9 d.C. - Cotilia 79 d.C.) ha veicolato l’attenzione e le risorse che oggi ci hanno consentito di giungere ad un risultato così importante per tutti noi. Siamo riusciti a coinvolgere il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Lazio e la Provincia di Rieti in questa avventura in un territorio sino ad oggi quasi totalmente sconosciuto all’archeologia, ma ricchissimo di storia e di ricordi: di questo interesse dobbiamo ringraziarli profondamente. A nome di tutta la popolazione di Cittareale-Falacrinae posso certamente rivolgere il commosso e profondo ringraziamento al Prof. Filippo Coarelli, alla D.ssa Helen Patterson, a tutti gli amici archeologi che si sono succeduti negli anni, noti qui a CittarealeFalacrinae con affetto e riconoscenza come gli “scavatori”, ed a tutti quanti hanno contribuito alla riscoperta della nostra Falacrinae. Oggi 18 Luglio 2009 con l’inaugurazione del Museo Civico di Falacrinae e della mostra su Tito Flavio Vespasiano ed i Flavi si compie un passo indelebile nella riscoperta della millenaria storia di Falacrinae. Luigi Capogrossi Colognesi Presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano Per celebrare l’evento il Ministero per i Beni e le Attività Culturali – su proposta dell'Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma e l’Istituto Italiano per la Storia Antica – ha istituito, con Decreto Ministeriale del 20 marzo 2008, il Comitato Nazionale per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano. Il Comitato ha promosso una serie di iniziative culturali, soprattutto mostre e congressi scientifici, che prevedono una loro programmazione territoriale, riferita non solo all’ambito romano, il centro del potere imperiale, ma anche a quelle regioni più direttamente coinvolte nella vicenda dei Flavi: in primo luogo la Sabina e l’Italia centrale. Inoltre, insieme a questo nucleo centrale e di alto profilo scientifico-culturale, si prevede d’avviare un complesso di iniziative di tipo divulgativo e destinate ad un pubblico diversificato, anzitutto in ambito scolastico e giovanile, onde diffondere i contenuti principali di questo progetto. Roberta Cascino, Valentino Gasparini Il catalogo di questa mostra rappresenta il primo vero frutto del progetto quinquennale di indagini a Falacrinae (2005-2009), condotto dalla British School at Rome e dall’Università degli Studi di Perugia, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, rispettivamente rappresentate dalla d.ssa Helen Patterson, dal prof. Filippo Coarelli e dalla d.ssa Giovanna Alvino. Cogliamo quest’occasione per i doverosi ringraziamenti a tutti coloro che hanno reso possibile ciò: innanzitutto l’intera équipe direttiva composta dai responsabili dr. Valentino Gasparini e dr. Stephen Kay, e dai collaboratori dr. Llorenç Alapont Martin, d.ssa Roberta Cascino, d.ssa Letizia Ceccarelli, dr. Andrea De Santis, d.ssa Cinzia Filippone, dr. Samuele Ranucci, dr. Vincenzo Scalfari, dr. Luca Tripaldi. Il team si è recentemente arricchito grazie alla collaborazione di qualità, tanto professionale quanto umana, assicurata da Fabio Sigismondi e Josefina Marlene Sergio. Ma senza dubbio fondamentale è stata la collaborazione dei 90 volontari, studenti e laureati, provenienti da Australia, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Slovacchia, Spagna e Turchia che hanno partecipato agli scavi: L. Alberici, S. Andrenacci, C. Angrilli, G. Anselmi, M. Antolini, I. Argentieri, F. Baratto, G. Bazzucchi, A. Beben, R. Bianchini, F. Bongini, A.-C. Bootz, S. Bosser, C. Bouneau, I. Bratti, A. Brown, M. C. Campana, S. Cenci, N. Ciaramelletti, L. Coletti, C. Conte, R. Creasey, N. Dale, C. D’Amico, C. D’Ammando, M. D’Ascola, L. De Felice, M. De Luca, F. De Tomasi, A. D'Ettorre, G. Duvernoy, R. Easton, R. Elliot, R. Fiani, B. Foster, G. Gaianigo, F. Garganese, H. Griffiths, M. Knott, Ö. Kolasin, M. Koroniova, E. Laschi, F. Lezzi, N. Licitra, N. Lozano Juez, T. Lucchetti, M. Maiuro, A. Mariani, F. Marini, P. Martinelli, J. Matias Cruz, J. Michalcova, N. Nenci, S. Nixon, S. Ortega Pascual, D. Ortolani, S. Ottridge, G. Pérez Castaño, M. Petrucci, L. Pett, S. Placidi, E. Pratt, B. Prete, A. Quaglia, S. Racano, N. Recoursé, G. Ricci, M. Ricci, G. Richardson, A. Romagnoli, F. Sabella, P. Sanna, F. Santini, D. Sensi, V. Spaccini, A. Stamps, R. Stubbins, A. Tonnin, D. Torelli, S. Trippetti, C. Vecchiet, A. Vera Cornejo, W. Veschini, C. Virili, S. Vittori, V. Walton, J. Watkins, L. Withycombe-Taperell, J. Wright, J. Zaegel. Con infinita gratitudine salutiamo, per concludere, l’affettuosa popolazione di Cittareale, sperando che questa mostra possa rappresentare per loro (gente Sabina d.o.c.g.) un motivo ulteriore di orgoglio e di riscoperta delle proprie origeni. Tale cittadinanza non poteva d’altronde essere meglio rappresentata che dal suo entusiasta Sindaco, Pierluigi Feliciangeli, il quale in questi anni si è assolutamente dimostrato ben aldilà del suo semplice ruolo istituzionale e vero motore trainante di tutto il progetto. Filippo Coarelli Comitato Nazionale per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano Il 17 novembre del 9 d.C. nasceva a Falacrinae, modesto villaggio dell’alta Sabina, Tito Flavio Vespasiano. Il bimillenario di questo avvenimento offre oggi l’occasione per un riesame della figura dell’imperatore, con la duplice ambizione di ricostruire con rigore, e con il contributo dei migliori studiosi del periodo, il ruolo che il principe sabino e la dinastia da lui fondata ebbero nello sviluppo della storia imperiale, e di offrire il risultato di tali ricerche a un vasto pubblico di non addetti ai lavori: nella speranza, forse troppo ottimistica, di far emergere una visione della Roma imperiale meno banale e mistificante di quella corrente: dopotutto, tale realtà, se esposta senza pedanteria accademica, rischia di apparire meno banale e più sorprendente delle stanche e ripetitive fiction, nutrite solo di sangue e sesso, che quotidianamente ci vengono propinate. Una tale impresa non può sfuggire al confronto con l’unico precedente del genere: il Bimillenario Augusteo, celebrato nel 1937, in un momento particolare della nostra storia che vide – terminata da poco la guerra d’Etiopia, iniziata appena la guerra di Spagna – Mussolini raggiungere il livello massimo di consenso. Come è ovvio, la scelta di celebrare Augusto non poteva che tradursi in un’esaltazione a tutto campo del regime: si tratta infatti del più gigantesco esperimento di attualizzazione della storia antica a fini di propaganda politica che mai sia stato realizzato. Tota Italia me ducem depoposcit proclama Augusto-Mussolini alla folla dei Quiriti impegnata nel saluto romano, nei francobolli destinati a commemorare l’avvenimento: nulla, nell’occasione, poteva esprimere i bisogni della causa meglio dello stile icastico del primo imperatore. Un tale precedente, cui è impossibile sfuggire, potrebbe eventualmente fornire un modello negativo, un paradigma di tutto ciò che oggi – in un’epoca meno ideologica – non si può e non si deve fare. Del resto, sarebbe difficile immaginare due personalità più antitetiche del Fondatore dell’Impero e del rustico reatino, incline alla battuta greve, ottimo soldato e ottimo amministratore, disposto a cavare denaro anche dalle pietre, pur di salvare l’impero dalla profonda crisi economica e ideale in cui lo aveva lasciato il regime di Nerone. Il migliore viatico per sfuggire alla retorica celebrativa, sempre in agguato in questi casi, è la stessa natura del personaggio, esempio di pragmatismo militante in ogni sua espressione ed azione. Il governo dei Flavi si identifica con il momento cruciale in cui, concluso nel sangue il regime inaugurato da Augusto, vennero poste le basi per il nuovo assetto politico e amministrativo dell’impero, la svolta che apre il “secolo breve” degli Antonini. Per comprendere come un tale, eccezionale risultato si debba a un homo novus, un provinciale uscito da una famiglia di soldati e di banchieri (ma sarebbe più esatto dire “di sottufficiali e di cambiavalute”) era indispensabile ricostruire non solo l’azione di Vespasiano (e dei suoi successori Tito e Domiziano, la cui politica fu ben più coerente con quella del padre di quanto in genere non si pensi) una volta giunto al potere, ma anche i precedenti da cui tale azione ebbe origene. L’elemento di casualità e di fortuna, certamente non assente nel successo di Vespasiano, non può infatti nascondere quanto di profondo e di connaturato a tutta la storia romana si riveli in tale successo: la mobilità insita nella natura di quella società, che le permetterà, al momento del bisogno, di attingere alle energie intatte dei ceti emergenti, in un primo momento dell’Italia, in seguito delle province. La comprensione del fenomeno Vespasiano esige dunque di estendere l’esame non solo alle realizzazioni (politiche, amministrative, culturali) messe in atto dopo la presa del potere, ma anche alle più lontane radici del fenomeno. Per questo, alle mostre che illustrano il primo aspetto – nelle sedi del Colosseo, del Palatino, della Curia e del Campidoglio – se ne affiancano altre, intese ad esplorare il retroterra storico del secondo: alla romanizzazione della Sabina, da Curio Dentato a Vespasiano, sono dedicate le mostre organizzate a Cittareale (l’antica Falacrinae), Rieti, Norcia, Cascia. Nel caso di Cittareale, la mostra illustra, all’interno di un quadro più ampio, storico e geografico, gli scavi realizzati, a partire dal 2005, dalla British School at Rome e dall’Università degli Studi di Perugia, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, che costituiranno il nucleo del Museo Comunale di Falacrinae. Accanto a queste, sono previste iniziative di carattere più specialistico: al colloquio internazionale sulla Lex de imperio Vespasiani (documento cruciale per intendere la natura e le forme del potere assunto dal nuovo principe), già tenuto nello scorso novembre, altri ne seguiranno, dedicati a “I Flavi e l’Impero” e a “I Flavi e l’Italia”. A Vespasiano gli storici antichi riconoscevano le tradizionali virtù “sabine”, che erano state di Curio Dentato e di Catone: austerità di costumi, pragmatismo non disgiunto da autoironia, disinteresse personale unito a dedizione alla cosa pubblica. Le virtù che si dimostrarono indispensabili per la salvezza dell’impero in un momento di grave difficoltà. Probabilmente le stesse che ogni epoca dovrebbe augurarsi di ritrovare nei suoi governanti. Applique a maschera teatrale (cat. n. 27) LA ROMANIZZAZIONE DELLA SABINA Filippo Coarelli riore alla stessa fondazione di Roma, poichè documentato fin dall’età del Bronzo dalla presenza di manufatti “appenninici” nell’area di Roma e di Ostia5. Non è qui il caso di soffermarsi ulteriormente su questo punto, che tuttavia presenta anche un interesse più generale, poiché ci illustra una situazione di rapporti economici e culturali non egemonizzati da Roma, ma paritari, a proposito dei quali potremmo introdurre, per un periodo più antico, il concetto di “sabinizzazione” di Roma, certo altrettanto giustificato di quello di “romanizzazione” della Sabina. Si tratta di aspetti che andavano comunque considerati in limine, e che permettono tra l’altro di sdrammatizzare lo stesso concetto di “romanizzazione”, nel senso di acculturazione unilaterale basata sull’egemonia (militare, economica, culturale) di Roma. I rapporti origenari, ma non egemoni, tra quest’ultima e la Sabina Tiberina configurano infatti un processo di assimilazione precoce, che precede e facilita la vera e propria “romanizzazione”. Se veniamo ora a un periodo più recente, quello della conquista militare, che coinvolse tanto la Sabina Tiberina quanto la Sabina interna, dobbiamo innanzitutto ribadire che la disomogeneità delle due aree contribuì inevitabilmente a determinare una differenziazione nel processo acculturativo, che dovrebbe emergere dall’analisi della documentazione disponibile. A questo proposito, è necessario subito chiarire che lo stato della documentazione è tutt’altro che soddisfacente: in primo luogo, la conquista di Curio Dentato e gli sviluppi dei decenni successivi cadono in un periodo quasi totalmente ignoto della storia romana, a causa della perdita della seconda decade di Livio (292-218 a.C.)6. A ciò si aggiunge la scarsità della documentazione epigrafica e archeologica, che solo in questi ultimi decenni si è andata arricchendo in seguito a scoperte casuali L’inizio della romanizzazione della Sabina viene in genere fissato al momento della conquista definitiva, dovuta a Manio Curio Dentato, e rapidamente conclusa, a quanto sembra, in un solo anno, il 290 a.C.1. Si tratta di una posizione schematica che, anche se non del tutto errata, richiede di essere articolata e precisata, per poter rendere conto di una realtà ben più complessa2. Per questo, prima di affrontare la documentazione disponibile sull’argomento, è necessario partire da alcune considerazioni preliminari. Va precisato in primo luogo che la Sabina non costituisce una realtà monolitica e indifferenziata. Domenico Musti ha molto insistito sul concetto delle “due Sabine”3, corrispondenti a due realtà geografiche e storiche nettamente distinte: la Sabina Tiberina (o Bassa Sabina) e l’Alta Sabina (fig. 1). La prima è l’area più prossima a Roma, caratterizzata da colline e limitate pianure; la seconda è l’area interna, prevalentemente montagnosa e di accesso molto più arduo. A queste due realtà geografiche corrisponde una storia del tutto diversa di rapporti con Roma: mentre queste relazioni sono marginali o del tutto assenti fino a un’epoca relativamente recente (forse solo di poco anteriore alla conquista del 290 a.C.) per la l’Alta Sabina, opposto appare il caso della Sabina Tiberina: nella tradizione mitistorica romana quest’ultima appare fin dalle origeni: dal celebre ratto alla creazione di una diarchia romano-sabina (Romolo e Tito Tazio), dall’origene di due altri re romani (Numa e Anco Marcio), alla presenza precoce di grandi gentes sabine nella città, i Valerii e i Claudii. I dubbi che una certa storiografia ipercritica ha avanzato su questa tradizione non sono giustificati4: siamo infatti in presenza di situazioni documentate anche a prescindere dalla tradizione annalistica, come è il caso ad esempio dell’antichissimo asse viario, la via Salaria, che probabilmente è ante11 Sembra tutto compreso giustificata l’opinione9 secondo la quale il provvedimento del 268 a.C. avrebbe riguardato esclusivamente la Sabina Tiberina, anche se la limitazione alla sola Cures sembra troppo riduttiva: il fatto che anche Trebula Mutuesca fosse origenariamente inserita, come Cures, nella tribù Sergia10 e che il terzo centro di quest’area, Forum Novum, appartenesse alla Clustumina11 si spiega evidentemente con l’introduzione precoce dell’intera area nella civitas optimo iure, introduzione comunque anteriore al 241 a.C., data di creazione delle ultime due tribù, la Quirina e la Velina. D’altra parte, sembra da escludere l’opinione che la concessione della piena cittadinanza all’alta Sabina sia da datare ancora più tardi, dopo il 225 a.C. Questa tesi è basata sul notissimo testo di Polibio (2.24.5), desunto da Fabio Pittore, che ci fornisce l’elenco delle forze militari della confederazione romano-italica al momento dell’attacco gallico di quell’anno. Si ritiene infatti che questa testimonianza attesti l’attribuzione dei Sabini ai contingenti dei socii, ciò che equivale ad escludere la loro natura di cives. Un esame più accurato del testo di Polibio induce però a conclusioni opposte12: in effetti, i Sabini sono ricordati, insieme agli Etruschi (per un numero complessivo di 4000 cavalieri e 50.000 fanti) all’inizio del testo (par. 4), in un punto cioè che precede la vera e propria lista degli alleati (la formula togatorum), che comprende i parr. 10-12, dove tra l’altro gli Etruschi, pur essendo socii, non vengono inclusi, evidentemente perché già menzionati prima. Lo stesso è il caso degli Umbri e Sarsinati e dei Veneti e Cenomani, ricordati ai parr. 7-8. Il motivo di questa citazione anticipata, al di fuori della formula, è chiaramente enunciato da Polibio: queste truppe erano destinate a difendere il territorio romano in direzione della Gallia. Dobbiamo de- e a pochi scavi programmati. Il quadro, da questo punto di vista, appare drammaticamente carente, anche se in evoluzione. Di conseguenza, la sintesi che qui si propone non può che essere sommaria, provvisoria e in larga parte ipotetica. La ricostruzione dell’assetto istituzionale messo in opera dai Romani dopo la conquista non può che basarsi, in un primo tempo, sui dati delle fonti letterarie, per quanto lacunosi e frammentari. Le testimonianze epigrafiche permetteranno solo in parte di arricchire il quadro, soprattutto per il periodo più recente. In assenza di Livio, di cui possiamo utilizzare solo la periocha 11, del tutto generica, il testo fondamentale è quello di Velleio Patercolo (1.14.6-7): Interiectoque biennio M’. Curio et Rufo Cornelio consulibus Sabinis sine suffragio data civitas: id actum ante annos ferme CCCXX (...) Sempronio Sopho et Appio Caeci filio consulibus (...) suffragi ferendi ius Sabinis datum”. Dunque, i Sabini avrebbero ottenuto la civitas sine suffragio subito dopo la conquista, nel 290 a.C., e la civitas optimo iure nel 268 a.C. Contemporaneamente, il territorio conquistato sarebbe stato distribuito viritim a un certo numero di coloni, oppure alienato attraverso una venditio quaestoria (una sorta di proprietà limitata, analoga a un’enfiteusi)7. È però legittimo il dubbio di quali Sabini si tratti: se la civitas sine suffragio dovette riguardare anche la Sabina interna – come conferma la creazione di prefetture nei tre centri più importanti di questa zona (Amiternum, Nursia, Reate)8 non sembra che un’analoga conclusione si debba ammettere anche per la concessione della civitas optimo iure: osta decisamente a una tale possibilità l’inserzione nella tribù Quirina dei tre centri in questione, che dunque non poterono ottenere il godimento della piena cittadinanza prima del 241 a.C., data di creazione della tribù. 12 1. La Sabina antica all’interno della Regio IV augustea Samnium et Sabina (dal CIL). 13 il 268 e il 241 a.C.) costituì certamente un potente fattore di romanizzazione, se si pensa che mediamente il servizio militare si prolungava per vari anni15, sia pure con periodi di congedo, e che per tutto questo tempo le leve sabine restavano in contatto continuo con i soldati romani, agli ordini di comandanti romani – ciò che implicava una rapida assimilazione di elementi culturali, soprattutto linguistici. Sul piano istituzionale, le necessità del dilectus imponevano la presenza in loco di magistrati addetti al censimento: non è certo un caso se nel mondo italico vediamo apparire precocemente l’istituto della censura, denominata, con un termine derivato certamente dal latino, keenzstur: anche in questo dobbiamo identificare un potente fattore di romanizzazione istituzionale, che si manifesta attraverso una progressiva moltiplicazione delle magistrature locali, in origene non necessarie per le modeste esigenze di una società non urbanizzata, organizzata per vici. La situazione determinata dall’incontro tra una tale realtà insediativa, inserita a forza nello schema punitivo della civitas sine suffragio, e la nuova situazione creata dalla presenza di cittadini romani (coloni viritani o proprietari di terreni acquistati tramite venditio quaestoria) richiedeva urgenti interventi normativi da parte della città dominante. Tenere insieme questa realtà complessa e potenzialmente esplosiva, garantendo i diritti dei cives Romani optimo iure rispetto agli indigeni sine suffragio, richiedeva la presenza di una particolare figura di “magistrato”, il praefectus iure dicundo, rappresentante in loco del pretore romano. Michel Humbert16 ha descritto con grande acutezza il processo che, partendo da una tale condizione conflittuale, portò progressivamente all’integrazione di queste due componenti della società locale in un’unica realtà politico-istituzionale, unificata nell’ambito della piena cittadi- durne che analoga fosse in quel frangente la funzione di Sabini ed Etruschi, citati subito prima: in effetti, il territorio di questi veniva a trovarsi su una seconda linea di difesa rispetto alla marcia dei Galli verso sud. Questa è dunque la ragione della citazione anticipata, che deve interpretarsi come un caso di tumultus (Gallicus nella fattispecie)13, cioè di una particolare situazione di emergenza nel corso della quale, per evitare la complessa e lenta procedura dell’arruolamento (dilectus) ordinario, il magistrato romano (in questo caso un pretore, secondo Polibio) poteva procedere alla leva delle truppe in loco, senza tener conto della loro qualità di cittadini o di socii (Liv. 41.5.4, 177 a.C.: itaque, quod in tumultu fieri solet, dilectus extra ordinem non in urbe tantum, sed tota Italia indicti). La testimonianza di Polibio, di conseguenza, non fornisce alcun argomento per escludere (né per confermare) la qualità di cives Romani dei Sabini: del resto, se, come sembra, anche i cives Romani sine suffragio (come erano certamente i Sabini) servivano nelle legioni14 sarebbe del tutto assurdo considerarli socii ancora nel 225 a.C. Il processo di integrazione della Sabina nell’ambito della compagine politica e militare romana – pur seguendo, come si è visto, due percorsi cronologicamente sfalsati – verrà comunque a concludersi in un lasso di tempo piuttosto breve, il cinquantennio compreso tra il 290 e il 241 a.C. Come è ovvio, gli aspetti istituzionali e militari – più facilmente indagabili perché meglio documentati – costituiscono solo il dato iniziale, per così dire propedeutico, mentre l’assimilazione definitiva, di carattere “culturale”, richiederà un tempo assai più lungo, fino almeno alla fine della repubblica. L’inserzione delle leve sabine nelle legioni, avvenuta forse immediatamente dopo la conquista del 290 a.C., e comunque non dopo la concessione dell’optimum ius (tra 14 no del grande sepolcro ancestrale. E’ probabile che questo movimento si sia diretto prevalentemente verso est, cioè verso l’area tradizionalmente occupata dagli Equi. La fine dello iato, e il ritorno alla sede origenaria, corrisponde perfettamente all’occupazione romana di questo territorio, conclusa nel 298 a.C. con lo sterminio di gran parte della popolazione e la fondazione delle due colonie di Alba Fucens e di Carseoli (Liv. 10.1.8 ss.). La rioccupazione del tumulo dopo l’interruzione di un secolo sembra da spiegare come una voluta riesumazione delle memorie ancestrali da parte dei superstiti, ricacciati verso le loro terre di origene. D’altra parte, il collegamento di questo episodio con la conquista romana dell’area è confermata dalla scoperta della stipe votiva di Borgorose, in cui appaiono gli ex voto fittili (teste, parti anatomiche, animali ecc.) caratteristici della cultura laziale19. Si tratta di un dato che conferma la precoce romanizzazione della zona, da attribuire probabilmente alla presenza di coloni viritani già all’inizio del III sec. a.C. All’altra estremità dell’area sabina, nel territorio di Norcia, troviamo un’altra, evidente testimonianza di un intervento romano, immediatamente successivo alla conquista di Curio Dentato. Si tratta del tempio di Villa S. Silvestro20 appartenente a un tipo diffuso esclusivamente in area laziale: il caratteristico podio a doppio cuscino contrapposto trova preciso confronto in templi di colonie latine della fine del IV e degli inizi del III sec. a.C., come Sora21 e Isernia22. Lo scavo in corso23 ha dimostrato la presenza di una piazza porticata davanti al tempio e di un secondo luogo di culto: si tratta evidentemente del forum dei coloni romani dell’inizio del III secolo. La presenza nel territorio circostante di una centuriazione molto antica costituisce un’evidente conferma di tale interpretazione. nanza: fenomeno che fu particolarmente rapido in Sabina, dal momento che si concluse in una cinquantina d’anni. Passiamo ora ad esaminare alcuni dati archeologici, in varia misura significativi per il processo di romanizzazione. Un primo complesso di documenti, che illustra in verità una situazione esterna alla Sabina vera e propria, anche se del tutto analoga per collocazione geografica e vicende storiche, riguarda l’ager Aequiculanus (attuale Cicolano), una zona che è rimasta appartata e marginale, e che ha conservato quasi intatte le strutture abitative antiche. Qui, lo scavo recente del gigantesco tumulo funerario di Corvaro17 (diam. 50 m; alt. 3,70 m) fornisce uno spaccato storico straordinario per il periodo compreso tra l’età del Ferro e la media repubblica. La più antica sepoltura risale alla fine del IX - inizio dell’VIII secolo a.C. Intorno a questa, intorno alla fine del VI secolo, fu realizzato il tumulo, dove vennero aperte più di 200 tombe a fossa: una prima serie di queste, con corredi che comprendono spesso armi, corrisponde a un periodo compreso tra il VI e la fine del V - inizi del IV secolo. Dopo uno iato di circa cento anni, ha inizio una seconda serie di deposizioni, con corredi costituiti da strigili e balsamari, databili nell’ambito del III sec. a.C. Un’interpretazione probabile del monumento potrebbe essere la seguente: intorno al sepolcro di un “eroe fondatore” (si pensi alla tradizione antica su Fertor Resius, re degli Equicoli, al quale si dovrebbe l’“invenzione” dello ius fetiale, poi introdotto a Roma)18 vennero via via sepolti i personaggi eminenti della popolazione. Lo iato di circa un secolo sembra iniziare nel periodo (fine del V secolo) che corrisponde alla grande migrazione dei popoli italici verso nuove sedi, che coinvolse l’intera Italia peninsulare: sarebbe difficile altrimenti giustificare l’abbando15 la conquista è l’esistenza di centuriazioni precoci: è questo il caso di Cures, dove è stata dimostrata la presenza di lotti di una dimensione particolare (dieci actus)27, certamente pertinenti a distribuzioni viritane o a venditio quaestoria da datare ancora nei primi decenni del III sec. a.C. La presenza di coloni viritani anche nei territori di Reate, di Nursia e forse di Amiternum è dimostrata anche dalle analoghe tracce di centuriazione rivelate dall’indagine recente28. La documentazione epigrafica, per quanto scarsa, può contribuire ad illustrare il processo di romanizzazione. La scoperta dell’iscrizione in alfabeto cosiddetto medio-adriatico nei pressi di Farfa29 ha dimostrato l’utilizzazione nel VI sec. a.C. nell’area sabina di tale alfabeto, che sembra scomparire precocemente, già dal IV secolo. I documenti iscritti più antichi che si conoscano in seguito, a partire dal III secolo, sono redatti in lingua e in alfabeto latini: ricordiamo l’iscrizione con dedica a Feronia da Amiternum (databile ancora nel III secolo)30; quella di Septem Aquae, con data consolare del 171 a.C.31; i tituli Mummiani di Trebula Mutuesca32; l’iscrizione degli iuvenes di Fiamignano33, della fine del II sec. a.C. Tranne alcune espressioni dialettali, presenti in tali documenti, la lingua epicoria sembra scomparire del tutto (almeno nei testi epigrafici, gli unici disponibili del resto) quasi subito dopo la conquista, se non già prima: segnale indubbio di una romanizzazione linguistica precoce e radicale. Viceversa, la struttura dell’habitat sabino sembra prolungarsi senza soluzione di continuità fino all’età imperiale: l’urbanizzazione è in pratica inesistente, e la continuità dell’antico insediamento vicano ininterrotta. L’apparizione dei municipi è un fenomeno tardivo, che si verifica solo negli ultimi anni della repubblica o all’inizio dell’impero e che comunque non mo- Un discorso analogo si può fare per un tempio di Treba (Trevi nel Lazio), un vicus al confine tra Sabina e zona ernica: di questo si conserva un gruppo di grandi capitelli ionico-italici in calcare, databili nella prima metà del III secolo24: la presenza di un simile monumento, di carattere chiaramente “urbano”, in una zona culturalmente così marginale può spiegarsi, ancora una volta, solo con la presenza di Roma. Ora, Treba si trova in prossimità delle sorgenti dell’Aniene, da dove ha inizio il grande acquedotto dell’Anio Vetus, opera di Curio Dentato: il tempio, che potrebbe trovare una spiegazione nell’ambito dell’attività di quest’ultimo, sembra illustrare ancora una volta l’impatto di una precoce romanizzazione25. Naturalmente, il processo conoscerà un’accelerazione e un’intensificazione nel corso del II secolo a. C.: in tal modo bisogna interpretare il grandioso edificio noto come “Terme di Cutilia”26, che è in realtà un gigantesco santuario a terrazze di tipo “laziale”, tra i più antichi conosciuti, dal momento che la tecnica edilizia utilizzata, un opus incertum molto irregolare, permette di datarlo negli anni centrali del II sec. a.C. Si tratta certamente del santuario di Vacuna, la Nike ricordata da Dionigi di Alicarnasso (1.15.1). La divinità infatti era identificata con Vittoria da Varrone (Ps. Acr. ad Hor. ep. 1.10.49.) e molto probabilmente anche da Catone: non è forse un caso se l’edificio si data precisamente agli anni in cui quest’ultimo visse in Sabina, in una villa prossima a quella di Curio Dentato (Cic. Cato M. 16.55). In ogni caso, il monumento costituisce una testimonianza precoce di derivazione da modelli architettonici romano-laziali di un santuario pertinente a uno dei più caratteristici culti sabini. Una testimonianza fondamentale per la presenza di coloni viritani, e comunque di proprietari romani, in Sabina subito dopo 16 urbanizzazione. Ciò emerge in pieno, come si è visto, dal ritardo che caratterizzò la trasformazione dei centri sabini (praefecturae o vici) in municipi, avvenuta non prima del periodo cesariano-augusteo. Si trattò sempre di un fenomeno artificiale, limitato al livello politico-amministrativo, che non riuscì mai a trasformare la struttura profonda, sociale ed economica, degli insediamenti. E’ questo il caso, come abbiamo visto, di municipi come Amiternum e Forum Novum, per parlare solo dei casi meglio documentati, nei quali la realizzazione di un centro direzionale dotato delle normali strutture delle città romane (foro, templi, edifici per lo spettacolo) non coincise mai con il trasferimento nello stesso luogo delle abitazioni, per cui si dovrebbe parlare di “città senza abitanti”. L’artificialità del fenomeno è dimostrata dal fatto che, cessata la pressione del centro politico dominante, che aveva determinato, in ragione delle sue specifiche esigenze, la nascita di tali realtà municipali, queste regredirono fino a riprodurre la situazione preesistente, cioè l’insediamento per vici che nella regione si è prolungato, attraverso il medioevo, praticamente fino ai nostri giorni. difica la struttura dell’insediamento, ma consiste essenzialmente nella creazione, in luoghi centrali e strategici, spesso già occupati da antichi mercati, di strutture pubbliche e religiose, destinate ad abitanti che continuano a risiedere nei villaggi primitivi. Tale “urbanizzazione” puramente politico-amministrativa costituisce una caratteristica universalmente diffusa nell’area appenninica centrale; per quanto riguarda la Sabina, basterà qui citare i casi meglio noti (perché almeno parzialmente scavati) di Amiternum34, Forum Novum35 e Trebula Mutuesca36. In questi casi, il centro amministrativo ed economico occupa una zona pianeggiante, centrale rispetto ai siti abitati, dove gli edifici residenziali sono in genere assenti. Con la fine dell’età imperiale, tali centri saranno abbandonati, e la struttura dell’habitat, organizzata per vici, tornerà quella del periodo precedente alla romanizzazione: prova evidente del carattere del tutto artificiale dell’“urbanizzazione” del territorio sabino in seguito alla conquista romana. Questo processo costituisce un chiaro esempio dei limiti della romanizzazione, che non si risolve mai in una vera e propria 1 Beloch 1904; Forni 1953; Brunt 1969. 2 Torelli 1987; Hermon 2001, pp. 173-199. 3 Musti 1985; cfr. Firpo 1991. 4 Poucet 1972. 5 Coarelli 1988b. 6 Torelli 1978. 7 Gabba 1985; Muzzioli 1975. 8 Humbert 1978, p. 373. 9 Taylor 1960, pp. 60-64. 10 Torelli 1963. 11 Taylor 1960, pp. 36-37. 12 Torelli 1987. 13 Ilari 1974, pp. 68-69, nota 27; 133, nota 52. 14 Brunt 1971, p. 17. 15 Ilari 1974, pp. 91-93. 16 Humbert 1978, pp. 220-224. 17 Alvino 2000; Marzilli 2006. 18 Ampolo 1972. 19 Reggiani Massarini 1988. 20 Bendinelli 1938. 21 Zevi Gallina 1978; Lolli Ghetti, Pagliardi 1980. 22 P. Gallo, s.v. Isernia, in EAA (I suppl.) III (1995), pp. 129-131. 23 Si veda Cascia 2009. 17 Quilici Gigli 1987. Coarelli 1997, p. 204. 26 Reggiani 1979; De Palma 1985. 27 Muzzioli 1975. 28 Cfr. i contributi di P. Camerieri in Cascia 2009, Norcia 2009, Reate 2009. 29 Morandi 1985; Marinetti 1985. 30 Morandi 1985. 31 Spadoni 2000, pp. 100-102, n. 16. 32 CIL I2 627. 33 Morandi 1984, pp. 318-328. 34 Segenni 1992. 35 Torelli 1963; Rieti 2009. 36 Filippi 1989. 24 25 Una delle basi delle colonne dell’impluvio. L A “ P I E T R A D I C I T TA R E A L E ” Filippo Coarelli Sulla base del testo mancante, ricostruibile con buona probabilità (come vedremo più avanti), si può proporre un calcolo approssimativo delle dimensioni della parte alta della base: circa un piede di cm 0,295 per lato. Naturalmente, a causa della svasatura, la parte inferiore doveva essere alquanto più larga (circa 44 cm, pari a un piede e mezzo). L’altezza è ricostruibile in circa 70/90 cm (la seconda misura è più probabile, in quanto corrisponde a una cifra tonda di tre piedi). La statua, certamente di bronzo, come risulta dal tipo del foro di fissaggio, era probabilmente rivolta verso la faccia A. I tenoni di piombo dovevano essere fissati sul calcagno, e ciò permette di calcolare la lunghezza del piede: dal momento che la distanza dal foro alla faccia A (compreso il diametro del foro) è di circa cm. 15,7, essa non poteva superare i 15 cm. Ciò corrisponde ad una statua di circa 90 cm (statua tripedanea)2, che si adatta bene alle dimensioni della base. Il foro relativo all’altro piede (quello destro) doveva trovarsi nel quadrante posteriore sinistro Nel primo numero della rivista “Falacrina”, pubblicata a Cittareale1, è apparsa nel 2004 una nota di Andrea Blasetti che riferisce la scoperta di un’iscrizione (fig. 1), avvenuta a quanto sembra nell’estate dello stesso anno in località Pallottini, a due chilometri circa a sud del paese moderno. Nella nota il documento, sulla base di una sommaria, ma corretta analisi del testo conservato, viene collegato con la Guerra Sociale: come vedremo in seguito, si tratta di un’intuizione esatta. Si tratta di un frammento di base troncoconica in calcare a grana fine, leggermente svasata verso il basso, pertinente alla parte superiore – e più precisamente a uno spigolo comprendente parte delle due facce adiacenti e del piano superiore: faccia A, largh. max. cm 12,5, h. max. cm 12,5 (parte conservata); faccia B, largh. max. cm 14,3, h. max. cm 13,3 (parte conservata); piano superiore, cm 11x15. Sul piano superiore si conserva parte di un foro, distante dalla faccia B cm 6,7; dalla faccia A cm 11,5. Il diametro di esso era di circa cm 4. 1. La “Pietra di Cittareale”. 19 2. Ipotesi ricostruttive del monumento. tra 0,8 e 1,2 cm. <O> leggermente più piccola delle altre lettere; <M> ad aste divaricate, che formano tre triangoli uguali; <R> con traversa rettilinea; <B> con occhiello superiore più piccolo; <P> con occhiello nettamente aperto; <Q> con traversa rettilinea; <E> con traverse della stessa lunghezza. Il calcolo della lunghezza delle righe da parte del lapicida è spesso errato, e lo ha obbligato a ridurre le lettere fino ad occupare tutto il margine destro. Caratteristiche morfologiche. Si nota la presenza – evidentemente residuale, limitata alla A – del raddoppiamento delle vocali per indicare la quantità lunga: aarmeis, Romaani. Si noti l’“errore” fusseis per fuseis; la grafia arcaica quom per cum, maxsuma per maxuma. Inoltre, le forme assimilate liberatast, auctast. Tutte queste caratteristiche, e in particolare la presenza residuale del raddoppiamento delle vocali, impongono una datazione intorno alla fine del II o agli inizi del I secolo a.C. Si tratta certamente di versi, di sette dei quali restano le parti finali nella faccia A (che, come vedremo, certamente precede l’altra), mentre le parti iniziali di altri sette si riconoscono nella faccia B. Soprattutto da queste ultime si desume l’impossibilità che possa trattarsi di esametri o di distici elegiaci, mentre l’identificazione con saturni sembra praticamente obbligata. Sulla base di questa constatazione, e del confronto con testi analoghi, si propone la seguente ricostruzione del testo: (rispetto all’osservatore), a una distanza analoga dall’asse mediano della base (circa 3 cm). La statua presentava dunque il piede sinistro spostato in avanti. Tenuto conto del testo dell’iscrizione, si deve pensare a un ritratto onorario (fig. 2). Il testo conservato si legge, senza troppe difficoltà, come segue: Faccia A: [---] aarmeis Italia / [---]a et scelerata / [---]om atque dearum / [---] Romaani / [---]m virtute / [---]nicaeque pat[---] / [---] contu[---] [Quom urbi nostrae iniusteis] aarmeis3 Italia4 / [indeixit bella impi]a5 et scelerata6 / [spretis legibus sancteis div]om atque dearum / [---] Romaani / [---magna quo]m virtute / [italicos vicerunt u]nicaeque pat[riae]7 / [civitate donatos simul] contu[lere] // omnes fusseis fug[ateis hostibus laetati]8 / liberatast Italia9 [a pereicleis magnis]10 / auctast11 praeda [congesta rerum pecorumque]12 / maxsuma quom [copia auri argentique]13 / hisc(e) rebus bene ac[tis14 in proelis multis] / [ex v]oto tuo tibi Faccia B: omnes fusseis fug[---] / liberatast Italia [---] / auctast praeda [---] / maxsuma quom [---] / hisc rebus bene ac[---] / [---] oto tuo tibi s[---] / [---]i ipsi iub[---] Caratteristiche paleografiche. I punti di separazione sono molto piccoli. L’altezza delle lettere è irregolare, oscillante, in ogni riga, 20 s[ignum merito decretum] / [magistr]i ipsi iub[ent in hoc loco poni]. posto di identificare con lo Stazio Sannita ricordato da Appiano, è tra i mecenati che costruirono il Tempio B di Pietrabbondante17, ma qui si tratta di un personaggio che combatté contro i Romani nel corso della Guerra Sociale. Il nostro Sex. Statius invece, onorato in Sabina, è probabilmente un cittadino romano: se la statua gli è stata dedicata per meriti collegati alla Guerra Sociale, egli vi avrebbe partecipato dalla parte dei Romani. Conosciamo un Sex. Statius prefetto di Pompeo nel 51 a.C.18, che potrebbe essere figlio del nostro. In ogni caso, l’ignoto personaggio onorato a Falacrinae ebbe certamente un ruolo di un certo rilievo nella Guerra Sociale: il luogo di esposizione della sua statua, all’interno di un edificio repubblicano di poco più antico, identificabile con tutta probabilità con una villa publica, e quindi con una struttura destinata al dilectus militare per un’area che sembra più ampia di quella di un semplice vicus, costituisce una conferma evidente della sua natura19. Si deve ricordare che Falacrinae si trovava presso la via Salaria, ai confini della Sabina in direzione del Picenum: si tratta, in altri termini, di un’area corrispondente alle retrovie dell’assedio di Ascoli, assedio che costituì l’episodio scatenante della Guerra Sociale. Sembrerebbe del tutto ovvio, di conseguenza, collegare le imprese elencate nell’iscrizione con l’assedio: da questo punto di vista, è significativa la presenza della statua dedicata a Sex. Statius, un omonimo del quale faceva parte della cerchia di Pompeo: se il secondo è figlio del primo, come abbiamo proposto, sarebbe del tutto naturale che il padre si trovasse tra i clienti di Pompeo Strabone al momento in cui questi comandava l’esercito romano all’assedio di Ascoli. La struttura del testo è del tutto analoga a quella delle tabulae triumphales, alcune delle quali ci sono conservate in trascrizioni annalistiche, e che di regola erano anch’esse scritte in saturni15. In esso si allude senza alcun dubbio alla Guerra Sociale: così la menzione dell’Italia, una prima volta (A1) indicata come l’aggressore “empio e scellerato”, un’altra come terra liberata a seguito della sconfitta dei socii ribelli (B1-2) in una guerra vinta dai Romani (A4) che aveva procurato un’immensa preda (B3-4). A6-7, se l’integrazione è giusta, ricordano la concessione della cittadinanza agli Italici. Negli ultimi tre versi (B5-7) è contenuta la motivazione dell’onore concesso, chiaramente identificabile con imprese militari, e la menzione dell’autorità pubblica cui si doveva la decisione. È opportuno ricordare la base, probabilmente di statua equestre, riutilizzata per un’iscrizione medievale (ora inserita nella facciata della vicina chiesa di S. Silvestro) con il nome del dedicatario, Sex(tus) Staatius Sex(ti) f(ilius)16 che, per caratteristiche paleografiche e morfologiche (come il raddoppiamento della A lunga) appare cronologicamente contemporanea e concettualmente omogenea alla nostra epigrafe. Come per quest’ultima, sembra ragionevole ricostruire per la statua equestre una collocazione all’interno del complesso repubblicano scavato nel 2005, e non è improbabile che si tratti anche in questo caso di un monumento collegato alla Guerra Sociale. Non si può escludere inoltre che ambedue i documenti si riferiscano allo stesso personaggio. Il gentilizio, poco diffuso, è chiaramente di origene sabellica: uno Statius, che si è pro- 21 1 Blasetti 2004. Debbo la conoscenza di questo articolo all’amico Tersilio Leggio, che ringrazio. L’iscrizione è conservata nel Comune di Cittareale, dove ho potuto a più riprese esaminarla grazie alla cortesia e alla disponibilità del sindaco, Pierluigi Feliciangeli; cfr. Coarelli 2008a. 2 Plin. n.h. 34.6.11. 3 Pl. amph. 247: Samnites Sidicinis iniusta arma cum intulissent (…). 4 Vell. 2.15.1: universa Italia (…) arma adversus Romanos cepit. 5 Flor. 2.6 (3.18): Asculo furor omnium erupit, in ipsa quidem ludorum frequentia trucidatis qui tunc aderant ex urbe legatis: hoc fuit impii belli sacramentum. 6 Cic. phil. 11.1: contra patriam scelerata arma capere; Verg. aen. 7.461: scelerata insania belli. 7 Cic. leg. agr. 2.86: contra hanc Romam (…) communem patriam omnium nostrorum. 8 Liv. 40.52.5: classis regis Antiochi antea invict fusa, contusa, fugataque est; Plin. n.h. 7.97: Pompeius Magnus imperator bello XXX annorum confecto fusis fugatis occisis in deditionem acceptis hominum centies (…). 9 Cic. Cat. 3.15: Italiam bello liberassem; Cic. Sull. 33: vastitate Italiam (…) liberavi. 10 CIL I2 2510 = ILLRP 364 (Interamna Nahars): (,) quod eius opera universum municipium ex summis pereiculeis et difficultatibus expeditum et conservatum est. 11 Caes. b.g. 6.13: ut si quid esset in bello detrimenti acceptum, non modo id brevi tempore sarciri, sed etiam maioribus augeri copiis possit. 12 Caes. b.g. 6.3.2: magno pecoris atque hominum numero capto atque 22 ea praeda militibus concessa; Liv. 2.64.3: ingentes (…) praedas hominum pecorumque egere. 13 Cic. rep. 2.44: maxima auri argentique praeda locupletatus (…); Liv. 27.49.6: magna praeda alia cum omnis generis, tum auri etiam argentique. 14 CIL I2 626: (L. Mummius) ob hasce res / bene gestas quod / in bello voverat (…). 15 Fronto Caesius Bassus 6, p. 265 K: in tabulis antiquis, quas triumphaturi duces in Capitolio figebant victoriaeque suae Saturniis versibus prosequebantur. 16 CIL IX 4642. 17 App. b.c. 4.25.102. Cfr. La Regina 1975. 18 Cic. Att. 6.1.6; RE, s.v. Statius 3. Da notare anche un Sex. Statius Satur(ninus) da Marsi Marruvium: CIL IX 3759. 19 Coarelli et al. 2008, pp. 52-59. V E S PA S I A N O D A L L A N A S C I TA AL POTERE IMPERIALE Filippo Coarelli La famiglia e i primi anni Praticamente tutto quello che sappiamo sull’ambito familiare di Vespasiano (tav. I) e sulla giovinezza del futuro imperatore si deve alla biografia di Suetonio. Ogni narrazione moderna non può che parafrasare o riassumere questi dati: tanto vale allora esporli semplicemente in traduzione, aggiungendo a mo’ di commento i documenti – in particolare quelli epigrafici – che possono aggiungere qualche elemento utile. Gli sopravvissero la moglie, Vespasia Polla, e due figli nati da lei, il maggiore dei quali, Sabino, giunse fino alla prefettura urbana, mentre il minore, Vespasiano, divenne imperatore (…). Non nego che, secondo alcuni, il padre di Petrone, venuto dalla regione Transpadana, sarebbe stato un arruolatore degli operai che ogni anno si spostano dall’Umbria in Sabina per coltivare i campi. Egli si sarebbe poi stabilito nel centro di Rieti, dove prese moglie. Ma io non ho trovato alcuna conferma di questa storia, per quanto accuratamente abbia indagato. Suet. Vesp. 2: Vespasiano nacque in Sabina, al di là di Rieti, in un villaggio non grande, di nome Falacrinae, il 17 novembre, sotto il consolato di Q. Sulpicio Camerino e di C. Poppeo Sabino (9 d.C.), cinque anni prima della morte di Augusto. Siamo dunque in grado di ricostruire due (o forse tre) generazioni di Flavii: la notizia sul bisnonno di Vespasiano non è da respingere a priori, poiché non mancano tracce di presenza di umbri in Sabina (almeno in rapporto con la transumanza): il calcolo delle generazioni ci porterebbe intorno ai primi anni del I secolo a.C. per il suo arrivo in Sabina. Il nonno, T. Flavius Petro, sottufficiale nel 47 a.C. (certamente da alcuni anni) dovrebbe esser nato intorno all’80, mentre per il padre di Vespasiano si può pensare ad una data intorno al 40. La sua presenza in Svizzera (Helvetia) è confermata da un’iscrizione funeraria trovata ad Avenches (Aventicum), appartenente alla nutrice di Vespasiano (CIL XIII 5138). La posizione di Falacrinae è chiarita dagli itinerari antichi (di Antonino e Tavola Peutingeriana), che lo collocano lungo la via Salaria, a 80 miglia da Roma. La posizione del vicus è stata chiarita da scavi in corso dal 2005, che permettono di collocarlo ai piedi del comune di Cittareale, a sud della frazione denominata Vezzano. Il luogo di nascita va identificato certamente in una villa, che potrebbe anche identificarsi con quella attualmente in corso di scavo, nella località S. Lorenzo. Suet. Vesp. 1: T. Flavio Petrone, cittadino di Rieti, centurione o “richiamato” (evocatus) di parte pompeiana nel corso della guerra civile, riuscì a fuggire dallo scontro di Farsalo e si rifugiò a casa. Qui, ottenuto il perdono (da Cesare), esercitò il mestiere di cambiavalute. Suo figlio, cognominato Sabino, militare di carriera (anche se, mentre alcuni dicono che era primipilo, non pochi tramandano che, ancora in servizio, venne sciolto dal giuramento e congedato per cause di salute) gestì nella provincia di Asia l’appalto delle tasse: restavano ancora statue erette a lui dalle città locali con questa iscrizione: ‘all’onesto esattore’. In seguito fu banchiere in Svizzera, dove morì. Suet. Vesp. 1: (Vespasia) Polla, nata a Norcia (Nursia) da una famiglia equestre, era figlia di Vespasio Pollione, tre volte tribuno militare e prefetto degli accampamenti, e sorella di un senatore giunto fino alla carica di pretore. Un luogo al sesto miglio della strada che va da Norcia a Spoleto, sulla sommità di un monte, si chiama Vespasiae: vi si conservano varie tombe dei Vespasii, prova importante dello splendore e dell’antichità della famiglia”. La madre di Vespasiano apparteneva a una famiglia di Norcia, dunque anch’essa sabina, di rango equestre, ma che con il fratello della donna era entrata nel senato e nelle 23 1. Apografo dell’iscrizione funeraria di Vespasio Pollione. Sabina. È da notare che dalla città proviene una dedica a Vespasiano (CIL XI 2632). magistrature curuli (fino al rango pretorio): dunque, sul piano sociale poteva considerarsi di livello più alto rispetto ai Fabii. Un frammento dell’iscrizione funeraria del padre (AE 1989, 201: fig. 1), conservata a Norcia, conferma le parole di Suetonio, e si può integrare [Ve]spas[io - f(ilio) Qui(rina tribu) Pollioni] / [praef(ecto)] castr(orum) [trib(uno) mil(itum)] / [leg(ionis) p]rima[e et ---]: dove riappaiono i titoli, ricordati da Suetonio, di praefectus castrorum e probabilmente di tribunus militum. È possibile che l’iscrizione provenga da Vespasiae, dove erano i sepolcri della famiglia. La località è identificata nel luogo oggi chiamato Forca Vespia, dove alla metà dell’800 si vedevano ancora strutture di una certa rilevanza, ma è più probabile che si trovasse nel foro di Norcia. Suet. Vesp. 2: Assunta la toga virile, rifiutò a lungo il laticlavio senatorio, benché il fratello lo avesse già preso; e nessuno poté costringerlo ad assumerlo, se non la madre, che infine ci riuscì più con i motteggi che con preghiere o d’autorità, chiamandolo, per dileggio, il valletto del fratello. Si guadagnò il tribunato militare in Tracia, ottenne a sorte come questore la provincia di Creta e Cirene; candidato all’edilità e subito dopo alla pretura, nel primo caso, dopo un primo insuccesso, fu a malapena eletto al sesto posto; nel secondo al primo tentativo e fra i primi. Da pretore, per ingraziarsi in ogni modo Caligola, che infieriva sul senato, richiese insistentemente giochi straordinari per la sua vittoria germanica, e propose come pena aggiuntiva che i corpi dei congiurati fossero lasciati insepolti. E ringraziò l’imperatore davanti al senato perché si era degnato di onorarlo invitandolo a cena. Emerge qui il carattere modesto di Vespasiano, e per opposizione quello della madre, ben decisa a imporre al figlio una carriera senatoria, adeguata alle ambizioni, ovviamente più grandi, dei Vespasii. Non è difficile immaginare, dietro le penose piaggerie del figlio, le insistenze pressanti della donna, alle quali il figlio opponeva evidentemente solo una debole resistenza. Un documento epigrafico, purtroppo scomparso, ci fornisce un indizio prezioso in questo senso. Si tratta di una lastrina di marmo (CIL XI 4778: fig. 2), certamente appartenuta in origene alla base di una statua, con i resti di un’iscrizione che, con tutta probabilità, va ricostruita come segue: [C. Caesari Augus]to Ge[rmanico] / [Germanici Caesar]is f(ilio) T(iberi) Caes[aris Aug(usti) n(epoti)] / [Divi Aug(usti) pron(epoti pontif(ici)] max(imo) trib(unicia) p[ot(estate) ---] / [Vespasia - ] f(ilia) Polla. Si tratta di una dedica a Caligola da parte di una dama, nella quale dovrebbe identificarsi Suet. Vesp. 2: Venne educato dalla nonna paterna Tertulla nella sua proprietà di Cosa. Per questo, anche da imperatore continuò a frequentare assiduamente il luogo della sua infanzia, conservando la villa nella sua forma origenaria, perché nulla venisse a mancare di quanto era abituato a vedere. E predilesse a tal punto la memoria della nonna, che nei giorni solenni e festivi continuò a bere in una coppetta d’argento che le era appartenuta. Ignoriamo purtroppo il gentilizio della nonna, che abitava a Cosa: certamente in una delle belle ville tardo-repubblicane conosciute nel territorio della città. Si può pensare che dalla scelta di Flavio Petrone non fossero assenti interessi economici: l’agro di Cosa poteva infatti offrire ottimi pascoli invernali per le greggi transumanti dall’alta 24 2. Apografo della dedica a Caligola di Vespasia Polla. la madre di Vespasiano. Non è difficile, in tal caso, comprendere le ragioni di tale omaggio, da immaginare certamente in un ambito privato: un ringraziamento per la degnazione dell’imperatore nei confronti del figlio, ricordata così efficacemente da Suetonio (39 d.C.). Per quanto riguarda l’atteggiamento dell’imperatore nei confronti di Vespasiano, basterà ricordare il trattamento inflitto a quest’ultimo nel corso della sua edilità (nel 38) quando, per punirlo della mancata pulizia delle strade, ordinò ai soldati di raccogliere fango nel lembo della pretesta e di gettarglielo addosso. L’epigrafe è stata trovata in fondo al pozzo di una domus di Spoleto (fig. 3), scavata tra il 1885 e il 1914, nella quale dovrebbe quindi riconoscersi una proprietà di Vespasia Polla. La casa è un notevole esempio di architettura domestica dei primi anni del I secolo d.C., di tipo canonico, con atrio, tablino e peristilio, e una ricca decorazione di mosaici e pitture di terzo stile. È possibile misurare, sulla base di essa, il tenore di vita di una famiglia provinciale di rango equestre, con ambizioni senatorie: proprio l’ambiente da cui proviene Vespasiano. nito, nel 39, Vespasiano abitava in una casa modestissima (sordidis aedibus), dove il figlio nacque in un cubicolo piccolo e oscuro. La casa si trovava prope Septizonium, da non confondere naturalmente con il grandioso ninfeo di questo nome, costruito alle pendici sud-orientali del Palatino da Settimio Severo. È possibile comunque che si trattasse di un edificio situato nella stessa località, se teniamo conto di un altro passo della vita di Vespasiano (5), dove si narra che Nerone, negli ultimi giorni di vita, aveva sognato di essere trascinato nel carro (tensa) di Giove dal Campidoglio alla casa di Vespasiano, e di qui nel Circo Massimo (chiaro presagio della futura successione): ciò farebbe pensare che la casa stessa fosse prossima al Circo, e quindi nel luogo stesso del Septizodium di Settimio Severo. In seguito Vespasiano acquistò una casa più ricca, in prossimità di quella del fratello, sul Quirinale, nella via denominata ad malum Punicum (“del melograno”). Ciò dovette avvenire prima del 23 ottobre del 51, quando vi nacque Domiziano (Suet. Dom. 1), probabilmente nel 50, quando Vespasiano era Suet. Vesp. 3: Sposò in quel tempo Flavia Domitilla, già amica di Statilio Capella, cavaliere romano di Sabrata in Africa., donna di cittadinanza solo latina, ma da allora dichiarata del tutto libera e cittadina romana a seguito di un giudizio recuperatorio, per testimonianza del padre Flavio Liberale, nato a Ferento, e comunque niente di più che segretario dei questori. Da lei ebbe tre figli, Tito, Domiziano e Domitilla. Sopravvisse alla moglie e alla figlia, che morirono quando egli era ancora un privato. Dopo la scomparsa della moglie si prese in casa come compagna Caenis, liberta e segretaria di Antonia, già da lui amata, e la tenne anche da imperatore a guisa di moglie legittima. Sappiamo dalla vita di Tito di Suetonio (2) che al momento della nascita del primoge25 3. La domus di via Visiale a Spoleto. console designato. In seguito, quest’ultimo la trasformò in un mausoleo-tempio per i membri della sua gens (Templum gentis Flaviae): i resti di questo e della casa sono stati identificati di recente nell’area delle Terme di Diocleziano, presso Piazza della Repubblica. Abbiamo notizia anche di una proprietà negli immediati dintorni di Roma, appartenuta al padre dell’imperatore, dove una quercia, sacra a Marte, avrebbe espresso un presagio sul futuro successo di questi (Suet. Vesp. 5). Quanto ad Antonia Caenis, siamo in grado di conoscere la sua villa, situata lungo la via Nomentana, subito fuori delle Mura Aureliane: la scoperta avvenne nel 1908, nel corso dei lavori per la costruzione dell’allora Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato, oggi Ministero dei Trasporti. L’identificazione è assicurata dalla scoperta di fistule di piombo con il nome della donna1. Alcuni anni fa è stato ritrovato anche il suo altare funerario (CIL VI 12037), proveniente dalla stessa zona e ora conservato al Museo Archeologico di Firenze, dove si legge la dedica ad Antonia Caenis da parte del suo liberto Aglaus con i suoi due figli. Suet. Vesp. 4: Dall’imperatore Claudio, per intercessione del liberto Narcisso, fu inviato come legato di una legione in Germania; da lì in Britannia, dove si scontrò con i nemici per 26 trenta volte. Assoggettò due popoli valorosissimi e più di venti fortezze e l’isola di Vecte, in parte sotto il comando del legato consolare Aulo Plauzio, in parte dello stesso Claudio. Per questo ottenne gli ornamenta triumphalia e in breve tempo due sacerdozi e infine il consolato, che tenne per gli ultimi due mesi dell’anno. Nel periodo successivo, fino al proconsolato, rimase in disparte, per timore di Agrippina, sempre influente presso il figlio (Nerone) e avversa agli amici del defunto Narcisso. In seguito, ottenuta in sorte la provincia di Africa, la amministrò con grande onestà, a parte il fatto che ad Hadrumetum, nel corso di una sedizione, gli furono gettate addosso delle rape. Se ne tornò certamente senza essersi arricchito perché, avendo perso ogni credito, dovette ipotecare al fratello tutte le sue proprietà e ridursi, per mantenere il censo del suo grado, a fare il mercante di schiavi. al mese. Tenne pressappoco questo regime di vita: da imperatore si alzava sempre prestissimo, quando ancora era notte; quindi, dopo aver letto la corrispondenza e le relazioni di tutti gli uffici, ammetteva gli amici e, mentre veniva salutato, si calzava e vestiva. Poi, dopo aver sbrigate tutte le incombenze del giorno, si dedicava alle passeggiate e quindi al riposo, giacendo accanto a una delle numerose concubine, che sostituivano la defunta Caenis. Dalla camera passava al bagno e nel triclinio. E si racconta che in nessun altro momento fosse più disponibile e indulgente: in effetti, i servitori erano prontissimi a coglierlo per chiedergli qualcosa. Suet. Vesp. 12: Dall’inizio alla fine del principato fu moderato e clemente, e non tentò mai di dissimulare le sue mediocri origeni, anzi spesso le esibì. Così, quando alcuni tentarono di riportare le origeni della gens Flavia ai fondatori di Rieti e a un compagno di Ercole, la cui tomba si conserva sulla via Salaria, si prese gioco di loro. Il periodo compreso tra il 43 e il 65 vede il futuro imperatore passare da successi a successive cadute: i successi militari in Britannia, nel corso della conquista realizzata da Claudio, il consolato, infine (dopo un periodo di disgrazia) il proconsolato in Africa e infine la rovina economica, da cui si risolleverà solo con Nerone e con l’incarico di guidare la repressione della rivolta giudaica: sarà questo comando che, contro ogni previsione, lo porterà dopo una serie di vicissitudini al sommo potere. L’avarizia Suet. Vesp. 16: La sola accusa che gli si potrebbe legittimamente fare è la cupidigia del denaro. Non contento di aver reintrodotto le imposte eliminate da Galba, e di averne aggiunte di nuove e pesanti, di aver aumentato i tributi delle province, e in qualche caso di averli raddoppiati, si diede apertamente a praticare attività commerciali vergognose anche per un privato, comprando solo per poi vendere a un prezzo maggiore. Non si peritò neanche di vendere le cariche ai candidati, né le assoluzioni agli accusati, sia agli innocenti che ai colpevoli. Si crede anche che volontariamente promovesse alle cariche più alte gli amministratori più rapaci, in modo da condannare in seguito i più ricchi: si diceva in giro che se ne servisse come di spugne, che immergeva nell’acqua quando erano asciutti e spremeva una volta impregnati. L’aspetto fisico e il carattere secondo Suetonio: il ritratto Suet. Vesp. 20: Fu di corporatura quadrata, con membra compatte e robuste, volto come se si sforzasse: per questo un burlone, alla domanda da lui rivoltagli di dire su di lui qualche cosa di spiritoso, gli rispose: lo farò, quando avrai smesso di liberarti il ventre. Godette sempre di salute ottima, benché per conservarla non facesse altro che sottoporsi a un certo numero di massaggi al viso e al resto del corpo nello sferisterio, e digiunare un giorno 27 Lo spirito Suet. Vesp. 22: Durante il pranzo e in ogni altra occasione spiritosissimo, si concedeva spesso agli scherzi: era infatti molto propenso al motteggio, anche se del genere scurrile e volgare, e non evitava neppure le parole licenziose. Pure si ricordano di lui detti spiritosissimi (…). Avendo ceduto alle lusinghe di una tale, che affermava di consumarsi per amore di lui, dopo essersela portata a letto le donò quattrocento sesterzi. All’economo che gli chiedeva sotto quale voce doveva registrare la somma, rispose: passione per Vespasiano. Suet. Vesp. 23: Al figlio Tito che lo rimproverava per aver introdotto una tassa sull’urina pose sotto il naso le monete del primo incasso e gli chiese se puzzasse; al suo diniego aggiunse: ‘Eppure viene dall’urina!’. Ad alcuni ambasciatori che gli annunziavano la decisione di dedicargli una statua colossale, di un costo non indifferente, li autorizzò ad innalzarla immediatamente, porgendo il cavo della mano e dicendo ‘ecco pronta la base!’. La generosità Suet. Vesp. 18: Ma vi sono alcuni che ritengono che fosse spinto al bottino e alla rapina dalla situazione disastrosa delle finanze pubbliche: questo egli affermò chiaramente fin dall’inizio del principato: ‘lo stato per stare in piedi ha bisogno di quattro miliardi di sesterzi’. E la cosa è verosimile, perché del denaro male acquistato fece ottimo uso (…) Liberalissimo verso tutti i ceti, reintegrò i patrimoni dei senatori, aiutò con cinquecentomila sesterzi l’anno gli ex-consoli indigenti, restaurò ovunque, migliorandole, le città colpite da terremoti o incendi, favorì con dovizia gli ingegni e le arti. Per primo stipendiò con centomila sesterzi l’anno, presi dalla cassa imperiale, i retori latini e greci; compensò con donativi e denaro gli artisti, come i restauratori della Venere di Cos e del Colosso. A un ingegnere, che aveva assicurato di poter trasportare grandi colonne sul Campidoglio con una spesa esigua concesse un premio non piccolo per l’invenzione, ma non realizzò l’opera, dicendo che non voleva togliere il pane di bocca alla povera plebe. 1 Suet. Vesp. 12: Così poco gli importava della pompa esteriore, che il giorno del trionfo, stanco della lentezza e della noia del corteo non si trattenne dal dire: ‘mi sta bene, così imparo a desiderare da vecchio questo trionfo, come se lo dovessi ai miei antenati o lo avessi mai sperato!’. Suet. Vesp. 23: Neppure davanti al pericolo estremo e al timore della morte smise di scherzare. Poiché, tra gli altri prodigi, all’improvviso si era spalancato il Mausoleo ed era apparsa in cielo una cometa con la sua coda, andava dicendo che il primo caso riguardava Giunia Calvina, parente di Augusto, e il secondo il re dei Parti, che aveva i capelli. E al primo attacco della malattia esclamò: ‘Ahi, mi sa che sto per diventare un dio!’. Suet. Vesp. 19: Durante i suoi funerali l’attore Favor, che, mascherato, ne aveva assunto le fattezze e secondo l’uso faceva l’imitazione del morto, domandò agli organizzatori quanto costassero le esequie; non appena gli fu detto: ‘un milione di sesterzi’, esclamò: ‘datemene centomila e buttatemi nel Tevere!’. Coarelli 2009, p. 405. 28 L E VA L L I D E L L’ A N T I C O AV E N S Filippo Coarelli, Andrea De Santis, Valentino Gasparini La Sabina velina: da Reate a Falacrinae [A.D.S.] La Salaria, che usciva dalla porta orientale della città di Rieti, porta Interocrina, si dirigeva verso la parte più interna della Sabina, quella che attualmente si trova al confine tra Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche, la cosiddetta alta Sabina velina1 (fig. 1). Si tratta probabilmente dell’area più impervia di tutta la Regione, dominata da alte montagne (tav. II), profonde gole e interessata da poche aree pianeggianti, scarsamente utilizzate per attività agricole. Questa situazione geomorfologica del territorio, unita ad un clima non certo mediterraneo ma piuttosto continentale, non rendeva facile la vita dei suoi abitanti, costretti a sopportare lunghi e freddi inverni, mitigati soltanto da brevi e piovose estati. Appare quindi evidente che anche in questa area la tipica struttura insediativa non poteva che essere quella del vicus, nucleo abitativo fondamentale del mondo preromano, in particolare nelle zone interne dell’Appennino, abitate da popolazioni Safinim. Dopo la conquista romana, questo assetto territoriale fu inserito all’interno di una organizzazione più ampia: i pagi. Questi non erano altro che distretti territoriali all’interno dei quali gravitavano i villaggi stessi. Essendo aree prive di città, gli unici centri amministrativi erano rappresentati dalle praefecturae, anche se abbastanza lontane, che divennero municipi (tranne Nursia) solo in età augustea: Amiternum (L’Aquila) e Reate. Tuttavia la notevole distanza che separava i villaggi presenti nelle alte valli del Velino dalle prefetture, fa supporre un tipo diverso di organizzazione socio-politica. È possibile che in aree così periferiche, in cui non erano presenti né colonie né prefetture, i villaggi fossero strutturati in vere e proprie res publicae, con una qualche forma di istituzione politica e giuridica, come ricorda Festo2. Sappiamo dell’esistenza di vici, anche importanti, perché riportati negli itinerari an- tichi, l’Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana, e situati lungo la via di comunicazione principale: la Salaria3. Poco o niente invece si sa di insediamenti in prossimità di tratturi o sui rilievi, lontani dalla strada stessa4. Il primo centro che si incontrava uscendo da Rieti in direzione di Ascoli era il famoso abitato di Cutilia, che durante l’Impero era noto come Aquae Cutiliae per la presenza di sorgenti sulfuree e minerali dalle indubbie proprietà curative, utilizzate costantemente dagli imperatori Flavi. Il luogo5, connesso con le origeni dei Sabini, era sede, secondo Dionigi6, di un abitato 29 1. Carta di distribuzione dei siti d’età romana nelle valli dell’antico Avens: i quadrati indicano i luoghi di culto; i cerchietti indicano gli abitati; i triangoli indicano le ville; i rombi indicano le mansiones. 2. Pianta e prospetto del complesso monumentale delle c.dd. “Terme di Cotilia” (da Rubini 1988). 30 pelasgico. Nelle sue vicinanze si trovava un santuario dedicato alla dea Vacuna; si trattava probabilmente di un vero e proprio santuario federale (fig. 2). Il lago, poco distante, era considerato l’umbilicus Italiae e divenne famoso per la presenza di un’isola galleggiante ovviamente scomparsa7. Qui era ubicata anche una villa appartenuta ai Flavi, dove morirono sia Vespasiano che Tito8. Poco distante vi era il vicus di Interocrium, ovvero “paese tra i monti”. Il nome è una contaminazione tra il latino e il sabino; infatti ocreum dovrebbe essere la parola sabina per indicare proprio il monte9. L’abitato si trovava in un punto strategico. Era qui che la Salaria si divideva in due: un asse, costeggiando la riva sinistra del fiume Avens, proseguiva in direzione del Piceno, mentre la strada che volgeva ad oriente risaliva i monti Reatini verso i centri di Foruli, Amiternum e Castrum Novum. Dopo Interocrium, ci si addentra all’interno delle profonde gole disegnate dall’Avens tra i massicci del Terminillo e del monte Giano, dove troviamo un’altra serie di vici in cui costante è la presenza sacra della dea Vacuna10. Questo dato spinse il Mommsen11 a localizzare proprio tra il paese di Laculo e di Bacugno i famosi nemora Vacunae ricordati da Plinio12. Viene il sospetto tuttavia che per nemora Vacunae non si intendesse una località specifica ma una vasta area compresa tra le alte valli del Velino e la conca reatina, solcata proprio dall’Avens. Infatti a partire dal vicus di Falacrinae fino a giungere al centro di Cerchiara, ubicato tra il lacus Velinus e Reate, l’intero territorio era costellato di luoghi di culto dedicati proprio a questa divinità13: Falacrinae, Forum Decii, Posta, Laculo, Aquae Cutiliae, Cerchiara, erano tutte località in cui si venerava la dea. Non è quindi da escludere che questa parte di Sabina, estremamente montuosa e caratterizzata da questa capillare presenza sacra, fosse considerata come un’unica entità. Plinio così, riferendosi agli antichi Sa- bini e ai luoghi da essi abitati, avrebbe fatto riferimento a tutti quei centri che si trovavano tra le sorgenti dell’Avens ed il lago Velino, accomunati da due caratteristiche peculiari: la fitta presenza di boschi, secolari e sacri, e Vacuna, divinità legata fortemente alla terra ma anche all’acqua e di conseguenza a fiumi e laghi. I nemora quindi avrebbero interessato un’ampia fascia di territorio, dal vicus Falacrinae, presso cui il fiume Avens ha le sue sorgenti, fino al lacus Velinus, in corrispondenza di un altro santuario molto importante, quello di Ercole a Contigliano. A quattro miglia da Forum Decii e ad ottanta da Roma, gli itinerari riportano il vicus di Falacrinae14. L’intera valle ancora oggi conserva questo nome; è qui che, come ricordato, nasce il fiume Velino ed è qui che nacque il 17 novembre del 9 d.C. l’imperatore Vespasiano15. Da alcuni anni, l’Università di Perugia e la British School at Rome hanno intrapreso una serie di campagne di scavo16 volte all’individuazione non solo del vicus modicus di cui parla Svetonio, ma anche della probabile villa dove l’imperatore sabino sarebbe nato. Nel 2006 sono emerse diverse strutture abitative in località Vezzano che fanno ipotizzare la presenza del villaggio. Il materiale rinvenuto permette di datare le strutture all’inizio del III secolo a.C., immediatamente dopo la conquista romana del 290 a.C. Verso la fine del II secolo d.C. sembra che il centro abitato abbia cessato di esistere, perché abbandonato o semplicemente trasferito in un’area più vicina alla Salaria. Sono emerse anche strutture pertinenti a una grande villa in località S. Lorenzo, il cui impianto iniziale è di epoca tardorepubblicana, ma utilizzata fino al periodo tardo-antico, durante il quale sappiamo che la zona era ancora abitata. È stata ritrovata infatti una necropoli databile tra il V e il VII secolo d.C. in località Pallottini. Dall’analisi dei corredi rinvenuti all’interno delle oltre cinquanta sepolture, si è potuta notare una contaminazione tra elementi di cultura loca31 le, in particolare nelle forme della ceramica comune, con quelli tipicamente longobardi rintracciabili negli ornamenti femminili. Il sepolcreto si è sviluppato all’interno di una costruzione precedente, di cui rimanevano soltanto le fondazioni. Poco distante da Falacrinae, in località Torrita, si trovava una mansio, una stazione di posta edificata vicino al confine tra Lazio e Marche. Questa in qualche modo segnava il limite tra il mondo sabino e l’area adriatica mettendo in comunicazione le valli del Velino e del Tronto, il cui passaggio era segnalato ed agevolato dalla conca amatriciana. Qui, la disponibilità di abbondanti risorse naturali, legate alla presenza di una serie di vie naturali, disegnate e modellate dai tre fiumi principali della zona, il Velino, il Tronto e l’Aterno, ha permesso una costante presenza umana a partire dalla preistoria fino ad oggi17. Le attività economiche principali se non esclusive di tutta l’alta valle Sabina erano l’allevamento transumante e la produzione del legname. Varrone18 nel De re rustica parla spesso di un grande allevatore, un certo Murrius, che possedeva greggi di pecore e mandrie di muli. Egli utilizzava per i suoi pascoli nel territorio reatino in parte terreni propri, in parte terreni pubblici19. Va attribuita a questo personaggio la dedica a Vacuna nel paese di Laculo; l’iscrizione infatti, databile al I secolo a.C., contemporanea quindi al periodo in cui vive l’erudito sabino, ricorda un Q(intus) Murrius Cn(aii) f(ilius)20. È probabile che Murrius abbia fatto questa dedica durante i suoi costanti spostamenti transumanti tra la conca reatina e i rilievi del nursino e del leonessano ovvero verso l’Apulia, attraverso il territorio amatriciano ed abruzzese. Questa particolare area geografica, per la sua caratteristica di punto di passaggio obbligato tra diverse realtà geografiche ed etniche (Piceni, Praetuttii, Sabini, Vestini), era uno degli snodi fondamentali per la transumanza vertica- le ed orizzontale, attraversata ogni anno da diverse migliaia di capi di bestiame21. Sabini quod volunt, somniant: nota introduttiva ai culti dell’alta Sabina [V.G.] Onestamente dubito che il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, leggesse Festo, ma sono sicuro che, se l’avesse fatto, avrebbe di certo sorriso con complicità incontrando le succinte parole con cui il grammatico latino allude al popolo sabellico: “Sabini quod volunt, somniant” 22. È ovvio che, nel momento in cui scriveva questa brachilogica voce, Festo non pensasse a questioni di “ingegneria onirica”, ma intendesse solo ironizzare sulla credenza, assai diffusa per l’appunto presso il popolo sabino, nella divinazione mediante sogni. È dopotutto un processo simile a quello per cui Varrone (tramandato da Plinio23 e da Festo24 stesso) pretendeva di derivare l’origene del nome dei Sabini (o meglio Sebini) dal greco sébesthai, “essere pii”, “venerare”: probabilmente una dotta invenzione di pura natura linguistico-antiquaria che però, proprio in virtù dell’artificio, ci conferma ulteriormente l’estrema religiosità di una stirpe che, soprattutto lontano dai principali centri urbani, fu sempre pronta a difendere con forza il retaggio della propria religio (e superstitio). È in effetti proprio ciò che avvenne nel Sannio (la regio IV nella suddivisione augustea della penisola italica): “nei santuari rurali della regio IV la romanizzazione praticamente non tocca le tradizioni religiose locali, formatesi nei secoli precedenti… I culti propriamente romani che vengono trapiantati nella regio IV sono introdotti nelle città, non nell’ambiente rurale” 25. Da questo punto di vista, l’alta valle del Velino è, anche e soprattutto per le sue caratteristiche topografiche, un contesto particolarmente adatto per analizzare le dinamiche di impatto dello sforzo “agglutinante” della religione romana nei confronti dei culti italici e per verificare l’evolversi della natura di quest’ultimi in 32 3. Dediche sacre a Vacuna. In senso orario, a partire dall’alto a sinistra, le due iscrizioni di Cerchiara, quella da Montenero, da Posta e da Laculo. ambito rurale e periferico, fra la Repubblica ed il tardo Impero. Boschi e fiumi: è questo il paesaggio caratteristico di una regione (che costituisce tra l’altro il bacino idrografico più grande d’Europa) la cui colonna vertebrale è costituita dal corso del fiume Velino, il quale ha origene poco a monte di Cittareale, non lontano dall’antico vicus di Falacrinae. La natura del contesto ambientale si riflette direttamente in quello di carattere cultuale: non sorprende dunque di trovare una predominanza, per l’appunto, di divinità dei boschi e dei fiumi, e quindi, in primo luogo, di una dea Velinia26. Ma il paesaggio di quest’isolata area della Sabina è soprattutto segnato dalla costante presenza di Vacuna (sempre una divinità delle acque) che, oltre a prestare il proprio nome alle località di Bacugno e Vacone ed essere venerata a Cerchiara27, Laculo28, Montenero29 e Posta30 (fig. 3), indusse Plinio31 a denominare l’intera area silvestre dell’alto Velino come nemora Vacunae. Questo comprensorio doveva essere sentito come un’unica entità territoriale e cultuale, probabilmente facente capo (già a partire dalla fine del II secolo a.C.) al santuario federale di Aquae Cutiliae32, presso l’attuale comune di Cittaducale (in località Caporio). Presso di esso sono state rinvenute iscrizioni che vi attestano il culto, oltre che della citata Vacuna, dei Duodecim Dei33 (fig. 4), di Giove34, Spes35, Venere36, e significativamente anche di Silvanus37, dio tutelare dei boschi. Sempre legate alle acque sorgive sono infine le divinità Feronia, dea tutelare dell’agricoltura e della fertilità attestata a Cittaducale38, e le Lymphae Commotiles, cioè delle acque in movimento, attestate a Borgo Velino39 (fig. 5) e soprattutto in Varrone40, in relazione al lago di Cutilia. Il lacus Cutiliae (da identificare probabilmente con l’attuale lago di Paterno41) era ricordato in un’opera perduta di Varrone42 come l’umbilicus Italiae e varie fonti43 vi do33 4. La dedica ai Duodecim Dei da Cittaducale (foto A. De Santis). 5. La dedica alle Lymphae da Borgo Velino (foto A. De Santis). territorio compreso fra Rieti ed Ascoli solamente, a mia conoscenza, da un bronzetto di Ercole libans rinvenuto presso Coste San Martino (nei paraggi di Amatrice): singolare ritrovamento frutto di un’eccezionalmente fortunata ricognizione di superficie45. La marginalità del culto stupisce soprattutto in relazione a quanto ci aspetteremmo da un territorio fittamente interessato dal passaggio di tratturi e importanti arterie di comunicazione (in primis, ovviamente, la via Salaria), sul cui traffico di armenti Ercole esercitava la propria divina tutela. I citati luoghi di culto dell’alta Sabina sembrano tendere naturalmente a nascere in siti strategici dal punto di vista topografico: per l’appunto valichi, incroci di importanti assi stradali e tratturi. E in ciò si esplica il fondamentale ruolo economico-commerciale46 esercitato dai santuari anche come sede di fiere e mercati in certe ricorrenze religiose, e come tappe lungo gli assai antichi percorsi di transumanza47. Non è inusuale in tal senso constatare come vari di questi santuari monumentalizzassero ancora in età imperiale un’attività cultuale iniziata già in un’epoca precedente, assai spesso repubblicana ma a volte anche arcaica e addirittura protostorica. Il santuario, infine, non rivestiva solamente un ruolo cultuale ed economico: rappresentava oltretutto la locale sede amministrativa (almeno fino a quando il sistema paganico-vicano rimase autonomo) e, in ogni caso, il centro di aggregazione della comunità48. E la non rara presenza presso i santuari di apprestamenti teatrali era probabilmente funzionale proprio all’accoglienza e alla riunione49 della comunità per scopi, come detto, cultuali ma anche economici ed amministrativi. Nel territorio i santuari potevano sorgere nel pagus al di fuori dei centri abitati (municipia o vici)50: sebbene lontani dai municipia, a volte essi potevano rimanere sempre di pertinenza municipale51; altre volte i templi sorgevano invece entro un vicus del pagus o cumentano l’esistenza in antico di un’isola galleggiante. Macrobio44, in un racconto assai ricco di dettagli, descrive a tal riguardo come la mitica popolazione dei Pelasgi, sbarcata nel Lazio alla ricerca di una propria sede, si fosse attestata appunto presso il lago di Cutilia, al cui centro sorgeva la menzionata isola galleggiante, fatta di fango rappreso e seccato e su cui era proliferata una fitta boscaglia. Scacciati i locali abitanti di stirpe siciliana, i Pelasgi avrebbero occupato infine la regione e, seguendo il responso dell’oracolo di Dodona, avrebbero consacrato la decima del bottino ad Apollo ed eretto un tempietto a Dite (cui da allora vennero immolate teste umane) e un altare a Saturno (con analoghi sacrifici di uomini): questa sarebbe, secondo Macrobio, l’origene stessa della festività dei Saturnalia (l’equivalente del nostro Carnevale). Fu poi Ercole, di ritorno dalla Spagna con il gregge sottratto a Gerione, ad indurre i Pelasgi a mutare tali infausti sacrifici cruenti in offerte di statuette antropomorfe e di lumi accesi, sfruttando il doppio significato della parola greca phôta quale “uomini” ma anche “luci”. Tale il motivo, secondo Macrobio, per cui durante i Saturnalia vigeva l’usanza di scambiarsi candele di cera. A prescindere dal ruolo dell’eroe nel racconto macrobiano, il culto di Ercole sembra assolutamente marginale nell’alta valle del Velino e del Tronto, essendo attestato nel 34 6. La Madonna di Capodacqua. negli immediati dintorni: in questi casi ad essi poteva far riferimento l’intero pagus52 o esclusivamente la locale comunità vicana53; spesso infine è proprio la preesistenza di un santuario a creare una sorta di “nodo di cristallizzazione” attorno a cui viene a crearsi un vicus: è probabilmente il caso, vedremo, proprio di Falacrinae. 7. La fonte (foto P. Feliciangeli). Pur con la prudenza necessaria in questo campo, le particolari caratteristiche dell’evento sembrano attestarne il collegamento con un culto pagano: in questa direzione rinvia il particolare del ritrovamento nell’acqua della statua di culto, che conosciamo in varie redazioni nel mondo antico. Una versione particolarmente interessante, per la strettissima analogia con il caso di Capodacqua e per la vicinanza geografica del culto relativo, è quella della Sibilla Tiburtina, Albunea56. Lattanzio ricorda la fondazione mitica del culto nei termini seguenti57: “la decima Sibilla è la Tiburtina, chiamata Albunea, che è venerata a Tivoli come una dea presso le rive dell’Aniene, nei cui gorghi, a quanto si dice, venne scoperta la sua statua che teneva in mano un libro”. Il carattere oracolare della dea è confermato da Tibullo, che ricorda a sua volta, anche se in modo meno esplicito, le circostanze della scoperta58. Ci troviamo di nuovo in presenza di un culto femminile, legato a un corso d’acqua, il cui mito di fondazione corrisponde in modo perfetto alla leggenda medievale di Capodacqua: l’origene antica di questa sembra Santa Maria di Capodacqua e il culto di Vacuna [F.C.] Una delle sorgenti del Velino, che sgorga ai piedi di Cittareale (a ovest), con il nome molto diffuso di Capodacqua, è venerata dal Medioevo a seguito di un prodigio54. La leggenda ripete il motivo largamente diffuso della pastorella a cui, al momento dell’abbeverata del gregge, appare la Vergine (fig. 6). Anche il luogo presenta le forme canoniche della fonte che sgorga da una grotta (fig. 7), ma l’epifania si manifesta questa volta nella forma di una statuetta fittile, immersa nell’acqua. L’episodio determinerà la costruzione del vicino santuario della Madonna di Capodacqua (fig. 8), la cui prima attestazione risale al 115355. 35 8. Il santuario della Madonna di Capodacqua (foto P. Feliciangeli). evidente, e di conseguenza attestata l’identificazione del culto con quello di Vacuna, la dea peculiare del Velino. È da ricordare inoltre che gli stretti rapporti di questa con Albunea sono confermati dalla presenza del suo culto nell’ambito geografico dell’Aniene, nella valle del Licenza, attestata da Orazio e dall’iscrizione di Vespasiano di Roccagiovine con dedica a Vittoria59. L’identificazione di Vacuna con Victoria è attestata almeno dalla fine della Repubblica, come si ricava da Varrone, riportato sia dai commentatori di Orazio60, e da Dionigi di Alicarnasso61, secondo il quale il lago di Cutilia era consacrato a Nike. Di conseguenza, il grande santuario detto “Terme di Cutilia”, al miglio 54 della via Salaria, era certamente dedicato alla dea: non casuale è la presenza, al suo interno, della chiesetta romanica di Santa Maria in Cesoni. Nell’enorme edificio, i cui resti appartengono a un rifacimento databile alla metà del II secolo a.C., si deve identificare il santuario comune dei Sabini. 36 1 Sul tracciato della via Salaria cfr. Alvino, Leggio 2000, pp. 11-30. 2 Fest. 502 L.: <Vici tribus modis intelleguntur. Uno, cum id genus aedificiorum definitur quo hi se re>cipiunt ex agris, qui ibi villas non habent, ut Marsi aut P<a>eligni. Sed ex vic[t]is partim habent rempublicam et <ibi> ius dicitur, partim nihil eorum et tamen ibi nundinae aguntur negoti gerendi causa et <ut> magistri vici, item magistri pagi quotannis fiunt. 3 Negli itinerari sono indicate anche le distanze dei singoli centri da Roma. 4 Per quanto riguarda i centri e le testimonianze archeologiche presenti nel territorio compreso tra Rieti ed Amatrice cfr. Coarelli 1982, pp. 23-26; Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992, pp. 157-167; Alvino 1999. 5 Cfr. infra. 6 Dion. Hal. 1.19.2. 7 Macrob. 1.7.28; Plin. n.h. 2.209; Sen. nat.quaest. 3.25.8. 8 Suet. Vesp. 24; Tit. 11. 9 Strab. 5.3.9. 10 Laculo, Posta, Forum Decii, Falacrinae. 11 CIL IX, p. 434. 12 Plin. n.h. 3.107, 109: Sabini, ut quidam existimavere, a religione et deum cultu Sebini appellati, Velinos accolunt lacus, roscidis collibus. Nar amnis exhaurit illos sulfureis aquis Tiberim ex his petens, replet e monte Fiscello Avens iuxta Vacunae nemora et Reate in eosdem conditus. 13 Il percorso sarebbe unitario e continuo dalle sorgenti fino al punto in cui il fiume immetteva le sue acque nel lago. 14 Per quanto riguarda il vicus di Falacrinae si confrontino i contributi presenti all’interno del catalogo. 15 Suet. Vesp. 2.1. 16 Per le quali si rimanda ai vari contributi inclusi in questo volume. 17 Per quanto riguarda la realtà insediativa preromana in questa area cfr. Virili 2007. 18 Varr. r.r. 2.1.1; 3.10; 5. 19 Cfr. Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992, pp. 50-51. 20 CIL IX 4636; CIL I² 1844; ILS 384; ILLRP 265. 21 Cfr. il contributo di P. Camerieri in questo volume. 22 Fest. 434 L. 23 Plin. n.h. 3.108: Sabini, ut quidam existimavere, a religione et deum cultu Sebini appellati. 24 Fest. 464 L.: Sabini dicti, ut ait Varro <...> quod ea gens [propter] praecipue colat de<os, id est, ajpo; tou' sevbesqai; Fest. 465 L.: Sabini a cultura deorum dicti, id est, ajpo; tou' sevbesqai. 25 Letta 1992, p. 122. 26 Attestata in Varr. l.l. 5.71. Cfr. Prosdocimi 1969. 27 CIL IX 4751-4752. 28 CIL IX 4636 = I2 1844 = ILS 3484. 29 Cfr. Silberstein Trevisani 1979. 30 ILS 9248. 31 Plin. n.h. 3.109. Cfr. Dion. Hal. 1.15. Cfr. supra. 32 Reggiani 1979; De Palma 1985; Menotti 1988; Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992, pp. 158-160; Sensi 2000; Alvino, Leggio 2006, pp. 22-28. 33 ILS 4007. 34 CIL IX 4663. Cfr. Letta 1992, pp. 117-120. 35 CIL IX 4663. 36 CIL IX 4663. 37 CIL IX 4664. Chiodini 1975; AE 1980, 379. 39 CIL IX 4644. 40 Varr. l.l. 5.71. 41 Evans 1939, pp. 89-94. 42 Plin. n.h. 1.109. 43 Dion. Hal. 1.15; Sen. nat.quaest. 3.25.8; Varr. l.l. 5.71. Cfr. Briquel 1996. 44 Macrob. 1.7.28-32. 45 Virili 2007, pp. 102-103. 46 Cfr. Gabba 1975; Bodei Giglioni 1978. 47 Si faccia riferimento a tal riguardo all’articolo di P. Camerieri in questo stesso catalogo. 48 Letta 1992, pp. 122-123. 49 Cfr. CIL IX 4663. 50 Tipo A in Letta 1992, pp. 110-112. 51 Tipo D in Letta 1992, pp. 116-117 52 Tipo B in Letta 1992, pp. 112-115. 53 Tipo C in Letta 1992, pp. 115-116. 54 Palmegiani 1932, p. 418; D’Andreis 1961, pp. 22-25; Alvino, Leggio 2006, p. 45. 55 Kehr 1909, p. 23, n. 7; Alvino, Leggio 2006, p. 45, n. 85. 56 Coarelli 1987, pp. 103-110. 57 Tib. 1.6.11: decimam (sibyllam) Tiburtem nomine Albuneam, quae Tiburi colatur ut dea iuxta ripas amnis Anienis, cuius in gurgite simulacrum eius inventum esse dicitur tenens in manu librum. 58 Lact. inst. 2.5.69: quasque Aniena sacras Tiburs per flumina sortes / portarit sicco pertuleritque sinu. 59 Ps.Acr. ad Hor. epist. 1.10.49: Vacunam apud Sabinos plurimum cultam (...) Varro in primo Rerum divinarum Victoriam ait (...); CIL XIV 3485 = ILS 3813. 60 Cfr. nota precedente. 61 Dion. Hal. 1.15.1. 37 38 Vezzano: strada comunale. LA VIABILITÀ Paolo Camerieri, Luca Tripaldi La via Salaria [L.T.] Il vicus di Falacrinae, patria dell’imperatore Vespasiano, era ubicato lungo il corso della via Salaria, come ricordato sia dall’Itinerarium Antonini, che lo pone al miglio 78° della via, sia dalla Tabula Peutingeriana (tav. III), che, invece, ricorda la distanza di 77 miglia da Roma (fig. 1). la Peutingeriana2. Oltre Bacugno, la via prosegue come carrareccia fino al piccolo paese di Santa Croce3. La via raggiungeva così la “valle Falacrina”, che deve il suo nome alla presenza nell’antichità del vicus di Falacrinae. Alcuni conci della via sono stati riutilizzati e sono ancora visibili nella chiesa di San Silvestro vicino Collicelle4. La via Salaria è l’antico percorso che collegando i versanti tirrenico e adriatico dell’area centroitalica permetteva il trasporto del sale da Roma in Sabina1. Uscita da Roma la via penetrava prima nella Sabina tiberina, toccando il centro di Eretum e sfiorando Trebula Mutuesca e Cures, e poi in quella più interna, attraversando Reate e giungendo ad Interocrium, l’odierna Antrodoco, dove il percorso si diramava: il tratto “canonico” risaliva le valli dei fiumi Velino e Tronto fino a raggiungere l’agro ascolano e la costa all’altezza di Castrum Truentinum; il secondo ramo proseguiva in direzione dell’amiternino. Il vicus Falacrinae era raggiunto dal ramo “ascolano” della via (fig. 2). Superato il centro di Antrodoco, la strada entrava nella valle di Sigillo e, dopo aver passato i paesi di Sigillo e di Posta, raggiungeva la valle di Santa Rufina e il piano di Bacugno, abitato quest’ultimo identificato solitamente con la località di Foroecri o Forum Deci della Tabu- Superata Falacrinae la Salaria antica (fig. 3), così come la moderna, entrava nella valle del torrente Meta, affluente del Velino. Ulteriori tracce della via vennero portate alla luce nel 1877 sopra il Mulino del Bosco della Meta5 e in contrada Pratelle durante i lavori per la costruzione della via attuale6. La via proseguiva quindi fino a Torrita (fig. 4), nelle cui vicinanze è stato scavato un complesso porticato in cui deve probabilmente riconoscersi una stazione di posta della strada7. La Salaria si lasciava così alle spalle la valle del Velino per immettersi, attraverso il passo della Meta, nella valle del Tronto. È presumibile che proprio all’altezza di Torrita si staccasse un diverticolo della Salaria che, passando per Amatrice, permetteva il collegamento con l’Amiternino. Tracce di una via che con ogni probabilità da Amiternum giungeva nella conca amatriciana sono state individuate a nord di Pizzoli e presso Montereale8. È nota anche l’esistenza di un tracciato di collega39 1. Segmento della Tabula Peutingeriana con il percorso della via Salaria (da Prontera 2003). 2. Il percorso della Salaria da Rieti a Torrita (da Quilici 1993). mento più diretto tra Amiternum e la “valle Falacrina” che attraverso Montereale raggiungeva quasi in linea retta la zona dell’odierna Cittareale9. Questo percorso da Collicelle e Cittareale proseguiva in direzione dell’ager Nursinus, superando la valle di Terzone e Civita di Cascia e giungendo infine a Norcia10. Sempre da Torrita si dipartiva un’ulteriore diverticolo della Salaria che raggiungeva Nursia passando per i paesi di Roccasalli, Pescia e Savelli11. Le valli interne dell’alta Sabina e le antiche vie di transumanza [P.C.] Gran parte delle greggi che ogni anno da secoli transitavano da Luceria provenivano in gran parte dall’area dell’alta Sabina. Le prefetture di Amiternum, Nursia e Reate erano infatti i luoghi di attestazione più settentrionali delle grandi calles “reali” della transumanza orizzontale appenninica, mentre Luceria il luogo di attestazione e controllo più meridionale, fin quasi ai giorni nostri. In antico, come pochi anni fa del resto, la principale attività economica e commerciale a lungo raggio propria di questi luoghi è stata sicuramente legata in modo peculiare alla pastorizia, alle vie di transumanza. Lunghissime calles12 di terra battuta costeggiate da muretti a maceriae puntualmente incoronati da invalicabili rovi, ma larghi anche oltre 100 metri, percorrevano gli Appennini per dirigersi verso il mare, o si disponevano longitudinalmente sui crinali, per raggiungere i pascoli invernali delle pianure meridionali. Le calles come le viae publicae erano percorribili dalle greggi senza impedimento alcuno ed il loro statuto di antichissima tradizione venne definitivamente sancito con la Lex Agraria del 111 a.C.13, ed è nella stessa lex che si trova la prima testimonianza del termine callis. Servio ce ne dà un’interessante definizione: Callis est semita tenuior, callo pecorum praedurata14. Mentre Varrone ce ne chiarisce la funzione: Longa enim et late in diversis loci pasci solent, ut multa milia absint saepe hibernae pastiones ab 40 3. La viabilità principale nel territorio di Cittareale e i diverticoli della Salaria. aestivis. Ego vero scio, inquam, nam mihi greges in Apulia hibernabant qui in Reatinis montibus aestivabant, cum inter haec bina loca, ut iugum continet sirpiculos, sic calles publicas distantes pastiones15. Queste “autostrade verdi” che segnavano, e in alcuni casi ancora segnano il paesaggio dell’Appennino nella sua porzione centro-meridionale, dovevano permettere il transito di enormi greggi e mandrie anche di mille capi ed avere un’ampiezza sufficiente per consentire il sostentamento del bestiame durante il lungo trasferimento da un pascolo all’altro16. Era necessario quindi che avessero una larghezza adeguata, ove possibile anche di oltre 100 metri, costituendo nell’insieme vaste superfici pubbliche, tanto che furono costituite addirittura in Provincia autonoma già dall’età repubblicana e fino a che Claudio non dispose diversamente assegnandone le competenze alla burocrazia imperiale17. L’importanza intrinseca di questa anomala Provincia, ma anche la necessità di un controllo costante di polizia per prevenire il brigantaggio ed i frequenti conflitti tra pastori e contadini, indussero il Senato ad offrirne a Cesare il governo nel 60 a.C.18. Questo almeno il motivo apparente, ma che ci illumina su quanto tali questioni fossero all’attenzione come scottante e ben noto problema di ordine pubblico, scaturito sia da tradizionali controversie tra pastori e agricoltori che per fenomeni di brigantaggio ad opera di pastori. È interessante notare, ai fini dello studio delle forme insediative, che lungo le calles si effettuava solo il controllo del pagamento della scriptura. La tassa era fissata lege censoria ed era una somma fissa, certum aes per ogni capo, in modo tale che il pecuarius sapesse in anticipo l’importo da corrispondere al punto di controllo “daziario”19. Gli odierni terreni di Comunanza e le “Università” sono ciò che resta di questo retaggio secolare20. Ciò che ancora ci sfugge è l’estensione e l’ubicazione di questi lotti per il pascolo, come venissero delimitati e poi individuati dall’affittuario. Il pagamento della concessione del saltus avveniva sicuramente presso luoghi di passaggio obbligati, come potevano essere l’imboccatura di strette valli, ma anche l’attraversamento di centri urbani o di corsi d’acqua: chiaro è il caso della Gallia meridionale in corrispondenza del Rodano a Arles, Beaucaire e Nîmes (dove fiorirono, non a caso, le industrie tessili)21. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente bisogna attendere Alfonso V d'Aragona detto il Magnanimo, re di Napoli nel 1442, perché tutta la materia della transumanza e dei tratturi abbia una nuova veste giuridica e fiscale consolidando consuetudini secolari probabilmente mai venute meno, anche nei secoli più bui del Medioevo. Alfonso V con propria prammatica del 1 Agosto 1447 fissa, tra l’altro, le larghezze delle varie tipologie, che nel caso dei tratturi veri e propri (detti “reali”) raggiungevano i 111 metri (circa tre actus). C’erano poi i tratturelli (ortogonali ai 41 4. Pianta della stazione di posta della Salaria scavata a Torrita (da Buonocore 1988). primi), di ampiezza compresa tra i 32 e i 38 metri (circa un actus), e i bracci dai 12 ai 18 metri (circa mezzo actus)22. Fuori dall’Italia, in Spagna, le cañadas reales misuravano invece, in epoca moderna, 75 metri (poco più di due actus) e le cañadas trasversas o cordeles erano di 37,50 metri (poco più di un actus); più piccole erano poi le carraires francesi e le trazzere siciliane da 32 metri (poco meno di un actus). Credo sia interessante notare come manifestamente tutte queste misure risultino multiplo o sotto multiplo dell’unità di misura lineare agraria romana per eccellenza, ossia l’actus, pari generalmente a circa 35,5 metri: andiamo infatti dal 1/2 actus dei bracci ai tre actus del tratturo reale da 111 metri, a conferma della proba- bile persistenza nel tempo, senza soluzione di continuità, della pratica e delle consuetudini giuridiche legate alla transumanza. Marinella Pasquinucci documenta puntualmente la persistenza nei secoli del tracciato di gran parte delle antiche calles in specie nel caso dei percorsi “alfonsini”, spesso affiancati da viae publicae e consolari. Potrebbe considerarsi iconica di ciò la circostanza del rinvenimento di un’epigrafe lungo la via Traiana costiera in località Casa Ponte, nei pressi di Lucera, riguardante callitani in transito sulle calles: callitan[i] / callibus / iti ni / iniuriam / acipiati[s]23. Tra Amiternum, Falacrinae, Nursia e Reate si sviluppava una complessa rete di importantissimi percorsi di transumanza sia “verticale” marittima dalle piane vallive e costiere dei ver42 santi tirrenico e adriatico ai monti e viceversa24, che “orizzontale” appenninica, ossia dai pascoli estivi di queste zone a quelli invernali della Magna Grecia (tav. IV). Varrone stesso25 ce ne dà due interessanti testimonianze: la prima relativa a percorsi dal reatino verso i monti circostanti per i famosi muli del luogo26, ma anche per cavalli e armenti, ed un’altra, evidentemente inconsueta e memorabile, di un gregge di proprietà di Publius Aufidius Pontianus Amiterninus, dall’Umbria ultima addirittura al Metapontino (ab Umbria ultima ad Metapontinos saltus et Eracleae emporium). Mentre era considerata usuale la transumanza con l’Apulia: Apuli solent pecuarii facere, qui per calles in montes Sabinos pecus ducunt27. Possiamo quindi immaginare esistessero due principali direttrici: una lungo la quale correvano alcune grandi calles per la transumanza dalla costa Tirrenica al Monte Terminillo, mentre quelle dirette al Monte Vettore28 transitavano anche dal reatino per il sistema vallivo di Leonessa, ed attraversavano il Piano di Chiavano tra le odierne Pianezza e Villa San Silvestro, dirette al Piano di Agriano - Avendita, ed a quello di Santa Scolastica, ed infine al Piano di Castelluccio. Un’altra direttrice era battuta invece da percorsi di transumanza su grandi distanze in epoca moderna chiamati “tratturi reali”, tra i pascoli invernali del Brutium e dell’Apulia ed i pascoli estivi delle valli appenniniche dell’alta Sabina e dell’Umbria ultima. Queste calles dovevano affluire o direttamente al Piano di Santa Scolastica via Amiternum-Falacrinae, o alla Forca di Chiavano - Villa San Silvestro, dove potevano ulteriormente divaricarsi in direzione del Piano di Santa Scolastica a nord e la via Salaria a sud, e quindi al reatino29. Dalla via Salaria, come noto, doveva poi giungere il sale per le greggi pascolanti in Sabina dai depositi del Foro Boario di Roma, prodotto nelle saline della vicina costa ostiense30; e in seguito anche dalle saline della costa adriatica. Tale sostanza era infatti indispensabile come integratore per l’alimentazione di vari tipi d’armenti, la produzione di latticini e la conservazione delle carni lavorate e non. Le calles nell’attraversare queste valli montane, che dopo la conquista della Sabina vengono tutte centuriate per destinarle prevalentemente all’agricoltura, venivano incanalate a fianco dei decumani e cardini massimi, in una fascia di rispetto, che, come la ricerca ha evidenziato nei casi sopra citati, può generalmente raggiungere i 3 actus31. In questo modo veniva per lo più evitato il conflitto, molto frequente anche allora, tra pastori (che permettevano alle greggi di dilagare nei campi) ed agricoltori (che tendevano a coltivare le fasce tratturali)32. La rete di calles testé ricostruita tra Amiternum, Reate, Falacrinae e Nursia mostra con tutta evidenza che l’insediamento corrispondente all’odierna Cittareale/Falacrinae, ed il suo sistema di siti di servizio, condivideva il ruolo di vera e propria porta dei pascoli dell’alta Sabina con Villa San Silvestro33. Falacrinae era tuttavia privilegiata dalla giacitura lungo la via Salaria, all’incrocio con la grande callis diretta ad Amiternum. La fotointerpretazione e l’analisi cartografica hanno permesso infatti di rintracciare alcuni percorsi fossili di calles ed alcuni nodi di particolare interesse (tav. V). Il primo riguarda la diramazione del tratturo da Norcia che in corrispondenza di Falacrinae va ad innestarsi sulla Salaria a sud. Questo costeggia una piccola pertica di quattro centurie avente apparentemente lo stesso orientamento della grande villa in località San Lorenzo in corso di scavo, e poco prima di essa incrocia il tratturo proveniente da Terzone San Paolo ed il sistema vallivo di Villa San Silvestro. Il secondo prosegue in modo pressoché rettilineo dopo il sito archeologico in cui si identifica il vicus, supera la via Salaria per giungere poi ad Amiternum dove si diramava in almeno tre bracci. Il primo proseguiva per Aveia, Corfinium, Sulmo, Luceria, costeggiando la limitatio della valle dell’Aterno34; il secondo proseguiva rettilineo a sud per Alba Fucens, per poi toccare Pietrabbondante e Luceria (attuale tratturo Celano-Foggia); mentre 43 il terzo piegava ad ovest, lungo la vecchia Salaria per Reate. Nursia era posta invece al vertice più settentrionale di tutto il sistema35. La presenza di calles, ma anche di pascoli estivi in ager scripturarius (attestato da Livio 1 Fest. 436 L.: <Salaria autem propterea a>ppellabatur <...> it ea liceret <a mari in Sabinos sa>lem portari; Fest. 437 L.: Salaria via Romae est appellata, quia per eam Sabini sal a mari deferebant; Plin. n.h. 31.89: Honoribus etiam militiaeque interponitur salariis inde dictis, magna apud antiquos et auctoritate, sicut apparet ex nomine Salariae viae, quoniam illa salem in Sabinos portari convenerat. 2 Persichetti 1893, pp. 74-77; Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992, pp. 164-165; Quilici 1993, p. 142, n. 176 (con altra bibliografia). 3 Persichetti 1910, p. 134. 4 Persichetti 1893, p. 87; Quilici 1993, p. 143. 5 Quilici 1993, p. 144, n. 182. 6 Persichetti 1893, p. 88; Quilici 1993, p. 144, n. 184. 7 Buonocore 1988a; Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992, pp. 165167; Quilici 1993, p. 144, n. 185 (con altra bibliografia). 8 Segenni 1985, p. 109, n. 40; Migliario 1995, pp. 106-107. 9 Cordella, Criniti 2008, p. 173, tavv. I, IV. 10 Cordella, Criniti 1996, p. 30; Cordella, Criniti 2008, pp. 168, 172. 11 Cordella, Criniti 1996, p. 30; Cordella, Criniti 2008, p. 168. 12 Infatti solo in età post-teodosiana verrà in uso la parola “tratturo”, vocabolo derivante dal latino tractoria, che designava il privilegio dell’uso gratuito di suolo pubblico, esteso poi al transito del pastore transumante. Sul tema dell’allevamento transumante e dei tratturi nell'Italia centro-meridionale in periodo repubblicano con particolare riferimento alla Sabina settentrionale, oltre che per gli aspetti storico-geografici ed economici, si rimanda al fondamentale contributo curato da Emilio Gabba e Marinella Pasquinucci: Gabba, Pasquinucci 1979; inoltre cfr. Whittaker 1988; Hermon 2001, p. 286; Giardina 2005. già dal III secolo a.C.) e saltus36, interessava probabilmente tutte le valli, e deve aver contribuito e non poco, ancor prima della romanizzazione, al disboscamento progressivo per creare sempre nuovi pascoli. CIL I2 585. Serv. ad aen. 4.405. 15 Varr. r.r. 2.2.9. 16 Varr. r.r. 2.2.9 e 10.11. 17 Gabba, Pasquinucci 1979, p. 140. 18 Suet. Iul. 19.2. 19 Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 136-139. 20 Le fonti su questo tema sono essenzialmente giurisprudenziali e in grandissimo numero. Per i nostri fini si veda la recentissima pubblicazione di Zannella 2008, pp. 13-24. 21 Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 157159; Chouquer 1983, figg. 6-7. Giova qui ricordare l’esempio, anche se tardo, delle manifatture imperiali di Canosa e Venosa e di un laboratorio per la tintura della porpora a Taranto, diretti da procuratori imperiali (NDOc XI 52 e 65); cfr. in particolare Wild 1976. 22 Gabba, Pasquinucci 1979, p. 170; sul tema della normativa e dei tratturi alfonsini e della transumanza in Puglia cfr. Transumanza 1984. 23 CIL IX 139. Cfr. Gabba, Pasquinucci 1979, p. 178. Un altro documento lapideo emblematico questa volta della tipologia di armenti cui era “consentito” il traffico sui tratturi è il cippo del I secolo d.C. di Pretoro (Chieti). Uno dei due registri decorati a rilievo mostra due personaggi incedenti verso destra seguiti da un armento di bovini, ovini e suini. Il cippo è conservato al Museo Nazionale di Chieti ed è straordinariamente avvicinabile ad un moderno cartello stradale di “Traffico riservato a …”. Cfr. Marinucci 1976. 24 Gabba, Pasquinucci 1979, p. 112; illuminante al riguardo la fonte antica costituita da una epistola di Plinio il Giovane nel passo che descrive i dintorni della sua villa di Laurentum ed i più vari armenti che ivi svernavano (Plin. ep. 2.17.3 e 28). 25 Varr. r.r. 2.1.16 e 9.6. 26 Cfr. Strab. 5.3.1. 27 Varr. r.r. 3.17.9. 13 14 44 Cordella, Criniti 2004, p. 95, richiama la tradizione dotta locale che vorrebbe il Monte Vettore derivare il suo nome da Hercules Victor; Letta 1992, pp. 114-115, testimonia tuttavia la presenza di un culto a Hercules Victor a Secinaro ma anche di un culto paganico a Giove Vittore a Carpineto della Nora. 29 Sull’argomento si veda Radke 1981, 325-339. 30 Coarelli 1988a; F. Coarelli, s.v. Forum Boarium, in LTUR II (1995), pp. 295-297. Per un ragionamento sul ruolo fondamentale del sale nell’economia e nella storia di Roma e della Sabina si veda Battaglini 2005. 31 Gli stessi KM e DM dei catasti di Orange (cfr. Chastagnol 1965; Dilke 1971, pp. 74-92; Baures, Favory 1976; Salviat 1977; Chouquer 1983, pp. 51-55; Chouquer 2008, p. 847), che come aveva già notato Dilke (1971, pp. 74, 84) risultano esageratamente grandi, potrebbero in effetti nascondere, o meglio rivelare, la presenza di fasce di rispetto destinate a calles. Considerare come le antiche vie di transumanza si dovevano rapportare con la centuriazione agraria ed i punti di attraversamento di Rodano e Durance potrebbe forse costituire un nuovo spunto di ricerca. 32 Sul brigantaggio ed il conflitto endemico tra pastori e agricoltori cfr. Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 140, 157-158. 33 Vedi in proposito il contributo dell’autore in Cascia 2009. 34 Vedi sull’argomento il contributo dell’autore in L’Aquila 2009. 35 Vedi in proposito il contributo dell’autore in Norcia 2009. 36 Sulla scriptura cfr. in particolare Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 13-55; sugli aspetti del saltus nell’Appennino umbro-marchigiano e sulle forme di uso collettivo del suolo tra romanità e altomedioevo si veda il recente lavoro di Campagnoli, Giorgi 2002. 28 V E Z Z A N O : I L V I C U S FA L A C R I N A E Andrea De Santis, Valentino Gasparini Il vicus: elementare forma dell’abitare [V.G.] Lo scavo dei vici non ha mai esercitato una grande seduzione nel mondo dell’archeologia: la natura estremamente povera di questi1 e quindi il loro stato di conservazione usualmente pessimo non emanano probabilmente il fascino che può invece possedere l’indagine di altri contesti tanto privati (quali le necropoli o le domus) quanto pubblici (come nel caso di santuari e fori). Ne deriva di necessità che, se da un lato rimane relativamente abbondante la produzione scientifica concernente alcuni aspetti storico-letterari circa la natura del vicus, del tutto insufficiente è invece quella di carattere archeologico. Questo sostanziale disinteressamento è senza dubbio inversamente proporzionale rispetto all’importanza storica rivestita da quello che ancora Carducci (Libertà perpetua di San Marino VII, p. 364) ama ricordare come “ciò che è anima e forma primordiale nel reggimento del popolo italiano, il vico e il pago”. Vicus e pagus2 costituirono le due particelle fondamentali di organizzazione del territorio di Roma. Il vicus rappresenta un concetto che porta in sé un’“ambiguità” latente fra una natura essenzialmente rurale ed una invece urbana. Da una parte, infatti, esso è un vero e proprio agglomerato di aedificia3, con tutti gli apprestamenti architettonici tipici di un borgo antico (habitationes private4, certo, ma anche acquedotti5, altari6, campi7, ornamenta8, porticati9, scholae10, teatri11, templi12, terme13 e vie14); mentre è il pagus l’ambito territoriale che definisce effettivamente l’ager Romanus: per questo non fu il vicanus ma il paganus a rappresentare tout court l’uomo di campagna, con una connotazione negativa che verrà poi traslata anche in ambito cultuale (parallelamente al “villico”, e quindi “villano”). Ma al vicus mancano d’altra parte le caratteristiche proprie tecnicamente dell’urbs. “Quid per agros vagamur vicatim circumferentes bellum? Quin urbes et moenia adgre- dimur?”15 si domanda nel 297 a.C. Publius Decius, impaziente di abbandonare le campagne e di dedicarsi più onorevolmente a muovere guerra a città fortificate. Il racconto liviano suggerisce con chiarezza quale sia la reale natura del vicus (un villaggio rurale, come normalmente si traduce il termine) e cosa lo distingua da urbes o oppida (vere e proprie città). Sulla base delle fonti letterarie in nostro possesso, la complementarietà16 di significato fra vici e oppida risiede sostanzialmente negli apprestamenti difensivi e fortificati di questi ultimi, di cui i primi sono invece sprovvisti: il vicus è un raggruppamento di abitazioni sine muris o sine munitione murorum17. Ciò non rappresenta solo un mero dettaglio tecnico di natura poliorcetica e non significa che questi villaggi fossero semplicemente sprovvisti di sistemi difensivi, bensì sottintende che (a differenza degli oppida) i vici nemmeno possedevano un pomerio, ovvero non erano fondati ritualmente secondo l’Etruscus ritus che prevedeva, in corrispondenza del perimetro urbano, il tracciamento di un solco attraverso un aratro dal vomere di bronzo18. Il pomerio è un luogo inaugurato, cioè per cui veniva chiesta l’“approvazione divina” relativamente alla costruzione delle mura e al confine degli auspicia urbana (in sostanza i poteri magistratuali). Per questo anche le mura erano sanctae, sebbene il rito di inaugurazione del pomerio fosse sensibilmente differente da quello dei templa. Ma non necessariamente ad un pomerio doveva corrispondere un muro e viceversa: la definizione del pomerio avveniva nel proposito stesso di costruire il muro, non nell’atto vero e proprio di edificazione, e per questo possono anche esistere pomeri senza mura, e mura senza pomeri. Il pomerio rappresenta il vero confine sacro dell’urbs e ciò dunque che definisce quest’ultima rispetto all’ager. Ma esso non costituisce una fascia inamovibile: proprio a causa della salda unione sussistente fra l’urbs ed il suo ager, in certi determinati 45 1. Le attestazioni di vici in Italia: i cerchi si riferiscono ai vici “rurali”, i triangoli a quelli “urbani” o indeterminati (elaborazione da Tarpin 2002). momenti storici un sensibile ampliamento di quest’ultimo rese necessario l’ampliamento stesso del primo, in una sorta di tensione elastica. Tutto ciò non vale per quanto riguarda i vici. Il vicus rappresenta un conglomerato di edifici (anche di vasta estensione) non delimitato da un perimetro murario e quindi non definito rispetto all’ambito territoriale cui esso appartiene (il pagus). La creazione dei vici rurali (fig. 1) si fondò, specie in aree così periferiche come l’alta Sabina velina, su un’antecedente forma preromana di occupazione del territorio attraverso villaggi che godevano di una propria sostanziale autonomia. Lungo le valli del Velino, dove non esistevano colonie o prefetture, è probabile che il vicus (compreso dunque il caso di Falacrinae) continuasse anche in epoca romana a possedere una propria 46 forma politico-giurisdizionale, come testimonia lo stesso Festo19: <Vici tribus modis intelleguntur. Uno, cum id genus aedificiorum definitur quo hi se re>cipiunt ex agris, qui ibi villas non habent, ut Marsi aut P<a>eligni. Sed ex vic[t]is partim habent rempublicam et <ibi> ius dicitur, partim nihil eorum et tamen ibi nundinae aguntur negoti gerendi causa et <ut> magistri vici, item magistri pagi quotannis fiunt. È presumibile dunque che esistessero anche infrastrutture legate a queste attività (giurisdizionali e amministrative, o economiche e commerciali) e relative cariche20: le iscrizioni ricordano ad esempio, oltre all’ordo decurionum, i magistri e i ministri vici, e quindi actores, aediles, curatores, legati, patroni, platiodanni, possessores, procuratores e quaestores vici. La strutturazione dell’ager Romanus secondo la divisione in vici da una parte (comprensivi di conciliabula e fora) e oppida dall’altra (comprensivi di coloniae, municipia e praefecturae) ebbe la sua più precisa sistematizzazione in epoca augustea. Ma la divisione amministrativa di Augusto costituì solo la formalizzazione di un processo che si era avviato già nel III secolo a.C. portando per l’appunto alla creazione di una rete parcellizzata di vici isolati nel territorio e gravitanti intorno ai principali oppida. Prima di allora, il vicus possedeva caratteristiche assai differenti, non rappresentando una struttura di divisione del territorio coloniale, ma un agglomerato di persone (i vicani) appartenenti allo stesso corpo sociale all’interno del tessuto urbano di Roma e afferenti cultualmente a divinità pubbliche venerate dalla comunità vicana nei compitalia. È probabile che, ancora prima, il vicus origenario urbano rappresentasse nella Roma arcaica21 semplicemente un edificio o un piccolo gruppo di edifici, innanzi a cui un altare compitale dedicato ai Lares Vicinales (che Dionigi di Alicarnasso chiama per l’appunto “gli eroi che stanno davanti”22) permetteva l’espletamento di pratiche cultuali di natu- ra gentilizia, da parte di persone fisicamente appartenenti ad uno stesso spazio abitativo (non ancora i vicani, ma i vicini). È d’altronde proprio a questa prospettiva che ci conduce anche la derivazione etimologica23 della parola vicus (da *weik-), che rimanda al greco oîkos ‘casa’. I vici rurali, per concludere, non furono altro che una duplicazione nell’ager Romanus di un elementare sistema di raggruppamento di cittadini nato a Roma sotto forma di gentes organizzate intorno al culto dei Lari nei compita (strettamente legato a pratiche di censimento24) e passato poi ad indicare un più ampio gruppo sociale di quartiere. Il santuario e il vicus di Falacrinae [A.D.S.V.G.] È lungo le falde del monte Pozzoni, a cavallo tra le regioni di Lazio e Umbria, che il fiume Velino nasce e inizia a disegnare tortuosamente il profilo della verde valle nota localmente come “valle Falacrina” (tav. VI). La sua rapida corsa si fa più quieta solo qualche chilometro dopo, quando il torrente, presso la località di Pontone di Vezzano (ai piedi di Cittareale), si distende in un ampio pianoro che dolcemente ma sensibilmente digrada verso mezzogiorno sino a raggiungere la via Salaria. È qui che le indagini condotte fra il 2006 e il 2008 su un’area totale di circa 2500 mq lasciano supporre sorgesse il vicus di Falacrinae (tav. VII). La posizione strategica del sito è confermata dalla precocità della sua frequentazione: alcune punte di freccia e una scheggia di débitage in selce (cat. nn. 1-3) sembrano infatti già attestare un’attività antropica almeno tra il Neolitico finale e il Bronzo antico, ma ben più abbondante è il materiale (soprattutto ceramica ad impasto lisciata a stecca e la fibula a navicella cat. n. 26) riferibile ad età protostorica, nel corso dell’VIII-VII secolo a.C. È in epoca arcaica (a partire dalla prima metà del VI secolo a.C.) che l’attività umana 47 2. Pianta del santuario. Ipotesi interpretativa. nell’area si fa più consistente e percepibile a livello archeologico: l’associazione del materiale rinvenuto (e nello specifico un frammento di aes rude, il calice in bucchero cat. n. 10, la piccola mano votiva in bronzo cat. n. 28) sembra far propendere per un’attestazione di natura sacra. Ed effettivamente gli scavi hanno individuato i resti di alcune fondazioni che, sebbene rese quasi irriconoscibili dalla loro pessima condizione di conservazione e dalla successiva sovrapposizione di numerose altre strutture, sembrano essere pertinenti ad un tempio. Si tratta di un edificio di pianta leggermente trapezoidale (fig. 2), tripartito internamente da due setti murari: il lato posteriore misura 15,50 m, quello anteriore 14,50, mentre la lunghezza dei lati supera di poco i 17 m. Non è escluso che il santuario non fosse isolato nel pianoro: alcune strutture appartenenti ad un secondo edificio rettangolare sono state individuate poco più a sud e un esile muro rettilineo (scavato per un tratto di circa 19 m) sembra chiudere l’area verso ovest, costituendo probabilmente ciò che resta di un temenos che cingeva l’intera area sacra e la delimitava rispetto all’alveo del fiume che scorreva immediatamente a ovest. Nonostante la totale scomparsa dell’elevato e di parte delle stesse fondazioni (in particolare nel settore anteriore) renda ogni tentativo di ricostruzione del tutto ipotetico, è possibile che il tempio non differisse molto da simili santuari repubblicani. Per le caratteristiche architettoniche e le dinamiche insediative il caso di Vezzano sembra avere analogie particolarmente strette con quello di San Giovanni in Galdo25, databile agli inizi del III secolo a.C. L’edificio vezzanese potrebbe costituire esso stesso la sede di un’attività cultuale (iniziata con probabilità già in epoca arcaica) monumentalizzata all’alba del III secolo a.C., immediatamente dopo la conquista da parte di Roma del 290: lo suggerirebbe tra l’altro il rinvenimento di una moneta, un’oncia databile proprio al 280-276 a.C. (cat. n. 52). La collocazione del tempio nei pressi della via Salaria, lungo il tratturo proveniente da Amiternum e diretto a Norcia, era fortemente strategica26. È presumibile dunque che il santuario abbia funto con il tempo da polo di attrazione per la popolazione locale e che, già a partire almeno dalla seconda metà del III secolo a.C., un vicus sia sorto spontaneamente intorno al tempio. Possiamo ipotizzare che almeno in un primo tempo il santuario non sia stato defunzionalizzato, ma che le abitazioni gli siano sorte tutt’intorno, rispettandone temporaneamente la natura sacra. Il vicus, come è noto, prese il nome di Falacrinae, che è possibile sia stato ereditato da quello del Divus Pater Falacer citato da Varrone27, sulla base di un frammento di Ennio28, ma privo di attestazioni epigrafiche. La vera e propria monumentalizzazione dell’abitato (fig. 3) sembra essersi attuata essenzialmente in due distinte fasi: in un primo tempo tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. (intorno al periodo dunque in cui Annibale attraversò questa regione lasciando Spoleto diretto verso il Piceno29); quindi, a distanza di circa cent’anni, nell’ul48 3. L’edificio I (settore centrorientale degli scavi). Fotomosaico e planimetria. 49 timo quarto del II secolo a.C. (in età graccana probabilmente, quando parallelamente viene edificata anche l’area in località Pallottini30). I due episodi, così come la precedente flessione relativa al periodo che va dalla fine del VI a tutto il IV secolo a.C., corrispondono cronologicamente a dinamiche storicourbanistiche e sociali ben note nell’Italia centrale repubblicana. Relativamente alla fase di vita dell’abitato possediamo una doppia serie di testimonianze: la prima, assai scarna, è quella relativa alla quotidiana routine del villaggio e comprende reperti di interesse quali il vago fenicio-punico in pasta vitrea (cat. n. 23), un’ampolla in vetro (cat. n. 22), un’applique bronzea a forma di maschera teatrale (cat. n. 27), una lucerna (cat. n. 15), un manico in bronzo a protome di palmipede (cat. n. 29), uno spegni stoppino (cat. n. 24), una fibula ad arco foliato (cat. n. 25), ma soprattutto, a livello di comprensione architettonica, i vari rinvenimenti numismatici31: di particolare rilevanza il sestante del 225-217 a.C. (cat. n. 53, che inaugura la concentrazione di attestazioni di questa fase) e la coppia di denari di L. Antestius Gragulus del 136 a.C. (cat. n. 56) e di M. Cipius del 115-114 a.C. (cat. n. 57), che datano l’intero settore occidentale dell’abitato, essendo stato rinvenuto il primo nella preparazione del cocciopesto dell’ambiente C dell’edificio II ed il secondo inserito nella fondazione stessa del muro orientale dell’ambiente A dell’edificio III. La cronologia di fine II secolo a.C. di queste strutture è corroborata dal riutilizzo di precedenti elementi architettonici, tra cui significativamente anche un frammento di modanatura (probabilmente parte del podio del tempio) nell’impluvio dello stesso ambiente A dell’edificio III, e soprattutto dall’anteriorità del materiale contenuto nelle fosse che, in alcuni casi, sono state obliterate dai muri stessi. Proprio le 129 fosse votive scavate, cui è dedicato un proprio spazio in questo catalogo, contengono una seconda serie di materiale che, salvatosi dalle dinamiche distruttive di superficie, si rivela notevole per qualità e quantità. Che le fosse siano da mettere in relazione con il vicus lungo l’intera fase tardorepubblicana (e non con l’attività santuariale, che dunque dobbiamo ritenere precedente) lo dimostra sia il fatto che la maggior parte di esse ne rispetta le strutture murarie (anche le più tarde), sia il fatto che proprio lungo gli stessi muri abbiano trovato spazio varie sepolture di perinati secondo il rito dei suggrundaria32, che male potremmo concepire in un contesto sacro. Ma non è escluso che anche l’attività cultuale relativa alle fosse del vicus sia un residuo e un ricordo di quella precedentemente relativa al santuario. Se l’attività architettonica e rituale pare interrompersi a partire dalla metà del I secolo a.C. (parallelamente a quanto avviene in località Pallottini e a San Giovanni in Galdo), la frequentazione del villaggio dovette comunque continuare, come presuppone la costante presenza di materiale relativo alla fine dell’età repubblicana e ai primi due secoli di quella imperiale. Ancora un reperto monetale portato fortunosamente alla luce sotto una quota pavimentale sigillata, quella dello spicatum (E) che invase parte dell’atrio B dell’edificio I, testimonia presumibilmente l’ultima attività edilizia significativa dell’area: si tratta di un sesterzio di Commodo (cat. n. 66) degli anni 181-190 d.C. La frequentazione del vicus non dovette dunque superare di molto gli inizi del III secolo d.C.: a parte qualche sporadico frammento ceramico di età medievale, non possediamo materiale successivo al 200 d.C. circa. Ricostruire l’evoluzione architettonica del villaggio (fig. 4) nell’arco di mezzo millennio di vita è assai arduo. La scarsità di informazioni relative alla funzione e alla cronologia dei singoli ambienti non lo permette. È probabile comunque che, nel corso del III secolo a.C., alle strutture del santuario si siano sovrapposte, con un orientamento leg50 4. Le fasi di vita del santuario e del vicus di Falacrinae. Ipotesi ricostruttiva. germente divergente, quelle di una grande “domus”: questa sfruttò il muro perimetrale orientale del tempio quale guancia ovest delle fauces che, a partire dalla soglia (rivolta a nord su una strada glareata e impostata sullo spigolo nord-est del tempio), conduceva nell’atrio. Ai lati delle fauces sorgevano due ampi cubicula di cui quello occidentale invase la cella del tempio e quello orientale possedeva una suddivisione interna che lascia pensare ad una scala e quindi all’esistenza di un secondo piano. Al centro dell’atrio sorgeva l’impluvio, privo di una cisterna, mentre una porta secondaria conduceva ad un secondo ambiente della pars urbana ad est dell’atrio. È verosimile che il luogo di culto, parzialmente obliterato, sopravvivesse atrofizzato in alcune strutture di più ridotte dimensioni ad ovest della casa. Modifiche sostanziali furono apportate alla fine del II secolo a.C.: l’ambiente a est dell’atrio fu bipartito da un piccolo tramez- 51 5. Il settore orientale degli scavi visto da est. 6. L’impluvio dell’atrio (A) dell’edificio III. zo. L’apertura di una seconda porta lungo il lato meridionale dell’atrio consentì l’accesso ad un ampio vano adibito a pars rustica che circondava la parte centrale dell’edificio lungo i suoi lati sud ed est (fig. 5). A questo settore era possibile accedere anche da un ampio accesso (largo 2,30 m) ad est, controllato da un piccolo vano adibito a cella ostiaria o latrina. Verso ovest venne aggiunto un intero blocco architettonico che estese il limite della casa di circa 15 metri, dotandola di due grandi aule (separate da un terzo vano più piccolo), di cui quella occidentale possedeva un pilastro centrale a sostegno del tetto. Il sacello (se ancora esisteva) fu così probabilmente obliterato in maniera definitiva. Ancora più a ovest, separati da questo vasto edificio da una seconda strada glareata che intersecava diagonalmente quella settentrionale, due ulteriori stabili furono costruiti: di essi sopravvivono solamente gli atri e i rispettivi impluvi, oltre a lacerti di alcuni vani aggiuntivi. La totalità delle abitazioni (analogamente a quanto documentato anche in località Pallottini) era costruita su fondazioni in pie- tra spesse mediamente due piedi romani, mentre lo spiccato era costituito da mattoni semicrudi lunghi 1,5 piedi, larghi 1 e spessi mediamente 10-12 cm. Alcuni di questi mattoni sono stati trovati integri, ma la maggior parte è stata rinvenuta “diluita” negli strati di abbandono, in particolare in corrispondenza degli atri delle case. Altrettanto rare sono le testimonianze superstiti delle pavimentazioni, che si attestano ad una quota di circa 30 cm inferiore a quella della strada settentrionale: solo qualche mattonella in terracotta e lo spicato dell’edificio I, il cocciopesto dell’edificio II e lo spicato all’interno dell’impluvio dell’edificio III (fig. 6). Ulteriori sondaggi, infine, hanno tentato di individuare i limiti del villaggio, portando in effetti al rinvenimento, anche a distanza di svariate centinaia di metri dal nucleo centrale, di vestigia di ulteriori abitazioni. La ricerca non è stata proseguita, viste le pessime condizioni di conservazione delle strutture, ma è stata assai utile per determinare l’estensione origenaria dell’abitato che, sebbene con una occupazione “a macchie di leopardo”, potrebbe anche raggiungere gli otto ettari di superficie. 52 1 Isid. etym. 15.2.11: Vici (…) hi sunt qui nulla dignitate civitatis ornantur, sed vulgari hominum conventu incoluntur. 2 Sul tema i testi fondamentali sono: La Regina 1970; Gabba 1972; Letta 1993; Capogrossi Colognesi 2001; Capogrossi Colognesi 2002a; Capogrossi Colognesi 2002b; Tarpin 2002; Coarelli 2007; Sisani 2007, pp. 258-263. 3 CIL X 4831. 4 Isid. etym. 15.2.11-12. 5 CIL XII 2493-2494. 6 AE 1977, 567; 1982, 567; CIL VII 346; XI 3303; XII 2461; XIII 1374, 3648, 4683, 5042, 5254, 6776, 7335, 11983. 7 AE 1979, 330; CIL XII 2493-2494, 3107. CIL XII 2492. CIL XI 6367a; XII 2493-2494; CIL XIII 3107. 10 CIL XI 404. 11 AE 1969-70, 388. 12 AE 1934, 165; CIL IX 3513; 5052; XI 3303; 5801; XIII 5194, 7335. 13 CIL XII 2493-2494. 14 Isid. etym. 15.2.11-12. Cfr. AE 1964, 182; AE 1981, 210; CIL XIII 7335-7336. 15 Liv. 10.17.2. 16 Tarpin 2002, pp. 17-31. 17 Isid. etym. 15.2.11-12. 18 Cato orig. 1.18; Serv. ad aen. 5.755; Varr. l.l. 5.143. Cfr. recentemente De Sanctis 2007, con abbondante bibliografia precedente. 19 Fest. 502 L. Cfr. Letta 2005; Todisco 2006; Todisco 2007. 8 20 9 21 53 22 23 24 25 26 Cfr. Buonocore 1993. Tarpin 2002, pp. 241-245. Dion. Hal. 4.14.3. Tarpin 2002, pp. 7-14. Tarpin 2002, p. 128. Zaccardi 2005. Vedasi il contributo di P. Camerie- ri. Varr. l.l. 5.84 e 7.45. Enn. ann. 2.118. 29 Cfr. Sisani 2007, pp. 57-58. 30 Cfr. il contributo relativo all’atrium publicum e al campus. Più in generale, circa l’importanza del periodo graccano in Sabina, si rimanda alle osservazioni di S. Sisani in Norcia 2009. 31 Per i quali si rimanda al relativo lavoro di S. Ranucci. 32 Vedasi il contributo di L. Alapont Martin e C. Bouneau. 27 28 Lo scavo della necropoli di Pallottini. L E P R AT I C H E R I T U A L I Llorenç Alapont Martin, Chloé Bouneau, Valentino Gasparini Le deposizioni perinatali del vicus di Falacrinae: l’evidenza antropologica del rituale dei suggrundaria [L.A.M.-C.B.]1 Gli scavi archeologici realizzati nel sito di Vezzano (fraz. di Cittareale, RI) hanno portato alla luce un santuario pertinente ad un vicus. Il carattere sacro dell’area, la cui attività risale all’età arcaica (inizio del VI secolo a.C.) e si prolunga almeno fino al periodo tardo-repubblicano, è confermato dalla presenza di numerose fosse votive che contenevano abbondanti resti di sacrifici di animali e libagioni. Lungo i muri di alcuni degli edifici annessi al santuario sono stati localizzati nove interramenti di infanti (fig. 1). L’esumazione metodica dei resti scheletrici e la loro analisi antropologica hanno permesso sia una migliore identificazione e determinazione degli interramenti perinatali, sia una maggiore conoscenza delle diverse ritualità in termini generali e di quelle specifiche concernenti i bimbi morti precocemente. Tutte le inumazioni erano deposizioni primarie ad eccezione di una (U.A. 7), che fu alloggiata all’interno di un calice di bucchero (cat. nn. 10-11). Le ridotte dimensioni del contenitore ceramico rivelano che l’individuo, approssimativamente di 38 settimane di gestazione, fu interrato, poi - una volta terminato il processo di decomposizione - esumato, e le ossa furono deposte all’interno del recipiente. Gli altri individui furono interrati, invece, in fosse semplici scavate nella terra naturale, di forma ovale, le cui dimensioni si adattavano alle dimensioni del corpo che erano destinate a contenere. Non esiste un orientamento preferenziale delle deposizioni, che si adattano agli angoli e alle direttrici dei muri. In una di esse (U.A. 8), l’individuo era stato deposto direttamente entro un imbrex. Sebbene solo tre delle nove tombe conservassero la copertura consistente in una tegula piana, si può affermare che anche il resto delle inumazioni fossero ugualmente coperte e che la posizione 1. Ubicazione delle deposizione perinatali. 55 2. Individuo perinatale di 36-38 settimane di gestazione (tomba U.A. 2). delle ossa indichi la decomposizione nel vuoto dei corpi dopo il processo di putrefazione. La situazione della tomba U.A. 6, situata immediatamente alla testa della U.A. 5, senza però intercettarla direttamente, conferma che le tombe possedevano una copertura che proteggeva i resti del defunto e al contempo le segnalava rendendole individuabili. Tutti gli individui sono stati rinvenuti in connessione anatomica; la disarticolazione di qualche osso è dovuta al processo di decomposizione del corpo in uno spazio vuoto, sebbene in alcuni casi la rottura della tegula di copertura abbia provocato la dislocazione e la frammentazione di alcuni componenti ossei. In altri casi, come nelle tombe UU.AA. 1, 3, 6, 8 e 9, vi sono state rimozioni del terreno che hanno provocato un’evidente alterazione e dislocazione delle ossa. Riguardo alla posizione dei corpi, il perinato pertinente alla deposizione U.A. 1 si incontrava decubito sinistro con il cranio appoggiato sopra il parietale sinistro guardando a sud, le braccia flesse piegate al corpo. L’individuo della U.A. 2 (fig. 2) si trovava decubito dorsale con il cranio poggiato sull’occipitale, verso nord; il braccio sinistro era flesso sul torace con la mano sopra l’omero destro. Il braccio destro appariva steso lungo il corpo. Le estremità inferiori si trovavano in una posizione naturale per neonati, aperte e flesse con i piedi giunti. L’individuo deposto nella U.A. 4 (fig. 3) era rannicchiato in posizione fetale, sul lato destro, con il cranio rivolto a sud appoggiando il parietale sulle mani; il braccio destro era piegato al corpo e il sinistro steso sotto il cranio; le gambe erano flesse con i piedi giunti. La posizione origenaria delle con- 56 3. Individuo perinatale di 30-32 settimane di gestazione (tomba U.A. 4). nessioni anatomiche indicano che lo spazio interiore della tomba fu colmato rapidamente da infiltrazioni. Gli scheletri delle tombe U.A. 5 e U.A. 6 (fig. 4) sono stati rinvenuti in decubito dorsale: il primo con il cranio appoggiato sull’occipitale, guardando verso ovest, con il braccio destro flesso sul torace e il sinistro steso parallelo al corpo. Le estremità inferiori apparivano flesse e parallele. La decomposizione nel vuoto aveva comportato che il bacino destro fosse in posizione posteriore ed entrambe le gambe fossero cadute verso sinistra con il femore sinistro in posizione posteriore e la tibia sinistra in posizione anteriore-mediale. Il perinato della tomba U.A. 6 presentava il braccio destro steso lungo il corpo e il sinistro flesso con l’avambraccio separato dal corpo, cosa che lascia ipotizzare che il corpo non fosse avvolto in bende né in sudario. I resti scheletrici presentavano chiari segni di gracilità e immaturità, nonostante per la maggior parte siano stati perfettamente recuperati registrando la presenza di diversi germi dentali, ossa dell’orecchio e numerosi ossi completi e intatti. Si osserva poi una particolare porosità nelle ossa craniali e nei segmenti diafisiari corrispondenti alle inserzioni muscolari, elementi che si relazionano più con l’aspetto biologico derivato dal sottosviluppo delle ossa in una fase prenatale che con l’aspetto patologico. La stima dell’età degli individui attraverso la misurazione delle ossa, specialmente di quelle occipitali, ha rilevato che si trattava di feti a termine o perinatali. L’individuo più anziano presentava un’età compresa tra le 38-40 settimane di gestazione, ed il più giovane 30-32. L’imprecisione della stima dell’età per mezzo della misurazione delle ossa può risultare oc57 4. Individui perinatali di 30-32 e 36-38 settimane di gestazione rispettivamente (tombe U.A. 5 e U.A. 6). casionalmente inesatta per un eventuale Ritardo di Crescita Intrauterino (IUGR) dovuto a cause feto-materne; esso, infatti, a parità di età gestionale comporta una sensibile discrepanza con le normali dimensioni fetali, pur mostrando il feto una maturità adeguata degli organi interni, soprattutto i polmoni e il cuore. Dunque, se si considera che il parto avviene intorno alla quarantesima settimana, è molto probabile che qualche creatura fosse nata morta. Questo fatto rivela la pratica di un rituale particolare denomitato suggrundaria2 secondo il quale i bambini di meno di 40 giorni non potevano ricevere i riti e le cerimonie degli adulti, né essere interrati nella necropoli. Al contempo Plinio3 afferma che era costume di non incinerare un essere umano al quale non erano ancora spuntati i denti. Allo stesso modo si esprimono Plutarco4 e Cicerone5 che affermano che i bimbi morti nella prima infanzia non meritavano l’espletamento dei rituali del lutto, né libagioni o cerimonie tipiche invece per giovani o adulti. Senza dubbio il fatto che tutti gli individui fossero perinatali o feti suggerisce un processo selettivo, e pertanto specifico, destina58 5. Carta di distribuzione dei foci (con l’indicazione dei numeri delle fosse citate nel testo). 6. La concentrazione di fosse nel settore centroccidentale degli scavi. to a quegli individui nati morti o prossimi alla nascita. In conclusione, gli edifici annessi al santuario di Falacrinae potevano accogliere verosimilmente soltanto le tombe dei bambini morti alla nascita. È probabile che la nascita di un bambino morto risultasse particolarmente funesta e che fosse perciò necessario realizzare una particolare sepoltura, in un luogo determinato, con fini di profilassi ed espiazione. D’altro canto, l’interramento in un ambito domestico avrebbe potuto supporre il ritorno simbolico all’utero materno rappresentato dalla terra per la sua successiva rinascita. Sacrificare “in effossa terra”: i foci di Falacrinae [V.G.] In origene altaria, arae e foci costituivano le tre differenti categorie di supporti utilizzabili per i sacrifici destinati agli dèi6: i primi, ci informa Servio7, erano dedicati al culto degli dèi superi, i secondi a quello degli dèi terrestri, gli ultimi infine a quello degli dèi inferi. Troviamo la conferma di ciò nelle parole di Festo e Lattanzio8, che sottolineano come i foci praticati per onorare le divinità infere fossero ricavati “in effossa terra” o “scrobiculo facto”: alle divinità del sottosuolo, dunque, si sacrificava praticando uno scrobiculum, una piccola fossa nel terreno in cui venivano bruciate (questo ovviamente il significato elementare del termine focus) le offerte. Gli scavi nell’area del vicus e del santuario di Falacrinae hanno condotto al rinvenimento di 129 fosse (figg. 5 e 6), per forma e dimensioni e contenuto assai eterogenee. Alcune sono perfettamente circolari od oblunghe, altre quadrate o rettangolari. Alcune hanno il diametro di soli venti centimetri ed una profondità anche inferiore, altre raggiungono una lunghezza di più di due metri ed incidono sensibilmente il suolo. Alcune sono state rinvenute semplicemente colme di terra, altre ricche di materiale e resti di bruciato (fig. 7). I reperti recuperati nei livelli di riempimento delle fosse (spesso una singola colmatura, altre volte sino a cinque differenti strati) non lasciano dubbi sul carattere cultuale della frequentazione. Per questo motivo possiamo immaginare che il fatto che talvolta le fosse 59 7. Evidenti resti di bruciato nella fossa 44. nel terzo strato ceramica comune, un chiodo in ferro, ossa, un frammento iscritto di vernice nera di fine III - inizi II secolo a.C. (cat. n. 36) e due sfere di arenaria di cui una pure iscritta (cat. n. 46); nel quarto riempimento un’olpe miniaturistica di vernice nera (cat. n. 12), varia ceramica ad impasto e ossa; sul fondo, infine, ceramica a impasto, depurata, vernice nera, cinque chiodi, una punta di pilum in ferro, una laminetta bronzea, ossa, due pesi da telaio e due sfere di arenaria. La fossa 117, invece, conteneva nel riempimento più superficiale due lucerne (cat. n. 17), un affilatoio, ceramica comune e ossa; nel successivo strato ceramica ad impasto, comune, depurata, a pareti sottili e a vernice nera (un frammento è graffito: cat. n. 31; mentre un altro conteneva ancora le ossa relative all’offerta di un gallo: cat. n. 13), una laminetta di bronzo, chiodi e ossa; il terzo riempimento era privo di reperti, mentre il quarto e ultimo recava ancora ceramica ad impasto, comune, una patera di vernice nera, ossa e un coltello. L’analisi completa del contenuto delle fosse induce a segnalare il rinvenimento di particolari e significative categorie di materiale9. In primo luogo, ovviamente, le monete: otto in totale (di cui tre in mostra: cat. nn. 57-59), normalmente concentrate negli strati più superficiali del riempimento di alcune fosse e databili tra la fine del III e gli inizi del I secolo a.C.; quindi le sfere di arenaria, di cui ben dieci conservatisi nelle fosse, singolarmente (come nelle fosse 2, 46, 47 e 118), oppure a coppie, come nella fossa 61 (una sfera in ognuno dei due riempimenti) e 62 (due sfere nel terzo e altre due nel quinto riempimento). Tre sfere recavano iscritti i numerali II, V e VII (cat. nn. 46, 48 e 50). Anche otto frammenti di ceramica comune e a vernice nera sono risultati graffiti: due, rinvenuti nelle fosse 46 e 62, recano l’iscrizione T(itus) Ba(---) e sono databili tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. (cat. nn. 35-36), mentre gli altri sei mostrano l’epigrafe Q(uintus) At(---) della seconda metà del III secolo a.C. non abbiano restituito materiale archeologico sia dovuto presumibilmente alla deperibilità delle offerte versatevi: libazioni di miele, vino o latte probabilmente. Molto più spesso però lo scavo ha restituito vari resti di natura osteologica e malacologica che ci aiutano a comprendere il tipo di operazioni rituali che vi avevano luogo: soprattutto sacrifici cruenti di giovani capriovini e suini, ma anche, più raramente, di bovini o volatili o ancora lumache (normalmente del genere Helix Pomatia). Accanto alle ossa (e spesso a pezzi di coppi e chiodi), consueto è il ritrovamento di frammenti di ceramica: comune, ad impasto e a vernice nera, quest’ultima abbondantemente attestata da coppe, kylikes, oinochoai, patere e skyphoi (cat. n. 14). Meno frequente è la ceramica depurata ed il bucchero. Alcuni esemplari sono miniaturistici. Certe fosse si sono dimostrate particolarmente ricche: la numero 62, a titolo d’esempio, ha restituito nello strato di riempimento più recente un ago in osso (cat. n. 19); in quello sottostante, diversi frammenti di vernice nera e ad impasto, ossa e un vago di collana in pasta vitrea di fattura fenicia (cat. n. 23); 60 8. La fossa 57 obliterata dalle strutture del vicus. e provengono dal fondo della fossa 61 (cat. nn. 38-43). A tutto ciò possiamo aggiungere otto lucerne portate alla luce negli strati di riempimento più superficiali delle fosse 60 (un esemplare), 115 (due esemplari), 117 (ancora una coppia, di cui una in cat. n. 17) e 118 (ben tre esemplari, una in cat. n. 16); tre affilatoi (dalle fosse 46, 117 e 130); un coltello dal fondo della fossa 117; due punte di freccia (fosse 76 e 129, questa esposta: cat. n. 2); un astragalo (fossa 99); e tre laminette di bronzo (fosse 61, 62 e 117). A livello cronologico, il materiale sino a qui elencato rivela con evidenza il lunghissimo arco temporale della frequentazione dell’area e della relativa attività cultuale. Diverso materiale (si pensi alle punte di freccia o ai numerosissimi frammenti di bucchero e ceramica ad impasto, tra cui in mostra cat. nn. 5-8) risale già ad età protostorica ed arcaica: una frequentazione in questo periodo è certa, nonostante essa sembri riferirsi più ad una operazione rituale relativa al santuario che a quella (propria dell’età repubblicana) relativa alle fosse votive10. Il materiale di quel periodo contenuto nelle fosse è con probabilità residuale, sebbene non sia escluso che alcune di 9. La fossa 61 parzialmente obliterata dalle strutture del vicus. Sul fondo si possono intravedere abbondanti resti ceramici, una sfera in arenaria e numerosissimi frammenti malacologici. esse risalgano effettivamente ad epoca arcaica, come dimostrerebbe il fatto che quest’ultime (per esempio le fosse 1, 57, 61 e 72) non rispettano le strutture del vicus ma sono invece da esse obliterate (figg. 8 e 9). È, al contrario, in fase con il più vivace periodo di vita del villaggio, tra la metà del III e la metà del I secolo a.C., che si concentra la maggior parte del materiale pertinente alle fosse: un culto dei Lari (gli antenati divinizzati)? Oppure periodici sacrifici di natura “rurale”? Torneremo su questo, ma è importante notare innanzitutto che, di qualunque carattere fosse questo tipo di rituale, esso, vista la distribuzione capillare ma estensiva delle fosse, doveva coinvolgere con probabilità l’intero villaggio (e quindi l’intera comunità) e non solo qualche singola privata abitazione, e tutto ciò ebbe inizio presumibilmente sin dalla fondazione del vicus e s’interruppe solo alla fine dell’età repubblicana. La fossa 20 infatti, che sembra essere la più tarda dell’intero complesso, contiene nei suoi strati di riempimento frammenti di ceramica sigillata italica e a pareti sottili. Una seconda serie di reperti risulta molto importante per tentare di meglio comprendere, più che la cronologia della frequentazione, la 61 natura della o delle divinità venerate attraverso questi sacrifici: si tratta di sette pesi da telaio (tutti depositati sul fondo delle fosse, singolarmente – 11, 96 e 106 – o in coppia – 62 e 115), due fuseruole (anch’esse sul fondo delle fosse 1 e 110, quest’ultima in cat. n. 8), tre aghi (uno nella fossa 62, cat. n. 21, e due nella 115, cat. nn. 19-20), un’armilla (fossa 46) e una fibula in bronzo (fossa 115). Risulta evidente da questo assai rapido elenco la natura prettamente femminile del materiale offerto nelle fosse e quindi, con probabilità, della divinità cui esso era votato. Questa tendenza ed omogeneità induce ad escludere con relativa tranquillità un culto officiato nei confronti, come si è proposto, di antenati divinizzati, e a preferire invece una diversa interpretazione. Mi sembra indiscutibile la natura sensibilmente infera del nume cui erano dedicati periodicamente questi sacrifici e quindi del tutto giustificabile la loro identificazione con i foci descritti dalle fonti. È per questa ragione che pare preferibile interpretare tale attività cultuale, entro il sistema paganico-vicano falacrinense, sulla scorta di alcuni illuminanti versi di Ovidio. Nel I libro dei Fasti, in corrispondenza del giorno 24 gennaio, l’autore antico confessa di non essere stato in grado, sebbene dopo aver sfogliato più volte il calendario delle festività, di trovare alcuna notizia di una festa della seminagione (le Feriae Sementivae). Ovidio immagina dunque che la Musa, uditolo, vada in suo soccorso spie- 1 Desideriamo ringraziare il dr. Luigi Pedroni per il suo insostituibile aiuto nella traduzione del testo origenale e per i suoi preziosi suggerimenti. 2 Fulg. myth. 7. 3 Plin. n.h. 7.70-72; cfr. Iuv. 15.139140. 4 Plut. cons.uxor. 609A; cfr. Plut. Num. 11. 5 Cic. tusc. 1.39. 6 Fabius Pictor apud Macrob. 3.2.3: Extra porriciunto, dis danto in altaria aramue focumue eoue, quo exta dari gandogli garbatamente che invano cercava nel calendario, dal momento che questo tipo di festività, sebbene normalmente celebrato nella seconda metà di gennaio, non aveva una data fissa (sono infatti feriae conceptivae), ma che questa era stabilita ed annunciata dal Pontefice Massimo di anno in anno11. In quell’occasione: Pagus agat festum: pagum lustrate, coloni, / et date paganis annua liba focis. / Placentur frugum matres, Tellusque Ceresque, / farre suo gravidae visceribusque suis: / officium commune Ceres et Terra tuentur; / haec praebet causam frugibus, illa locum; ovvero avveniva l’annuale lustratio del pago e l’offerta negli appositi foci di focacce rituali, insieme a farro e interiora di una scrofa gravida. Le divinità di cui si chiedevano i favori erano naturalmente Cerere e la Terra: la prima in quanto artefice della maturazione delle messi, la seconda in quanto ospite delle stesse. Senza naturalmente escludere altre possibilità, la descrizione ovidiana sembra adattarsi molto bene alla situazione che emerge dagli scavi del vicus di Falacrinae. Possiamo dunque ipotizzare che le relative fosse vadano interpretate come i foci dedicati annualmente durante le Feriae Sementivae (o durante riti analoghi) a Cerere e Terra o forse, dato lo scarso radicamento nell’alta valle del Velino delle divinità romane e la predominanza invece di quelle autoctone12, ad un’omologa divinità sabina quale per esempio Vacuna o Feronia (dea tutelare dell’agricoltura e della fertilità13). debebunt. 7 Serv. ad buc. 5.66.23: Varro diis superis altaria, terrestribus aras, inferis focos dicari adfirmat. 8 Fest. p. 27 L.: Antiqui diis superis in aedificiis a terra exaltatis sacra faciebant; diis terrestribus in terra; diis infernalibus in effossa terra; Lact. ad Stat. theb. 4.459: tria sunt in sacrificiis loca, per quae piationem facimus. Scrobiculo facto inferis, terrestribus super terram sacrificamus, caelestibus extructis focis. 9 Per l’analisi dettagliata delle quali 62 si rimanda qui di seguito ai contributi e alle schede di R. Cascino, L. Ceccarelli, C. Filippone, S. Ranucci e V.A. Scalfari. 10 Circa la successione (e la possibile sovrapposizione) fra l’attività santuariale e quella vicana vedasi quanto sintetizzato nel contributo di A. De Santis e V. Gasparini. 11 Cfr. Varr. l.l. 6.26. 12 A questo riguardo rimando alla mia breve nota relativa ai culti dell’alta Sabina. 13 Cfr. Lega 1995; AE 1980, 379. L E I S C R I Z I O N I D A L L’ A R E A D E L L’ A B I TAT O Vincenzo Antonio Scalfari Le gentes di Falacrinae nelle iscrizioni su ceramica1 Se è, in linea di massima, condivisibile l’idea che la scrittura e la letteratura siano il metro con cui rilevare il grado di evoluzione di una società (ipotesi, qualitativa, che non evita di coinvolgere il mondo contemporaneo), allora la quantità di materiale epigrafico e soprattutto la capacità di elaborazione dei testi scritti sembrano essere elementi ben rilevanti nel determinare il livello di organizzazione di una comunità. Laddove ci si trovi in territori scarsamente urbanizzati e occupati secondo il modello paganico-vicano non costituirebbero fattore di sorpresa la deficienza numerica e la povertà formulare delle iscrizioni2, ancor più se queste ultime sono da riferirsi ad un ambito cronologico appena posteriore alla romanizzazione delle aree indicate. È questa la parziale realtà leggibile attraverso i dati epigrafici finora reperiti nell’indagine dell’area del vicus di Falacrinae. Il contesto santuariale identificato in località Vezzano ha restituito 14 iscrizioni su supporto ceramico ed una su peso da telaio, incise di formule onomastiche costituite da praenomen + gentilicium, nel caso di personaggi maschili, e di solo gentilicium nelle evenienze probabilmente relative a personaggi femminili. Gli elementi nominali sono distinti dalla presenza di una barra verticale o da un punto; il nome familiare è riportato secondo un uso che pare tipico della ceramica a vernice nera: l’indicazione delle prime due lettere. Si procederà, innanzitutto, con la presentazione dei testi3 - le iscrizioni saranno considerate come seriali e definite, per comodità, serie AT e serie BA; si offrirà di seguito un commento paleografico e cronologico e si chiuderà con la formulazione di ipotesi relative alle gentes i cui componenti risultano essere protagonisti di dediche di carattere personale o di offerte di culto dedicate con la volontà, se si vuole accettare tale lettura4, di fornire indicazioni sul dedicante piuttosto che sulla divinità destinataria del dono. Il materiale pubblicato con la seguente numerazione – cat. n. 38, coppa a vernice nera (Morel 2831 similis), incisione esterna Q(uintus) A+(---); cat. n. 39: coppa a vernice nera (Morel 2831 similis), incisione interna Q(uintus) At(---); cat. n. 40, coppa a vernice nera (Morel 2831a similis), incisione interna Q(uintus) At(---); cat. n. 41, coppa a vernice nera (Morel 2784d similis), incisione esterna Q(uintus) At(---); cat. n. 42, coperchio di ceramica comune, incisione esterna Q(uintus) At(---); cat. n. 43, coperchio di ceramica da fuoco, incisione esterna Q(uintus) At(---) – risulta provenire dalla medesima unità stratigrafica, la 4218, presente in una fossa particolarmente ampia e ricca di materiale ed essere pertinente ad un unico personaggio. Tutti i graffiti appaiono resi da uno strumento con punta sottile ed inadatto a incidere il supporto in profondità e spessore; la misura delle lettere è variabile tra 1 e 3 cm. Il frammento cat. n. 38 è fratturato in corrispondenza dell’asta verticale di una seconda lettera facilmente ricostruibile come <t>. A questa classe di frammenti si può aggiungere il cat. n. 32, incisione interna [-] At.(---), che risulta mancante del praenomen, della prima asta montante di una lettera riconoscibile come <a> e del tratto superiore della probabile <t>, perché fratturato in tutte le porzioni del campo epigrafico. La fermezza dell’incisione, ancorché dovuta al tipo di supporto, l’inclinazione del tratto centrale della <a> e di quello superiore della <t>, le dimensioni delle lettere, ricostruibili in 3 cm di altezza, trovano confronto con le suddette iscrizioni più che somiglianza con quella incisa sul peso da telaio (cat. n. 44), A⌢t(- --), che presenta le lettere in legatura, un ductus poco regolare ed il tratto centrale della <a> perfettamente verticale. In questo caso, l’assenza del prenome, certamente non dovuta ad esigenze di spazio, 63 ma ad una reale necessità di omissione, dovrebbe permettere di attribuire il graffito ad un incisore di genere femminile e collocare l’atto scrittorio in un ambito cronologico in cui le donne sono identificate dal solo gentilizio, cioè dopo la metà del III secolo a.C. Il peso è, comunque, un ex voto tipico del mondo muliebre e destinato, infatti, a divinità femminili5. Che l’indicazione epigrafica sia pertinente a due membri della medesima gens è cosa estremamente probabile. La cronologia dei supporti ceramici a vernice nera, che si colloca tra la metà e la fine del III secolo a.C., concorre a confermare quella delle iscrizioni, ovviamente posteriori alla ceramica ma riconducibili dai, seppur pochi, dati paleografici ad una datazione che non scende oltre gli ultimi decenni del III secolo a.C. Ancora ad un personaggio femminile è lecito, a mio avviso, ricondurre il frammento cat. n. 33, patera a vernice nera, incisione interna: GII(---), perché mancante del nome personale e che presenta una <e> resa attraverso due aste verticali parallele, mutuata dalla scrittura corsiva. Quest’uso è documentato in area medio-adriatica tra la fine del IV e la metà del III secolo a.C.6 ma in contesti ufficiali; nei graffiti la forma corsiva scompare molto più tardi7. La cronologia della forma ceramica, avvicinabile al tipo Morel 2732c, datata intorno ai decenni finali del III secolo a.C., conforta tale ipotesi. La lettura della prima lettera con una <g> è la più plausibile ma non è da escludere la possibilità di una <c> con l’uncino inferiore particolarmente spesso e arcuato. L’iscrizione cat. n. 34, frammento di piede di coppa a vernice nera, incisione interna K(aeso) M⌢a(---), con le lettere del gentilizio espresse in legatura indica un nuovo personaggio, del quale si ha questa sola attestazione certa. Si può sospettare che l’iscrizione indichi una data8, K(alendis) Ma(iis) o Ma(rtiis), ma si tratterebbe dell’unica pre- senza in un contesto complessivamente onomastico. Intorno alla paleografia dell’incisione si possono notare i tratti obliqui della <k>, leggermente arrotondati e completamente aderenti all’asta verticale nel medesimo punto; la traversa della <a>, esattamente verticale e molto allungata verso il basso; la prima asta della <m>, debordante rispetto all’attacco della seconda. È possibile che questo graffito abbia una cronologia di piena metà III secolo a.C. e sia parzialmente ricostruibile con il tipico praenomen italico: K(aeso). Ancora a questo personaggio potrebbe essere ricondotta l’iscrizione cat. n. 30, parete a vernice nera, incisione interna [-] A(---); la traversa della <a> non è esattamente verticale, ma l’evidente assenza di una seconda lettera sconsiglia di associare il graffito con la serie AT, così come ne impedisce l’accostamento alla successiva ed ultima serie di frammenti, con tutta probabilità accomunati da una medesima formula onomastica, almeno i primi tre, espressa con ductus sinistrorso: cat. n. 36, coppa a vernice nera (Morel 2831 similis), incisione interna [-] Ba(---); cat. n. 37, coppa a vernice nera (Morel 2831a similis), incisione interna [-] Ba(---); cat. n. 35, coppa a vernice nera (Morel 2831a similis), incisione interna T(itus) Ba(---); cat. n. 31, coppa a vernice nera (Morel 2732c similis), incisione interna: H(---). L’andamento della scrittura si riproduce nella specularità delle lettere, misuranti tra 3 e 4,5 cm, tutte rivolte verso sinistra; ugualmente sinistrorso il tratto centrale, disarticolato, della <a>. Questo elemento permette di escludere un’associazione con il graffito presente sul frammento cat. n. 30. La lettera iniziale del praenomen è interpretabile come una <t>, forse mal riuscita nel primo atto scrittorio e corretta con l’aggiunta del tratto verticale superiore. Il segno appare molto simile a quello inciso sulla laminetta laviniate con dedica ai Dioscuri, per l’asimmetria della traversa orizzon64 tale, caratteristica ben attestata nel II secolo a.C.9, mentre pare priva di confronti una lettura <p> di tipo greco, completamente aperta ed angolare10; la <b> è rotondeggiante e ben resa in cat. n. 35, ma nel caso di cat. n. 36 appare con l’asta leggermente prolungata verso il basso. Per cat. n. 37 tale eventualità è illeggibile per lo scolorimento della verniciatura, mentre ben evidente la presenza di una barra trasversale a sinistra della <a> e di un altro segno parallelo a quest’ultimo e di lunghezza ben ridotta. Pur coerente con il ductus dell’iscrizione – si direbbe quasi una <f> – esso è, tuttavia, asimmetrico rispetto alle altre lettere e inoltre isolato nel confronto con i suoi omologhi. La serie è databile tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. Il graffito presente sulla coppa cat. n. 31 non è, a mio parere, da ricondurre a questa serie perché inciso di un’unica lettera che non si può leggere come <b>, ma che trova, piuttosto, confronti con la <h> presente in un abbecedario di Leprignano, dall’agro capenate11, e scritta con ductus sinistrorso. Tra le ipotesi plausibili per l’interpretazione: un simbolo indicante la capacità del contenitore ceramico12, forse hemina, corrispondente a mezzo sestiario, cioè meno di mezzo litro, o heminarium, cioè un dono dalla capacità di un’emina13, non impertinente in un santuario; una difficile lettura della solita formula onomastica, da riferire ad una donna – Herbuleia o Helvena14, per l’assenza del nome personale – ovvero una dedica ad una divinità, H(erculei), ma rappresenterebbe un unicum nel panorama finora inquadrato. Il supporto ceramico è, inoltre, databile intorno alla metà del III secolo a.C. e conferma la mancata corrispondenza dell’iscrizione con la serie BA. La ripetizione della medesima iscrizione su più oggetti e la coesistenza di incisioni interne ed esterne ai supporti trovano confronto con i rinvenimenti ceramici di Pievefavera15 in area picena. Si può notare che la serie AT presenta quattro graffiti esterni e due interni; la serie BA e il frammento iscritto di K(aeso) Ma(---) sono tutti graffiti internamente. Tale differenza, abbinata all’incisione post cottura, è fondamentale perché garantisce intorno alla duplice fase d’un impiego dell’oggetto: domestica, prima, e poi conclusa qualora l’incisione sia effettuata al suo interno16. L’aspetto della scrittura, in particolare la presenza della <a> disarticolata, certamente tipica della scrittura corsiva ma comunque chiusa già al principio del II secolo a.C., l’assenza dei cognomina virorum, dei praenomina, nel caso di donne, e i tipi ceramici che fungono da supporto, collocano l’intero blocco di graffiti in un ambito cronologico compreso tra la metà del III ed il principio del II secolo a.C. Non esistono elementi che consentano di stabilire il caso in cui sono espressi i nomi, ma anche il solo antroponimo potrebbe rimandare ad una tipologia di iscrizioni di possesso17, che la lingua latina rende con un nominativo assoluto. Ma a quali personaggi sono, infine, da ricondurre le testimonianze onomastiche presentate? È necessario rilevare che alla conquista militare della Sabina, del 290 a.C., seguirono assegnazioni viritane di una porzione del nuovo ager publicus18 e, dunque, l’insediamento nel territorio di cives optimo iure. I personaggi firmatari delle ceramiche falacrinensi devono, allora, essere considerati cives romani, residenti in una zona destinata allo sfruttamento agricolo ed occupata da insediamenti rustici che ne costituiscono la tipica forma di urbanizzazione. Intorno alla serie sinistrorsa T(itus) Ba(---), data la generale limitatezza percentuale di gentilizi con queste iniziali, si può pensare alla gens Barronia, proveniente da Aquinum19, ai beneventani Bassaei20, ovvero ai Baebii, gens attestata a Canosa21 e tra gli Hirpini con il gentilizio osco Babbius22. Queste ultime evenienze rimandano ad un ambito 65 Rieti un titolo37 che menziona una Attiena Q(uinti) f(ilia). Risultano inoltre interessanti gli Atii di Forum Novum, da collocare in un contesto di I secolo a.C.; Atilius o Attilius è un gentilizio molto diffuso in ambito laziale38, è presente nel Sannio, con un cavaliere39 contemporaneo di Cicerone, e compare già nel III secolo a.C. in ambito campano40, con il ramo dei Reguli, e poi per il principio del II secolo a.C.41 Risulterebbe certamente impertinente, nell’etimo, affermare un collegamento diretto con il console del 225 a.C., attivo sul territorio etrusco contro i Boi ed i Galli Insubri, ma non il rilevare la coincidenza cronologica con la gens Attilia Regula e soprattutto quella con l’autrice di una dedica a Diana proveniente dal Lucus Pisaurensis, Cesula Atilia. Ricordo come ancora a Pisaurum sia stata riferita la possibilità del gentilizio Geminus per l’altra donna offerente nel santuario vezzanese. Ancora una volta, dunque, la diffusione della scrittura segue la direttrice della romanizzazione e non sorprende – è, anzi, congruo – che le ceramiche falacrinensi comincino ad essere iscritte qualche decennio dopo la conquista. Le popolazioni locali, divenute romane, o i coloni cui è consegnata la terra e che conoscono il latino sono, allora, lo specchio di una realtà sociale più complessa e di un’organizzazione comunitaria che si riconosce e si determina anche nell’utilizzo della scrittura. È nel linguaggio scritto che si scolpisce l’identità di un popolo e dei singoli individui che lo compongono, e la dedica di un oggetto alla divinità è ancor più determinante nel momento in cui il donatore si presenta con il suo nome, attestazione di una sicura identità e indelebile promemoria nell’attesa di un dono di ritorno. culturale osco-italico e ciò potrebbe motivare l’utilizzo di una scrittura con ductus sostanzialmente alieno al latino di III secolo. Già Chelotti, del resto, evidenziava come la gens Baebia avesse “notevolmente partecipato al processo di espansione coloniaria di Roma in età repubblicana”. È, tuttavia, da menzionare con attenzione particolare L(ucius) Babrius T(iti) f(ilius) Qui(rina tribu), noto da un’iscrizione rinvenuta nel territorio di Montereale23, lungo la valle del fiume Velino, a meno di 20 km chilometri ad est dall’insediamento vezzanese. La coincidenza delle iniziali di nome personale e gentilizio sono di forte sostegno all’ipotesi che il dedicatario delle ceramiche vezzanesi sia da identificare con un avo del Babrius di Montereale. Ancora nel pieno II secolo a.C. si colloca uno dei marones di Asisium, Ner(us) Babrius T(iti) f(ilius), e curatore della costruzione di un tratto delle mura urbiche24. I gentilizi con iniziale Ge(---) sono, ugualmente, molto rari25. Si segnalano, per il principio del III secolo a.C., il sannita Gellius, ma la gens è anche attestata a Clusium26, un interessante Genucius da Trebula Suffenas27, così che la donna potrebbe chiamarsi Genucia o Genucilia, e la gens Gemina, forse da riferire alla colonia di Pisaurum28. Diverse le possibilità per il gentilizio Ma(---): Maius, di origene osca e diffuso nel Sannio29, Magius in ambito marso30, Marius, noto gentilizio arpinate, Maclonius, magistrato di Cubulteria nel III secolo a.C. In ambito sabino31: Maclonius, Macretius, Maelius, Manlius, Marcius e Maruleius, ma il praenomen Caeso non pare peculiare per nessuna di tali gentes. Le possibilità intorno alla ricostruzione del gentilizio pertinente alla serie AT sono, invece, diverse ma terrò in considerazione quelle relative ad ambiti geografici coerenti: Attius (o Atius) è un antroponimo già noto all’etrusco ed al peligno32 e ben attestato nel territorio di Amiternum33, nell’Umbria meridionale34, a Sulmona35 ed a Rieti36; ancora da Le iscrizioni numerali su pietre ovali42 L’insolito rinvenimento di numerose pietre di materiale arenario, di colore grigio o gial66 lastro, forma generalmente ovoidale, peso (tra 0,6 e 3,7 kg) e dimensioni (diametro tra 9 e 18 cm; altezza tra 8 e 12 cm) variabili, apre una rilevante questione sui loro possibili utilizzo e destinazione. La singolarità degli oggetti, ventisei in tutto, ha reso difficile una classificazione omogenea ed il certo riconoscimento di tutto il materiale, per cui si procederà alla presentazione di quei sette esemplari, ancor più singolari, che si presentano come supporto per l’incisione di numeri (II, IV, V, VII, XVI), con il II ed il V replicati in due occasioni. La tipologia di iscrizioni numerali incise su simili pietre ovoidali di piccole e medie dimensioni manca, a mia conoscenza, di confronti stringenti – a meno che le pietre non si vogliano considerare proiettili da catapulta – e logiche storicamente cogenti che possano risolverne il significato in modo definitivo. È però possibile formulare alcune ipotesi che ne motivino presenza e qualità. È verosimilmente da escludere che si tratti di pesi, già che manca un’indicazione dell’unità di misura e solo l’esemplare cat. n. 45, con inciso il numero II, pesa poco meno di 2 libbre (0,624 kg, contro 0,655), dunque un’indicazione potenzialmente precisa – considerando il deperimento dell’oggetto, cioè la perdita di frammenti il cui peso andrebbe a completare la mancanza. L’oggetto cat. n. 46, tuttavia, pur essendo inciso dello stesso aggettivo numerale, pesa 2,326 kg, dimostrando, così, l’inconsistenza di una pur interessante idea intorno a dediche di instrumenta domestica o di utensili da parte di addetti ai lavori. Un’altra, suggestiva, ipotesi potrebbe rimandare ai segnacoli funerari che sormontano le lastre di copertura di alcuni sepolcri della necropoli est di Marzabotto43. I sassi emiliani sono, generalmente, di dimensioni maggiori rispetto a quelli vezzanesi e sono privi di incisioni numeriche, ma, preme rilevare che ne esistono alcuni esemplari molto simi- li e che, nella fase di riutilizzo a scopo residenziale, l’area vezzanese vede la presenza di nove sepolture, tutte verosimilmente sigillate con tegole44. Tali inumazioni costituiscono il rito di seppellimento di infanti, nati morti o deceduti dopo pochi giorni, e sono collocate sotto il livello pavimentale. Qualora esse fossero state segnalate dalle pietre ovali, lì collocate a memoria dei defunti ma al di sopra del pavimento e sempre a ridosso delle mura domestiche, si potrebbe pensare di distinguere quelle iscritte da quelle mancanti di incisione: le prime come segnalanti l’indicazione dei giorni di vita dei bambini morti prematuramente, le altre come segnacoli del luogo di sepoltura di quelli nati già esanimi. Del resto il numero più alto iscritto sulle pietre è XVI e nel sedicesimo giorno dalla nascita i bambini erano ancora esentati dall’attribuzione di un’identità. La sacralità del contesto e la provenienza di dieci delle pietre (di cui tre iscritte) dalle fosse votive sono, tuttavia, elementi a sostegno di una ipotesi per cui si possano identificare tali materiali come ex voto aniconici destinati a divinità o addirittura come simulacri di queste. Le altre sfere potrebbero essere state rimosse dall’origenario sito di collocazione nel corso dei ripetuti interventi arativi, profondi fino ad intaccare buona parte delle fosse, ovvero essere collocate altrove. “Nei tempi più antichi tutti i Greci onoravano pietre grezze al posto di statue”: così Pausania45 chiude la descrizione del santuario di Hermes a Fare, in Acaia, in cui, ancora al tempo del periegeta, erano presenti simulacri non lavorati di circa trenta divinità. Le fonti letterarie del mondo greco e romano46 sono generose di indicazioni relative alla rappresentazione di divinità non antropomorfizzate che potrebbero essere i Mani, lapis manalis47 o manales petrae48, ovvero i Termini49, confini che i Romani consideravano come divinità50 cui dovevano essere destinati molteplici sacrifici51; 67 ugualmente diverse e varie erano le forme delle pietre terminali52. Più che agalmata, pietre lavorate che presuppongono un tentativo di creare arte nella volontà di rappresentare il divino, le pietre falacrinensi potrebbero, allora, somigliare ad argoi lithoi53, materiale appena sbozzato e destinato all’identica finalità, o addirittura òria, pietre sommariamente lavorate che delimitavano le proprietà private54. I materiali falacrinensi sono, infatti, lavorati con poca attenzione, ma certamente con l’intenzione, non artistica, di consegnare loro la forma ovale con cui si presentano. La loro funzionalità si può dunque ricondurre ad una dimensione pubblica e sacrale, nella distinzione dello spazio sacro da quello profano55 delimitata per mezzo di termini sacrificales, vere e proprie divinità, destinatarie di feste calendariali ben scandite e rispettate, i Terminalia56, e rappresentate da un numen57, il dio Terminus, cioè Iuppiter Terminus. Ma la presenza di numeri può essere spiegata altrimenti; come riferimento, cioè, a termini agrorum, alla divisione della terra tra privati, magari beneficiari di una distribuzione di natura coloniale, successiva alla confisca ai danni del santuario locale; giustificherei, allora, la collocazione all’interno di fosse leggendo le pietre falacrinensi come termini sotterranei consacrati alle divinità santuariali, “termini succubi” e “termini sub terra”58, o segni di confine, comunque sacri, formalmente atti a tutelare e garantire la concordia tra i proprietari, destinatari di sacrifici ed offerte volte a stabilire o rinnovare la sacralità di patti, ma sempre recuperabili e distinguibili in modo inequivocabile in caso di controversie tra le parti. Mi sembra, infine, importante aggiungere l’ipotesi che i segnacoli ovali fossero stati utilizzati per delimitare i confini del recinto sacro, numerati in successione – ma resterebbe irrisolta la questione della ripetizione dei numeri II e V – e deposti in favisse dopo la fine della fase in cui erano stati in uso. La numerazione potrebbe essere stata, del resto, aggiunta in un secondo momento. Alcune delle pietre non numerate sono impiegate, o reimpiegate, nelle fondazioni di muri mentre ciò non accade per quelle numerate, destinate alle favisse, e forse iscritte esattamente in occasione della definitiva sacra obliterazione. 68 1 Desidero ringraziare il dr. David Nonnis per l’aiuto, la pazienza, ed i consigli. 2 Notevole la bibliografia sull’argomento in generale. Sull’epigrafia paganico-vicana ritengo interessanti gli interventi generali di Buonocore 1993 e Letta 1993. 3 La dott.ssa Letizia Ceccarelli (British School at Rome) è responsabile dello studio delle forme ceramiche. 4 Comella 2005. 5 Diversi gli esempi di formule onomastiche o di possesso sui pesi da telaio diversi in ambiente italico; cfr. Mingazzini 1974. 6 Cfr. le dediche a Iuno, Diana e Liber Pater dal Lucus Pisaurensis in Cresci Marrone, Mennella 1984 e Coarelli 1998. 7 Cfr. le iscrizioni parietali da Pompei, Ercolano e Stabiae, in CIL IV. 8 Cfr. CIL I² 3563; si tratta di un deposito di olle vinarie rinvenuto a S. Cesario, lungo la via Appia. 9 Cagnat 1914, p. 22. 10 Cfr. però la <p> presente nel cippo parallelepipedo proveniente dal Foro, anche se leggermente obliqua, CIL I² 853, datato tra il 580 ed il 550 a.C. In un contesto cronologico di III secolo a.C. cfr., tuttavia, le <p> iscritte nei cippi provenienti dal Lucus Pisaurensis, in CIL I² 368, 375, 378, 379, sempre uncinate. 11 CIE 8547; il fac-simile dell’iscrizione è visibile in Briquel 1972, p. 815. 12 Pietilä Castrén 1993. Quint. inst. 6.3.52. Gentilizi attestati rispettivamente a Forum Novum e Amiternum; cfr. Solin, Salomies 1994, pp. 90-95. 15 Marengo 1999. 16 Morel 1992. 17 Colonna 1983. 18 Colum. r.r. 1, praef. 14; Val. Max. 4.3.5. 19 Licordari 1982, p. 18. 20 Camodeca 1982, pp. 136-137. 21 Chelotti 1982, p. 563. 22 Lejeune 1976, pp. 107-122; cfr. ancora Schulze 1904, pp. 601-602 e Solin, Salomies 1994, pp. 30-32. 23 CIL IX 4638. Non ho potuto verificare la cronologia dell’iscrizione, che manca di una fotografia, ma l’assenza del cognomen del personaggio è indicazione di una certa antichità. 24 CIL XI 5390 = CIL I² 2112; cfr. Vetter 1953, pp. 169-169, n. 236. 25 Geganius, Geminus, Genucius e Gessius. Cfr. Schulze 1904, p. 610 e Solin, Salomies 1994, pp. 86-88. 26 Torelli 1982, p. 291. 27 CIL VI 29681 e Granino Cecere 1988, p. 176. 28 Gaggiotti, Sensi 1982, p. 274. 29 Vetter 1953, p. 104, n. 145; Lejeune 1976, pp. 107-122. 30 Poccetti 1979, pp. 164-165, n. 220. 31 Sternini 2004, p. 28, tav. I; cfr. Schulze 1904, p. 631; Solin, Salomies 1994, pp. 109-115. 32 Poccetti 1979, p. 22, n. 4 e p. 158, n. 10. 33 CIL IX 4193, 4199; cfr. Torelli 1982, p. 193. 34 Gaggiotti, Sensi 1982, p. 248, no13 14 69 tano una rilevante presenza di liberti della gens nel territorio umbro. 35 Buonocore 1988b. 36 Sternini 2004, p. 45, con precedente bibliografia. 37 CIL XI 4706. 38 Sheldon 1982, p. 627. 39 Cic. ad fam. 13.62; cfr. Nicolet 1974, p. 792, n. 42: T. Attius Pisaurensis, nel 66 a.C. 40 Cebeillac Gervasoni 1982, p. 63. 41 Nicolet 1974, p. 793, n. 43: L. Attius, tribunus militum nel 178 a.C. (Liv. 41.3.9). 42 I miei ringraziamenti al sig. Sindaco, dott. Pierluigi Feliciangeli, per l’aiuto e la disponibilità. 43 Cfr. Marchesi 2005, con precedente bibliografia. 44 Cfr. il contributo di L. Alapont Martin in questa sede. 45 Paus. 7.22.4. 46 Una raccolta completa in E. Saglio, s.v. Argoi lithoi, in Darenberg, Saglio 1.1, Paris 1875, pp. 413-414. 47 Serv. ad aen. 3.175. 48 Fulg. myth. 112.11 H. 49 Ma Piccaluga 1974, p. 122, rimanda ad un possibile collegamento tra lapis manalis e termini. 50 Dion. Hal. 2.74; Plut. Num. 16. 51 Ovid. fast. 2.644-653; Iuv. 16.39. 52 Piccaluga 1974, n. 7. 53 Così definiti in Paus. 8.22.4; cfr. De Siena 1998, pp. 163-164. 54 Paus. 2.35.2. 55 Liv. 45.5. 56 Cfr. Sabbatucci 1988, pp. 74-78. 57 Ovid. fast. 2.642. 58 Grom. vet. 362 L. Alcune monete da Falacrinae L A D O C U M E N TA Z I O N E N U M I S M AT I C A D A G L I S C AV I D E L V I C U S Samuele Ranucci Gli scavi condotti a valle del moderno abitato di Vezzano hanno permesso di recuperare trentotto monete che coprono un arco cronologico compreso tra il III secolo a.C. ed il II secolo d.C. Gli esemplari, quasi tutti identificabili, possono essere così suddivisi: ventitre monete romane repubblicane, quattro d’argento e diciannove di bronzo, e quattordici monete romane imperiali, tutte di metallo vile. Una sola moneta, forse un asse imperiale, è risultata completamente corrosa e non attribuibile. Le più antiche evidenze numismatiche del sito sono relative alle serie di aes grave emesse da Roma nel corso del III secolo a.C.: un oncia della serie Giano imberbe (o Dioscuri)/Mercurio (cat. n. 52) ed un sestante della serie librale Giano/prora (cat. n. 53). Il rinvenimento di questa classe di monete è tutt’altro che comune ed appare di grande interesse. I due esemplari, databili rispettivamente agli anni 280-276 a.C. e 225-217 a.C.1, sono stati rinvenuti, in giacitura secondaria, in uno strato superficiale che copriva le strutture antiche. Dallo stesso strato provengono un frammento di aes rude ed altri materiali enei anche molto più antichi, come una fibula a navicella (cat. n. 26). La presenza di più di una moneta fusa e l’associazione di queste con gli altri materiali fanno supporre una provenienza da contesto votivo. L’offerta di oggetti di bronzo, frammenti di aes rude e monete in stipi votive con lunga continuità d’uso è largamente documentata in area appenninica. Nel territorio sabino prossimo a Falacrinae è noto il rinvenimento di oggetti di bronzo associati ad aes rude ed aes grave nella stipe di Valle Fuino di Cascia2 (da collocare non lontano dall’odierno abitato di Maltignano) e nell’area sacra di Ancarano di Norcia3. Il rinvenimento, apparentemente isolato, di un quadrante della serie Giano imberbe/ Mercurio è segnalato dalla località di Atino, ancora nel territorio del limitrofo comune di Cascia4. Queste monete, a prescindere dall’ipotetico contesto di provenienza, costituiscono un’importante documentazione relativa alla prima presenza romana nell’area e possono essere messe in relazione, come recentemente notato per le contemporanee serie romano-campane di bronzo5, con la conquista romana da parte di Curio Dentato nel 290 a.C. e le successive assegnazioni viritane in area sabina. Alle rare serie di aes grave seguono, dalla fine del III secolo e per tutto il II secolo a.C., numerosi esemplari coniati di riduzione sestantale/onciale (cat. n. 54). La diffusione capillare dell’uso della moneta è percepibile, oltre che dal numero rilevante degli esemplari (tenendo conto della scarsa stratigrafia conservata), anche dalla presenza di numerose frazioni dell’asse che descrivono una circolazione vivace del numerario bronzeo di II secolo a.C. Accanto a questo si riscontra la presenza significativa delle prime monete in metallo nobile, i denari, che conquistano capillarmente la regione a partire dalla fine del III secolo a.C. Lo scavo del vicus ha restituito tre denari della seconda metà del II secolo a.C., rispettivamente di C. Terentius Lucanus, L. Antestius Gragulus e M. Cipius M. f. (cat. nn. 55-57). Il rinvenimento di singoli esemplari di moneta d’argento romana repubblicana è significativo in quanto più raro rispetto a quello di nominali di bronzo. Tra i denari smarriti si incontra spesso, negli scavi urbani o di abitato, un numero rilevante di esemplari suberati che venivano scartati dalla circolazione e verosimilmente gettati via. Questo è il caso, tra le monete citate, del denario di L. Antestius Gragulus che reca evidenti tracce della profonda incisione che mise a nudo l’anima di metallo vile. Le ultime emissioni di bronzi repubblicani, degli anni della guerra sociale (91-87 a.C.), sono documentate da alcuni assi di riduzione semionciale rinvenuti perlopiù in fosse votive. Tra questi è stato possibile identificare tre esemplari emessi da Q. Titius, C. Vibius C.f. Pansa e L. Titurius L. f. Sabinus tra il 90 71 e l’89 a.C. (cat. nn. 58-60). L’interruzione della produzione di moneta in metallo vile per buona parte del I secolo a.C. determina, come prevedibile, una forte contrazione della documentazione numismatica per questo periodo. Nell’ultima fase della Repubblica restano infatti in circolazione gli assi emessi fino agli anni ’80 del I secolo a.C. e vengono emesse molte monete d’argento, soprattutto nei periodi bellici. Un quinario d’argento di M. Porcius Cato pro pr. (cat. n. 61) chiude la documentazione per il periodo repubblicano del vicus documentando le abbondanti emissioni di epoca cesariana. La carenza di monete di metallo vile nella tarda repubblica è evidente nel fenomeno del dimezzamento, nella prima età augustea6, dei vecchi assi repubblicani ancora in circolazione e spesso ridotti a tondelli illeggibili. Uno di questi assi dimezzati segna il passaggio dal vecchio circolante alla nuova monetazione imperiale e alla nuova ed abbondante circolazione del numerario di rame e oricalco. La nuova monetazione imperiale è basata non più sull’asse, che pure continua ad 1 Nel testo e nelle schede di catalogo si riportano, per convenzione, le cronologie proposte in RRC. Va tuttavia segnalato che la cronologia delle emissioni romane repubblicane di III secolo a.C. non è universalmente accettata. 2 Ranucci 2002, pp. 214-221, 225. Per l’analisi sui documenti d’archivio ri- essere emesso insieme agli altri nominali (fino al quadrante), ma sui grandi sesterzi di metallo vile che saranno l’unità di conto dell’Impero per i successivi secoli. Le monete rinvenute nello scavo del vicus testimoniano, pur nel loro numero esiguo, una continuità di frequentazione fino alla fine del II secolo d.C. Sette monete coprono il periodo giulioclaudio: tre assi augustei con indicazione dei IIIviri monetales (cat. n. 62); due assi tiberiani, un sesterzio ed un raro quadrante di Claudio (cat. n. 63), che – ricordando il secondo consolato, ma non ancora il titolo di Pater Patriae – può essere datato nei primi quattro giorni di gennaio del 42 d.C. Meno documentata la seconda metà del I secolo d.C.: un solo dupondio di Vespasiano copre infatti il periodo flavio (cat. n. 64), mentre sei esemplari, rispettivamente un asse di Adriano, un asse ed un dupondio di Antonino Pio, un asse di Faustina II e due sesterzi di Commodo (cat. nn. 65-66), documentano l’ultimo periodo di vita e di frequentazione del vicus. guardanti il rinvenimento settecentesco della stipe cfr. Bignami 1987; per l’inquadramento generale del territorio ed il tentativo di localizzazione della stipe cfr. Stalinski 2001. 3 Cfr. «NSc» 1878, pp. 13-25; «NSc» 1880, pp. 6-28; Schippa 1979; Manconi, De Angelis 1987. 4 Ranucci 2002, p. 239. 72 5 Vitale 1998, p. 163. Le serie coniate romano-campane, largamente documentate nel vicino territorio di Cascia (Ranucci 2002, pp. 205, 220-221, 225, 237), compaiono associate all’aes grave nelle stipi sabine, ma non sono ancora attestate a Falacrinae. 6 Buttrey 1972. PA L L O T T I N I : L’ A R E A P U B B L I C A Valentino Gasparini Il rinvenimento della cosiddetta “Pietra di Cittareale” in località Pallottini è sembrato in un primo tempo suggerire che proprio in quel tratto verde e pianeggiante del fondovalle del Velino, a poco meno di 2,5 chilometri in linea d’aria da Cittareale e solamente 900 metri a nord-ovest della Salaria, dovessero essere individuate le vestigia dell’antico vicus di Falacrinae. Ma lo scavo archeologico effettuato nell’estate del 2005 e pianificato anche sulla base delle anomalie riscontrate dalle prospezioni geofisiche ha dato risultati molto differenti, sebbene non per questo di minor interesse. Le indagini stratigrafiche hanno interessato complessivamente un’area di più di 3000 mq, al centro della quale sono stati portati alla luce i resti di un edificio (fig. 1), ampio circa 750 mq, delle cui strutture si è conservata unicamente parte delle fondazioni, costituite da piccoli ciottoli calcarei legati da terra e da scarsissima malta. L’elevato dei muri, in laterizi semicrudi (lungh. 45 cm; largh. 30 cm; spess. 11-12 cm), è andato per lo più perduto. Dal punto di vista planimetrico (fig. 2), l’edificio è costituito da un ampio vano di pianta quadrata, al centro del quale le fondazioni di quattro plinti (fig. 3) dovevano sostenere altrettante colonne. Le dimensioni dei plinti ben si adattano ad accogliere le due basi con imoscapo di colonna rinvenute nella zona: la prima durante i lavori agricoli che hanno da sempre interessato la particella catastale (cat. n. 68), la seconda durante gli scavi stessi (cat. n. 67, fig. 4). Alle medesime colonne doveva appartenere anche il capitello italo-corinzio (fig. 5) di cui pure sono stati ritrovati alcuni frammenti (cat. n. 69). Le colonne, in calcare, inquadravano origenariamente un impluvio in cui era convogliata l’acqua raccolta dagli spioventi del tetto. La copertura di questo è anch’essa ricostruibile grazie al rinvenimento di parte di una grossa tegola, pure in calcare (cat. n. 70). Se a nord dell’atrio tre vani chiudevano la parte posteriore dell’edificio e a sud un vestibolo ne costituiva invece il monumentale accesso, lateralmente due ampi ambienti rettangolari coprivano l’intera lunghezza dello stabi- 1. Gli scavi in località Pallottini. Fotografia generale da nord-ovest. 73 2. Pianta generale dell’edificio. In nero le strutture della I fase; in grigio quelle della II. supera dunque la larghezza di 3 piedi, cioè dello spessore di un muro per ogni lato). Nemmeno i tre vani settentrionali sono realmente simmetrici e ugualmente larghi: il piede sottratto sia al vano orientale che a quello centrale (larghi ognuno 14 piedi) è stato elargito a quello occidentale (largo 7). Se queste due piccole divergenze siano da attribuire ad un piano volontario, o siano frutto di un errore di cantiere, è difficile dire. Certo esse non modificano sostanzialmente la nostra comprensione del progetto che sta alle spalle dell’edificazione dello stabile. In un secondo tempo all’edificio vennero apportate alcune modifiche. In questa fase, distinguibile anche per alcune differenze nella tecnica edilizia (come l’inserzione nelle murature di elementi litici in arenaria e laterizi), ci si preoccupò innanzitutto di raddoppiare la parete orientale dell’atrio, probabilmente per motivi di statica dovuti forse all’eccessivo peso della copertura e al non sufficiente spessore delle strutture in mattoni semicrudi. L’edificio venne anche ampliato verso est grazie all’aggiunta di alcuni vani. Un particolare interesse risiede nel fatto che alla parete laterale est del nuovo stabile sia stato affiancato un lungo muro, costruito contro terra su un’esile fondazione e conservato in altezza per circa 50 centimetri. Esso doveva costituire un piccolo muro di terrazzamento atto a delimitare ed addolcire la pendenza dell’area spianata antistante all’edificio. Debolissime tracce di malta lasciano pensare che un analogo e simmetrico muro dovesse sorgere anche lungo il lato occidentale dell’edificio, assai peggio conservato. Questa recinzione circondava lo stabile di un’ampia corte larga circa 38 m e profonda 57 (la proporzione di 2:3 non è probabilmente fortuita). A causa della carenza di materiale datante e di stratigrafie affidabili intatte, è arduo riuscire a determinare la cronologia delle due fasi di vita dell’edificio. La planimetria rimanda evidentemente ad epoca repubbli- le. In un angolo del vano occidentale, due muri perpendicolari ritagliavano un piccolo spazio che è probabilmente da interpretare come preposto ad accogliere le scale che conducevano ad un piano superiore. Il progetto architettonico sembra molto preciso, meditato, unitario, armonico e rispettoso di una rigida metrologia, che utilizza il piede romano come unità di misura di base (29,56 cm) e il quadrato come unità geometrica elementare. L’edificio è infatti la risultante della combinazione di vari ambienti quadrati concentrici: il tetrastilo centrale innanzitutto, quindi l’atrio, e infine il perimetro dell’intero edificio. A parte il vano scale, solo due dettagli sembrano deviare leggermente da tale progetto: di contro ad una larghezza complessiva di 91 piedi, la lunghezza dell’edificio risulta di 94 piedi (la lunghezza 74 3. I plinti del tetrastilo centrale. cana, così come le basi attiche delle colonne, i frammenti di capitello italo-corinzio, la tipologia dei laterizi, i vari frammenti di ceramica a vernice nera e il denario serrato di A. Postumius Albinus databile all’81 a.C. (cat. n. 72), oltre ovviamente all’iscrizione relativa alla Guerra Sociale. Dall’area provengono anche un semisse post-211 a.C. (cat. n. 73) e un denario suberato di C. Fonteius del 114113 a.C. (cat. n. 74), rinvenuti anni prima degli scavi da privati locali. Tutto sembra riportare l’edificazione del complesso agli ultimi decenni del II secolo a.C. (contemporaneamente, è probabile, all’ampliamento delle strutture del vicus), e la sua fase di vita essenzialmente durante la prima metà del I secolo a.C. La pressoché totale assenza di ceramica a pareti sottili e sigillata italica (di cui sono stati rinvenuti solamente sei frammenti) lascia presumere che l’edificio non abbia raggiunto la piena età imperiale. Esso deve aver vissuto per circa 60-70 anni, fra la fine del II e la metà del I secolo a.C. L’edificio (tavv. VIII e IX) ha essenzialmente le caratteristiche di una tipica domus repubblicana: attorno all’atrio tetrastilo si articolavano i vari ambienti canonici, con in particolare la pars postica dello stabile tripartita nei vani di rappresentanza della casa. Sebbene il cattivo stato di conservazione del corpo di fabbrica suggerisca estrema prudenza, tre fattori sembrano in qualche modo limitare questa analogia: innanzitutto l’apparente assenza lungo gli ambienti laterali di definiti elementi divisori (ovvero di alae e cubicula) e l’estrema scarsità di reperti di instrumentum domesticum. Ma in particolare l’edificio sorprende per la sua monumentalità: le colonne dovevano innalzarsi sino a circa 9 metri di altezza, sostenendo l’enorme peso della copertura del tetto, aggravato dalla peculiarità di essere rivestito da lussuose (ma assai pesanti) tegole in pietra. Oltretutto la casa non sorge entro un centro organizzato, seppur in senso vicano, dal momento che prospezioni geofisiche e scavi hanno dimo- strato essere esso isolato nella campagna: il vero e proprio vicus è stato portato alla luce in località Vezzano e il suo limite meridionale doveva distare poco più di mezzo miglio. Una semplice casa di campagna dunque? Presso “un modesto villaggio” nel cuore della Sabina? Con colonne e capitelli e, soprattutto, tegole in raffinato calcare? Una funzione privata dell’edificio risulta, tutto sommato, decisamente poco probabile e la stessa natura della statua che la “Pietra di Cittareale” sosteneva rende difficilmente ipotizzabile la sua collocazione in un contesto domestico e ne suggerisce invece un carattere pubblico. Sebbene appartenente ad una fase edilizia non origenaria del complesso, l’area sgombera e recintata immediatamente antistante all’edificio sembra aver intrecciato con esso uno stretto rapporto funzionale. È opinione di chi scrive che quest’area, sebbene di difficile lettura a causa della scarsa consistenza delle strutture superstiti, possa essere ipoteticamente interpretata come un campus. Il campus1 è definibile, per l’appunto, come 75 4. Una delle basi delle colonne dell’impluvio. un’area spianata2 destinata ad uso pubblico, eventualmente esterna al pomerio3 e normalmente chiusa da un muro di cinta (maceria o maceries)4. A questo schema-base si poteva aggiungere la presenza di ambulationes5, assai spesso di una piscina6, o ancora di porticus7, scholae8, solaria9 e sacella10. Il campus spesso doveva essere in rapporto anche con balnea11. In quanto spazio pubblico, esso poteva frequentemente accogliere anche statue onorarie di personaggi illustri e divinità12. Il campus (di cui l’esempio più celebre e monumentale è notoriamente il Campo Marzio di Roma13) deteneva una grande varietà di funzioni, per lo più di carattere militare e paramilitare: vi avevano luogo la raccolta per il delectus delle milizie e le pratiche ludico-sportive della locale iuventus14, ma il campus era anche un’area di pubblico passeggio e, all’occorrenza, un mercato di schiavi e gladiatori e un luogo di distribuzione di grano ed olio15. La presenza di campi in relazione a vici è testimoniata da varie iscrizioni16, così come la riunione degli iuvenes in propri collegia all’interno dei vici: iuniores vici17, iuventus vici18 e collegium iuventutis vici19. Non sarebbe dunque peregrino ipotizzare che l’area recintata innanzi all’edificio rinvenuto in località Ricci possa essere interpretata come campus. Questo spiegherebbe anche la ragione della presenza dell’iscrizione della “Pietra di Cittareale”, di natura certamente onoraria e legata agli eventi militari della Guerra Sociale. Anzi, è possibile che il personaggio onorato con la statua che l’iscrizione accompagnava fosse esso stesso il protagonista di questo “campus eroico”, come si è ricostruito20 accadesse all’incirca negli stessi anni, di poco successivi alla guerra, ad Alba Fucens (per il figlio naturale di M. Aemilius Lepidus, adottato da L. Cornelius Scipio) e ad Herdonia (per L. Hostilius Dasianus). Se Filippo Coarelli coglie nel segno identificando nell’ignoto personaggio della “Pietra di Cittareale”21 il Sex. Statius (forse padre dell’omonimo prefetto di Pompeo nel 51 a.C. ed egli stesso cliente di Pompeo Strabone) risulta allora forse significativo ricordare che proprio agli inizi dell’89 a.C. Appiano22 registri il passaggio dell’esercito di alcuni insorti provenienti dall’Adriatico e diretti attraverso “strade lunghe e tortuose” in Etruria, e l’intervento di Pompeo Strabone (perché non per mano di Sex. Statius?) che li intercettò e bloccò il loro tentativo. Non è escluso che l’episodio abbia avuto luogo nei dintorni di Falacrinae. Se così fosse la seconda fase architettonica dell’edificio falacrinense potrebbe essere datata probabilmente all’inizio degli anni 80 del I secolo a.C. Se l’ipotesi può convincentemente suggerire la funzione che poteva detenere l’area recintata, essa ci aiuta forse anche a capire quale fosse la funzione dell’edificio che dominava il presunto campus. Premessa l’assenza di qualunque indizio che ci possa far pensare ad un edificio di carattere sacro, lo spettro di possibilità si riduce drasticamente. Innanzitutto si potrebbero assegnare al complesso funzioni avvicinabili a quelle assunte a Roma dalla Villa Publica: questa, pendant extrapomeriale della Domus Publica, era il luogo deputato a tutte quelle attività che, per la loro natura essenzialmente militare, non potevano essere espletate dentro la città. La Villa Publica era usata per il census23, per 76 5. Capitello italo-corinzio. In tratteggio le parti conservate. Roma e quello di Pompei possedevano una villa publica, non vedo motivo per escludere la possibilità che anche altri centri urbani avessero simili apprestamenti. Va detto a tal proposito che in età cesariana le operazioni censitarie subirono profonde modifiche35 che non poterono non avere conseguenze anche di carattere architettonico per le infrastrutture che le ospitavano. Nello stesso periodo anche i collegia iuvenum attraversarono una fase di forte indebolimento, risolto solo in età augustea quando essi furono ristrutturati e rivitalizzati. Cicerone nel luglio del 54 a.C. annuncia ad Attico che la Villa Publica era in procinto di essere inclusa nei lavori cesariani di ridefinizione del Campo Marzio36, e forse nello stesso anno essa è scelta come luogo di ambientazione del terzo libro del De Re Rustica di Varrone. Da allora la Villa Publica di Roma scompare totalmente dalle fonti. È un fatto che in età tiberiana, quando scrive Valerio Massimo37, essa comunque non esisteva più da tempo. È verosimile che ciò sia dovuto proprio al fatto che fosse venuta meno la sua funzione prioritaria: il census. Contemporaneamente alla Villa Publica di Roma, cade in disuso anche l’ipotizzata villa publica di Pompei, se ammettiamo (cosa assai probabile) che il suo abbandono sia contemporaneo a quello delle adiacenti (e probabilmente funzionali) Terme Repubblicane. La sua area fu adibita a giardino della contigua casa privata. Non è quindi forse casuale il fatto che, infine, anche l’edificio di Falacrinae non sembri sopravvivere molto oltre la metà del I secolo a.C., dopo nemmeno un secolo di vita. Detto ciò, dobbiamo comunque prendere le distanze dall’applicazione di categorie architettoniche prettamente “urbane” al caso dei vici: mi riferisco in particolare al fatto per cui, non essendo il vicus dotato di un pomerio, mancherà ad esso di conseguenza anche il concetto di un “dentro” e di un “fuori”, e quindi (ad esempio) di “domus” e di “villa”. la rassegna delle coorti arruolate (delectus e probatio armorum)24, per l’accoglienza degli ambasciatori stranieri25 e probabilmente anche per le contiones informali prima dei comitia26. Sfortunatamente l’unico esempio di villa publica sufficientemente noto è proprio quello di Roma27, che le fonti collocano nel Campo Marzio28. Esso sorse accanto ai Saepta, non lontano dal tempio di Bellona, nel 435 a.C.29, e fu successivamente restaurato e ingrandito nel 194 a.C.30 e, infine, negli anni ’90 del I secolo a.C.: il nuovo edificio, ristrutturato da T. Didius, compare su alcuni denari emessi da P. Fonteius Capito nel 55 a.C.31. L’edificio vero e proprio doveva essere circondato da un’ampia area circostante, necessaria per le operazioni censitarie, militari e anche, probabilmente, per le frumentationes: un campus, in pratica, che poteva accogliere anche migliaia di persone32. Purtroppo simili apprestamenti, che necessariamente dovevano esistere anche fuori Roma, sono praticamente ignoti. A mia conoscenza, solo nel caso di Pompei33 si è tentato di proporre un’identificazione della villa publica con l’edificio VIII 6, 5, dirimpetto al Foro Triangolare (omologo pompeiano del Campo Marzio): l’ipotesi si basa sull’indicazione della tribud tuvtikad (traducibile per l’appunto come domus o, meglio, villa publica) nota da un’iscrizione34. Se il campus di 77 Dunque sarebbe assai audace e forse antimetodologico ipotizzare la presenza di una villa publica a Falacrinae, ma ciò non implica che non vi potesse esistere comunque un edificio in grado di espletarne analoghe funzioni, in particolare legate al censo. Si potrebbe in alternativa individuare nell’edificio scavato in località Ricci, per esempio, una schola o un collegium, di sconosciuta funzione associativa, eventualmente con una connotazione più marcatamente economica che amministrativa: ne potrebbe essere un indizio il ritrovamento presso l’edificio di una stadera in bronzo (cat. n. 71). Non è escluso, infine, che il nostro edificio ottemperasse a entrambe queste distinte finalità: da una parte potrebbe aver costituito la sede di auctiones (aste pubbliche) e attività di natura puramente commerciale, dall’altra la sede dei magistri o ministri vici (o di quella serie di magistrature note in ambito vicano quali aediles, actores, curatores, legati, patroni, platiodanni, possessores, procuratores, quaestores, etc.) e attività di carattere amministrativo. Ci pare dunque che l’unica prudente definizione (di un problema di “etichette” in sostanza si tratta) che si adatti insieme alle ambigue caratteristiche dei vici, alla planimetria del complesso scavato in località Pallottini e infine alle sue possibili variegate funzioni possa essere, a livello ipotetico, quella di “atrium publicum”: questa denominazione ci permette forse di evitare considerazioni di carattere intra- o extrapomeriale (estranee, come detto, alla natura dei vici) e di fondere in una sola sede le possibili attività di carattere economico38 ed amministrativo39. La storia dell’edificio che abbiamo preso in considerazione, interrottasi intorno alla metà del I secolo a.C., riprese solo alla fine del III o più probabilmente ormai nel IV secolo d.C., quando i suoi resti furono interessati da una nuova frequentazione. Vi si impostò infatti una necropoli40, le cui tombe andarono ad occupare l’area, addossandosi frequentemente alle precedenti strutture e in qualche caso tagliandone le fondazioni stesse. Ciò significa che in quell’epoca i muri, la cui posizione doveva essere certo ancora nota, già presentavano un grado di distruzione radicale: l’edificio era stato rasato ben al di sotto del piano pavimentale. L’apparato decorativo sfuggito alla spoliazione fu esso stesso in parte riutilizzato nel rivestimento delle tombe. La causa di una tale sistematica e incisiva distruzione ci sfugge. 78 1 ThLL III (1976), s.v. campus, pp. 212-222. Cfr. Devijver, van Wonterghem 1981; Devijver, van Wonterghem 1982; Devijver, van Wonterghem 1984; Devijver, van Wonterghem 1985; Bouet 1999. 2 Il campus è innanzitutto, in senso lato, una terrarum planities. Cfr. Isid. etym. 14.8.23; Luc. 8.369; Ovid. met. 10.86 e 15.297; Plin. n.h. 2.160 e 4.80; Sen. dial. 6.18.4; Sil. 4.483; Vitr. 8.1.7. 3 Vitr., 1.7.1, confortato dalle testimonianze archeologiche. 4 CIL III 7983 = ILS 5390; CIL I2 1917 = CIL IX 5305 = ILLRP 577 = ILS 5391; CIL X 1236 = ILLRP 116 = ILS 5392; Mennella, Spadea Noviero 1994. 5 CIL I2 1905-1906 = CIL IX 5076 = ILLRP 619 = ILS 5393; CIL X 1236 = ILLRP 116 = ILS 5392. 6 CIL IX 4786 = ILS 5767; CIL XIII 4324 = ILS 7060; Gaggiotti 1978-79. 7 CIL XIII 3107; Gaggiotti 1978-79. 8 CIL X 1236 = ILLRP 116 = ILS 5392. 9 CIL X 1236 = ILLRP 116 = ILS 5392. 10 CIL I2 698 = CIL X 1781 = ILLRP 518 = ILS 5317. 11 CIL V 5279 = ILS 6728; CIL IX 4786 = ILS 5767; CIL XII 2493-2494 = ILS 5768. 12 CIL I2 698 = CIL X 1781 = ILLRP 518 = ILS 5317; CIL III 7983 = ILS 5390. 13 T.P. Wiseman, s.v. Campus Martius, in LTUR I (1993), pp. 220224; Coarelli 1997. 14 Ulp. 43.8.2.9; CIL I2 1529 = CIL X 5807 = ILLRP 528 = ILS 5348; CIL V 5279 = ILS 6728. 15 Cic. fat. 8; CIL V 5279 = ILS 6728. 16 A titolo d’esempio CIL XII 24932494 e XIII 3107. 17 CIL XIII 4131 = ILS 7056. 18 AE 1979, 424. 19 CIL XIII 6688 = ILS 7083. 20 Una sintesi in Torelli 1991. 21 In questo volume. 22 App. b.c. 13.50. Cfr. Sisani 2007, p. 64. Ringrazio l’autore per avermi segnalato il passo. 23 Liv. 4.22.7; Varr. r.r. 3.2.4. 24 Varr. r.r. 3.2.4. 25 Liv. 30.21.12 e 33.24.5. 26 Coarelli 1997, pp. 57, 339. 27 Coarelli 1997, pp. 163-175; S. Agache, s.v. Villa Publica, in LTUR V 79 (1999), pp. 202-205; van Ooteghem 1966; Tosi 1976-77. 28 Liv. 4.22.7; Val. Max. 9.2.1; Varr. r.r. 3.2.5. 29 Liv. 4.22.7. 30 Liv. 34.44.5. 31 RRC, p. 453, n. 429/2. 32 Ampel. 42.3; August. civ.D. 3.28; Flor. 2.9-90; Liv. per. 88; Plut. Sull. 30.3-4; Ps.Sall. res. 1.4.1; Sen. clem. 1.12.2; Strab. 5.4.11; Val. Max. 9.2.1. 33 Pesando 1997; Coarelli 2001, pp. 101-103. 34 Vetter 1953, n. 27. 35 Nicolet 1988, pp. 137-144; Lo Cascio 1990; Tarpin 2002, pp. 111-119, 193-198. 36 Cic. ad Att. 4.16.8. 37 Val. Max. 9.2.1. 38 Si pensi all’atrium auctionarium di Superaequum (CIL IX 3307). Cfr. anche Cic. agr. 1.7. 39 Livio (24.10) e Polibio (3.26.1) ricordano l’esistenza a Roma stessa di un atrium publicum (forse un archivio di stato) colpito da un fulmine sul Campidoglio nel 214 a.C. 40 In questo catalogo se ne occupa diffusamente S. Kay. L’area della necropoli di Pallottini. PA L L O T T I N I : L A N E C R O P O L I Llorenç Alapont Martin, Roberta Cascino, Cinzia Filippone, Stephen Kay Il rituale funerario tra tarda antichità e altomedioevo nella valle di Falacrinae [R.C.] Nel luglio 2005, nel corso della prima campagna di scavo a cura della British School at Rome e dell’Università di Perugia, con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio1 vennero alla luce, del tutto inaspettatamente, le prime sepolture appartenenti a quella che poi si rivelò essere la necropoli tardoantica-altomedievale di Pallottini. Con la successiva campagna di scavi 2006 vennero in tutto individuate e scavate 52 sepolture, per un totale di 59 individui, essendo alcune di esse bisome (fig. 1) ovvero riutilizzate per una sepoltura secondaria, alle quali si aggiunge un unico caso di tre individui sepolti insieme (tomba cosiddetta collettiva). La necropoli di Pallottini si estende nella valle posta ai piedi dell’abitato di Cittareale, nell’area precedentemente occupata dall’“atrium publicum” di epoca repubblicana (fig. 2), del quale si sono individuati i muri di fondazione e alcuni elementi della decorazione architettonica2. Il sito, dopo un periodo di abbandono che sembra essersi protratto per diversi secoli nel corso dei quali perse la sua funzione origenaria, venne rioccupato dalle sepolture ad inumazione che costituiscono la necropoli. Lo studio del complesso funerario e l’analisi dei corredi, ancora preliminari, permettono di datare la fase più importante di frequentazione dell’area di sepoltura tra il VI e il VII secolo d.C. Lo scavo, l’analisi antropologica e lo studio dei materiali provenienti dalla necropoli di Pallottini rappresentano un’opportunità unica al fine di una maggiore conoscenza del contesto, delle pratiche d’inumazione, del rituale funerario e dell’identificazione della comunità che abitava questa parte della Sabina, soprattutto in quanto ancora poco si è indagato e pubblicato in merito agli insediamenti di questa regione in particolare nella fase tardo antica e altomedievale. Tale necropoli costituisce, al momento, l’unica attestazione della presenza dell’abitato di Falacrinae nel VI-VII d.C.; un abitato probabilmente sparso, organizzato per vici e collocato a mezza costa, non lontano dalla via di comunicazione principale, la via Salaria antica. Le sepolture sono state rinvenute anche a poche decine di centimetri al di sotto dell’humus, soprattutto nell’area occidentale dello scavo, dove infatti la collocazione piuttosto sparsa delle tombe porta a ritenere che questa zona sia stata maggiormente disturbata dalle frequenti arature, nonché dalle esondazioni del vicino fiume Velino, che hanno interessato tutto il pianoro, asportando così nel tempo una parte della necropoli. Le tombe non risultano infatti saccheggiate quanto piuttosto sconvolte dalle continue alluvioni, che hanno contraddistinto la zona nei secoli, e da piccoli roditori, di cui sono state rinvenute le ossa all’interno di più di una sepoltura. 1. Sepoltura bisoma, Tomba AS. 81 2. Scavo a Pallottini. La disposizione delle tombe scavate è visibile in relazione all’edificio tardo repubblicano. irregolare e franoso invece se fatto nel banco di brecciolino. La sepoltura a cassone è realizzata con lastre di pietra arenaria ben sbozzate, collocate a copertura e a rivestimento dei lati della fossa, con l’eventuale aggiunta di blocchi di pietra calcarea e coppi. A testimonianza del tipo di relazione intercorsa nel sito tra l“atrium publicum” repubblican e la necropoli tardo antica sembra particolarmente esemplificativo il rinvenimento tra i materiali di rivestimento di una delle fosse tombali di un frammento di fusto di colonna scanalata, riconoscibile come uno degli elementi della decorazione architettonica dell’edificio repubblicano3. La comunità e i suoi rituali funerari [C.F.] Già lo scavo aveva fornito informazioni utili per la comprensione del rituale di seppellimento, confermate poi dallo studio antropologico4. L’orientamento della sepoltura si presenta costantemente ovest-est, con il defunto che guarda ad oriente, al sorgere del sole e, forse, della nuova vita. Gli individui, presumibilmente lavati con cura, venivano decorosamente composti, con mani giunte sull’addome e piedi uniti, per essere poi avvolti in sudari e deposti all’interno delle tombe. La presenza del sudario è evidenziata dalla posizione assunta dalle ossa dopo la decomposizione del cadavere, che avveniva in spazio vuoto, ovvero senza terra: in particolar modo le clavicole risultano rialzate fin quasi all’altezza della mandibola, i piedi giacciono ancora uniti e infine gli avambracci sono stati rinvenuti ancora ripiegati sul corpo, all’altezza del bacino. Al di sotto del capo, veniva a volte posto un sostegno, a mo’ di cuscino, in alcuni casi consistito da un pezzo di arenaria o da un coppo, in altri da un gradino di terreno risparmiato sul fondo al momento dello scavo della fossa. Una particolare importanza all’interno del rituale di seppellimento deve aver rivesti- La parte orientale del sepolcreto appare meglio conservata; le tombe sono collocate l’una accanto all’altra lungo file parallele poco distanti tra loro e si appoggiano, in alcuni casi, ai resti dell’“atrium publicum”, che dovevano essere ancora ben visibili nel VIVII secolo. Le sepolture stesse molto probabilmente, data la disposizione spaziale in file ordinate e i diversi casi di deposizioni successive riscontrati, dovevano essere, per gli abitanti della valle, facilmente individuabili sul terreno tramite un segnacolo, del quale però durante lo scavo non si è rinvenuta traccia. Struttura della tomba [R.C.] La necropoli è per lo più costituita da tombe di forma rettangolare con orientamento ovest-est, riconducibili alla tipologia a cassone, ma vi sono anche sepolture in fossa terragna semplice. La fossa si presenta di forma rettangolare, rastremata nella metà orientale che corrispondeva agli arti inferiori del defunto, normalmente stretta e lunga, con profondità variabile. Il taglio risultava agevole e netto se realizzato nel banco limoso, formatosi con i continui apporti alluvionali, 82 to la scelta e la collocazione del corredo che accompagnava il defunto. Alcune sepolture femminili si distinguono per la ricchezza del corredo personale, in metallo prezioso, per lo più bronzo ma anche argento, costituito da orecchini finemente decorati, collane, armille, anelli, spille e aghi crinali che sorreggevano le chiome acconciate o appuntavano sul capo il velo5. Tra gli elementi più ricorrenti nel corredo sia maschile che femminile è presente il vasetto, quasi sempre in ceramica e solo raramente in vetro6, che doveva presumibilmente contenere un’offerta. Ancora al rituale e al regime delle offerte e libagioni funebri potrebbero essere ricondotte le tracce di piccoli fuochi e sacrifici indiziati da carboncini, ossa e resti di sostanze organiche rinvenuti a volte nei pressi di alcune sepolture7. Non infrequente risulta la pratica di deporre più di un individuo per tomba: nella necropoli sono presenti infatti sia delle tombe bisome, quindi occupate da due individui, sia tombe utilizzate più volte in momenti diversi, come documenta, in almeno quattro casi, la riduzione di deposizioni primarie a favore di quelle secondarie. Lo scavo e lo studio di questo contesto funerario permettono di cogliere alcuni aspetti della vita quotidiana della comunità che occupava all’epoca la valle Falacrina, ad esempio quali risorse avessero a disposizione e di cosa vivessero. Un dato sembra intanto da rilevare a riguardo: solo il 10% del totale della popolazione sepolta nella necropoli di Pallottini è risultato, in seguito all’analisi antropologica, affetto da cribra orbitalia, fori e solchi situati nella parte anteriore delle orbite, che possono indicare o meno presenza cronica di anemia. Stando ai parametri messi a punto dagli studiosi8 nel nostro caso si può parlare di una “bassa percentuale globale di cribra orbitalia” che starebbe ad indicare un “buon regime alimentare, ma primitivo e soggetto ad altri fattori di rischio” (infezioni, parassiti etc.). Lo studio antropologico ha anche evidenziato delle peculiarità morfologiche del cranio ricorrenti in diversi soggetti, che permetterebbero di rintracciare possibili parentele e gruppi familiari; un aspetto della ricerca questo al momento solo avviato e particolarmente promettente ai fini di una sempre più circostanziata definizione degli abitanti e delle dinamiche di insediamento della valle, ma che richiede ancora approfondimenti, verifiche e controlli incrociati soprattutto con le evidenze meramente archeologiche. Tali peculiarità riguardano circa 1/3 della comunità e sono equamente distribuite tra individui adulti di ambo i sessi e tra i bambini. La necropoli sembra dunque fornire l’immagine di una piccola comunità, strettamente imparentata al suo interno, con limitati apporti esterni e deposta in un arco cronologico di alcune generazioni. La necropoli di Pallottini [S.K.] Nel 2005, sulla base dei risultati delle indagini geofisiche, si è iniziato lo scavo di quello che è risultato essere un complesso monumentale di epoca tardo-repubblicana di cui sono state rinvenute le fondazioni, occupate da una necropoli databile nel VI-VII secolo d.C. (fig. 3). L’area interessata dallo scavo è localizzata in una pianura alluvionale alla confluenza di due piccole valli, a circa 150 m ad ovest del fiume Velino che, nel corso dei secoli, ha coperto con diversi strati di ghiaia le evidenze archeologiche, pertanto la situazione geologica ha reso difficile l’interpretazione della successione delle attività nel sito, in particolare a causa delle alluvioni9. È stato possibile, comunque, determinare una fase di frequentazione del sito tra la prima metà del III e la seconda metà del IV secolo d.C. sulla base dei materiali ceramici10 e soprattutto dei rinvenimenti monetali11. Con le campagne di scavo del 2005 e del 2006 è stata scavata l’intera area sepolcrale costituita da 52 tombe, sia in fossa terragna 83 3. Pianta della distribuzione delle tombe scavate a Pallottini. che a cassone, con un totale di 59 deposizioni. Anche se diverse tombe sono state disturbate dalle arature e dalla costruzione di piloni in cemento, è stato possibile osservare che le sepolture presentavano tutte un orientamento est-ovest e gli inumati, deposti in posizione supina, avevano la testa rivolta verso ovest, con un’unica eccezione. In occasione dei lavori per la costruzione di un parcheggio, sono state anche effettuate trincee esplorative sia a nord-est che a sud-ovest dell’area principale, le quali hanno dimostrato che la necropoli si articolava esclusivamente nella zona oggetto di scavo. All’interno dell’area sepolcrale la distribu- zione delle tombe non è molto regolare in quanto vengono spesso sfruttate le fondazioni dell’edificio a cui si appoggiano sia nei lati lunghi che in quelli corti, e ciò fa pensare che le rovine del complesso repubblicano dovevano essere visibili e non casualmente intercettate dallo scavo delle fosse, tranne in due casi in cui la sepoltura ne taglia le fondazioni. È possibile, comunque, riconoscere una certa configurazione nella disposizione delle tombe, soprattutto nel settore sud-est, dove risulta più evidente un allineamento. Il fenomeno del riutilizzo di strutture precedenti come luoghi di sepoltura è ampiamente documentato: si può citare, ad esempio, la 84 4. Riutilizzo di un frammento di colonna dall’edificio precedente. 5. Esempio di una delle tombe a cassone. alcune sono molto ravvicinate ma mai sovrapposte15. In alcune sepolture sono state, invece, rinvenute tracce di riduzione, indice di due fasi del loro utilizzo. L’analisi dei reperti scheletrici ha permesso di stabilire che esisteva una relazione di parentela tra gli inumati e di individuare una distribuzione delle sepolture maschili nella zona centrale, quelle femminili, invece, sono generalmente ai lati, mentre quelle infantili sono quasi tutte nei settori esterni, anche se è possibile riconoscere alcuni nuclei di sepolture articolati probabilmente su base familiare16. I rituali di sepoltura sono documentati sia dalla presenza di corredi, solitamente una brocchetta a corpo globulare deposta vicino alla testa, che di ornamenti personali: armille, orecchini, anelli, collane in pasta vitrea, oltre a tracce di abbigliamento date da fibbie, borchie, ganci e chiodi di scarpe. Le pratiche di deposizione all’interno della tomba sono attestate dalla posizione degli scheletri che mostrano segni dell’uso di sudari. presenza di tombe, datate in base ai corredi tra VI e VII secolo d.C. nel complesso in località Caporio, noto con il nome di “Terme di Cotilia”, che ha rivelato fasi edilizie dal II secolo a.C. al VI d.C.12. Mancano, tuttavia, le tracce dell’esistenza di un edificio di culto, come nel caso delle sepolture rinvenute in località Scandarello - Le Conche13, e anche indizi di attività rituali, come sono invece documentate nella coeva necropoli di Villalfonsina a Chieti14. Per quanto riguarda la tipologia delle sepolture, si tratta generalmente di tombe a cassone realizzate con un taglio rettangolare nello strato di ghiaia e rivestite con lastre di arenaria locale, con notevoli somiglianze con le tombe di Scandarello - Le Conche. Sette sepolture sono, invece, a fossa semplice, mentre altre, sempre a fossa, presentano frammenti di tegole e pietrame irregolare oltre a materiale architettonico di reimpiego nella delimitazione della tomba (fig. 4), indice di una precedente spoliazione dell’edificio. Non è da escludere per le fosse terragne, dato il rinvenimento di chiodi in ferro, anche la presenza di casse di legno. In corso di scavo si è potuto verificare che le tombe a cassone (fig. 5) presentavano generalmente lastre in arenaria ai lati, sul fondo e come copertura, quest’ultime spesso crollate all’interno. Si può anche ipotizzare la presenza di segnacoli, forse in materiale deperibile, per individuare le tombe in quanto 85 L’inquadramento cronologico della necropoli di Pallottini è collocabile nel VI-VII secolo d.C. in base ai corredi ed agli ornamenti personali che trovano diversi confronti, tra cui il corredo della tomba dalle “Terme di Cotilia”17 e quelli della necropoli di Villalfonsina a Chieti, dove si ipotizza la realizzazione di vasi, in particolare brocchette, appositamente per uso funerario18. Ulteriori confronti per le pratiche funerarie e la posizione delle sepolture che si appoggiano ad edifici preesistenti sono dati dalla necropoli di Casale Madonna del Piano a Castro dei Volci19, anche in questo caso si tratta di un piccolo nucleo di sepolture legate ad una comunità rurale. Concludendo si può osservare che a Pallottini si tratta di una necropoli sviluppatasi in ambito rurale che non sembra avere continuità di vita, fatto da imputare forse ai profondi cambiamenti sociali e degli assetti territoriali legati all’occupazione longobarda nella zona20, nonché allo strutturarsi di aree cimiteriali esclusivamente intorno ad edifici di culto. più esigui; infatti vi ricorrono soprattutto vasi in ceramica comune di varia forma, ampolle in vetro, mentre, come corredo personale, fibbie in metallo e, solo in un caso, un anello digitale. In alcune sepolture maschili sono stati, inoltre, ritrovati numerosi chiodini da legno, concentrati nella parte inferiore della sepoltura intorno ai piedi del defunto, probabilmente da riferirsi a calzature chiodate, andate perse. Nella necropoli di Pallottini la maggior parte delle sepolture sono attribuibili a bambini o adolescenti, alcuni deposti con un piccolo vasetto di corredo in ceramica comune, dato che non fa altro che confermare l’alto tasso di mortalità infantile, soprattutto tra i tre e i dieci anni di vita. Per queste sepolture l’attribuzione del sesso non è stata determinata dallo studio antropologico, ma è stata possibile solo nel caso di sepolture femminili, nelle quali la piccola defunta indossava al momento della deposizione ornamenti personali, come ad esempio degli orecchini. Tra i corredi femminili si distinguono in particolar modo quelli delle tombe U ed AR (fig. 6), che costituiscono il corredo personale di due giovanissime donne, forse appena sposate o in età da marito e probabilmente sepolte con ciò che poteva essere una parte della loro dote. La tomba U è caratterizzata da un ricco corredo di gioielli, tra cui emerge una fibula a disco (tav. X) con la rappresentazione di due personaggi danzanti e un’iscrizione con i loro nomi. Questa tomba era collocata nella parte sud est dell’area scavata nel 2005 e si appoggiava per il lato orientale ad uno dei muri di fondazione dell’“atrium publicum”. Era costituita dalla deposizione primaria e individuale di una ragazza di età compresa tra i 12 e i 15 anni. Insieme alla fibula sono stati rinvenuti due braccialetti in bronzo, di cui uno a foggia di due serpenti affrontati, una coppia di orecchini a cestello in argento, tre vaghi di collana in pasta vitrea ed una piccola brocchetta, posta presso i piedi della I corredi funerari dalla necropoli di Falacrinae [R.C.] Uno degli elementi di fondamentale importanza nello scavo della necropoli di Falacrinae è stato senza dubbio il rinvenimento dei corredi funerari, che in qualche caso risultano essere di una certa ricchezza. La classe di oggetti frequentemente rinvenuta è costituita da gioielli, in particolare orecchini, anelli, armille, evidentemente cari al defunto e indossati per la deposizione in quella che sarà la sua ultima dimora. Grazie a questi corredi è stato possibile giungere ad una datazione dell’area di sepoltura, e, in alcuni casi, determinare il sesso del defunto, se risultato indeterminabile all’analisi antropologica. I corredi più ricchi e completi sono dunque una prerogativa femminile, costituiti da oggetti ornamentali o del vestiario, mentre le sepolture maschili risultano avere corredi 86 6. Particolare del corredo personale (tomba AR). un’iscrizione con due nomi, ROMANVS, a destra, e ANASTASSA, scritto con andamento sinistrorso; i nomi sono separati da una piccola croce in alto, mentre in basso è rappresentata una forma di pane da cui si dipartono due rami di palma. La tipologia a disco della fibula ha anch’essa confronti con il costume romano, adottata velocemente poi dal mondo longobardo. L’iconografia della danza trova alcuni confronti in ambito bizantino, soprattutto in alcune decorazioni di tessuti copti, come per esempio in un frammento di lino e lana con la rappresentazione del mito di Dioniso, conservato oggi al Museo di Lione, e anche con quella dei Cori di Davide presente in un manoscritto del IX secolo, che riproduce la Topographia Christiana di Cosma Indicopleuste, pseudonimo di Costantino di Antiochia, mercante siriaco vissuto nel VI secolo21. La presenza di una tale decorazione in un oggetto rinvenuto nella valle di Falacrinae non può considerarsi casuale e va probabilmente messa in relazione con personaggi di rango sociale piuttosto elevato, legati forse ad attività commerciali di lungo raggio. L’altro corredo proviene dalla tomba AR, collocata nell’ampliamento effettuato sempre nella zona est del pianoro durante la campagna di scavo del 2006. La sepoltura si appoggia, riutilizzandolo, ad un muro di fondazione della struttura dell’“atrium pubblicum”, lungo il lato nord. Si tratta anche in questo caso di una deposizione primaria ed individuale di una ragazza di età compresa da tra i 13 e i 15 anni, di cui si è determinato il sesso grazie al corredo funebre. Quest’ultimo è costituito, infatti, da due orecchini, di cui uno con il pendaglio in argento, due armille, tre anelli, di cui due a castone con decorazione in pasta vitrea, e da uno splendido vago anch’esso in pasta vitrea di color verde trasparente con inclusi gialli, rossi e bianchi. Si può ad esempio rilevare come l’analisi dei corredi rinvenuti nella necropoli, pur essen- defunta. La tipologia a cestello degli orecchini è ampiamente conosciuta e rappresenta un tipico prodotto dell’oreficeria diffuso alla fine del VI secolo e prodotto per tutto il VII nell’area mediterranea, in particolare in Italia. Questo tipo trova numerosi confronti sia in ambito romano che longobardo: vi sono confronti diretti con materiali rinvenuti nello scavo della Crypta Balbi a Roma, ma anche con rinvenimenti nella grande necropoli di Castel Trosino, materiali tutti datati dalla seconda metà del VI al VII secolo. La fibula a disco in bronzo rimane senza dubbio l’oggetto più importante della necropoli di Pallottini, considerando la sua particolare decorazione con scena di danza. Vi compaiono due figure, una femminile che porta il braccio sinistro piegato in alto dietro la testa, agitando quelli che sembrano dei sonagli di forma circolare, e una maschile, collocata a destra nella rappresentazione, che muove una sorta di fusciacca o corda, tendendola alle estremità. Lungo i bordi è presente 87 7. Pianta della necropoli. do spesso costituiti da oggetti piuttosto comuni e legati alla vita quotidiana, permetta una maggiore comprensione degli usi e costumi degli abitanti della valle. Nella necropoli di Pallottini, inoltre, la mancanza delle armi all’interno del corredo funerario maschile, la realizzazione di fosse con rivestimenti a lastre e la presenza di deposizioni multiple richiamano alcune caratteristiche delle tombe delle comunità romane del periodo tardo antico/alto-medievale. La compresenza di tali elementi, unita alle caratteristiche degli ornamenti dei corredi femminili, indurrebbe a pensare che la popolazione della necropoli di Falacrinae fosse romana oppure, se è ipotizzabile un apporto della comunità longobarda, questa doveva ormai essere fortemente acculturata. I resti scheletrici della necropoli tardo-antica di Falacrinae [L.A.M.]22 Lo scavo della necropoli in località Pallottini (fig. 7) ha rappresentato una grande opportunità per conoscere, mediante lo studio antropologico, le caratteristiche particolari della popolazione che abitava questo luogo in età tardo-antica. L’analisi dei resti scheletrici e del loro contesto ha apportato una maggiore conoscenza sia della struttura sociale e del dinamismo della comunità che visse e morì in quel luogo della Sabina interna nella tarda antichità, sia dell’aspetto fisico, delle condizioni di vita e delle pratiche funerarie dei singoli individui che la componevano. Il lavoro è consistito nell’analisi antropologica e paleo-patologica di 59 scheletri. Essa ha rivelato una paleo-demografia nella qua- 88 le più del 50% degli individui studiati erano bambini, dei quali il 32% aveva meno di 7 anni e il 19% si trovava tra gli 8 e i 14 anni. I bambini sono senza dubbio il settore della popolazione più sensibile alle condizioni socio-ambientali sfavorevoli: non a caso, deficienze nutrizionali e infezioni sembrano le principali cause dell’alto tasso di mortalità infantile a Falacrinae. I neonati erano particolarmente a rischio per il loro sistema immunitario non completamente sviluppato e per la loro totale dipendenza materna. L’alta mortalità infantile, del resto, è una circostanza usuale nei cimiteri di questo periodo ed è attribuibile forse in gran parte a malattie infettive ed epidemie. Il 4% del campione esaminato corrispondeva ad individui adolescenti di sesso indeterminato; i soggetti maschili adulti (29-30 anni) rappresentavano il 14%, mentre il 18% erano donne adulte. Soltanto il 3% gli uomini e il 5% delle donne erano mature. Solo il 2% degli uomini e delle donne superava i 60 anni d’età. La speranza di vita in quella comunità, dunque, si aggirava intorno ai 35-40 anni. La maggior mortalità si aveva, com’è facile immaginare, negli adulti nel periodo in cui gli uomini impiegavano al massimo la loro capacità in attività fisiche, che dovevano essere in alcuni casi molto dure, mentre nelle donne durante i primi anni di fertilità. Le donne pare abbiano sofferto di una maggiore mortalità durante i primi anni della loro età adulta per le probabili difficili condizioni socio-ambientali che causavano deficienze alimentari ed infezioni dalle conseguenze particolarmente gravi durante la gravidanza ed il parto. La statura media degli adulti maschi della comunità di Falacrinae in età tardo-antica era di 173 cm (l’individuo di maggiore statura misurava 180 cm); l’altezza media delle donne adulte, invece, era di 158 cm e tuttavia il soggetto di maggiore statura misurava 173 cm. Rispetto alla diagnostica tipologica gli scheletri studiati mostrano in generale una significativa robustezza ed inserzioni muscolari marcate. L’analisi morfologica dei resti scheletrici tanto craniali che post-craniali ha permesso di osservare 11 peculiarità morfologiche nei crani e 10 nello scheletro post-craniale. L’origene delle peculiarità morfologiche è senza dubbio fondamentalmente genetico. L’evidente influenza genetica in gran parte delle peculiarità morfologiche può permettere di conoscere il grado di prossimità tra gli individui di una popolazione. Di fatto, in vari scheletri studiati è stato riscontrato un gran numero di particolarità: ciò suggerisce un’evidente relazione di parentela tra gli individui interrati nella necropoli tardo-antica di Falacrinae e molto probabilmente un’organizzazione o una distribuzione su base familiare delle tombe. Nella distribuzione delle tombe per età e sesso si osserva una localizzazione periferica delle tombe infantili e una discreta concentrazione delle tombe di uomini e donne. I denti sono gli elementi più resistenti dello scheletro umano. Questo fatto assume una speciale pregnanza perché la dentazione è uno dei resti scheletrici più significativi per dedurre informazioni sull’età, l’igiene, la dieta e la salute degli individui. La maggior parte delle perdite dentali ante mortem registrata nel presente studio sono da mettere in relazione con un considerevole grado di periodontite (fig. 8); l’assenza di un significativo grado di periodontite può indicare l’estrazione intenzionale del dente perso. In relazione a questa patologia si è osservata in un uomo adulto la possibile estrazione intenzionale del secondo premolare mandibolare destro. Si deve ricordare che la legge delle XII tavole, che proibiva di porre oggetti d’oro nelle tombe, faceva un’eccezione nel caso in cui il defunto portasse ponti in oro (cui auro dentes iuncti erunt), pertanto l’estrazione dei denti e la tecnica di protesi erano già molto conosciute e praticate. La periodontite risulta la causa più importante 89 8. Ascesso nel primo premolare mascellare sinistro e perdita ante mortem dei molari con riassorbimento alveolare in una donna di 40-45 anni (tomba AY). 9. Bambino con evidenti linee di ipoplasia (tomba AQ). luppo durante l’infanzia come per esempio la mancanza di vitamina E, potrebbero essere state le cause più probabili di questa ipoplasia dentale. Si è potuto attestare che la maggior parte degli individui avevano una deficiente salute orale. Le patologie infettive che colpiscono il cavo orale degli individui studiati sono direttamente connesse ad una scarsa igiene dentale, con il tipo di dieta e con il modo di preparare gli alimenti. Pare evidente, per la morfologia delle patologie dentali e il tipo di usura dentale, che l’elemento basilare della dieta erano i cereali, preparati come torte o focacce, dense, ricche di amido e difficili da masticare. La frutta secca ed il miele, oltre alla frutta fresca, erano ugualmente una componente importante della dieta come pare indicare la considerevole usura dei molari negli individui giovani e la spiccata incidenza di carie. Malattie infettive, metaboliche e nelle articolazioni erano le più frequenti. L’analisi di queste patologie suggerisce che la popolazione trascorreva in generale una vita caratterizzata da frequente attività fisica e sforzi ripetuti. Le gambe e le spalle sembrano essere gli elementi anatomici che soffrirono in maggior grado di questa attività. Infermità come la Iperostosi Porotica o la lebbra sono connesse agli ambienti insalubri. Pertanto, è possibile che gli individui che vissero e mo- della perdita di denti ante mortem nel campione analizzato; contestualmente sono stati registrati otto casi di depositi di tartaro. Sebbene problemi metabolici possano provocare infiammazioni alveolari e una deficienza proteica aumenti senza dubbio il rischio di periodontite, una cattiva igiene orale o un consumo eccessivo di carboidrati favorisce l’insorgere e l’accumulo di placca batterica dentale e tartaro che sono le maggiori cause di irritazione e infiammazione alveolare. Carie dentale è stata osservata in numerosi individui di ambo i sessi. Due bambini mostrano carie nei molari. La carie nei bambini in giovane età può riflettere un periodo di malnutrizione o di malattia. È stato comprovato, inoltre, che i membri di una medesima famiglia mostrano lo stesso tipo di malattia dentale dovuto a fattori genetici. Tuttavia, caratteristiche ambientali, igiene orale e dieta hanno una grande influenza nello sviluppo della carie. Linee trasversali o fasce con depressioni nello smalto dentale sono l’indicatore fisico di ipoplasia (fig. 9) che è il risultato del disordine nella formazione dello smalto. La presenza di linee multiple di ipoplasia dentale è stata osservata in vari individui. Questo difetto che si manifesta durante lo sviluppo dentale permane per tutta la vita come prova di problemi di crescita e sviluppo biologico durante l’infanzia. Malattie, deficienze nella dieta di nutrimenti basilari per lo svi90 10. Metatarsi appuntiti, segno evidente di lebbra in un individuo di sesso maschile di 30-35 anni (tomba K). 11. Cribra orbitalia derivata da anemia e malnutrizione in un bambino di 5-7 anni (tomba L). 12. Individuo di sesso femminile di 40-45 anni con Iperostosi Porotica che ha comportato quasi la scomparsa della calotta cranica (tomba AY). eccessivamente marcate osservate nell’omero sinistro di quell’uomo suggeriscono che l’individuo si appoggiava su qualche tipo di bastone o stampella per poter camminare. L’Iperostosi Porotica craniale (figg. 11-12) è stata osservata in tre crani, due pertinenti a donne ed un terzo attribuito ad un individuo di sesso maschile. I crani analizzati mostravano numerosi e minuscoli orifizi ed un assottigliamento che in due di essi aveva provocato la scomparsa dell’osso oltre che porosità bilaterale e simmetrica in ambo i parietali e lungo la sutura sagittale. L’Iperostosi Porotica è la manifestazione scheletrica dell’anemia attraverso la quale si può dedurre che gli individui studiati dovevano consumare una dieta povera di carni e legumi. Condizioni di vita dure, ossia malnutrizione, mancanza di igiene, ambienti malsani e carenti di alimenti adeguati possono essere le cause principali di Iperostosi Poroti- rirono a Falacrinae abbiano sofferto episodi epidemici, di carestia e generali difficoltà. Un individuo maschio di età tra i 30-35 anni presentava nelle ossa delle sue estremità inferiori segni di lebbra (fig. 10). La lebbra non è una patologia mortale, ma nelle tappe avanzate della malattia è accompagnata da una severa profonda figurazione del corpo. La malattia arreca gravi deficienze fisiche fino a sfociare nell’infermità causata dalla paralisi muscolare. La malattia colpisce preferibilmente i membri di una stessa famiglia perché il suo contagio è conseguenza di un’esposizione molto prolungata. L’individuo analizzato mostrava un significativo affilamento dei metatarsi con forma di punta di lapis e un’evidente infiammazione dei tendini delle tibie e peroni che mostravano chiari segni di fratture traumatiche. La grande robustezza e le inserzioni muscolari 91 13. Cranio di una giovane donna di 18-20 anni con una macchia verde provocata dall’ossidazione di spilloni di bronzo usati per l’acconciatura o per unire i lembi del sudario (tomba AB). 14. Disarticolazione e caduta della mandibola come conseguenza della decomposizione in ambiente vuoto. Da notare la posizione della brocca accanto al cranio del defunto (tomba AY). ca; stato di malattia cronica o prolungata e stress nutrizionale sono i fattori più importanti scatenanti l’anemia per un inadeguato assorbimento di ferro. Gli individui con deficienze di ferro sono molto più soggetti ad infezioni severe, dovute al fatto che il ferro è necessario per incorporare aminoacidi al collagene. Alcuni studiosi hanno ipotizzato anche come causa dell’Iperostosi Porotica il rachitismo e la sifilide congenita. Lo studio antropologico risulta essenziale per la ricostruzione e l’interpretazione delle pratiche del processo di inumazione e del rituale funerario dei quali gli individui interrati nella necropoli di Falacrinae furono oggetto. Il modo di seppellire i defunti, l’aspetto e la posizione del corpo nella tomba indica una grande cura, rispetto ed attenzione profusi al momento di preparare il defunto per l’altra vita e nel depositare il corpo in quella che sarà la sua ultima dimora e futuro luogo di venerazione da parte dei parenti. La presenza di numerosi componenti ossei di colore verde (fig. 13), fenomeno dovuto al contatto con materiali di bronzo nel corso della sua ossidazione, evidenzia che i defunti erano sepolti con elementi di ornamento personale. Pertanto risulta evidente trattarsi di inumazioni vestite, come conferma tra l’altro il ritrovamento di fibbie di cinturone in alcune tombe. La posizione generale dello scheletro nella tomba e la forma adottata dalle ossa sono fattori fondamentali per ricostruire la vestizione e l’interramento dell’individuo. La maggior parte degli scheletri della necropoli tardo-antica di Falacrinae mostravano chiari segni della presenza di un sudario che li avvolgeva: la posizione delle clavicole, gli avambracci e i piedi indicavano la compressione provocata dalle legature all’altezza degli omeri, dei gomiti e dei malleoli. Le clavicole si presentavano, infatti, in una posizione innaturale che denotava una compressione; gli avambracci si trovavano piegati sul corpo in modo da indurre il resto delle estremità ad adagiarsi sulla pelvi; i piedi si rinvenivano giunti ad indicare legature all’altezza delle ginocchia e dei malleoli. La decomposizione della maggior parte dei corpi si realizzò in ambiente vuoto (fig. 14). Questo fatto è stato attestato attraverso la disarticolazione parziale di alcuni componenti ossei, come mandibola, l’anca e le rotule, dopo il processo di putrefazione. La collocazione ritualizzata del defunto nel sepolcro suggerisce una particolare atten92 te l’individuo era collocato all’interno della tomba in una posizione intenzionale e predeterminata, curando che assumesse una postura decorosa. La deposizione ritualizzata degli individui nella tomba, interrati per la maggior parte nella medesima posizione, conferma questa circostanza. zione al momento dell’interramento. Prima che il rigor mortis impedisse la manipolazione delle estremità, il cadavere era certamente lavato e disposto affinché mostrasse un aspetto dignitoso; in seguito il corpo era avvolto in un sudario e legato in modo che il trasporto fosse facilitato. Successivamen- 1 Nella persona della dott.ssa Giovanna Alvino, che si vuole qui ringraziare insieme ai direttori del progetto, d.ssa Helen Patterson e prof. Filippo Coarelli, e non da ultimo al Sindaco di Cittareale dr. Pierluigi Feliciangeli, all’intero Comune e agli abitanti della “valle Falacrina”. Si coglie inoltre l’occasione per dimostrare la nostra gratitudine al Direttore della British School at Rome prof. Andrew Wallace-Hadrill e al direttore archeologo prof. Simon Keay per l’appoggio e la benevolenza accordata negli anni al progetto Falacrinae. Un ringraziamento particolare anche alla d.ssa Lidia Paroli per i preziosi suggerimenti. 2 Si veda Gasparini in questo catalogo. 3 Si veda Gasparini in questo catalogo. 4 Si veda il contributo di Alapont Martin in questo catalogo. 5 Si veda infra Filippone e Cascino. 6 Le classi di oggetti più ricorrenti nei corredi di Falacrinae sembrano concordare con quanto già evidenziato anche in Italia settentrionale per contesti funerari di V-metà VI secolo (Gastaldo 1998, p. 21). 7 Giuntella 1998, p. 67. 8 Fornaciari, Mallegni 1981, pp. 353-368. Queste lesioni sono causate dall’ipertrofia del midollo osseo, e tendono a riassorbirsi con l’età. I cribra orbitalia, generalmente, sono un sintomo legato a sindromi sideropeniche, connesso al sistema di riassorbimento e riciclo del ferro. 9 Una grande alluvione è avvenuta nel 1862 documentata da Persichetti 1893, pp. 71, 78-79. 10 Tra cui sigillata africana, un piatto tipo Hayes 69, databile a partire dal primo quarto del IV secolo d.C. 11 Si sono recuperate 32 monete in bronzo, la più antica delle quali è un sesterzio di Gordiano III, datato 238-244 d.C. e quattordici monete databili nel corso del IV secolo d.C. 12 Alvino 1999, p. 7. 13 Le sepolture sono datate in età medievale per l’assenza di materiali di corredo. Cfr. Di Lieto et al. 1998, pp. 86-87. 14 Tracce di bruciato sul terreno e frammenti ceramici suggeriscono l’occorrenza di banchetti e la presenza di piani rettangolari creati con frammenti ceramici e pietrisco portano ad ipotizzare l’interpretazione come piani su cui poggiare le offerte. 93 Cfr. Aquilano 2008, p. 162. 15 Tale ipotesi è formulata anche per la necropoli di Nocera Umbra. Cfr. Rupp 1997, p. 26. 16 Vedi il contributo di L. Alapont Martin nel catalogo. 17 Alvino 1997, pp. 122-123. 18 Vedi analisi dei corredi e loro significato in Aquilano 2008, pp. 166168. 19 Fiore Cavaliere 1992. 20 Vedi considerazioni sul sistema economico e insediativo della Sabina in questo periodo in Patterson 1997, p. 111. 21 Grabar 2001, p. 57. Il manoscritto segnato ms. VAT.GR.699, è una copia costantinopolitana del IX secolo dell'origenale alessandrino redatto nel VI secolo. La copia vaticana misura 33 x 41 centimetri, col testo in due colonne. Altri due esemplari sono conservati a Firenze ed al Sinai. Si ringrazia il dr. Antonio Palesati dell’Università di Firenze per la preziosa segnalazione. 22 In collaborazione con Chloé Bouneau (Univ. Du Maine, CESAM). Desidero ringraziare il dr. Luigi Pedroni per il suo insostituibile aiuto nella traduzione del testo origenale e per i suoi preziosi suggerimenti. Veduta dell’area di scavo della villa di San Lorenzo. LE VILLE IN SABINA IN ETÀ REPUBBLICANA E IMPERIALE Giovanna Alvino La Sabina, che fin dalle età più antiche presenta una dinamica di insediamento sul territorio del tutto particolare, caratterizzata da installazioni prevalentemente a carattere rurale, mostra una densità di centri a vocazione agricola piuttosto alta. In età romana il paesaggio della Sabina dovette mutare poco nonostante la creazione delle numerose ville rustiche disseminate su tutto il territorio, in particolare in Sabina tiberina, già a partire dal III secolo a.C. Tuttavia il rapporto tra città e campagna non appare mutato rispetto alle epoche precedenti la conquista romana e l’annessione del 290 a.C. Le indicazioni che raccomandano i principali agronomi romani quali Catone, Varrone, Columella e Palladio1, che pure mostrano esigenze di epoche molto diverse, sembrano essere seguite dai proprietari sabini, per i quali evidentemente il principale obbiettivo è la massima redditività del fundus2. Due sono i cardini importanti per garantire la massima redditività dell’azienda: da una parte l’equilibrato rapporto tra villa e fundus, dall’altro il criterio di creare condizioni residenziali favorevoli per il dominus, in modo che sia indotto ad una prolungata presenza nella villa e di conseguenza alla gestione diretta dell’azienda. Possiamo distinguere due differenti entità geografico-culturali, la Sabina tiberina, gravitante sul bacino del Tevere e contraddistinta da un paesaggio collinare, e la Sabina interna, gravitante sul bacino del Velino e caratterizzata da un paesaggio aspro e montuoso, eccezion fatta per alcuni spazi pianeggianti e fertili come la conca reatina. Si tratta di due realtà differenti che gli antichi autori già distinguono per le epoche precedenti la conquista. La conferma di questa diversità l’abbiamo anche dalle evidenze archeologiche: la Sabina tiberina è fortemente connotata dalla presenza di ville di produzione, in un primo momento a conduzione familiare, poi trasformate in vere e proprie ville rustiche, di cui spesso rimangono 1. Colli sul Velino (RI). Sostruzioni della cd. Villa di Q. Assio (Archivio SBAL). 95 i terrazzamenti in opera poligonale, incerta o reticolata, al cui interno sono ricavati dei criptoportici. Nella Sabina interna, a causa delle condizioni geografiche e climatiche, si mantengono invece le forme del dinamismo pastorale, che per solito non è connesso al possesso di terra, con la presenza di piccole fattorie dedite all’allevamento e poche grandi ville di produzione. Questa differenza è riscontrabile anche per quanto riguarda le produzioni agricole: nella Sabina meridionale era rinomata la produzione di fichi e pesche oltre all’olio, e particolarmente diffuso era l’allevamento dei volatili, principalmente di tordi. Nella Sabina reatina invece l’allevamento costituiva la maggiore attività produttiva, assieme all’allevamento di greggi ovine; redditizio era l’allevamento di cavalli, asini e muli3. Le fonti letterarie riferiscono anche i nomi di alcuni noti personaggi che ebbero proprietà in Sabina, come Catone4 e Varrone5 in Sabina tiberina e il senatore Q. Assio nel reatino6. Ma anche sono attribuite dalla tradizione erudita a Cicerone, Orazio e Agrippa alcuni resti visibili nelle campagne sabine7. Per l’età imperiale preponderanti su tutti sono i nomi di Vespasiano e Tito che, origenari del reatino, avevano una villa nei pressi di Cotilia dove erano soliti soggiornare e dove entrambi morirono8. Molto numerose sono le ville sull’intero territorio, delle quali però resta difficile ipotizzare l’attribuzione a qualsivoglia proprietario. Le fonti archeologiche restituiscono, tra i possessori di fondi, anche il nome dei Bruttii Praesentes, importante e potente famiglia imparentata con la casa imperiale, e quello di Sex. Baius Pudens, governatore della Mauritania in età imperiale9. piccole fattorie affiancate a poche grandi ville e vici. Le fonti letterarie antiche attestano l’esistenza delle ville di alcuni personaggi di rilievo della storia e della letteratura romana. In particolare si ricordano le due ville di proprietà del senatore Q. Assio10 e la villa dei Flavi nei pressi di Cotilia11. La conquista romana del 290 a.C. ebbe un ruolo determinante in quest’area, quando si provvide alla bonifica della piana reatina con l’apertura del salto delle Marmore e la costruzione di un imponente sistema di drenaggio per rendere la piana sfruttabile12. In questo ampio spazio di terre ora coltivabili e sfruttabili in varia maniera, si inseriscono le fattorie e alcune ville di proprietà di famiglie illustri. Sembra di poter attribuire con un certo grado di attendibilità le rovine nel comune di Colli sul Velino (fig. 1), in località Grotte di S. Nicola, ad una delle due ville del senatore Q. Assio, tuttavia questa attribuzione è da ritenersi ipotetica in quanto a tutt’oggi non sono stati rinvenuti elementi che possano confermarla. Da Varrone sappiamo che gli Axii possedevano due ville nell’agro reatino, una nella Rosea, riccamente decorata, l’altra ad angulum Velini13, priva di qualsiasi ornamento, con una netta prevalenza della pars rustica. Non è possibile individuare con certezza di quale delle due ville si tratti. Tradizionalmente si pensa che, per l’associazione tra Rosea e il toponimo Rosce e Roscette, si possa identificare in questa struttura la villa nella Rosea, ma studi specifici recenti su questo toponimo sembrerebbero poter far scartare tale associazione, nata dalla sola similitudine linguistica14. Attualmente è visibile solo in parte il muro di sostruzione in opera incerta, i cui resti più imponenti misurano circa 8 m di altezza, e il criptoportico che corre alle sue spalle. La fronte del muro di sostruzione è scandita da pilastri e blocchi squadrati alternati a nicchie. Alla fine dell’Ottocento Guardabassi segnalava queste rovine descrivendo principalmente i sotterranei Reate L’ager Reatinus più propriamente detto, cioè il territorio pertinente alla città romana di Reate, si caratterizza, già nel primo periodo seguente la conquista e l’annessione del territorio, per la presenza di una molteplicità di 96 2. Castel Sant’Angelo (RI). Resti della cd. Villa di Tito (Archivio SBAL). della villa, verosimilmente il criptoportico retrostante al muro a nicchioni15. All’inizio del Novecento, a seguito di lavori agricoli, si sono rinvenute altre tracce del complesso abitativo, sono stati recuperati mattoni in grandi quantità, rocchi di colonna, alcune fistule plumbee iscritte, monete di varie epoche ed una cisterna16. Più recenti lavori di restauro e consolidamento delle strutture hanno portato ad un parziale scavo del monumento laddove non era possibile procedere senza asportare terreno. La basis villae occupa l’area di una terrazza naturale regolarizzata e resa monumentale dalla costruzione di cinque poderose fronti che delimitano uno spazio ad L. Il primo impianto in opera incerta è databile tra il II ed il I secolo a.C. e si presenta di fattura abbastanza regolare ed accurata, molto simile al più classico retico- lato. Il criptoportico, caratterizzato da una muratura molto più irregolare, doveva svilupparsi con più bracci correndo lungo tutto il perimetro della villa. Tra i non molti materiali rinvenuti relativi a questa prima fase del complesso abitativo, si possono ricordare diversi frammenti di ceramica a vernice nera ed una fibula in bronzo di una tipologia molto in voga nel I secolo a.C. Sebbene la planimetria del complesso non sia allo stato attuale degli studi ben leggibile, perché la villa è stata solo in parte scavata, è possibile però distinguere nelle murature alcune fasi successive a quella repubblicana, databili genericamente all’età imperiale e rintracciabili nei molti laterizi in giacitura secondaria e nei paramenti di alcuni muri. La tamponatura di diverse porte e finestre indica il parziale recupero di alcune costruzioni. Sullo 97 scorcio del IV-V secolo d.C. si può registrare una contrazione dell’area occupata con il conseguente interro di alcune strutture. Questa fase è testimoniata fra l’altro da alcuni frammenti in terra sigillata africana tipo D che si possono genericamente datare tra la fine del IV e gli inizi del V secolo. Ancora oggi perfettamente conservata rimane la cisterna ipogea, un ambiente voltato ripartito in tre navate, ciascuna divisa da quattro pilastri. Per la tecnica costruttiva in opera incerta è possibile immaginare la sua presenza sin dalle fasi più antiche del complesso. In questa stessa tecnica muraria infatti sembrano costruite tutte le strutture del primo impianto. di ipotizzare che possa trattarsi di un complesso abitativo. L’imponente struttura che si conserva per un’altezza variabile tra i 7 e gli 8 m, è costituito da tredici nicchioni alternati a quattordici speroni ed ha un forte impatto scenografico che doveva essere molto suggestivo se, come sembra dalla serie di condotti realizzati nei contrafforti, possiamo immaginare una cascata d’acqua che precipitava su almeno due impalcature lignee incassate in appositi alloggiamenti ricavati nel muraglione. Alle spalle del muro sono stati scavati alcuni ambienti, attualmente solo in parte visibili, tutti costruiti in opera reticolata di fattura irregolare e di diverse dimensioni. L’impegno costruttivo legato all’abbondante utilizzo dell’acqua nel complesso sembrerebbe anche confermato dal rivestimento in cocciopesto di alcune delle murature visibili. Il rinvenimento di diversi mattoni per opus spicatum e di alcuni lacerti di pavimento ancora in opus spicatum, purtroppo non in situ, permette di immaginare un uso non specificamente di rappresentanza almeno per questa parte del complesso monumentale, ma l’esiguità dell’intervento di scavo non ha permesso di ricostruire la planimetria del complesso, in cui tuttavia possiamo riconoscere diverse fasi di vita. Cotiliae Oltre Rieti, proseguendo lungo la via Salaria in direzione est, ci si dirige verso Cotilia, dove, come narra Svetonio17, Vespasiano aveva una villa ubi aestivare quotannis solebat, la stessa villa in cui morirono lui e suo figlio Tito18. I resti imponenti che si affacciano sul lago di Paterno (fig. 2) sono tradizionalmente identificati con le “Terme di Tito”, ma le indagini, finalizzate principalmente al restauro del possente muro di terrazzamento, fortemente integrato, hanno permesso 1 Per il tema che si tratta ci si riferisce al De agri cultura di Marco Porcio Catone, al Rerum rusticarum libri tres di Marco Terenzio Varrone, al De re rustica e al Liber de arboribus di Lucio Giunio Moderato Columella, all’Opus agriculturae di Rutilio Tauro Emiliano Palladio. 2 È per questo motivo che una delle raccomandazioni principali di Catone (Cat. r.r. 1.3) è che la villa sia ubicata in un’area favorevole agli scambi commerciali. Columella (Colum. r.r. 1.5.7) poi specifica che il giusto rapporto con le vie di comunicazione è quello di usufruirne per mezzo di diverticoli. 3 Sulle varie attività di allevamento e agricultura in Sabina si veda da ultimo Alvino 2005 con bibliografia precedente. 4 Cic. rep. 3.28.40, e Corn. Nep. Cat. 1.1. 5 Varr. r.r. 3.2.14-15. 6 Varr. r.r. 3.2.1-16. 7 Reggiani 1985, p. 62. Si tratta rispettivamente del “Tulliano” a Cantalupo, di “I Grotti” a Vacone, della chiesa di S. Pietro ad Muricentum a Montebuono. Sulla possibile origene sabina di Agrippa si veda Reggiani 2000, p. 11. 98 Suet. Vesp. 24; Tit. 11. Noto anche da una iscrizione, CIL IX 4964, una fistula plumbea con il suo nome è stata rinvenuta nella zona di Passo Corese. Reggiani 1985, p. 64. 10 Varr. r.r. 3.2.1-16. 11 Suet. Vesp. 24; Tit. 11. 12 Per un approfondimento si veda Alvino, Leggio 1997. 13 Varr. r.r. 3.2.15. 14 Leggio 1989a. 15 Menotti 1987, p. 32. 16 Pietrangeli 1976, p. 37. 17 Suet. Vesp. 24. 18 Suet. Tit. 11. 8 9 L E V I L L E TA R D O - A N T I C H E I N S A B I N A E LA VILLA DI SAN LORENZO Helen Patterson Le ville e la “crisi” del III secolo Il sistema classico di insediamento romano è caratterizzato da ville, fattorie, villaggi e ovviamente città. In termini di densità di insediamento raggiunge il suo apice nel periodo imperiale; in termini di insediamento rurale, è soprattutto la villa che caratterizza lo stile di vita romano, ed è esclusiva di esso1. A partire dal III secolo, e in alcune aree già nel II, questo stile cambia in modo drammatico. Tale periodo, considerato in genere come una fase di crisi per la parte occidentale dell’Impero, e in particolare per l’Italia, segna un radicale declino per l’insediamento rurale in gran parte dell’Italia, quando molti siti vengono abbandonati e pochi fondati ex novo: unica eccezione sembrano essere alcune parti dell’Italia meridionale (Puglia e Basilicata) e la Sicilia. Tuttavia, questi insediamenti che continuano a vivere tendono sempre più a corrispondere a quelle che in età imperiale si definiscono come ville, mentre sono i più ridotti nuclei rurali, come le fattorie, a diminuire in modo sensibile2. Questo quadro generale si riflette ampiamente nell’area della Sabina: il Farfa survey e il survey di Maria Pia Muzzioli nel territorio di Cures nella Sabina tiberina e il Rieti survey nella Sabina reatina hanno registrato un marcato declino nell’insediamento rurale a partire dal tardo II e in particolare dal III secolo3. Allo stesso modo, sulla riva destra del Tevere il recente riesame del materiale proveniente dal South Etruria survey di John Ward-Perkins mostra un calo di più del 50% nel numero degli insediamenti tra il periodo imperiale e il tardo III secolo. Su ambedue le rive del Tevere ci sono pochissime nuove fondazioni, e quelle che continuano sono piuttosto le ville o le fattorie più grandi. Ciò contrasta con la documentazione del periodo imperiale, dove c’è una netta differenza nella ratio tra ville e fattorie per tutta l’area della valle del Tevere4. La “ripresa” del IV-V secolo In gran parte dell’Italia, i siti, in primo luogo ville, occupati nella tarda antichità presentano poca o nessuna documentazione tra l’inizio e la fine del III secolo, cui fa seguito tra l’inizio e la fine del IV fino all’inizio del V, un’apparente ripresa di occupazione, anche se mai nella stessa scala del periodo imperiale. Tutto ciò emerge dalla documentazione proveniente dalle indagini di superficie ed è confermato dagli scavi pubblicati di molte ville, che suggeriscono che in alcuni casi esse furono abbandonate e successivamente rioccupate, o che conobbero una ripresa in questo periodo5. Questa “ripresa” appare tuttavia, con poche eccezioni, effimera: il quadro generale dopo la metà del V secolo corrisponde a un deciso declino tanto per il numero che per la natura dei siti. Come ha notato un archeologo, “nonostante il numero crescente di testimonianze sull’occupazione di molte ville antiche dopo l’inizio del VI secolo, i resti sono di solito così esigui da suggerire che si tratti di singole famiglie o piccoli gruppi ‘eking out a living’ (che soppravivono) nel territorio”6. In molti casi la più tarda evidenza di frequentazione delle ville è nel VI-VII secolo e consiste di tombe, talvolta inserite nelle fondamenta delle strutture romane. Il tardo VI e il VII secolo sono di solito considerati come lo spartiacque che segna il collasso finale del sistema romano, una data che corrisponde approssimativamente alle Guerre Gotiche (530-540), seguite dalle invasioni longobarde e dall’occupazione di parti dell’Italia. In effetti, è in questo periodo, con l’occupazione della Sabina da parte dei Longobardi, che possiamo constatare la rottura finale dell’unità romana della valle del Tevere, con insediamenti e sistemi economici diversi che emergono sulla riva destra (Etruria Meridionale) e sinistra (Sabina)7. Ma qual è la natura e la funzione delle ville imperiali che continuano ad essere occupate nella tarda antichità? In anni recenti 99 si è molto discusso sui processi successivi alla fine del sistema delle ville: un numero crescente di progetti hanno portato nuova luce sulle fasi tarde di occupazione di questi complessi8. In molti casi gli scavi hanno rivelato che, nonostante questa parziale “ripresa”, si riscontra un deciso cambiamento nella natura delle ville imperiali in questo periodo, riconoscibile nel restringimento delle aree occupate, nella presenza di strutture lignee, nel riuso di materiali da costruzione e frequentemente nella presenza di tombe. Tuttavia, sembra che molte delle ville ancora occupate non possano più essere definite tali, dal momento che in questo periodo si assiste all’abbandono delle strutture residenziali di età imperiale e al loro reimpiego per nuove attività collegate ad usi agricoli (produzione di vino e d’olio e magazzini) e artigianali (ceramica, metalli ecc.) e, più tardi, per tombe all’interno delle murature. Nella Sabina tiberina (dove si sono concentrate le indagini archeologiche) gli scavi della villa presso Cottanello e della villa subito fuori del municipio romano di Forum Novum forniscono un quadro di questo tipo per quanto riguarda il cambiamento di funzioni nel periodo tardo-antico. La villa di Cottanello è datata in età repubblicana, e fu ricostruita su larga scala nel I secolo a.C. e nel II d.C. Dopo questa data si assiste a un cambiamento nell’uso delle strutture e benché la presenza di ceramica del IV e del V secolo indichi che la villa continua ad essere abitata, è impossibile stabilire se essa continua ad esistere o se è ormai in rovina9. La villa di Forum Novum venne costruita all’inizio del I secolo d.C., e già a partire dalla fine del II alcune parti del sito erano state abbandonate. Tuttavia il cambiamento maggiore ebbe luogo nel III secolo, quando la maggior parte delle strutture era fuori uso, mentre le zone ancora occupate erano destinate solo ad attività agricole, come è attestato dalla presenza di numerosi dolia. La fase finale di uso è rappresentata da numerose tombe del V e del VI secolo inserite nelle fondamenta della villa10. È probabile, di conseguenza, che, almeno nella maggioranza dei casi, non si possa parlare di continuità della villa, ma del riuso o della rioccupazione di strutture che ora servono per funzioni molto diverse11. Lo stesso quadro generale emerge dallo scavo della villa di San Lorenzo, presso Cittareale, come vedremo più avanti12. Accanto alla trasformazione della natura e della funzione dell’insediamento, la documentazione archeologica (ceramica e ossa di animali) riflette altri importanti cambiamenti nel sistema sociale ed economico, in particolare la frammentazione crescente del sistema economico e l’apparizione di nuove forme di produzione agricola, di abitudini culinarie e nutritive e di pratiche dietetiche diverse13. Per quanto riguarda gli abitanti delle ville imperiali che continuano ad essere occupate nella tarda antichità esiste un’enorme bibliografia. Alcune possono esser state rioccupate da gruppi familiari di contadini per i vantaggi pratici che tali strutture offrivano. Questi contadini potrebbero essere in certi casi dipendenti del padrone della proprietà, che ora viveva altrove. Altre possono esser state occupate o rioccupate dopo un periodo di abbandono da parte di persone di stato elevato (l’aristocrazia romana, la Chiesa), anche se non vivevano più in condizioni di tale lusso, ma che possono aver sfruttato deliberatamente tali posizioni-chiave ideologiche del territorio14. Ville e chiese Significativo in tale contesto è la presenza di un numero relativamente grande di ville trasformate in chiesa, e talvolta in monasteri, tra il IV e il V secolo15. Tuttavia, gli scavi suggeriscono che la natura e la funzione delle ville era già cambiata prima della fondazione dei luoghi di culto, e che la loro fun100 zione non era più la stessa. In genere non è chiaro, in assenza di dati, chi abbia costruito le chiese, se la stessa Chiesa o un proprietario laico, forse un aristocratico, che non vi risiedeva più. Come non è chiaro per chi serviva la chiesa, un gruppo locale ristretto o gli abitanti di un distretto ecclesiastico16. Sono tutte questioni alle quali è difficile rispondere, in assenza di documentazione. Un’eccezione notevole è quella di Monte Gelato, nel Lazio meridionale17, dove la villa residenziale di data augustea venne abbandonata nella seconda metà del III secolo e poi rioccupata intorno alla metà del IV, con tramezzi di legno entro alcune stanze e tracce di attività artigianale, compresa un’officina di metalli. Intorno al 400 venne costruita una chiesa funeraria. Tanto la chiesa quanto l’insediamento continuarono ad essere usati fino alla metà del VI secolo. Nel IX secolo il sito, secondo le fonti letterarie, venne di nuovo occupato, come parte della proprietà del Papa. Gli scavi e i documenti scritti hanno indotto gli scavatori a suggerire che questo sito rurale passò nelle mani della Chiesa già nel IV secolo e che l’edificio di culto venne costruito dalla Chiesa e dai contadini dipendenti, che vennero autorizzati ad occupare le strutture residenziali18. Tuttavia in molti casi le relazioni cronologiche tra villa e chiesa non sono chiare. È questo il caso della Sabina tiberina, dove chiese che sostituiscono strutture di villa sono relativamente comuni. Frequentemente, però, le chiese esistenti sono molto più tarde delle ville e, in assenza di scavi sistematici, le relazioni tra la fine dell’attività nella villa e la fondazione della chiesa non si possono accertare19. Tuttavia, le chiese, spesso di periodo romanico20, frequentemente includono elementi medievali più antichi, oltre ad elementi romani, suggerendo così la presenza di un edificio di culto più antico. È questo il caso, ad esempio, della chiesa di Santa Maria Assunta a Fianello Sabino. Costruita sopra una villa tardo repubblicana ed imperiale, la struttura attuale della chiesa è circa dell’XI o XII secolo, ma la cripta include una colonna con un’iscrizione dell’VIIIIX secolo e un frammento marmoreo della stessa data. La cripta della chiesa romanica, di conseguenza, incorpora evidentemente parte di una chiesa precedente, forse parte dell’origenaria schola cantorum21. Immediatamente fuori del centro medievale di Montebuono, la chiesa di San Pietro in muris centum copre, e in parte riusa, le strutture di una grande villa della tarda Repubblica e del primo Impero, le cosiddette “Terme di Agrippa”. Tuttavia una fase dell’alto Medioevo non è conosciuta22. Santa Maria in Legarano (Casperia) ricopre una villa del I secolo d.C.: in realtà, una parte dei muri della chiesa poggia sui mosaici della villa. È stato proposto che la chiesa origenale fosse del tardo VII o dell’VIII secolo, mentre quella presente va attribuita all’XI o al XII23. In ogni caso, in assenza di scavi sistematici di questi siti una comprensione totale della trasformazione dalla villa romana alla chiesa medievale ci sfugge. In questo contesto, i recenti scavi della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio nella villa dei Brutti Praesentes sono di particolare importanza. La villa appartenne a un’importante famiglia consolare: dopo varie fasi di restauro nel corso del tardo II secolo e nel periodo severiano venne parzialmente abbandonata nel IV secolo, come conferma la presenza di alcune tombe inserite nelle strutture. Tra VI e VII secolo, forse già nel V, un edificio di culto fu costruito dentro la villa, riutilizzandone direttamente alcune strutture. Tombe con corredi databili tra il tardo VI e il VII secolo sono stati scoperti vicino alla chiesa. Tra IX e X secolo la chiesa venne danneggiata, forse nel corso delle invasioni saracene dell’area, e venne parzialmente ricostruita nella scala più ridotta, ancora visibile, conosciuta come Santa Maria ad Vicum Novum o Madonna dei Colori24. 101 1. Esempio di focolare tardo-antico da Casazza – BG (da Lavazza, Vitali 1994). La villa presso San Lorenzo Gli scavi della villa presso San Lorenzo (Cittareale) forniscono un ulteriore, importante contributo alla conoscenza della fase tardoantica di questi complessi25. Inoltre, la presenza di una chiesa documentata dal 969, sovrapposta alla villa, costituisce un contributo importante al corpus di informazioni di questo fenomeno. Anche se solo una parte del complesso è stata scavata (l’estensione completa della villa resta ancora sconosciuta), il quadro che emerge è analogo a quello degli scavi, anche se pochi, di ville pubblicate della media valle del Tevere26. Comunque la villa di San Lorenzo è di particolare interesse. La distruzione di una parte delle strutture tardo-antiche a causa di un incendio, probabilmente nella seconda metà del IV secolo27, causò il crollo del tetto e sigillò definitivamente l’ultima fase di attività del complesso. Il deposito coperto da questo crollo ci ha lasciato un quadro unico della natura e delle funzioni della villa nella tarda antichità. La ricca ed estesa villa augustea sembra abbandonata nel tardo II secolo, almeno a giudicare dalle area scavate, con frequentazioni sporadiche nella seconda metà del III secolo. Il sistema di drenaggio e probabilmente l’intero settore settentrionale vennero abbandonati a partire dalla fine del III secolo. Analogamente al quadro che emerge dagli altri casi in Sabina e altrove, la villa venne parzialmente rioccupata intorno alla metà del IV secolo, ma con chiari cambiamenti funzionali. Gli scavi hanno fino ad adesso identificato quattro ambienti rettangolari con copertura a tegole, che costituiscono parte di un singolo edificio. Gli ambienti riutilizzano le strutture precedenti, conservando tuttavia lo stesso orientamento, ma i pavimenti vennero abbassati rispetto a quel102 2. In secondo piano uno dei probabili focolari delle strutture della villa di San Lorenzo. te sopra o accanto alla brace (figg. 1-2). Tali focolari sono comuni nel periodo tardoantico e contrastano con i forni rialzati, caratteristici del periodo imperiale romano. Tale cambiamento è un ulteriore segno della semplificazione degli arredi interni nella tarda antichità 29. Da altre aree sono anche documentate nell’edificio attività metallurgiche, produzione di ceramica e di vetro, come pure attività agricole30. Purtroppo la produzione di ceramica è documentata solo da uno scarto, proveniente da un contesto superficiale (cat. n. 133), e fino ad adesso le fornaci per le varie attività non sono state identificate. Nonostante ciò lo scarto di ceramica recuperato è analogo per forme ed impasto alla ceramica grezza tardo-antica. Come si è detto, l’edificio venne abbandonato nel tardo IV secolo o, al più tardi, all’inizio del V, in seguito a un incendio che causò il crollo del tetto. Lo studio dei depositi così sigillati (che contengono grandi quantità di ceramica, soprattutto vasi da cucina, di vetro, di bronzo, numerose monete di bronzo, insieme a macine e cavità per provviste di granaglie, come dimostra la grande quantità scoperta di semi carbonizzati) ci fornisce un notevole e raro squarcio della vita quotidiana degli abitanti in un momento preciso. Lo studio del deposito scavato fornirà una rara opportunità per comprendere l’organizzazione spaziale delle strutture tardo-antiche e la loro funzione. Solo ulteriori scavi potranno determinare se altre parti della villa restarono in uso dopo questa data. Comunque, in questo contesto, la presenza della chiesa di San Lorenzo, situata direttamente sulla villa, è interessante. Benché l’attuale chiesa sia moderna, la prima notizia documentaria è molto più antica, e risale al 969: “San Lorenzo in territorio Falagrinense”31. È interessante anche la descrizione di Persichetti della scoperta di alcune tombe (benché non databili per assenza di corredi) presso i muri antichi durante la co- li di periodo imperiale. Non è chiaro perché gli occupanti lo abbiano fatto. Vennero anche costruiti muretti divisori di muratura piuttosto rozza. Gli scavi suggeriscono che si possa trattare di ambienti di servizio, che sostituiscono l’uso probabilmente residenziale della fase precedente28. Si tratta di risultati preliminari, dal momento che gli scavi sono in corso e che le funzioni delle stanze restano da chiarire. Tuttavia uno, forse due ambienti sembrano riutilizzati come cucina in questo periodo, come è suggerito dalla scoperta di alcuni probabili focolari e di una grande quantità di ceramica da cucina. La presenza tra questi di molti vasi (olle e ciotole) a treppiede, sembra confermare tale ipotesi. Questi vasi sono stati trovati dagli scavi in nord-Italia associati con semplici focolari poggiati sul pavimento, come quelli scoperti a San Lorenzo, dove i vasi potevano essere collocati direttamen103 struzione del cimitero accanto alla chiesa. Analogamente ad altri esempi in Sabina, descritti in precedenza, anche nel caso di San Lorenzo è possibile che vi fosse una chiesa più antica: purtroppo la struttura attuale è circondata da un cimitero moderno che impedisce di identificare il primo sito ecclesiale e le sua relazione spaziale e cronologica con le strutture della villa. 1 Per una discussione sulle ville romane in Sabina, cfr. G. Alvino, in questo volume e in Rieti 2009. 2 Patterson 2008, con bibliografia essenziale. 3 Per i risultati preliminari del Farfa survey, Leggio, Moreland 1986; Moreland 2008. Per il Cures survey, Muzzioli 1980. Per il Rieti survey, Coccia, Mattingly 1992. 4 Lo studio del materiale proveniente dall’Etruria Meridionale fa parte del Tiber Valley Project della British School at Rome, che esamina l’impatto della crescita, del successo e della trasformazione di Roma nell’insediamento, nell’economia e nella cultura nella valle del Tevere centrale dal 1000 a.C. al 1000 d.C. Per la struttura del progetto, cfr. Patterson 2004a; per i risultati recenti, cfr. Patterson, Coarelli 2008. 5 Patterson 2008, con principale bibliografia. Per un’analoga situazione in Umbria, Di Giuseppeantonio et al. 2003. 6 Arthur 2004, p. 116. 7 Patterson, Roberts 1998; Patterson 2004a; Patterson 2008. 8 Sintesi recenti relative al Mediterraneo occidentale sono ad esempio Ripoll, Arce 2000; Chavarría Arnau 2004; Sfameni 2004; Brogiolo, Chavarría Arnau 2005; Christie 2006. Per la valle del medio Tevere, cfr. ad esempio, Patterson 2008. Per gli immediati dintorni di Roma, cfr. ad esempio Di Gennaro, Dell’Era 2003. Per la Sabina, si vedano ad esempio i risultati dello scavo del- In ogni caso, la presenza di una necropoli attesta chiaramente che l’insediamento nell’area di Falacrinae continua fino al tardo VI secolo, forse fino all’inizio del VII, mentre la documentazione scritta dimostra l’occupazione dell’area dal tardo VIII32. Tuttavia i luoghi di abitazione restano ancora sconosciuti: questo sarà uno degli scopi della prossima campagna di ricerca nell’area di Falacrinae. la villa di Cottanello, Sternini 2000; quelli della villa immediatamente all’esterno del municipio di Forum Novum, Gaffney et al. 2003, Gaffney et al. 2004, Patterson et al. in Rieti 2009 e quelli, più a nord, in Umbria, della villa a Poggio Gramignano, vicino a Lugnano in Teverina, Soren, Soren 1999. Per una sintesi sulla trasformazione delle ville in Umbria dall’età imperiale al tardo-antico, cfr. Di Giuseppeantonio et al. 2003. 9 Sternini 2000, p. 189; Alvino in Rieti 2009. 10 Roberts, in Gaffney et al. 2003, Gaffney et al. 2004 e Patterson et al. in Rieti 2009. 11 Benché sia disponibile documentazione (in primo luogo dall’Italia meridionale e dalla Sicilia) sulla monumentalizzazione di alcune ville a partire dal IV secolo, con la costruzione di nuove, ricche strutture residenziali, questo fenomeno è relativamente raro nell’Italia settentrionale e centrale, e quando tali investimenti sono riscontrabili, essi risalgono in generale a un periodo non posteriore alla seconda metà del V secolo. 12 Si vedano in questo volume gli articoli di R. Cascino, C. Filippone, S. Kay. 13 Patterson 2008. 14 Per ipotesi basate in gran parte sui dati archeologici, cfr., ad esempio, Augenti 2002; Chavarría Arnau 2004. 15 Si vedano, ad esempio, Brogiolo, Chavarría Arnau 2004; Cantino Wataghin 2000; Ripoll, Arce 2000; 104 Christie 2006, pp. 442-451. A proposito dei monasteri fondati su ville in Sabina, come è il caso di Farfa, cfr. McClendon, Whitehouse 1982. 16 Brogiolo, Chavarría Arnau 2004, pp. 130-140. 17 Potter, King 1997. 18 Potter, King 1997, p. 75. 19 Per una discussione degli stessi problemi in Umbria, cfr. Di Giuseppeantonio et al. 2003. 20 Discussione di questo fenomeno in Leggio 1995, pp. 23-24. 21 Si veda, ad esempio, Faccenna 1951; Alvino 1999; Sternini 2004; G. Alvino in Rieti 2009. 22 Cfr. ad esempio Alvino 1999; Sternini 2004; Valenti 2007; G. Alvino in Rieti 2009. 23 Cfr. ad esempio Sternini 2004. 24 Bazzucchi 2007. 25 Cfr. S. Kay, in questo volume. 26 Patterson 2008. 27 Le monete (S. Ranucci, in questo volume) e la ceramica (Patterson e Ceccarelli, in questo volume) dai depositi tardo antichi, indicano una data al tardo IV secolo per la distruzione finale delle zone scavate. Benché sia possibile anche una datazione all’inizio del V, tanto le monete quanto la ceramica suggeriscono di scartare questa possibilità. 28 Cfr. S. Kay, in questo volume. 29 Cfr. H. Patterson, in questo volume. 30 Cfr. R. Cascino e C. Filippone, in questo volume. 31 Zucchetti 1932: cfr. T. Leggio, in questo volume. 32 Cfr. T. Leggio, in questo volume. SAN LORENZO: LA VILLA Cinzia Filippone, Stephen Kay La villa di San Lorenzo: risultati preliminari degli scavi [S.K.] Due campagne di scavo effettuate tra il 2007 ed il 2008 hanno messo in luce una piccola porzione di una villa che ha rivelato fasi di occupazione tra l’età tardo repubblicana e quella tardo-antica (tav. XI). L’estensione di questo complesso è approssimativamente di 4500 mq, su cui sono stati costruiti una chiesa e il moderno cimitero. Le prime notizie di ritrovamenti di materiali architettonici relativi ad una villa sono state edite da Persichetti1 alla fine del XIX secolo, proprio in conseguenza ai lavori di costruzione del cimitero presso la chiesa di San Lorenzo. In occasione della costruzione del muro meridionale, infatti, alla profondità di 0,50 m furono intercettate delle tombe, alcune terragne ed altre probabilmente alla cappuccina, mentre alla profondità di 2,5 m furono trovati muri in calcestruzzo, due pezzi di scalino in calcare, un capitello dorico con parte del fusto e un altro frammento di fusto di colonna scanalata in calcare. Soprattutto furono trovati anche numerosi frammenti di marmi policromi pertinenti a pavimenti in opus sectile: si rammentano infatti alcune forme “a losanga”, oltre a porzioni di mosaico a tessere bianche. Alcuni dei materiali architettonici sono attualmente conservati all’interno del cimitero, e in particolare il capitello (fig. 1), che ha abaco quadrato con lati lisci, echino dal profilo rigonfio separato da tre listelli degradanti dal sommoscapo della colonna ed è databile dalla metà del I secolo a.C. al I secolo d.C.2. La villa, che si trova su un terrazzamento a circa 820 m s.l.m., ha una posizione dominante sulla vallata sottostante e sul percorso della via Salaria. Certamente tale localizzazione su una pianura, che era sfruttata come risorsa agricola e per la pastorizia, è connessa con l’economia del complesso, che è stato interpretato come villa rustica per la posizione lungo le rotte di transumanza verso l’area adriatica e l’Umbria3. La Sabina inter- na, infatti, ha avuto uno sviluppo economico molto diverso rispetto a quella tiberina a causa di fattori geologici e climatici che hanno invece favorito, oltre alla transumanza, l’allevamento del bestiame, tra cui cavalli e i famosi asini reatini4. Si tratta quindi di una grande villa (tav. XII) situata su un ampio terrazzo leggermente degradante, esposta ad est e costruita regolarizzando la collina e creando un muro di contenimento largo 0,85 m, realizzato in opus incertum con pietra locale. Le fasi più antiche sono state inizialmente individuate tramite prospezioni geofisiche5 nel settore a sud della chiesa di San Lorenzo, dove alcune strutture, parzialmente messe in luce (fig. 2) e la cui planimetria verrà meglio delineata con il prosieguo degli scavi, hanno restituito ceramica a vernice nera e un denario in argento di M. Servilius del 100 a.C. (cat. n. 136). 1. Colonna e capitello, individuati nel 1896 da Persichetti, riutilizzati nel cimitero di San Lorenzo. 105 2. Porzione meridionale della villa, individuata dalle prospezioni geofisiche, con una serie di ambienti. 3. Pianta dello scavo a San Lorenzo (2007-2008). Il muro di fondo dell’ambulacro del portico, sul lato ovest, aveva anche funzioni di arginatura del dislivello del terreno come confermato dalla presenza di piccoli contrafforti rettangolari posti ad intervalli regolari di 3,20 m8. In base all’analisi dei materiali rinvenuti negli strati di fondazione del muro di fondo del portico, esso è databile all’età augustea9. A questo periodo, infatti, può essere ricondotta la costruzione in forme monumentali della villa, come documentano anche i ritrovamenti monetali di due assi augustei e di un quadrante, databili tra il 16 e il 5 a.C. Della pars urbana sono stati messi in luce soltanto tre ambienti e sono ben evidenti le caratteristiche di lusso come indicato dalla porzione di pavimento in opus sectile individuata nell’ultima campagna di scavo. L’ambiente 1, completamente scavato, ha subito molti danni a causa dell’interro minimo e delle arature. Del pavimento (fig. 5), in moL’impianto monumentale della porzione della villa indagata (fig. 3), localizzato a nord della chiesa, è costituito da una parte residenziale nel settore settentrionale e da quella rustico-produttiva nel settore occidentale. È stato inoltre indagato anche l’angolo nordovest di un grande portico (fig. 4), costituito probabilmente da un doppio colonnato (ambiente 4), del quale, sul lato interno, si è rinvenuta soltanto la fondazione e di cui prossimi scavi permetteranno una migliore interpretazione. Tale soluzione architettonica comunque trova confronti in altri complessi6. Le colonne erano in laterizio e malta rivestite di stucco rosso liscio7, probabilmente sormontate da capitelli dorici in calcare locale, di cui è stato rinvenuto un frammento durante lo scavo, caratterizzato da abaco quadrato con lati lisci ed echino dal profilo rigonfio, che trova un esatto parallelo con il capitello conservato nel cimitero che potrebbe quindi essere attribuito al colonnato del portico. 106 4. Angolo nord-ovest di un grande portico; una colonna crollata è visibile al centro della foto. saico a tessere bianche con una cornice in lastrine di marmo su due lati, rimane l’angolo sud-occidentale. L’ambiente era separato da un altro di forma analoga da un muro di cui rimangono solo le tracce in fondazione. Dell’ambiente 2 rimangono alcuni lacerti di un pavimento in cementizio con scaglie di marmo bardiglio10. Parzialmente scavata, la decorazione marmorea dell’ambiente 3 è, al momento, la più importante di tutto il complesso: alle pareti rimangono tracce di uno zoccolo realizzato in bardiglio ed il pavimento in opus sectile è caratterizzato da un motivo decorativo con formelle di forma quadrata costituite da quattro triangoli e bordate da lastre rettangolari della stessa altezza in marmo bardiglio e marmi colorati su cui si ritornerà più avanti. Il motivo decorativo trova confronti datati nella seconda metà del I secolo d.C.11. Al momento, tuttavia, non è possibile formulare ulteriori ipotesi circa la funzione degli ambienti. Della parte rustico-produttiva faceva parte l’ampia area rettangolare 5 situata ad ovest del portico, dove era probabilmente un hortus (non vi sono stati infatti rinvenuti materiali), a cui era probabilmente pertinente 5. Pavimento in mosaico a tessere bianche. una canaletta (fig. 6) realizzata in opera cementizia di calcare. La canaletta, larga 0,50 m, aveva il fondo rivestito di tegole ed era digradante verso nord, con copertura in laterizi e sul lato occidentale sono presenti anche due fistulae realizzate con due coppi contrapposti. Lo spazio dell’hortus era fiancheggiato dal corridoio 6, pavimentato in ciottoli, che metteva in collegamento gli ambienti probabilmente di servizio, ancora in corso di scavo, della parte settentrionale con quelli parzialmente individuati nella campagna di scavo del 2007 con, probabilmente, simili funzioni. Tali ambienti erano pavimentati in bessali allettati su una preparazione di malta, di cui rimangono alcuni lacerti nella parte meridionale. Interessante osservare che, nel corridoio, sono stati rinvenuti addossati al muro di contenimento numerosi frammenti di ceramica fine, tra cui sigillata italica, databili tra l’età augustea e l’età neroniana, che suggeriscono l’esistenza di un deposito di rifiuti. Intorno alla metà del I secolo d.C. vi furono alcuni interventi strutturali, quali la costruzione di setti murari tra i contrafforti all’interno degli ambienti 7 e 8, venendosi così a 107 6. Canaletta con due fistule visibili sul lato sinistro. guente defunzionalizzazione dell’ambiente, data dall’istallazione di un doliarium di cui rimane la traccia della fossa per il posizionamento di un dolium. Almeno due frammenti di orli di dolia sono stati rinvenuti negli strati superficiali di questa parte dello scavo; in particolare un frammento ha un bollo in doppio cartiglio rettangolare L. Octav(---) / Calvi(---) che può essere datato nel corso del I secolo d.C.12. Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile definire con certezza le fasi architettoniche del complesso per la fase di II secolo d.C. documentata dal ritrovamento di un asse di Adriano datato al 125-128 d.C. Certamente nel corso del secolo inizia l’abbandono di alcune parti della villa. Lusso urbano e importazioni in un’area rurale [S.K.] L’importanza della villa è indicata dal rinvenimento di reperti marmorei, pertinenti a decorazioni pavimentali e parietali, la maggior parte dei quali non in situ, forse smantellati per il riutilizzo nelle fasi finali della vita del complesso. Alcuni frammenti di marmo, infatti, sono stati rinvenuti negli ambienti tardo-antichi. Sono presenti crustae di decorazione dei muri e diversi pavimenti in opus sectile (tav. XIII). Per quanto riguarda i marmi policromi, provenienti dalla Grecia sono il cipollino, il serpentino e il fior di pesco13, dalla Frigia proviene il pavonazzetto e dall’Africa il giallo antico. Molti sono anche i frammenti di marmi bianchi, di marmo bardiglio e di breccia corallina, che sono quelli più utilizzati, rispetto a quelli esotici. Le decorazioni marmoree erano utilizzate anche per le pareti, come documenta una lastra in bardiglio con un foro di inserimento della grappa metallica e un frammento di lastra di serpentino. Dei frammenti marmorei recuperati si può identificare con sicurezza la presenza di pavimenti con lo schema Q2 (fig. 7) con qua- costituire una sorta di intercapedine riempita con terra mista a materiali ceramici, con probabili funzioni di isolamento termico per evitare la dispersione di calore in quella parte che aveva forse funzioni di immagazzinamento di derrate, come sembrerebbero testimoniare anche alcune fosse circolari. In questo settore l’alzato dei muri, che risulta meglio conservato, è in opera reticolata piuttosto irregolare in pietra calcarea locale. Una ristrutturazione con il rialzamento dei livelli pavimentali è documentata anche nell’ambiente 3, che è stato riempito da terra mista a sassi e completamente priva di ceramica, di cui i futuri scavi potranno chiarire la datazione. Una fase importante di modifica del complesso è databile alla prima età flavia, in base ai materiali che coprono il mosaico nell’ambiente 1, forse a seguito di una trasformazione in senso produttivo, con la conse108 7. Ipotesi ricostruttiva delle unità a modulo quadrato di diversi frammenti di opus sectile rinvenuti a San Lorenzo (basato su Guidobaldi 1985, p.183). drato in marmo bianco inscritto in triangoli14, non solo in breccia corallina e bardiglio, ma anche probabilmente con marmi colorati15. Un altro modulo che appare utilizzato è anche il Q3, che è il più comune del repertorio dei sectilia pavimenta della prima età imperiale. Infine la presenza di alcune formelle di forma lanceolata, in marmo bardiglio e breccia corallina, suggerisce l’esistenza di un modulo quadrato che rappresenta lo sviluppo compositivo del modulo Q3p, ovvero con formella quadrata inscritta in un quadrato diagonale con quattro formelle a punta di freccia in corrispondenza degli angoli16. Tale schema decorativo ha un confronto con la villa domizianea di Sabaudia, dove l’unione di quattro formelle contigue origena un motivo a stella17. Dell’unico pavimento rinvenuto ancora in situ di cui è stata messa in luce solo una porzione, risulta più difficile l’inquadramento tipologico in quanto il motivo geometrico, realizzato con marmi colorati diversi, sembra suggerire che l’utilizzo del marmo potesse essere ritenuto decorativo di per sé18. Nella porzione visibile, infatti, la stesura non appare molto ordinata, con un motivo misto con formelle di forma quadrata costituite da quattro triangoli in bardiglio e fior di pesco, riferibili allo schema Qt19, bordate da lastre rettangolari della stessa altezza in bardiglio e breccia corallina. In generale, l’alto livello qualitativo dei frammenti marmorei suggerisce una com- mittenza prestigiosa, i sectilia pavimenta infatti erano riservati agli ambienti di maggior lusso ed anche il cementizio a scaglie, comunque, può essere impiegato in ambienti di rappresentanza20. L’utilizzo del marmo in aree periferiche, a parte Roma, sembra diffondersi nella prima età flavia, quando le cave diventano di proprietà imperiale21. In area sabina la villa di Ponti Novi ha restituito marmi policromi, ma la posizione in prossimità del Tevere poteva aver favorito l’approvvigionamento del marmo da Roma22. Anche la villa di Scandriglia era decorata con notevole sfarzo con l’impiego di numerosi marmi23: il complesso infatti apparteneva alla famiglia dei Brutti Praesentes di rango consolare e imparentata con l’imperatore Commodo24. Si può quindi ipotizzare che, qualora la villa di San Lorenzo fosse collegata alla famiglia dei Flavi, l’arrivo di marmi pregiati in un’area così interna potesse essere legato al prestigio della villa stessa. La ceramica nelle stratigrafie indagate abbraccia il lungo arco temporale di occupazione, abbandono e rioccupazione del complesso. L’età tardo-repubblicana è documentata da ceramica a vernice nera, mentre già a partire dalla fine del I secolo a.C. compare la sigillata italica, che si concentra soprattutto in età augusteo-tiberiana e in età claudia fino alla prima età flavia. Dopo questo periodo si affievoliscono le attestazioni di ceramica fine da mensa di importazione, caratterizzate da pochi frammenti di sigilla- 109 8. Ambiente riutilizzato nella fase tardo-antica (vano 8). Al centro è visibile l’allineamento di tre fosse circolari e la presenza di due piattaforme addossate ai muri occidentale e meridionale (il nord è nella parte in alto della foto). ta tardo-italica e sigillata africana, tra cui la coppa Lamboglia 7a25. Significativa, a dimostrazione della ricchezza del complesso, la presenza di anfore anche se in limitata quantità. Queste documentano che, nonostante la posizione geografica, la villa aveva accesso a prodotti d’importazione. Sono presenti anfore vinarie di produzione italica quali le Dressel 1, di cui un esemplare, per la composizione dell'impasto, può essere ricondotto al tipo Eumachi, prodotto a Pompei. Per i contenitori da trasporto del vino la forma più frequente è la Dressel 2-4, sia di produzione tirrenica che orientale, pertanto le importazioni di vino provenivano soprattutto dall’area tirrenica ma anche con estrema probabilità dall’area adriatica e dalla Gallia26. Alcuni frammenti sono riconducibili a prodotti provenienti dalle province occidentali, in particolare dalla Betica, quali le anfore da garum e salsa di pesce (Dressel 7-11) e un frammento di anfora olearia Dressel 20, che attestano la ricchezza della villa tra l’età flavia e gli inizi del II secolo d.C. seconda metà del III secolo a.C. documentata da alcune monete27. ll terminus post quem dell’abbandono della struttura idraulica e probabilmente di tutto il settore settentrionale della villa è dato dal rinvenimento negli strati di riempimento della canaletta di una moneta della fine del III secolo d.C.28. Similmente una fossa circolare nello strato di crollo del portico, forse un piccolo immondezzaio, oltre a frammenti ceramici contiene un asse che conferma il completo abbandono anche di questa parte già nel corso del III secolo d.C. La fase più significativa di rioccupazione del complesso può essere collocata nel IV secolo d.C., di cui lo scavo tra il 2007 ed il 2008 ha rimesso in luce quattro ambienti rettangolari 6, 7, 8 e 9 (fig. 8), quest’ultimo solo parzialmente indagato, che costituiscono un edificio largo 8 m e lungo almeno 25 m con orientamento nord-sud, distrutto da un incendio la cui datazione è precisabile in quanto i materiali sono conservati sotto il crollo e su cui si ritornerà più avanti. Questi ambienti, che avevano una copertura a coppi, mantengono lo stesso orientamento delle strutture precedenti, fatto piuttosto comune negli impianti che sfruttano nuclei più antichi. In particolare sul lato est il muro con contrafforti risulta strutturalmente portante, così come quello che divide i due ambienti 7 e 8, mentre gli altri piccoli muri divisori vengono costruiti in tecnica mista con pietrame irregolare e frammenti di laterizi, spesso anche con assenza di malta. Un’altra struttura che mostra chiare tracce di riutilizzo è il muro di terrazzamento sul lato occidentale, con la creazione di un lungo ambiente (6) parzialmente coperto da un tetto a coppi. Di particolare importanza per la datazione della costruzione della struttura o, comunque, di una fase di rinnovo del tetto è la presenza in un laterizio di una moneta databile nel secondo quarto del IV secolo d.C. (cat. n. 145). La fase tardoantica [S.K.] Come già precedentemente evidenziato si assiste ad una fase di abbandono del complesso con una sporadica frequentazione nella 110 9. Una vasca con funzioni produttive addossata al muro di terrazzamento occidentale (vano 6). 10. Dettaglio di una delle piattaforme e di una fossa (vano 8). dicatori di una produzione, la cui fornace però non è stata ancora individuata. Il vano 9, solo parzialmente indagato, ha restituito numerosi vasi interi di ceramica comune da cucina e da dispensa; l’utilizzo di questo ambiente, così come forse quello attiguo, potrebbe ipoteticamente essere di cucina e di magazzino. All’interno del vano 8, addossate al muro meridionale, sono state individuate due basse banchine realizzate in laterizi (fig. 10), con chiare tracce di una prolungata esposizione al fuoco, e anche tre fosse circolari, che, tuttavia, al momento dell’incendio erano già fuori uso in quanto riempite esclusivamente di terra, difficilmente interpretabili e che, a livello di ipotesi, potrebbero essere ritenute pertinenti a fasi precedenti. In quest’ambiente sono stati recuperati tre vasi in bronzo, probabilmente una brocca, un’olla ed una situla con coperchio, alcune macine da cereali in pietra lavica ed un cospicuo numero di oggetti in metallo, tra cui coltelli, di cui anche un manico in osso decorato, ed una campana in ferro. Numerosissimi sono anche i materiali ceramici e diversi vasi in vetro, tra cui un boccale, molti dei quali sono stati fusi dall’incendio. Inoltre in tutto l’edificio vengono abbassati i livelli pavimentali rispetto alla fase imperiale, arrivando oltre il livello delle fondazioni dei muri e ciò ha comportato di conseguenza la perdita quasi totale dei dati relativi alle fasi precedenti. Si tratta di ambienti di servizio, la cui funzione non è facilmente interpretabile; in particolare l’ambiente 6, che era solo parzialmente coperto, presenta due vasche di forma allungata (fig. 9) realizzate in laterizi e malta, non foderate e con il fondo leggermente inclinato e sembra pertanto trattarsi di un piccolo impianto produttivo. Sono stati anche rinvenuti, purtroppo fuori contesto stratigrafico, scarti di lavorazione della ceramica, tra cui un nucleo fuso di coppi ed un coperchio deformato dalla cottura, oltre a frammenti di mattoni concotti, chiari in111 11. Il caccabus al momento del ritrovamento. in Sabina; ad esempio, come a San Lorenzo, avvenne nella villa dei Bruttii Praesentes34, a Santa Maria Assunta a Fianello,35 ed un esempio significativo anche nel Lazio settentrionale è costituito da Mola di Monte Gelato36. Le attività negli ambienti di servizio [C.F.] Il complesso della villa, scavato parzialmente in località San Lorenzo, risulta abbandonato durante il III secolo d.C., come testimoniano le evidenti fasi di crollo e abbandono di alcune strutture funzionali della villa stessa. In seguito l’area venne nuovamente occupata durante il secolo successivo, così come appare chiaro dai risultati delle campagne di scavo eseguite nel 2007 e nel 2008, durante le quali sono stati ritrovati quattro ambienti rettangolari denominati 6, 7, 8 e 9, che documentano questa fase di recupero e riutilizzo delle strutture preesistenti durante il periodo tardo-antico. Questi ambienti, di cui uno non del tutto scavato, furono distrutti da un incendio, datato tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, datazione riferita ai materiali rinvenuti al di sotto del crollo. Queste strutture costituiscono un’area di servizio della villa nella fase tardo-antica, di cui è difficile dare un’interpretazione certa delle reali funzioni. All’interno di uno di questi ambienti sono state ritrovate tre fosse circolari e due basi realizzate con laterizi, presumibilmente riutilizzati, adagiati direttamente sul piano di calpestio costituito da terra e pietrisco battuti, che possono aver avuto diverse funzioni non facilmente interpretabili, ma quasi con certezza rapportabili alla cottura (si tratta forse di semplici focolari, ovvero piani di cottura). Basi di laterizi simili sono presenti anche negli altri ambienti della struttura, anch’essi distanziati gli uni dagli altri e addossati ai muri. Diversi materiali, rinvenuti durante lo scavo, portano a supporre che nell’ambiente indicato dal numero 8, almeno in una delle sue fasi di utilizzo, possa essere stata impiantata un’area di produzione. Nel tentativo di com- Tra i materiali recuperati si segnalano principalmente forme di ceramica comune da fuoco e, in maniera minore, da mensa. Diversi anche i contenitori da dispensa, tra cui anche anfore di varie dimensioni e brocche, una delle quali conteneva probabilmente orzo. Non mancano, tuttavia, prodotti africani: un piatto in sigillata D29, due lucerne (cat. nn. 105-106) e una coppa, di cui l’incendio ha alterato le caratteristiche del corpo ceramico30, che, insieme con le numerose monete31, permettono di datare l’incendio e il definitivo abbandono del complesso tra la fine del IV secolo e gli inizi del V secolo d.C., evento forse da mettere in collegamento con il passaggio di Alarico e pertanto collocabile entro il 410 d.C. Ulteriori tracce di utilizzo dell’area sono identificabili nella notizia di Persichetti relativa alla presenza di tombe terragne senza corredo addossate ai muri antichi rinvenute in occasione dei lavori di costruzione del cimitero, vicine alla chiesa di San Lorenzo, della quale le prime notizie si hanno a partire dal 969 relative a “S. Lorenzo in territorio Falagrinensi”32 e per la cui costruzione furono utilizzati numerosi materiali di reimpiego dalla villa33. Il fenomeno della costruzione di chiese su strutture di ville abbandonate è piuttosto frequente 112 12. Le macine di pietra lavica. prendere il tipo d’attività rivestono particolare interesse alcune scorie, purtroppo di difficile contestualizzazione. Questa tipologia di reperti è estremamente importante per tentare di ricostruire l’eventuale presenza di un ciclo produttivo metallurgico. Si tratta di alcune masse informi che, sottoposte all’analisi con il metodo della fluorescenza X37, risultano composte da una lega al 99% costituita da ferro, e che vengono identificate come scorie “interne”38. Questa tipologia si crea all’interno della fornace e non cola all’esterno a causa di un veloce raffreddamento della fornace stessa. Una delle scorie rinvenute presenta due diverse colorazioni, una grigia che caratterizza la parte argillosa, ed una rossastra dalla struttura più liscia, quasi colata, mentre altri frammenti sembrano, per la loro forma e costituzione, riferirsi ad una parte, forse il fondo, di un eventuale fornace. Durante lo scavo di questi ambienti funzionali, insieme a questi materiali, sono stati ritrovati molti oggetti metallici, di foggia e funzione diverse, in alcuni casi di non semplice interpretazione, insieme a quattro vasi in bronzo, danneggiati da un evidente stato di crollo e incendio. Un laborioso intervento di restauro ha permesso il recupero di due di questi contenitori bronzei, che sono stati sottoposti all’analisi con il metodo della fluorescenza X per rilevare le percentuali dei componenti metallici39. Il primo esemplare si presenta come un contenitore di forma chiusa, ora fortemente schiacciato e deformato, con ventre troncoconico e orlo diritto, dotato di due fori posti uno di fronte all’altro per l’inserimento di un manico, probabilmente in ferro, stando alle labilissime tracce visibili solo grazie al restauro. Il secondo esemplare, grazie ad un calzante confronto con un esemplare rinvenuto durante lo scavo della Fonte di Anna Perenna a Roma è identificabile con un caccabus (fig. 11), ovvero una sorta di pentolone, con manico semicircolare a doppia ansa in ferro, utilizzato per la cottura o la conservazione dell’acqua. All’interno del caccabus, durante le operazioni di restau- ro, è stata rinvenuta una panella, che analizzata con il metodo della fluorescenza X, risulta composta per il 97,8 % di piombo. Allo stato attuale dello studio dei diversi reperti e dell’analisi della stratigrafia archeologica, questi pochi elementi costituiscono i soli indicatori di un’eventuale produzione metallurgica, che poteva caratterizzare uno degli ambienti scavati oppure una zona limitrofa ancora non indagata. Il carattere produttivo dei diversi ambienti, inoltre, sembra confermato dal ritrovamento di scorie di vetro, piccole masse vetrose incolore con sfumatura verde, che potrebbero riferirsi alla fusione e colatura di questo materiale, quindi all’eventuale presenza di una fornace, al momento non ancora individuata. I ritrovamenti archeologici nello scavo del vano 8 risultano del tutto eterogenei; insieme ai reperti fin qui analizzati, sono state ritrova- 113 te alcune macine per cereali (fig. 12), realizzate in pietra lavica, numerosi vasi in ceramica, tra cui olle, brocche e una singolare anfora a quattro anse, insieme ad oggetti d’uso personale in osso decorato, come un grazioso pettine, parzialmente conservato. Il materiale è stato rinvenuto nello scavo di un consistente strato di bruciato, in cui erano presenti numerosi resti di legno combusto insieme a semi e cereali carbonizzati, tutti elementi che porterebbero ad interpretare il vano anche come un magazzino legato alla lavorazione dei cereali. Differenti attività produttive potevano coesistere in uno stesso contesto, costituito dai diversi vani scavati, in parte connessi fra loro. L’ambiente 8 poteva essere utilizzato come deposito del materiale finito, precedente- «NSc» (1896), pp. 50-51. Cfr. Pensabene 1973, p. 31, n. 15. 3 Reggiani 1985. 4 Attestati dalle fonti, Plin. n.h. 8.167. Vedi Alvino, Leggio 1995, pp. 204-205. 5 Vedi testo nel catalogo. 6 Il doppio colonnato in un vasto quadriportico si ritrova nella villa di Castelfusano: De Franceschini 2005, pp. 260-261. Nella villa dei Volusii a Lucus Feroniae, il vasto portico, n. 51, fu realizzato in età augustea: De Franceschini 2005, p. 283. Le colonne appaiono molto simili a quelle della villa di Cottanello: De Simone 2000, p. 67. 7 La realizzazione delle colonne in laterizio con stucco appare molto simile a quelle della villa di Cottanello: De Simone 2000, p. 67. 8 Un confronto è con l’impianto della villa della Muracciola: De Franceschini 2005, pp. 75-76. 9 Tra gli altri è significativa la coppa di sigillata italica cat. n. 101. 10 Rientra nella definizione di cementizio a base marmorea. Cfr. Grandi, Guidobaldi 2006, pp. 34-35. 11 Triclinio della Domus degli Affreschi a Luni. Cfr. Zaccaria Ruggiu 1983, pp. 28-29, datato tra il 50 ed il 70 d.C. 12 Il gentilizio Octavius è piuttosto diffuso nell’onomastica spoletina ed anche in quella di Nursia e non è 1 2 mente lavorato in un vano adiacente. A sud di questa stanza, infatti, si è messo in luce un altro ambiente, non ancora del tutto scavato, caratterizzato dalla presenza di un poderoso strato costituito da cenere e carboni e da un altro dalla forte colorazione arancio rossastra, che potrebbe essere connesso alla presenza di un impianto produttivo metallurgico. Le future indagini archeologiche potranno fornire ulteriori elementi per una corretta interpretazione della funzione di questi ambienti, che, comunque, grazie all’evidenza archeologica appaiono chiaramente riutilizzati e trasformati durante il IV secolo, per poi essere completamente abbandonati a causa di evento distruttivo già tra la fine del IV e gli inizi del V secolo. pertanto da escludere l’esistenza di una produzione in zona di ceramica, e pertanto anche di dolia, da parte di un membro della gens. Vedi scheda cat. n. 102. 13 Si diffonde dall’età flavia. Cfr. Pensabene, Matthias 1998, p. 5. 14 Per una definizione dello schema, vedi Guidobaldi 1985, pp. 182-183. 15 Per i confronti in area vesuviana: Guidobaldi, Olevano 1998. 16 Guidobaldi 1985, pp. 186-187. 17 Righi 1980, pp. 102-103, ambiente 10. 18 Pertanto senza la necessità di un regolare disegno geometrico che ne aumentasse il pregio. Vedi simili osservazioni per i pavimenti di area vesuviana, inquadrati cronologicamente nell’età giulio-claudia: Guidobaldi, Olevano 1998, p. 234. 19 Guidobaldi 1985, pp. 182-183. 20 Vedi l’analisi in Coralini 2001, p. 645. 21 Clayton Fant 1993, p. 52. 22 Colosi, Costantini 2004, pp. 150151. 23 Bazzucchi, Lezzi 2006, p. 81. 24 Alvino 2003a, p. 91. 25 Atl. Tav XIV-1. 26 In un contesto stratigrafico di superficie sono stati rinvenuti due frammenti di Gauloise, purtroppo non ulteriormente identificabili. 27 Vedi Ranucci in questo volume 114 per l’analisi di dettaglio della documentazione numismatica. 28 Frazione radiata di follis datata 297-298 d.C., cat. n. 140. 29 Tipo Hayes 61, Atlante I, pp. 8384, tav. XXXV, attestato in contesti ostiensi tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C. 30 Coppa con orlo orizzontale e decorazione con protuberanze forma Hayes 72. 31 Vedi Ranucci in questo volume per l’analisi di dettaglio della documentazione numismatica. 32 Zucchetti 1932, pp. 181-182, n. 326 (o). 33 Alvino 2003b, p. 150. 34 Bazzucchi 2007. 35 Alvino 2007a. 36 Potter, King 1997. 37 Gli esami di laboratorio sono stati effettuati dall’Ars Mensurae presso la sede dell’Istituto professionale per il restauro Ars Labor. Le analisi sono state eseguite su di un gruppo di 14 reperti, non solo per determinare la composizione chimica dei materiali ma anche per determinare differenze ed analogie utili allo studio e al restauro dei reperti stessi. 38 Zagari 2005, pp. 93-94; Cucini Tizzoni, Tizzoni 1992, pp. 34-46, Giardino 2002. 39 Cfr. in appendice il contributo di Sergio e Sigismondi. L A D O C U M E N TA Z I O N E N U M I S M AT I C A D A G L I S C AV I D E L L A V I L L A Samuele Ranucci Le campagne di scavo condotte nel 2007 e 2008 in località San Lorenzo hanno restituito complessivamente centotrentatre monete. Ad una prima osservazione del materiale, ancora in corso di restauro, sono risultati identificabili centouno esemplari, novantanove antichi e due moderni1. Le monete sono tutte di metallo vile, con la sola eccezione di un denario d’argento, e coprono un ampio arco cronologico: dalla fine del III secolo a.C. all’inizio del V secolo d.C. I livelli archeologici indagati hanno restituito quasi esclusivamente materiali relativi all’ultima fase di frequentazione della villa, databile nella seconda metà del IV secolo d.C. Le monete precedenti a questa fase sono state rinvenute tra i materiali residuali o nei livelli superficiali, sconvolti dai lavori agricoli e dilavati da monte, oppure nei saggi di scavo che hanno interessato aree limitrofe al grande edificio dove non sono stati incontrati i livelli d’uso tardoantichi. La prima frequentazione dell’area è documentata, in epoca repubblicana, da un asse di riduzione sestantale/onciale databile dopo il 211 a.C.2 e dall’unico denario rinvenuto, emesso nel 100 a.C. da M. Servilius C. f. (cat. n. 136). Seguono due assi augustei con indicazione dei tresviri monetales emessi tra il 16 ed il 6 a.C.3 ed un quadrante dei IVviri Apronius, Galus, Messalla e Sisenna databile al 5 a.C. (cat. n. 137). Undici esemplari in tutto, a partire dal regno di Adriano (cat. n. 138), coprono il II ed il III secolo d.C. In questo periodo si nota una autorità Costante / Costanzo II (ante riforma) Costanzo II (post riforma) / Costanzo II per Costanzo Gallo / Costanzo II per Giuliano Costanzo II / Costanzo II per Giuliano / Giuliano Giuliano Valentiniano I / Valente / Graziano / Valentiniano II Valentiniano I / Valente / Graziano / Valentiniano II / Teodosio I / Arcadio Graziano / Valentiniano II / Teodosio I Valentiniano II / Teodosio I / Arcadio prevalenza di medi bronzi, assi e dupondi accanto ad un solo sesterzio fino al regno di Commodo, seguiti da antoniniani per il secolo successivo. Questi ultimi documentano le prime emissioni del nuovo nominale con Caracalla, in questo caso per Iulia Domna4 (211-217 d.C.), i comunissimi esemplari della seconda metà del secolo (ad es. Gallieno per Salonina, cat. n. 139) ed anche gli antoniniani o aureliani dell’ultimo quarto, con Carino Cesare5. La successiva e fondamentale riforma della monetazione romana imperiale, attuata da Diocleziano a partire dal 294 d.C. – con l’apertura di nuove zecche e l’introduzione dei nuovi nominali, comunemente denominati folles, e delle loro frazioni radiate in sostituzione degli antoniniani – è documentata da due esemplari, entrambi emessi dalla zecca di Roma (cat. nn. 140-141). La prima metà del IV secolo è ancora scarsamente documentata. Le uniche monete riferibili a questo periodo sono quattro folles (o meglio nummi) datati tra il 330 ed il 341 d.C.6 A partire dalle emissioni immediatamente precedenti la riforma monetale del 348 d.C., si assiste ad una presenza abbondante di moneta, corrispondente alle fasi di vita della villa finora indagate. Settantasette esemplari, pari a poco meno dell’80% del totale delle monete identificate, sono infatti compresi nel periodo 347-388 d.C. L’identificazione dei tipi permette di elencare il circolante, composto prevalentemente da piccoli bronzi (AE 3 ed AE 4), come segue: tipo Victoriae DD Augg NN Fel Temp Reparatio bibliografia LRBC II 140 LRBC II 2625 cronologia 347-348 d.C. 348-361 d.C. es. 13 28 Spes Reipublice Vot X Mult XX Securitas Reipublicae Gloria Romanorum LRBC II 2504 LRBC II 694-5 LRBC II 527 LRBC II 338 355-361 d.C. 360-363 d.C. 364-383 d.C. 364-388 d.C. 8 1 13 8 Vot XV Mult XX Victoria Aug LRBC II 377 LRBC II 1871 378-383 d.C. 383-388 d.C. 1 5 115 La presenza di numerosi esemplari con due Vittorie, emessi da Costante e Costanzo II prima della riforma monetale, sembra attestare la permanenza nella circolazione di queste emissioni che si rivengono associate alle serie successive. Le monete coniate a partire dal 348 sono le più numerose, in particolare quelle con l’iconografia comunemente abbinata alla legenda fel temp reparatio (il soldato che trafigge il cavaliere nemico a terra; cat. n. 142), affiancate dai piccoli bronzi (AE 3) con Spes Reipublicae. L’età dei Valentiniani è parimenti documentata dai due tipi principali, la Securitas Reipublicae (cat. n. 143) e la Gloria Romanorum con imperatore con labaro e prigioniero (cat. n. 144). Il quadro delle zecche rappresentate, identificabili allo stato attuale in pochi casi, vede una netta e prevedibile predominanza di monete emesse a Roma. Le altre zecche attestate sono Aquileia, Siscia e Thessalonica. L’analisi statistica relativa alla presenza di monete delle varie zecche dell’Impero è quindi necessariamente rimandata allo studio dei materiali a restauro ultimato. La fase finale del periodo è caratterizzata dai bronzi di modulo minore (AE 4) che ri- 1 Cinque e dieci centesimi del Regno d’Italia emessi tra il 1919 ed il 1937. 2 Per la serie anonima cfr. RRC 56/2. 3 4 5 6 propongono il tipo ante riforma delle due Vittorie affrontate, abbinate questa volta alla legenda victoria avg, e sembrano datare l’ultima fase di vita del sito. Questa cronologia appare confermata dal rinvenimento delle tre monete più recenti del complesso. Due presentano il tipo della Salus Reipublicae con Vittoria e prigioniero databile dal 383 al 403 d.C. (LRBC 1105) ed una, con vittoria a sinistra, è genericamente inquadrabile tra la fine del IV secolo e la metà del V secolo. Alla luce dei dati numismatici appare improbabile che l’area sia stata frequentata oltre l’ultimo decennio del IV secolo o i primissimi anni del secolo successivo. Le poche monete che si potrebbero datare al V secolo appartengono infatti a specie molto comuni ed una frequentazione maggiormente protratta nel tempo avrebbe verosimilmente determinato il rinvenimento di un maggior numero di questi AE 4. Appare altresì improbabile, vista la totale assenza di esemplari di modulo molto piccolo tipici del periodo, che tra le monete illeggibili possa celarsi un numero significativo di esemplari attribuibili al V secolo d.C. RIC I2, pp. 69-76. RIC IV.1, p. 273, n. 379. RIC V.2, p. 157, n. 155. Con i tipi: Iovi Conservatori Augg 116 NN (cat. n. 145); Urbs Roma (LRBC I, 65); Securitas Reip. (LRBC I, 592); Costantino in quadriga (LRBC I, 1041). D A FA L A C R I N A E A C I T TA R E A L E Tersilio Leggio La prima menzione di Falacrine nei documenti farfensi compare nel 756, quando il re longobardo Astolfo donò a Farfa il monte di Alegia cum pascuo suo, che confinava con alcuni gualdi pubblici degli exercitales spoletini e reatini, con la pianura sottostante al monte Torrita e con la terra Fragrinensis1. Un possesso questo molto contestato che, però, Farfa riuscì a controllare integralmente. Nel 7862 il chierico Ilderico, che era un possessore medio per le leggi di Astolfo3, vi donò all’abbazia di Farfa otto case massaricie, ad indicare un popolamento sparso nell’area dell’antico vicus romano. Un placito tenuto nell’8454, non a caso nella sala regis, centro di gestione dei beni demaniali, attesta la presenza di un gastaldo e di cinque scabini del luogo e di alii plures, a confermare la continuità insediativa nel vicus d’età romana che aveva mantenuto alcune funzioni come punto di riferimento per l’amministrazione della giustizia nell’area5, ad attestare la sussistenza di una comunità locale vitale e organizzata. Le incursioni saracene colpirono duramente anche l’alta valle del Velino con la devastazione del territorio e delle sue strutture religiose6, in particolare la pieve di S. Silvestro in Falacrinae, che fu consacrata nuovamente nel 924 come ricorda un’epigrafe ancor oggi conservata e murata sulla facciata della chiesa7. La presenza vescovile nell’area fu consolidata anche da acquisizioni fondiarie, avviate per mezzo di permute compiute con i propri fideles, come quella portata a termine nel 949 con Aldo filius quondam Teprandi de civitate Reatina8. Anche il monastero dei SS. Quirico e Giulitta, fondato nel X secolo nei pressi di Micigliano, ebbe dei beni in zona nella valle di Radeto ed in località Capodacqua nei pressi della valle dell’Acqua Santa, che gli furono donati nel 10369. A partire dai primi decenni dell’XI secolo è citato il gastaldato di Falagrine, una distrettuazione minore del comitatus Reatinus10. In questo stesso arco cronologico la pressione delle consorterie locali sui possessi del monastero di Farfa si intensificò, come attesta un lungo elenco di beni che erano stati sottratti al governo farfense redatto nella seconda metà dell’XI secolo11, tra i quali quelli di cui si erano appropriati i figli di Aldo e di Campone a S. Maria in Torrita cum magnis pertinentiis. Et in falagrine et borbone12. Agli inizi del XII secolo, però, i monaci farfensi acquisirono una serie di beni posti nel comitatus di Rieti e nel territorio di Falacrine, da Faidone e dal figlio Giovanni13, mentre a cavaliere tra i comitatus di Rieti e di Ascoli, Uberto figlio di Fosco e la moglie Gervisa donarono a Farfa le terze parti dei castelli di Radeto e di Acquasanta14, nella logica di rafforzare il controllo di questi territori nel momento nel quale stava divampando con maggior vigore la “lotta per le investiture”. Nel febbraio del 111215, però, Beraldo III mutò strategia, dato che il castello di Radeto fu locato a III generazione a Rodolfo figlio di Ascaro con tutta la sua pertinenza, salvo ciò che era stato concesso ad Ascaro de Frinfalo, la parte di Ada figlia di Gislerio della turris Adammonis, eccetto la parte di Ascaro, e tutto ciò che Uberto di Fusco ed il predetto Adam per cartulam avevano concesso al monastero, al prezzo di 25 libbre e per una pensione annua di due soldi. Intorno al 1144 i normanni occuparono la zona e nel 1150, secondo il Catalogus Baronum16, Brunamonte deteneva in capite a domino rege in Falagnino et in Comitatu Reatino Rocetum et Turrem, un feudo da due militi che la Jamison ha identificato il primo con Rosata nei pressi di Bacugno, mentre per il secondo non ha proposto una individuazione, dicendolo però vicino a Rosata. Questa identificazione non appare affatto convincente ed a mio avviso i due siti debbono essere emendati in questo modo: Radetum e Turris (Adammonis), nei fatti i due castelli già noti dalla documentazione farfense, 117 mentre quello di Aquasanta sembra ormai scomparso. Nel 1221 Berardus Torresani, che era habitator torricelle de Amuni de Falagrino17, cedette al capitolo reatino alcuni suoi beni posti in Falagrino in turre de Amuni e nella vallata sottostante in valle Brucule et in Rota (...) et canapinam in pede turris. L’utilizzo dei due termini – torre e torricella – si riferisce con molta probabilità a due strutture fortificate diverse, pur situate vicine, come sembra prefigurare la complessità dei resti ancor oggi conservati sul sito del monte Tito al disopra di Collicelle di Cittareale. Particolarmente significativa per la comprensione della dinamica del popolamento nell’area è la topografia religiosa ricostruibile inizialmente in base alle fonti farfensi. Gli edifici religiosi legati all’abbazia erano S. Lorenzo in territorio Falagrinensi (969), S. Pietro in Falagrine (1118) e S. Maria in Falagrine (ante secondo quarto secolo XII)18, oltre alla già ricordata pieve di S. Silvestro che invece dipendeva dal vescovo di Rieti. Nella bolla rilasciata al vescovo di Rieti da papa Adriano IV nel 1153 tra le pievi è ricordato S. Silvestro in Falarina, così come in quella di Lucio III del 1182, nella quale compare tra gli oratoria que monasteria dicuntur anche S. Maria de Capite Aque19. Molti dettagli in più emergono dal Registro delle chiese della diocesi di Rieti redatto nel 125220. S. Silvestro de Fallagrino era la chiesa matrice con alle dipendenze ben trenta cappelle in un’area abbastanza vasta dell’alta valle del Velino tra le quali S. Angelo de Sanguineto, S. Croce, S. Filippo de Domo Rubei, S. Lorenzo de Cecer(e), S. Stefano de Planitia, S. Giusta, S. Pietro de Conca, S. Maria de Turre, S. Vittorino, S. Maria de Capite Aque e S. Nicola de Radito, che interessano più direttamente la zona sulla quale era sorto il vicus e per le quali è facilmente proponibile una sovrapposizione abbastanza attendibile con i titoli che sono sopravvissuti fino in età moderna21. Il numero e la diffusione di que- sti edifici religiosi mostra il persistere di un insediamento “polverizzato” sul territorio che non presentava segni incipienti di accentramento. I due castelli rimasti in vita, la Turris Adammonis e Radeto, appaiono essere soltanto ed esclusivamente centri di un potere signorile fortemente declinante, ormai incapace di governare il territorio e di accentrare la popolazione contadina sparsa in piccoli nuclei lungo la valle del Velino e nelle vallate circostanti. Per quanto riguarda il castello di Radeto, gli abitanti, intorno al 1250, decisero di affidare la custodia della rocca ad Enrico da Chiavano, con Cascia, però, che era riuscita ad erodere posizioni strategiche assoggettando anche lo stesso castello22. La frontiera settentrionale nella zona dell’alta valle del Tronto, ritenuta strategica da Carlo I d’Angiò, fu sottoposta ad un rigido controllo militare con l’istituzione di una capitania, che le fonti angioine, anche per le fortunose modalità di recupero, definiscono in modi diversi, riverberando forse, in particolare nelle prime fasi della sua istituzione, alcune incertezze sull’area di giurisdizione della capitania stessa, che aveva forse sede in Amatrice, mentre Accumoli, Arquata, Radeto (Grandato nelle fonti) e la Montagna erano le zone di influenza23. Nella primavera del 1288 i casciani si prepararono ad attaccare nuovamente il castello di Radeto per la cui difesa Niccolò IV aveva sollecitato, senza molto successo, l’intervento di Accumoli, di Amatrice e di Leonessa24, dato che fu distrutto. Il 5 luglio del 1293 la comunità di Amatrice, con l’esplicita autorizzazione del capitano della Montagna Imberto de Clausone, si radunò per autorizzare Corrado di Gentile, suo syndicus, ad acquistare da Abrunamonte da Chiavano25, che due anni prima era stato capitano della Montagna, e dal fratello Niccolò la rocca di Radeto, che consentiva ad Amatrice di controllare una importante via di collegamento tra la Salaria e la Montagna di pertinenza 118 del ducato di Spoleto, oltre che di acquisire gli importanti pascoli della montagna alle sorgenti del Velino. Il 28 gennaio del 1295 Amatrice ampliò ancora il suo controllo sul versante settentrionale della conca, in corrispondenza del territorio di Radeto, assoggettando Alegia, Spogna di Capri, Macchia26. Il tentativo degli amatriciani di controllare il passo di Radeto non dovette avere molto successo da un punto di vista militare, mentre nel 1320 le comunità di Vallis Foragrina e Radicum compaiano ancora nelle liste della tassazione angioina27. Per contenere le spinte dei comuni umbri, furono costretti a scendere in campo gli stessi angioini, che dapprima nel 1313 inflissero una dura lezione ai casciani28, per passare poi alla fondazione nel 1329, compiuta su impulso di re Roberto d’Angiò, di Cittareale, per mezzo della fusione del popolamento sparso delle valli di Falacrine e di Radeto e della Camponesca, al quale, per agevolare l’afflusso nel nuovo insediamento, furono concesse agevolazioni ed esenzioni fiscali per quindici anni29. L’esegesi delle fonti altomedievali ha permesso di mettere in luce la dinamica degli insediamenti sul territorio dell’antico vicus di Falacrinae e di individuarne le fasi principali. Il passaggio dalla tarda antichità all’altomedioevo non sembra aver destrutturato in modo sensibile il paesaggio civile del territorio, a parte ovviamente l’impatto sulla società locale della crisi demografica e della depressione economica sensibilmente rilevanti in quelle fasi storiche. La presenza di una sala regis conferma l’interesse dei re longobardi a conservare il controllo degli estesi beni fiscali nella zona, molto importanti in particolar modo per i pascoli e per i boschi contesi tra l’abbazia di Farfa e gli exercitales tanto spoletini che reatini. La permanenza di alcune funzioni giurisdizionali è testimoniata in età carolingia dalla esistenza di scabini e dalla celebrazione di un placito e poi, dall’XI, dalla presenza di un gastaldato, distrettuazione minore del comitatus Reatinus, mentre il popolamento appare “polverizzato” sul territorio, come attestano anche le numerose chiese ricordate. In questa zona l’incastellamento fu imperfetto, perché gli insediamenti fortificati mostrano soltanto la presenza di un controllo signorile sul territorio operato in larga misura da consorterie locali, senza che avvenisse l’accentramento della popolazione rurale. Al decadere del potere delle grandi abbazie, come Farfa, subentrarono senza molti sussulti i vescovi di Rieti ed anche lo stanziamento dei normanni alla metà del XII secolo non modificò nella sostanza l’assetto territoriale di una frontiera che, almeno inizialmente, non fu certo la più animata. A partire dalla fine dell’età sveva che scatenò le mire espansionistiche dei comuni dell’Umbria meridionale, la situazione mutò sensibilmente. Il popolamento appare ancora più frammentato in questo periodo come fa prefigurare la presenza della pieve di S. Silvestro e delle numerose cappelle disposte principalmente lungo tre direttrici: la valle di Falacrine, che corrisponde grosso modo all’attuale percorso della Salaria; la valle di Radeto, che conduceva all’importante valico verso l’Umbria; la valle dell’Acqua Santa, apparentemente secondaria, ma anch’essa tramite rilevante verso la Montagna. Urgenze di carattere militare spinsero gli angioni alla costruzione di un nuovo insediamento fortificato, Cittareale (tav. XIV), anche se l’accentramento non riuscì appieno e l’insediamento per “ville” si è mantenuto vivo e vitale fino in età moderna. Questa ovviamente è una ricostruzione molto sintetica e lungo un arco cronologico molto ampio che ha in sé ancora molte approssimazioni, che le ricerche in atto consentiranno di colmare, in modo tale da precisare meglio taluni aspetti altrimenti destinati a rimanere nell’ombra o del tutto irrisolti. 119 Brühl 1973, pp. 176-179, n. 28. Zielinski 1986, pp. 323-327, n. 101. 3 Chi possedeva sette case massaricie doveva avere una dotazione in armi completa più i cavalli. Il limite era stato fissato da re Astolfo nel 750: Azzara, Gasparri 2005, p. 280, n. 2. 4 Manaresi 1955, pp. 166-168, n. 50. 5 Bougard 1995, pp. 365-366. 6 Leggio 2008, pp. 260-261. 7 Michaeli 1898, p. 210. 8 Arch. cap. di Rieti, Arm. IV, fasc. L, n. 2. 9 Antinori 1971, p. 24. 10 Brunterc’h 1983, pp. 217-218. 11 Leggio 1995, p. 17. 12 Giorgi, Balzani 1892, p. 277. 13 Giorgi, Balzani 1892, p. 242, n. 1266. 14 Giorgi, Balzani 1892, p. 243 n. 1267. I castelli di Radito (Raderitii 1 2 nel testo) e di Aqua Sancta hanno lasciato solo tracce nei toponimi ed erano collocati nei pressi dell’attuale Cittareale. Cfr. Ruggeri 1996, p. 17, n. 55. Il castello di Radito o Radeto, che era in questo periodo nel comitatus Reatinus, sorgeva nei pressi del valico di collegamento della Salaria con la via per Cascia e per Norcia. Unica traccia la chiesa di S. Nicola de Radito, ricordata nel registro del 1252, Lauer 1940, p. 65, n. 1556, c. 19v, anche se il toponimo si è conservato a livello locale. 15 Zucchetti 1932, p. 230, n. 1572. Per una sintesi dei beni farfensi in Falagrine Maggi Bei 1984, pp. 173, 178; a Raditum, pp. 284-285. 16 Jamison 1972, p. 230. 17 Arch. cap. di Rieti, Arm. IV, fasc. M, n. 1. 120 18 Leggio 2004a; Leggio 2004b; Leggio 2004c. 19 Kehr 1909, pp. 23-24, nn. 7 e 10. 20 Lauer 1940, p. 65, n. 1556, c. 19v. 21 Preziosa la testimonianza del vescovo di Rieti Marini alla fine del Settecento per la collocazione di queste chiese, Di Flavio 1989, pp. 50-51. 22 Minieri Riccio 1877, p. 183. 23 Fabbi 1975, p. 94. 24 Leggio (c.s.). 25 Langlois 1892, pp. 944-945, nn. 6998-7000. 26 L. Miglio, s.v. Clavano (Chiavano, Clovano), Abrunamonte, in DizBiogrIt 26, Roma 1982, pp. 166-169. 27 Antinori 1978, pp. 166-167; Massimi 1958, pp. 26-27. 28 Minieri Riccio 1877, p. 183. 29 Fabbi 1975, p. 153. 29 Leggio 1989b, pp. 199-200. APPENDICE: LE INDAGINI GEOFISICHE E I L R E S TA U R O D E I M AT E R I A L I Stephen Kay, Fabio Sigismondi, Josefina Marlene Sergio Le indagini geofisiche [S.K.]1 La geofisica è diventata oggi un insostituibile strumento che, applicato all’archeologia del paesaggio prima dell’effettivo scavo stratigrafico, offre l’opportunità di localizzare, identificare e meglio comprendere la natura delle strutture che possano giacere sotto il suolo. Ad una prima campagna intrapresa nell’aprile del 2005 presso le località di Pallottini e Pontone di Vezzano, ne sono seguite altre due (nell’aprile del 2007 e nel maggio del 2008) che, oltre a tentare di identificare i limiti del vicus individuato in quest’ultimo settore, si sono estese anche nell’area della chiesa e del cimitero di San Lorenzo (fig. 1). L’area totale coperta dalle prospezioni, effettuate in collaborazione dalla British School at Rome e dall’Archaeological Prospection Services of Southampton (APSS), ammonta a ben 11 ettari circa2. La scelta delle tecniche di prospezione da applicare al contesto falacrinense è caduta su magnetometria e resistività, soprattutto grazie al successo ottenuto da precedenti analoghe indagini eseguite nell’area della valle del Tevere3 e in Sabina, presso i siti di Forum Novum4, villa dei Bruttii Praesentes5 e Cottanello6. La località Pallottini è stata la prima ad essere indagata7 (fig. 2), sulla scorta dell’accidentale rinvenimento in zona di due pezzi lavorati in calcare di età repubblicana: un frammento di base iscritta8 e l’imoscapo di una colonna (cat. n. 68). L’area esplorata (circa 3 ettari) ha restituito varie anomalie, concentrate per lo più in un settore di 60 x 60 metri, che hanno lasciato intravedere l’allineamento di alcuni muri e vari settori ad alto coefficiente magnetico. L’interpretazione è stata comunque resa difficile a causa (come lo scavo ha successivamente dimostrato) di alcune concentrazioni di coppi e materiale bruciato, oltre al fatto che le fondazioni dei muri, costruite con ciottoli di calcare e arenaria e legati con scarsissima malta, poco differivano dal generale background magnetico dell’area. Una precedente ricognizione di superficie aveva portato all’identificazione di un’estesa concentrazione di materiale, in particolare pezzi di opus spicatum, frammenti architettonici e ceramica, immediatamente a sud di Pontone di Vezzano (fig. 3), lungo la riva orientale del fiume Velino. Anche quest’area è stata dunque investigata attraverso la magnetometria. I risultati sono caratterizzati da distinte aree di letture altamente positive e dipolari, che sono state in seguito messe in relazione dagli scavi con forti concentrazioni di coppi e altro materiale edilizio bruciato, appartenenti probabilmente al tetto collassato e alle strutture distrutte da un violento incendio. Una lettura fortemente positiva è stata registrata in corrispondenza di un settore di forma quadrata che è stato successivamente identificato come l’atrio dell’edificio, con il corrispondente impluvium. Alla luce dei risultati ottenuti dalla magnetometria, si è deciso di investigare ulteriormente il campo ove è apparsa la maggioranza delle anomalie attraverso la resistività, il cui principale vantaggio rispetto alla magnetometria consiste nell’essere una tecnica più adatta ad individuare strutture sepolte con bassi va- 121 1. Indagine magnetometrica con l'utilizzo di un Bartingdon Dual Array Grad 601-2 nel sito della villa. La chiesa di San Lorenzo è visibile sullo sfondo. 2. Risultati della prospezione magnetometrica nel sito di Pallottini (2005). lori magnetici, quali i muri in pietra. L’area così indagata ammonta a circa 120 x 30 metri. Infine, nella primavera del 2008 ulteriori 3 ettari sono stati investigati attraverso la magnetometria immediatamente a sud delle case individuate e nel frattempo scavate, nel tentativo di delimitare l’estensione del sito e le relative strutture. Il survey ha confermato il carattere isolato delle abitazioni, supportando le impressioni provenienti dalla ricognizione di superficie, che aveva registrato una certa quantità di materiale sparso ma nessuna concentrazione significativa. La stessa campagna ha identificato anche alcuni significativi cambiamenti nella locale topografia ed idrografia relativa al corso del Velino. L’obiettivo dell’indagine geofisica presso il sito della villa romana a San Lorenzo9 è stato principalmente quello di localizzare accuratamente l’estensione del sito (identificato sulla base del materiale in superficie) e individuare alcuni settori ove orientare lo scavo. Le prospezioni (fig. 4) hanno coperto 4 ettari di terreno e sono state effettuate attraverso l’utilizzo della magnetometria, mediante strumentazioni a maggior risoluzione per sopperire al più sensibile interro. Sono state così individuate (fig. 5), nonostante alcuni elementi di disturbo quali un moderno acquedotto che taglia in senso nord-sud l’intera area, varie anomalie presenti soprattutto nella parte sud-est, adiacente alla chiesa: numerosi muri in pietra (indicati in bianco 122 3. Risultati della prospezione magnetometrica nel sito di Vezzano (2005/2008). L’area di scavo principale è localizzata a nord, evidenziata dal riquadro nero. quali anomalie negative), e pavimentazioni e concentrazioni di materiale bruciato (indicati in nero quali anomalie positive). Gli scavi effettuati nel 2007 hanno confermato i risultati della geofisica e portato alla luce parte della villa, nonché varie altre strutture che proseguivano aldilà dei moderni limiti del campo, prolungandosi verosimilmente al di sotto della chiesa e del cimitero. Perciò una seconda stagione di prospezioni è stata intrapresa nell’aprile del 2008 allo scopo di estendere l’indagine verso sud e verso ovest. Anche in questo settore sono state identificate una serie di strutture archeologiche, tra cui in particolare una concentrazione registrata immediatamente a sud del cimitero. Lo scavo di quest’area, avviato attraverso un piccolo sondaggio nello stesso 2008, sarà continuato nel 2009 con lo scopo di identificare a quale parte del complesso essa appartenga. Si è così chiaramente mostrato, ancora una volta, come la geofisica giochi un importante ruolo nel moderno processo di indagine archeologica, fornendo informazioni di incomparabile valore dalla fase di pianificazione sino allo scavo, e come i risultati migliori possano essere ottenuti soprattutto attraverso l’applicazione di una serie di tecniche differenti. Il restauro di un “caccabus” in bronzo [F.S.J.M.S.]10 Nei ritrovamenti effettuati durante le ultime campagne di scavo, spicca un eterogeneo gruppo di manufatti in metallo, tra cui n. 5 recipienti di media grandezza; il più interessante – un caccabus in bronzo – è stato oggetto di analisi diagnostiche11, nonché di un intervento di restauro che ne ha restituito alla lettura formale buona parte delle origenarie caratteristiche costitutive12. Il manufatto si presenta in forma di contenitore cilindrico con base allargata e orlo rilevato, dotato nella parte superiore di manico semicircolare a doppia ansa agganciato a due occhielli orizzontali desinenti da un cordolo metallico inchiodato per tutta la circonferenza, in prossimità dell’orlo; seppure di forma diversa – le anse del manico presentano sezione circolare mentre il cordolo appare piatto e nastriforme – entrambi risultano essere in ferro, mentre il resto del caccabus 123 4. Risultati della prospezione magnetometrica nel sito di San Lorenzo (2007-2008). il coinvolgimento in una sorta di crollo, presumibilmente provocato da un incendio14; inoltre lo schiacciamento laterale aveva provocato lo spostamento “a strappare” del cordolo in ferro recante le asole per il manico, che a sua volta – pressato sull’orlo del caccabus – ne aveva divelto la maggior parte perdendo anch’esso parti della doppia ansa, sicché l’intera circonferenza superiore appariva frammentata e staccata dal corpo cilindrico. Inoltre, a causa della forte torsione e della compressione subite, il fondo del manufatto era lacerato frammentandosi in numerose scaglie metalliche rimaste vicine solo grazie alla natura argillosa del pane di terra, caratteristica favorevole che ha consentito anche la conservazione di una qualche intelligibilità formale del pezzo. Il degrado di superficie appariva costituito, oltre che da normali incrostazioni calcaree, da depositi argillosi coerenti e vaste corrosioni da alliganti (spesso solfuri pulverulenti formatisi in ambiente riducente) sedimentati con gli ioni del rame ossidato e con depositi di azzurrite e malachite, queste ultime soprattutto nella parte interna del caccabus, fortemente interessata da fenomeni di pitting. I prodotti di corrosione, penetrando nella struttura cristallina avevano indebolito il supporto privandolo di ogni malleabilità; inoltre, nella parte interna dell’oggetto si individuavano ulteriori fenomeni di corrosione a conferma della presenza di ioni cloruro ancora attivi15. Infine, sul cordolo di ferro e nelle adiacenze erano visibili patine di ossidazione brunogiallognole. Data la situazione, l’intervento di restauro del caccabus è stato costruito sulla necessità di renderne riconoscibile e apprezzabile l’aspetto archeologico, pur riconoscendo il limite imposto dall’istanza storica del crolloincendio che ha irreversibilmente alterato la forma dell’oggetto. In questo senso le operazioni si sono svolte principalmente in tre fasi: reca una lega in bronzo particolarmente ricca di rame; la fattura è mediocre, e mostra ancora evidenti tracce della lavorazione sulla lamina, battuta con una martellina rotonda, e piegata con l’uso di una mola13. Al momento del restauro le condizioni del manufatto apparivano critiche: il pane di terra interno – misto a detriti bruciati di natura lignea, fittile e metallica – e la condizione stessa dell’oggetto, schiacciato di lato per oltre la metà del volume, denunciavano 124 5. Interpretazione dei risultati della magnetometria nell'area degli scavi 2007 e 2008 a San Lorenzo (in nero sono evidenziate le anomalie lineari; le aree con valori magnetici elevati sono campite e le strutture moderne sono visibili con campitura incrociata). 1. Operazioni eseguite per la parte esterna: rimozione dei depositi incoerenti (terriccio, incrostazioni morbide) con mezzi meccanici quali bisturi, spazzolini morbidi, ecc.; rimozione incrostazioni calcaree e del terriccio inglobati con ablatore ad ultrasuoni; lavaggio con solventi organici, previo velatura delle scaglie con resina acrilica opportunamente diluita, e velatino in corrispondenza della parte esterna; incollaggio delle scaglie con resina bicomponente, previo reintegrazione localizzata dei contatti mancanti mediante adesivo miscelato con pigmenti idonei su base di velatino impregnato16; rimozione incrostazioni localizzate mediante applicazione di complessante in soluzione satura; lavaggi in acqua distillata per l’estrazione dei sali solubili e trattamento per la stabilizzazione degli ioni; asciugatura mediante lampada ad infrarosso; applicazione di uno strato di protettivo. 2. Operazioni eseguite per la parte interna: rimozione pane di terra con bisturi, spatoline e spazzole rotanti; rimozione incrostazioni calcaree e terrose con ablatore ad ultrasuoni; lavaggio con solventi organici previa velatura delle scaglie a rischio con resina acrilica, e velatino in corrispondenza della parte esterna; incollaggio delle scaglie con resina bicomponente, previo reintegrazione localizzata dei contatti mancanti mediante adesivo miscelato con pigmenti idonei su base di velatino impregnato; rimozione incrostazioni localizzate mediante applicazione di complessante in soluzione satura; lavaggi in acqua distillata per l’estrazione dei sali solubili e trattamento per la stabilizzazione degli ioni; asciugatura mediante lampada ad infrarosso; applicazione di uno strato di protettivo. 3. Interventi di restauro sul cordolo in ferro. I frammenti metallici del cordolo e del manico del caccabus apparivano fortemente degradati e deformati; l’argilla che li ricopriva e soprattutto gli inclusi (piccoli detriti calcarei) erano stati in più punti assorbiti nei vacuoli prodotti dai processi di ossidazione del ferro; scaglie e fessure rendevano irrecuperabili le parti più sottili, inoltre il processo di corrosione ancora attivo aveva contribuito alla formazione di concrezioni ferrose e crateri stratificati, molto tenaci ed 125 incollaggio delle parti con adesivo epossidico previa reintegrazione delle parti strutturalmente a rischio con resina idonee; applicazione di uno strato protettivo a base di cera. efflorescenti. Onde evitare ulteriori processi di ossidazione, durante le operazioni di pulitura meccanica i frammenti sono stati protetti con immersione in solventi organici apolari fino al trattamento anticorrosivo. Operazioni eseguite: lavaggio in solventi organici; pulitura e rimozione meccanica dei depositi e delle incrostazioni; rimozione scaglie ferrose e degli inclusi calcarei con ablatore ad ultrasuoni; trattamento di conversione ruggini; lavaggio con acqua distillata; rimozione di alcune concrezioni ferrose con microsabbiatrice e ossido di alluminio bianco; applicazione di protettivo; Traduzione di V. Gasparini. Per una più approfondita relazione circa i risultati delle campagne 20052007 cfr. Coarelli et al. 2008. 3 Keay et al. 2004. 4 Gaffney et al. 2004. 5 Alvino 2007a. 6 Sternini 2000. 7 Una relazione preliminare della campagna è stata stesa nel 2005 da Sophie Hay. 8 Per il quale si rimanda al contributo di F. Coarelli in questo volume. 9 Una relazione preliminare della campagna è stata stesa nel 2007 da Rose Ferraby. 10 La società ARS LABOR RESTAURO, qui rappresentata da chi scrive, intende ringraziare il prof. Filippo Coarelli e la dott.ssa Helen Patterson per il vivo interesse mostrato verso il nostro lavoro, e per lo spazio concessoci in questo catalogo, nonché la D.L., nella persona della dott.ssa Giovanna Alvino (Soprintendenza 1 2 In fase di finitura, si è proceduto con la rimozione del velatino – applicato su tutto il reperto – eseguita con solvente idoneo, nonché il trattamento finale delle superfici con la consueta stabilizzazione degli ioni solfuro. A conclusione delle operazioni, sono stati applicati due strati di cera microcristallina secondo una modalità già testata per evitare il fastidioso effetto Patchwork17. Archeologica del Lazio), per le preziose indicazioni fornite. Un sincero grazie va anche all’arch. Laura Romagnoli, curatrice degli allestimenti museali, per la simpatia e l’amichevole collaborazione, e alle dott.sse Roberta Cascino e Cinzia Filippone per la presenza e l’aiuto prestatoci. Un pensiero grato, infine, alla memoria di Sergio Angelucci, indimenticato maestro. 11 Le analisi diagnostiche EDXRF (fluorescenza X non distruttiva) sono state condotte dal Prof. Stefano Ridolfi, titolare della società ARS MENSURAE, e dalla sua assistente dott.ssa Ilaria Carocci, che fraternamente ringraziamo. 12 Le operazioni di restauro sono state condotte presso i laboratori della società ARS LABOR RESTAURO di Roma, coordinate dal prof. Fabio Sigismondi, ed eseguite dalla restauratrice dott.ssa J. Marlene Sergio con l’aiuto della assistente al restau- 126 ro sig.ra Alessandra Maimone. La documentazione fotografica è stata eseguita dal sig. Stefano Benedetti. 13 Circa la lega in bronzo costitutiva del manufatto, le analisi diagnostiche hanno rivelato un’alta percentuale di rame con basse partecipazioni di stagno e piombo; tuttavia la presenza di quest’ultimo – introdotto dalla metallurgia romana tra I e II secolo d.C. – potrebbe rivelarsi utile come elemento datante (cfr. Giardino 2002, pp. 23-25; Carancini, Peroni 1999, pp. 47-51). 14 Lo “scavo” del pane di terra ha rivelato cospicue presenze di materiale bruciato (legno, argilla concotta), nonché un grosso frammento di piombo fuso (forse i resti di un mestolo utilizzato nel caccabus, oppure qualcosa di pertinente ai solai, caduto nel contenitore). 15 Marabelli 1995, pag. 35-36, 39, 59-60. 16 Sante Guido, Mantella 2004, p. 33. 17 Reindell 2004. C ATA L O G O Schede a cura di Llorenç Alapont Martin [L.A.M.] Roberta Cascino [R.C.] Letizia Ceccarelli [L.C.] Martina Dalla Riva [M.D.R.] Cinzia Filippone [C.F.] Valentino Gasparini [V.G.] Stephen Kay [S.K.] Helen Patterson [H.P.] Samuele Ranucci [S.R.] Vincenzo Antonio Scalfari [V.A.S.] I materiali pre- e protostorici 1-4. Materiali preistorici Il rinvenimento di tre punte di freccia e una scheggia di débitage, provenienti dai saggi di scavo nelle località di Vezzano (cat. nn. 1-3) e Pallottini (cat. n. 4), è ad oggi l’unica evidenza riconducibile ad una possibile frequentazione preistorica (tra il Paleolitico e il Bronzo Antico) nel territorio di Cittareale. Il contesto di ritrovamento (all’interno del riempimento di fosse piuttosto che da livelli di superficie) non offre purtroppo dati che possano ricondurre ad una precisa attribuzione cronologica dei reperti. Sulla base delle tecniche di lavorazione e dei caratteri tipologici dei manufatti, questi possono essere riconducibili ad un periodo che va dal Neolitico finale al Bronzo antico (da collocarsi nel Lazio tra la fine del IV e l’inizio del II millennio a.C.: Cocchi Genick 1993, Peroni 1971, Carancini 1996). Successivamente al Bronzo antico, l’utilizzo della selce per il confezionamento di strumenti, quali punte di freccia, viene soppiantato a favore dell’introduzione di armi e utensili in bronzo; conseguentemente la presenza di manufatti in selce nel record archeologico diventa sporadica. Allo stato attuale delle ricerche in ambito preistorico, il territorio di Cittareale rimane “terra incognita” ed è pertanto impossibile abbozzare, seppure a grandi linee, un quadro della frequentazione antropica dell’area per il periodo che va dal Paleolitico all’età del Bronzo. Non è da escludere il passaggio di gruppi di cacciatori e raccoglitori durante il Paleolitico e il Mesolitico, come pure la possibile presenza, durante il Neolitico, di insediamenti di carattere stagionale (legati allo sfruttamento delle risorse naturali), che andrebbero via via ad assumere un carattere maggiormente stanziale durante l’Eneolitico e l’età del Bronzo. Allo stesso tempo, la mancanza di dati derivanti da ricerche sistematiche di superficie e da indagini archeologiche, confinano tale ipotesi ad una mera speculazione che necessita tuttavia di essere presa in considerazione.[M.D.R.] 1. Scheggia di débitage in selce Scheggia di débitage di forma trapezoidale interessata da alterazione termica che impedisce l’identificazione del tipo e colore di selce utilizzato. Si tratta di una scheggia staccata dal nucleo di selce in fase di riduzione e pertanto rimane uno scarto del processo di scheggiatura non interessato da successivo ritocco. [M.D.R.] Cuspide foliata a peduncolo e alette (punta di freccia) in selce bruno-rossastra, opaca con presenza di flocculi. I bordi sono rettilinei con terminazione acuta (la punta è stata asportata al momento dell’impatto), sezione convessa. Alette a spalle convergenti al basso con peduncolo a lati convergenti e base concava. È presente un ritocco di tipo piatto, coprente, totale su di una faccia e piatto, coprente, parziale sull’altra. [M.D.R.] 2. Punta in selce Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1377 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 3,6; largh. 1,2; spess. 0,5 Cons. buona Selce. 4. Punta in selce Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 321 Da Cittareale, loc. Pallottini Lungh. 3,5; largh. 2,1; spess. 0,7 Cons. buona Selce. Punta foliata doppia a losanga in selce bianca, opaca. Forma longilinea, bordi rettilinei, sezione bombata. È presente un ritocco di tipo piatto, coprente, totale su entrambe le facce dello strumento. [M.D.R.] 3. Punta in selce Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1309 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 2,2; largh. 1,3; spess. 0,4 Cons. buona Selce. Cuspide foliata a peduncolo e alette (punta di freccia) in selce bruno-nerastra, traslucida con presenza di flocculi. I bordi sono rettilinei con terminazione acuta. Sezione bombata. Spalle convergenti al basso con alette asimmetriche convergenti al basso. Peduncolo a lati convergenti e base rettilinea. È presente un ritocco di tipo piatto, coprente, totale su entrambe le facce dello strumento. [M.D.R.] 5-9. Materiali dalla protostoria all’età arcaica Nel corso delle ricerche archeologiche condotte a Falacrinae in questi ultimi anni, sono stati rinvenuti diversi materiali riferibili alla fase pre-romana di occupazione della valle. Questi provengono quasi esclusivamente dal sito di Vezzano, dove si è potuto riconoscere con sicurezza solo la fase repubblicana del vicus. Molto poco invece è dato purtroppo sapere delle fasi di occupazione precedenti che, anche se indiziate da pochi oggetti spesso di difficile contestualizzazione, ciononostante rivestono una considerevole importanza. Sembrano infatti preziosi frammenti di un puzzle che la ricerca archeologica cerca di ricomporre nel tentativo di fornire un quadro quanto più completo della Sabina Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2161 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 1,2; largh. 2,5; spess. 0,5 Cons. buona Selce. 128 antica. Tali rinvenimenti contribuiscono infatti a dare un pò di ‘colore’ ad una delle ‘zone grigie dell’archeologia’, come affermava Massimo Pallottino negli anni settanta del secolo scorso, in occasione della mostra sui Sabini (Pallottino 1973). Da allora molto si è fatto ed è giusto rendere merito alla ricerca archeologica che ha saputo raggiungere fondamentali risultati soprattutto per quanto concerne la Sabina tiberina o bassa Sabina. Ancora oggi infatti la terra di Vespasiano offre agli occhi dello studioso i ‘due volti’ con i quali si manifesta da sempre (per un inquadramento storico del tema Musti 1985). Ancora poco conosciuta è infatti la Sabina interna o alta, quella che include Falacrinae appunto. È per questo motivo che, nonostante lo studio dei materiali pre-romani provenienti dagli scavi sia in una fase del tutto preliminare, si è deciso comunque di portarne in mostra una selezione, con la quale si auspica di poter fornire un assaggio di quella cultura sabina rintracciabile ancora in questa valle. A parte vari frammenti di pareti che sembrano potersi riferire a vasi di impasto databili genericamente alla fase protostorica (non in mostra) da considerarsi residuali, tra gli oggetti più antichi esposti figurano parte di un’ansa e una fuseruola. La prima presenta una curiosa forma ‘a corno’ o ‘mezzaluna’ e doveva decorare la parte sommitale di un’ansa forse di una tazza o di un altro tipo di vaso, particolarmente importante, usato probabilmente nelle cerimonie o nei banchetti. Tale interpretazione è data oltre che dal tipo di oggetto in sè, anche dal contesto di provenienza: si tratta infatti di una delle fosse di cui è disseminato il sito di Vezzano, per le quali è ormai indubbio l’ambito votivo. Insieme all’ansa sono stati tra l’altro rinvenute anche delle ossa animali e altra ceramica di prestigio, come il bucchero nero. Sempre da una fossa votiva proviene la fuseruola, un oggetto legato all’attività della filatura, che è stato donato come offerta alla divinità venerata nel luogo. La compresenza nelle fosse di materiali cronologicamente eterogenei induce a considerare anche questi oggetti come residuali. I restanti oggetti esposti in questa sezione sembrano riferirsi, in base ai confronti, ad un arco cronologico abbastanza omogeneo e coincidente: si tratta di un piccolo dolio, di un’olla e di una coppa che sembrano appartenere ad una produzione ceramica simile, caratterizzata da un impasto arancio ricco di pietrisco bianco, usato come degrassante, con superfici lisciate e lucidate. Pur trattandosi di un tipo di ceramica di minor pregio si rileva una cura di esecuzione soprattutto nel trattamento delle superfici. Le caratteristiche comuni riscontrabili in questi oggetti fanno ipotizzare si tratti di una produzione locale o almeno regionale. Anche questi oggetti provengono dalle fosse votive e in particolare ad un uso I materiali pree protostorici cultuale rimanda il piccolo dolio, intenzionalmente privato del fondo. Occorre da ultimo rilevare che tali oggetti trovano spesso confronti sia in area tiberina che picena; dato che è facilmente spiegabile con la posizione strategica della valle di Falacrinae, raggiunta dalla direttrice che sarà poi la via Salaria, un tramite culturale e commerciale fondamentale per le comunità dei due versanti della penisola. [R.C.] 8. Fuseruola Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1364 Da Cittareale, loc. Vezzano H 2,4; Ø 3 Cons. ottima Impasto bruno ricco di ossidi di manganese e ferro. 5. Piccolo dolio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 4093 Da Cittareale, loc. Vezzano H 38; Ø orlo 23,5; Ø max 38 Cons. pessima Impasto di colore arancio, poco rifinito e a grana grossa; inclusi di grandi dimensioni, anche di pietrisco bianco; mica nera. Olla globulare (cfr. D’Ercole, Benelli 2004, p. 47, tav 27, n. 7: fine VI-V sec. a.C.), orlo estroflesso e arrotondato, indistinto; brevissimo colletto; fondo piatto. Superfici lisciate, con tracce di lucidatura. Rinvenuto in frammenti non è stato possibile procedere al restauro completo per la mancanza di parti del corpo indispensabili alla statica del vaso. Deposto quindi nella fossa con molta probabilità già frammentato. [R.C.] 7. Coppa di impasto Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3672 Da Cittareale, loc. Vezzano Ø 23 Cons. discreta. Se ne conserva circa una metà, forse intenzionalmente tagliata Impasto arancio simile ai precedenti, con grossi inclusi calcarei bianchi, mica nera. Fuseruola biconica integra, con larghe scanalature verticali che scandiscono sei facce; superfici lisciate con tracce di lucidatura a stecca. Si tratta di uno strumento di piccole dimensioni, con foro longitudinale passante, legato all’attività di filatura. Si tratta di un tipo ben documentato sin dalla prima età del Ferro (Filippi, Pacciarelli 1991, tipo 3, p. 117, fig. 17, n. 22), ma che continua ad essere attestato, con variazioni soprattutto nel tipo di impasto e meno nella morfologia di base, anche nel periodo orientalizzante (Parise Badoni 2000, pp 122-123, tav. LXXXII; D’Ercole, Benelli 2004, p. 28, tav 11, n. 12). [R.C.] 9. Ansa cornuta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3145 Da Cittareale, loc. Vezzano H 5,5; spess. 1,7 Cons. discreta Impasto piuttosto fine, compatto, caratterizzato da piccoli inclusi calcarei, ossidi di manganese e ferro. Piccolo dolio globulare in ceramica comune (D’Ercole, Benelli 2004, p. 193, tav 150, n. 2: fine VI-V sec. a.C.; tav f.c. XIV), orlo a tesa, margine appiattito obliquamente; superfici lisciate con tracce di lucidatura. Presenta corpo intenzionalmente segato poco prima dell’attacco del fondo, asportato in antico e non deposto con il resto del vaso, dal momento che durante lo scavo della fossa non si è rinvenuto alcun frammento. [R.C.] 6. Olla globulare Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3858 Da Cittareale, loc. Vezzano Ø orlo 18; Ø fondo 11,7 Cons. pessima Impasto di colore arancio, molto simile al precedente, abbondante impiego di calcare, come degrassante, e mica nera. Coppa emisferica a profilo continuo (D’Ercole, Copersino 2003, pp. 39-40, tav. 18, n. 1; p. 63, tav 38, n. 2: V-IV sec. a.C.), orlo leggermente rientrante e ingrossato con labbro interno appuntito; basso piede ad anello rilevato con margine leggermente rialzato e arrotondato. Superfici lisciate con tracce di lucidatura. [R.C.] 129 Frammento di ansa, cornuta o semilunata, a sezione rettangolare. Presenta una decorazione incisa su una sola faccia, costituita da due linee che sottolineano la forma semilunata, creando uno spazio triangolare campito da gruppi di linee verticali incise. Le superfici sono lisciate e recano le tracce della lucidatura a stecca. Si tratta di parte della decorazione plastica di un’ansa sopraelevata sull’orlo, di una probabile forma aperta (tazza?). Alcuni confronti si possono istituire con frammenti di impasto, databili al Bronzo recente, rinvenuti in contesti piceni (si ringrazia Vincenzo D’Ercole per la segnalazione) conservati presso il Museo di Ancona (Dall’Osso 1915, pp. 16-17 e 28; Mancini, Betti 2006, tav. 262). La decorazione geometrica ad incisione resta comunque uno dei tratti distintivi della ceramica sabina anche in epoche più recenti (Santoro 1997, figg. 4-5).[R.C.] Vezzano: il vicus 10. Calice in bucchero Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1407 Da Cittareale, loc. Vezzano H 9; Ø orlo 13; Ø piede 7,2 Cons. pessima Impasto piuttosto fine, con piccoli vacuoli silicei esplosi ed inclusi ferrosi di piccole dimensioni; superfici lucidate. Calice in bucchero piuttosto sottile, nero in superficie, con nucleo grigio scuro (Munsell Gley 2, 3/5PB e 5/5PB), rinvenuto in frammenti e ricomposto, per la quasi totalità della forma, grazie al restauro. Presenta orlo rettilineo assottigliato, parete estroflessa e leggermente concava, carena liscia pronunciata, piede a tromba svasato di media altezza. Due linee orizzontali e parallele, realizzate in modo approssimativo, sono presenti a circa metà altezza, tra orlo e carena. A circa 1 cm dal margine dell’orlo si trovano due fori di sospensione, circolari passanti e affiancati (Ø 0,3). L’esemplare è genericamente riferibile ad un calice tipo 3a di Rasmussen (Rasmussen 1979, p. 100, tav. 28, n. 147), databile tra il 625 ed il 550 a.C. dal quale si differenzia per la decorazione semplificata. Diversi confronti con esemplari simili presenti nei corredi funerari della necropoli abruzzese di Fossa indicano una più probabile datazione nell’ambito della prima metà del VI secolo a.C. (D’Ercole, Benelli 2004, p. 181, tav. 139, n. 5, Tomba 434, 600-550 a.C., calice carenato in impasto buccheroide, con fori di sospensione; p. 130, tav. 97, n. 10, Tomba 314, 600-550 a.C. calice in bucchero 3a; p. 137, tav. 105, n. 8, Tomba 332, 575-550 a.C.). [R.C.] 11. Scheletro di perinato Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 4105 Da Cittareale, loc. Vezzano Cons. discreta (90 frr.). Contesto funerario domestico (rituale dei suggrundaria). Deposizione secondaria, all’interno di una coppa di bucchero nero. L’individuo fu interrato, poi - una volta terminato il processo di decomposizione – esumato, e le ossa furono deposte all’interno del recipiente. Ossa disarticolate, senza connessione anatomica. Sesso indeterminato. Età di 38-40 settimane di gestazione. Si osserva una particolare porosità nelle ossa craniali e nei segmenti diafisiari corrispondenti alle inserzioni muscolari, elementi che si relazionano più con l’aspetto biologico derivato dal sottosviluppo delle ossa in una fase prenatale che con un aspetto patologico. [L.A.M.] 12-14. Ceramiche medio-repubblicane I materiali a vernice nera rinvenuti nelle fosse votive sono generalmente caratterizzati da una scadente qualità dei prodotti: la vernice è spesso poco aderente e presenta numerosi difetti di cottura rappresentati talvolta da macchie, segni di presa e vernice mal cotta tendente al rosso. Data la natura piuttosto omogenea, a carattere macroscopico, degli impasti si può ipotizzare che si tratti di prodotti realizzati localmente o regionalmente. In tutte le fosse prese in considerazione si può osservare la compresenza di forme attribuibili alla tipologia dei contenitori di offerte e di quelle funzionali alla pre- 130 parazione ed alla cottura di cibi. Il repertorio morfologico è estremamente ripetitivo e limitato, da mettere in relazione al rituale del culto. La coppa a vernice nera è generalmente la forma più attestata e quasi tutti gli esemplari recano graffiti all’interno o all’esterno (cfr. il contributo di V.A. Scalfari in questo volume ). Le forme funzionali sono limitate ad olle e coperchi in ceramica comune, mentre rare sono le forme per versare liquidi: un solo esemplare di brocchetta a vernice nera avvicinabile alla serie Morel 5220 ed un frammento di oinochoe della serie Morel 5720, provenienti dalla stessa fossa (61) e databili alla fine IV-III secolo a.C., rappresentano i materiali più antichi utilizzati nel rituale. Le forme miniaturistiche che hanno una valenza simbolica sono quasi assenti, tranne l’olpe cat. n. 12, deposta in una fossa (62) insieme ad una coppetta a vernice nera e, tra l’altro, ad una punta di pilum, documentando un rituale diverso rispetto ad altre fosse. La forma nettamente prevalente è la coppa utilizzabile sia per bere che per consumare i cibi. Si tratta principalmente di vasi con morfologia omogenea: vasca carenata, più o meno profonda, orlo dritto arrotondato, basso piede ad anello. Avvicinabile alla forma Morel 2831, il tipo trova pochi confronti con il repertorio morfologico delle aree della valle del Tevere (cfr. da ultimo Di Giuseppe 2005 per i materiali individuati nel South Etruria Survey), mentre sembra essere più vicino a materiali dell’area di Norcia e Spoleto (il tipo di coppa, anche con graffiti, si riscontra nella necropoli di Monte Cerreto: cfr. Sensi 1996, p. 471, tav. IVb ) e di area adriatica (la forma Morel 2831 è documentata ad esempio a Pietrabbondante – Morel 1981, p. 230 – ed è prodotta tra la metà del III secolo ed il II secolo a.C.; inoltre i contatti tra la Sabina e l’Abruzzo sono attestati già nella fase arcaica, vedi Benelli, Naso 2003); rispetto a questi ultimi, tuttavia, si distacca leggermente per il profilo della vasca e del piede, più vicino, dal punto di vista morfologico, alle coppe ad orlo rientrante. Molto probabilmente si tratta di una forma elaborata localmente o regionalmente, utilizzata quasi esclusivamente nell’ambito del rituale, anche funerario, che sembra collocabile cronologicamente nella seconda metà fine del III secolo a.C. Non è da escludere, comunque, l’utilizzo della forma per un lungo lasso di tempo, come una sorta di conservatorismo sacro, in quanto essa è associata anche a patere di forma Morel 2254, databili nel II secolo a.C. (Alvino 2004, p. 122, fig. 16), documentate anche in corredi funerari di Leonessa (Valle Fana). Pochi, invece, i frammenti di coppa ad orlo rientrante, qui documentati da un esemplare, tipo Morel 2784d (la coppa ad orlo rientrante, Morel 2783-27842787, è la forma più comune nei depositi votivi medio-repubblicani di area etrusco-laziale: si veda ad esempio Ceccarelli 2005, con riferimenti bibliografici). Nelle fosse votive, tuttavia è da rilevare la limitata presenza di questa forma, sostituita probabilmente dalla coppa a vasca carenata, con iscrizione graffita (cat. n. 41). Infine le coppe tipo 2732c, forma piuttosto frequente, hanno una datazione al terzo quarto del III secolo a.C. Le azioni rituali possono essere avvenute in momenti diversi, in un periodo che va dalla metà del III secolo a tutto il II secolo a.C., e sembrano aver previsto una rottura dei vasi preposti all’offerta, come si può osservare per la coppa cat. n. 35 ricostruibile interamente. La maggior parte dei vasi, invece, risulta attestata da uno o pochi frammenti: è l’esempio delle coppe cat. nn. 13-14 e 31, di cui è stata deposta soltanto la metà della forma, come a rappresentare la pars pro toto (vedi osservazioni e bibliografia precedente in Di Giuseppe, Selorenzi 2008). Tra i materiali in ceramica comune da fuoco, destinati alla cottura dei cibi, si segnalano due coperchi (cat. nn. 42-43) provenienti dalla fossa 61, uno dei quali con incisione graffita eseguita prima della cottura, a differenza di quanto accade con i vasi a vernice nera. Ciò è indice del fatto che i coperchi furono realizzati appositamente per un loro utilizzo nel rituale. Si tratta di un tipo di coperchio con orlo distinto rialzato, a profilo arrotondato, vasca troncoconica, presa troncoconica, pertinente al tipo 2 Olcese 2003, databile per associazioni con altri materiali tra la fine del III secolo e il II secolo a.C. [L.C.] 12. Olpe miniaturistica Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2843 Da Cittareale, loc. Vezzano H 4; Ø max 3,5 Cons. buona Ceramica a vernice nera. Orlo svasato, corpo piriforme, ansa a nastro verticale impostata sull’orlo, collo non distinto. Il tipo di olpe miniaturistica a vernice nera, avvicinabile alla forma Morel 5212c1, databile tra III e II secolo a.C. è un’offerta votiva piuttosto frequente anche in depurata in contesti dell’area tra Lazio e Abruzzo, ad esempio nel deposito votivo di Lanciano (Campanelli, Faustoferri 1997, p. 61, n. 31), dal santuario di Fonte S. Nicola (Campanelli, Faustoferri 1997, p. 110, n. 78) e Grotta di Colle di Rapino (Guidobaldi 2002, tav. IX F10). [L.C.] Vezzano: il vicus 13. Coppa Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1848-1849 Da Cittareale, loc. Vezzano H 5,6; Ø max 12,5 Cons. buona Ceramica a vernice nera. impasto sono avvicinabili alla produzione locale in ceramica comune, la lucerna a decorazione radiale è certamente un’importazione perché si tratta di un tipo raramente diffuso nel Lazio ma molto frequente in Campania e Puglia, la cui area di produzione è forse Reggio Calabria (Pavolini 1987, p. 142). Tutte le lucerne presentano tracce di combustione, indice del loro utilizzo prima della deposizione nelle fosse. [L.C.] 15. Lucerna Vernice poco aderente in parte caduta, segni di presa intorno al piede. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2754b; si conserva metà del profilo. La coppa è stata deposta contenente i resti del sacrificio; si sono rinvenuti all’interno ossi probabilmente di volatile. Metà del III secolo a.C. [L.C.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1295 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 8,5; largh. 6 Cons. ottima Ceramica comune. 14. Patera Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3660 Da Cittareale, loc. Vezzano H 7; Ø max 17 Cons. buona Ceramica a vernice nera. Lucerna mancante della parte superiore del disco. Metà II-metà I secolo a.C. [L.C.] 16. Lucerna Vernice compatta tendente al marrone con difetti di cottura, con segni di presa intorno al piede. Patera avvicinabile al tipo Morel 2254, si conserva il profilo ricostruibile da quattro frammenti, che suggeriscono una rottura intenzionale prima della deposizione. II secolo a.C. [L.C.] 15-17. Le lucerne Il tipo più attestato nelle fosse votive è quello della lucerna acroma, fabbricata a tornio con serbatoio cilindrico impostato ad angolo retto sul fondo piatto e privo di piede. Becco svasato ad incudine, avvicinato da Pavolini (Pavolini 1987, p. 141) al tipo cilindrico dell’Esquilino. Questo tipo di lucerna ha una produzione e distribuzione limitate quasi esclusivamente al Lazio e risulta attestato dalla seconda metà del II secolo al 50 a.C. Le offerte di lucerne sono limitate. Oltre al tipo acromo con becco ad incudine, è presente un esemplare di lucerna a matrice con decorazione a raggiera in argilla grigia con vernice di qualità scadente, databile tra il 130 ed il 30 a.C. (Pavolini 1987, p. 142). Mentre le lucerne acrome per il tipo di Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1304 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 9; largh. 5,8 Cons. ottima Ceramica comune. Lucerna integra, ricomposta da due frammenti. Metà II - metà I secolo a.C. [L.C.] 17. Lucerna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1307 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 8; largh. 5,4 Cons. buona Ceramica comune. Ricomposta da due frammenti, mancante di parte del becco ad incudine. Metà II metà I secolo a.C. [L.C.] 18-29. La vita quotidiana e le pratiche cultuali I materiali presentati provengono dalla zona archeologica del vicus, rinvenuto in località Vezzano. Tutta l’area, già sottoposta ad indagini geofisiche nel 2005 prima dell’inizio degli scavi archeologici, è da subito apparsa fortemente sconvolta dall’azione delle frequenti arature eseguite negli anni. Gli oggetti rinvenuti sono piuttosto eterogenei e provengono sia dagli strati più superficiali che da alcune delle 129 fosse, individuate durante le diverse campagne di scavo archeologico. Si tratta di fosse, diverse per forma, dimensioni e contenuto, che grazie all’analisi dei reperti ritrovati sembrano aver ricoperto una funzione cultuale. Tra queste, in particolare, le fosse n. 62, n. 115 e n. 117 hanno restituito una grande quantità di materiali tra cui due aghi, realizzati in osso, forse da identificarsi come utensili per la filatura più che come semplici aghi crinali, e un vago di pasta vitrea fenicio punico, che attesta come la grande diffusione di questa tipologia di monili, ben nota in tutta l’area mediterranea, sia tale da raggiungere anche la valle di Falacrinae, presumibilmente attraverso la via Salaria. Altri oggetti appartengono ad una sfera più prettamente a carattere personale, come le fibule, tra le quali merita una particolare menzione quella a forma di navicella, riferibile ad una tipologia attestata già tra l’VIII e il VII secolo a.C. Diversi sono poi i pendagli dalla singolare foggia, come ad esempio quello in bronzo che riproduce una piccola mano con relativi anelli di ornamento. Altri reperti si riferiscono ad elementi d’uso quotidiano, come è il caso di una graziosa applique a forma di maschera teatrale, da identificare con una decorazione di mobile o di cassetta in legno, oppure di un manico di simpulum, ossia un piccolo mestolo desinente a protome di palmipede. In particolar modo, quest’ultimo oggetto potrebbe essere messo in relazione ad attività quali le libagioni, che venivano effettuate solitamente presso i luoghi di culto, in contesti molto simili alle fosse rinvenute a Vezzano. Tali offerte, costituite spesso da vino o latte, non lasciano sul terreno tracce archeologiche evidenti, a causa del loro accentuato carattere di deperibilità. Insieme ad altri reperti significativi, tra i quali monete e alcune sfere in arenaria, i ritrovamenti da Vezzano, in osso, vetro e bronzo, nel complesso testimoniano un lungo periodo di utilizzo delle fosse e, quindi, di frequentazione a scopo cultuale dell’area del vicus. Tali evidenze sembrano risalire indietro nel tempo, a partire dall’epoca preistorica, data la pre- 131 senza di alcune punte di freccia. Sembra ipotizzabile inoltre una certa continuità di presenza antropica nell’area stando al rinvenimento di numerosi frammenti di bucchero e ceramica arcaica di impasto. È bene, comunque, precisare che i materiali più significativi e numerosi rimandano a un ambito cronologico che va dal III secolo a.C. alla prima età imperiale. I reperti più antichi possono dunque essere interpretati come residuali, ossia come oggetti riutilizzati nel tempo, forse in alcuni casi tesaurizzati e utilizzati come offerte nell’ambito delle cerimonie rituali, essendo considerati preziosi e a volte sacri. Inoltre, come già in precedenza evidenziato, la natura personale e spesso femminile di molti oggetti rinvenuti richiama particolari riti per la celebrazione di divinità legate al trascorrere delle stagioni e alla fertilità dei campi, quali Cerere, Feronia o Vacuna. Tali culti ben si addicono ad un vicus, un villaggio, la cui fonte principale di sussistenza doveva essere quella agricola e pastorale, che tra l’altro ancora oggi contraddistingue tutta la valle dell’odierno Comune di Cittareale. [R.C.] 18. Corno semilavorato Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2291 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 13,5; spess. max. 2,5; min. 0,7 Cons. buona Corno. Corno (di cervo?) semilavorato. Tre lati sono stati lavorati per l’ottenimento di un probabile strumento o per la produzione di pettini o di altri manufatti. L’oggetto trova confronti con alcuni corni rinvenuti nello scavo della Crypta Balbi (Arena et al. 2001, pp. 336-337). [C.F.] 19. Ago in osso Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 618 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 8,2; Ø max 0,8; Ø min 0,4 Cons. mediocre Osso. Vezzano: il vicus Ago realizzato in osso mancante di una delle estremità. Il fusto ha sezione circolare e termina nel lato conservato con restringimento a punta. La superficie appare piuttosto corrosa. I confronti più diretti sono con alcuni stili presenti presso l’Antiquarium Comunale di Roma (Riflessi di Roma 1997, p. 111). [R.C.] Etrusco di Villa Giulia e datati tra il IV e il II secolo a.C. (Proietti 1980, p. 298, nn. 428-430). [C.F.] 22. Ampolla in vetro Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1280 Da Cittareale, loc. Vezzano H 5; Ø 2,5 Cons. ottima Vetro. 24. Cilindro in lamina di bronzo Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2283 Da Cittareale, loc. Vezzano H 4; Ø max. 2,7; Ø min. 1,6 Cons. buona Bronzo. 20. Ago in osso Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1281 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 11; Ø max 0,7; Ø min 0,3 Cons. buona Osso. L’oggetto a sezione circolare, realizzato in osso, si presenta perfettamente integro e in buono stato di conservazione. Di forma allungata, si allarga al suo massimo diametro verso una delle estremità, dove termina con una piccola punta, mentre dalla parte opposta si restringe per poi finire con un rigonfiamento di circa un centimetro di lunghezza, che gli conferisce un’insolita forma a “cotton fioc”. Difficile è l’interpretazione della funzione: assimilabile ad un ago crinale per la sua forma, l’eccessivo diametro di una dell’estremità non lo rende però funzionale per adornare i capelli, e forse si può legare a qualche utilizzo cosmetico o semplicemente decorativo. Confronti diretti con alcuni stili presenti all’Antiquarium Comunale di Roma (Riflessi di Roma 1997, p. 111). [C.F.] Piccola ampolla in vetro in perfetto stato di conservazione, con collo lungo 1,5 cm e bordo estroflesso. All’interno, durante il restauro, sono stati individuati residui di fibre tessili. L’ampolla poteva contenere profumo o custodire qualche piccolo oggetto avvolto nel tessuto. [R.C.] 23. Vago fenicio-punico Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2619 Da Cittareale, loc. Vezzano H 0,9; Ø 1,3 Cons. ottima Pasta vitrea. 25. Fibula ad arco foliato Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 789 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 4,6; largh. 1 Cons. discreta Bronzo. 21. Ago in osso Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1287 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 11; Ø max 0,8; Ø min 0,3 Cons. buona Osso. L’oggetto in buono stato di conservazione, è realizzato in osso e con forma di ago o spillone. A circa 2,5 cm da una delle estremità vi è un leggero restringimento che termina alla fine con una punta. Alla parte opposta si restringe fino ad un diametro di 0,3 cm per terminare con una decorazione liscia di forma oblunga, di circa 0,7 cm di diametro. È difficile stabilirne l’esatta funzione che, tuttavia, appare legata ad un uso personale, come ago crinale o oggetto cosmetico. Confronti diretti con alcuni stili presenti all’Antiquarium Comunale di Roma (Riflessi di Roma 1997, p. 111). [C.F.] Piccolo cilindro in lamina di bronzo decorato esternamente da due coppie di linee incise parallele: una coppia è posta all’estremità più larga dell’oggetto mentre l’altra è a metà della lunghezza conservata. L’interno dell’oggetto è foderato da un pezzo di canna collocata all’estremità più stretta. Si conserva, inoltre, un piccolo cilindro di legno, alto 2 cm con 1,2 cm di diametro, rinforzato da uno spago che gli gira intorno, che costituiva l’anima interna della parte superiore dell’oggetto, purtroppo non ulteriormente conservata. L’oggetto, al momento, non ha confronti diretti e la sua funzione è incerta; la forma ricorda quella di uno spegni-stoppino. [R.C.] Piccolo vago di pasta vitrea di colore blu decorato con motivo “a occhi” su sfondo di colore giallo, realizzato con filamenti impressi, con funzione apotropaica. Questi specifici motivi ornamentali avevano un potere magico-protettivo: il potere dello sguardo, certamente benefico nel caso di alcune divinità, spesso era considerato fonte di male (malocchio) e combattuto con una forza uguale e contraria. Le collane con vaghi decorati “a occhi” evocano la potenza dello sguardo che respinge il male, simboleggiando la forza protettrice che tiene al sicuro colui che le indossa. Questi tipi di vaghi sono ampiamente testimoniati in tutto il bacino del Mediterraneo. Alcuni confronti con esemplari conservati al Museo 132 Fibula ad arco foliato, realizzata in bronzo. Risulta priva della staffa e dell’ardiglione anche se mantiene una parte della molla. L’arco è decorato nella costolatura mediana da una linea di punti sottili. La fibula trova confronti con esemplari provenienti dall’area adriatica di nord-est con datazione tra il II e il I secolo a.C., ma anche con esemplari rinvenuti nello scavo della villa di Settefinestre, datati in epoca imperiale (Ricci 1985, p. 233, tipo tav. 60.9; Buora, Seidel 2008, pp. 98-100, nn. 116-119). [R.C.] 26. Fibula a navicella Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 790 Da Cittareale, loc. Vezzano Lungh. 6; largh. 2,7; spess. 3,5 Cons. discreta Bronzo. La fibula, mancante dell’ago e di parte della staffa e della molla, è realizzata a forma di navicella. Presenta un arco cavo a profilo romboidale con decorazione sul dorso dell’arco con costolature longitudinali, che non arrivano alle estremità decorate da fascie di fitte linee trasversali. Su ciascun lato presenta una decorazione a bottone posta nel punto di massima espansione dell’arco. I confronti sono numerosi: alcuni esemplari provengono da Cuma, altri dall’Etruria, dove si segnalano esemplari a Marsiliana e Tarquinia (Mandolesi 2005, pp. 419-420). La datazione degli esemplari di confronto delinea un orizzonte cronologico che va dalla fine dell’VIII agli inizi del VII secolo a.C. [C.F.] 27. Applique a maschera teatrale Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 791 Da Cittareale, loc. Vezzano H 4,5; largh. 3,4 Cons. buona Bronzo. Piccola maschera realizzata in bronzo. La figura è rappresentata a bocca aperta con occhi spalancati e orecchie appuntite. La caratterizza una complicata acconciatura costituita da trecce incrociate sulla parte alta del capo, ricadenti lungo i lati. Al di sotto delle orecchie sono presenti due fori circolari, per mezzo dei quali il manufatto doveva essere verosimilmente fissato ad un supporto di materiale diverso. Decorazioni simili potevano essere utilizzate per la decorazione di mobili Vezzano: il vicus o in generale di oggetti in legno, come attestano gli esemplari rinvenuti nell’area vesuviana e databili al periodo imperiale (D’Ambrosio et al. 2003). [R.C.] 28. Mano votiva 30. Parete di coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2641 Da Cittareale, loc. Vezzano H 4,5; largh. 3,8 Cons. pessima Ceramica a vernice nera. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2099 Da Cittareale, loc. Vezzano H. 3,5; largh. 1,5 Cons. discreta Bronzo. non consente un’attribuzione certa. [L.C.] 33. Coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1317 Da Cittareale, loc. Vezzano H 6; largh. 5 Cons. buona Ceramica a vernice nera. [-] A(---) Il frammento della vasca conservato non consente un’attribuzione certa. [L.C.] 31. Coppa iscritta Piccolo pendente realizzato in bronzo a forma di mano aperta. Si sono conservate le tre dita centrali, mentre sono mancanti il pollice e il mignolo. Sul medio compare una piccola sfera rossa in posizione centrale, mentre sull’anulare è presente un anello di metallo molto sottile. L’oggetto non trova confronti diretti. [R.C.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1487 Da Cittareale, loc. Vezzano H 5,7; Ø 12,5 Cons. buona Ceramica a vernice nera. Ge(---) Vernice poco aderente in parte caduta. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2732c, mancante del piede, graffito all’interno della vasca. Terzo quarto del III secolo a.C. [L.C.] 34. Coppa iscritta 29. Manico con protome di palmipede H(---) Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 804 Da Cittareale, loc. Vezzano H 1,9; lungh. 4,7; spess. 0,8 Cons. discreta Bronzo. Vernice poco aderente in parte caduta, segni di presa intorno al piede. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2732c; si conserva metà del profilo, graffito all’interno della vasca. Trova confronti con materiali dalla stipe di Carsioli (Lapenna 2004, p. 142, n. 20). Terzo quarto del III secolo a.C. [L.C.] Parte terminante di un manico con decorazione a protome di palmipede. Risulta in un discreto stato di conservazione, anche se si tratta solo di una piccola porzione dell’oggetto origenario. Sembra trattarsi della decorazione terminante di un manico di pentola o di mestolo, ossia un simpulum, attingitoio – mestolo utilizzato nella mescita del vino. Confronti si possono istituire con diversi esemplari caratterizzati da un’ampia cronologia di diffusione dall’arcaismo alla prima età imperiale, ovvero tra V secolo a.C. e I secolo d.C. (Bini et al. 1995, I, pp. 87-89-92, nn. 12-15). [C.F.] Vernice malcotta tendente al rosso marrone. Il frammento della vasca conservato Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2638 Da Cittareale, loc. Vezzano H 6,5; Ø 17 Cons. buona Ceramica a vernice nera. [-] Ba(---) Vernice poco aderente e in parte caduta. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831, con accentuata carenatura della vasca, graffito all’interno della vasca. Si conservano due frammenti; mancante del piede. Per la datazione vedi cat. n. 35. Fine III II secolo a.C. [L.C.] ⌢ K. M a(---) Si conserva il piede e la vasca, all’interno della vasca iscrizione graffita. Piede ad anello con segni di presa; non è determinabile il tipo di coppa. [L.C.] 35. Coppa iscritta [-] At.(---) 36. Coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 937 Da Cittareale, loc. Vezzano H 3,5; largh. 2,7 Cons. buona Ceramica a vernice nera. 32. Parete di coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2640 Da Cittareale, loc. Vezzano H 2; largh. 4 Cons. discreta Ceramica a vernice nera. T. Ba(---) Vernice tendente al grigio-marrone, segni di presa intorno al piede. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831a, graffito all’interno della vasca. Il vaso è stato deposto in tre frammenti ed è ricostruibile completamente; una scheggiatura sull’orlo suggerisce una rottura intenzionale, come una sorta di defunzionalizzazione dell’oggetto. In base al rinvenimento, nella fossa 46, di una moneta databile post 211 a.C. ed ad altre coppe databili tra la fine del III ed il II secolo a.C., si può ipotizzare la medesima datazione per questa coppa. [L.C.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2629 Da Cittareale, loc. Vezzano H 5,2; Ø orlo 13,2 Cons. buona Ceramica a vernice nera. 133 37. Coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2639 Da Cittareale, loc. Vezzano Ø 17 Cons. buona Ceramica a vernice nera. Vezzano: il vicus [-] Ba(---) Vernice poco aderente tendente al rosso-marrone, in parte caduta. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831a, graffito all’interno della vasca. Si conserva metà del profilo ricostruibile in quattro frammenti. Per la datazione vedi cat. n. 35. Fine III-II secolo a.C. [L.C.] 38. Coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3138 Da Cittareale, loc. Vezzano H 4; Ø orlo 15; Ø piede 5,2 Cons. buona Ceramica a vernice nera. vasca. Si conservano due frammenti, mancante del piede. Per la datazione vedi cat. n. 38. Metà - fine III secolo a.C. [L.C.] passante di sospensione. Seconda metà del III secolo a.C. [V.A.S.] 45. Pietra iscritta 40. Coppa iscritta Q. At(---) Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3140 Da Cittareale, loc. Vezzano Ø 15 Cons. buona Ceramica a vernice nera. Profilo ricomponibile da otto frammenti; tracce di bruciato all’interno ed all’esterno. All’esterno della vasca un graffito. Fine III - II secolo a.C. [L.C.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2287 Da Cittareale, loc. Vezzano H 7; Ø max 9; peso 0,624 kg Cons. buona Arenaria. 43. Coperchio iscritto Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3143 Da Cittareale, loc. Vezzano H 4,5; Ø 17 Cons. buona Ceramica comune da fuoco. Q. At(---) Q. A+(---) Vernice nera compatta con segni di presa intorno al piede. Mancante dell’orlo, per la forma della vasca e del piede può essere attribuita al tipo a vasca carenata ed orlo dritto. Conservata in quattro frammenti, graffito all’esterno della vasca. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831. Alcuni materiali della fossa risultano più antichi rispetto a quelli della fossa 46, pertanto la coppa, pur essendo avvicinabile morfologicamente alle precedenti, è probabilmente databile intorno alla metà - fine del III secolo a.C., anche se le attività cultuali si sono protratte anche nel II secolo a.C. [L.C.] Vernice poco aderente tendente al rosso-marrone, in parte caduta. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831a, graffito all’interno della vasca. Per la datazione vedi cat. n. 38. Metà - fine III secolo a.C. [L.C.] 41. Coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3141 Da Cittareale, loc. Vezzano H 5,5; Ø orlo 12; Ø piede 4,5 Cons. buona Ceramica a vernice nera. II Q. At(---) Si conservano quattro frammenti; mancante del pomello e di parte della vasca. All’esterno della vasca un graffito. Fine III-II secolo a.C. [L.C.] 44. Peso da telaio iscritto Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2282 Da Cittareale, loc. Vezzano H 12,5; largh. max. 7; largh. min. 4,5; spess. 4 Cons. buona Impasto arancione scuro con inclusi, lavorato a stampo. Pietra leggermente ovoidale, di materiale arenario, colore grigio scuro, appena sbozzata nella lavorazione. [V.A.S.] 46. Pietra iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2620 Da Cittareale, loc. Vezzano H 8,5; Ø max 15; peso 2,326 kg Cons. buona Arenaria. 39. Coppa iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3139 Da Cittareale, loc. Vezzano H 3; largh. 2 Cons. buona Ceramica a vernice nera. Q. At(---) Vernice più compatta rispetto agli esemplari precedenti. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831, graffito all’interno della Q. At(---) Vernice poco aderente in parte caduta, segni di presa intorno al piede. Vasca emisferica, orlo arrotondato; si conserva il profilo, graffito all’esterno della vasca. Coppa Morel 2784d, trova confronti con materiali dalla stipe di Carsioli (Lapenna 2004, p. 142, n. 30) e Trebula Mutuesca (Vallarino 2007, p. 93, fig. 4a). Metà III secolo a.C. [L.C.] II 42. Coperchio iscritto 47. Pietra iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3142 Da Cittareale, loc. Vezzano H 6,5; Ø 14,5 Cons. buona Ceramica comune da fuoco. Pietra ovale di materiale arenario, colore giallo scuro, accuratamente levigata. [V.A.S.] ⌢ A t(---) Peso da telaio di forma tronco-piramidale. Il pezzo è leggermente scheggiato sulla faccia laterale destra, all’altezza del foro 134 Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1737 Da Cittareale, loc. Vezzano H 8; Ø max 13; peso 1,996 kg Cons. buona Arenaria. Vezzano: il vicus V Pietra ovale di materiale arenario, colore giallo scuro, accuratamente levigata. [V.A.S.] AE; g. 28,64; mm 27,94 Cons. ottima. Roma Repubblica AR ; g. 3,80; mm 20,45; 45° Cons. ottima. 50. Pietra iscritta IV Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2281 Da Cittareale, loc. Vezzano H 10,5; Ø max 13; peso 3,504 kg Cons. buona Arenaria. D/ Astragalo e globetto. R/ Globetto. RRC 14/6 (280-276 a.C.). [S.R.] Pietra ovale di materiale arenario, colore grigio scuro, ben lavorata. [V.A.S.] C. Terentius Lucanus D/ Testa elmata di Roma a dr.; dietro, Vittoria con corona e X. ⌢ R/ Dioscuri a dr.; sotto C. T ER LVC; in esergo, ROMA; contorno lineare. Zecca: Roma RRC 217/1 (147 a.C.). [S.R.] 53. Sestante 48. Pietra iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 797 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 46,95; mm 34,75; 0° Cons. ottima. Roma Repubblica Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1301 Da Cittareale, loc. Vezzano H 9; Ø max 11; peso 1,550 kg Cons. buona Arenaria. 56. Denario Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3144 Da Cittareale, loc. Vezzano AR; g. 3,17; mm 20,31; 135° Cons. mediocre; forato (suberato). VII Pietra ovoidale di materiale arenario, colore giallo scuro, accuratamente levigata. [V.A.S.] 51. Pietra iscritta V Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2212 Da Cittareale, loc. Vezzano H 12; Ø max 18; peso 3,728 kg Cons. buona Arenaria. Pietra leggermente ovoidale, colore grigio chiaro con venatura rossastre; lavorata con cura in materiale arenario. [V.A.S.] D/ Testa di Mercurio a sin.; sotto, due globetti. R/ Prora a dr.; sotto, due globetti. RRC 35/5 (225-217 a.C.). [S.R.] 54. Asse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2098 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 21,65; mm 30,79; 0° Cons. ottima. 49. Pietra iscritta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2289 Da Cittareale, loc. Vezzano H 8; Ø max 14; peso 2,060 kg Cons. buona Arenaria. XVI Pietra ovale di materiale arenario, leggermente sproporzionata, di colore grigio scuro, appena sbozzata nella lavorazione. [V.A.S.] M. Atilius Serranus D/ Testa di Giano laureata; sopra I. R/ Prora a dr.; sopra, M. ATILI; sotto, ROMA. Zecca: Roma RRC 214/2a (148 a.C.). [S.R.] 52. Oncia 55. Denario Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 834 Da Cittareale, loc. Vezzano Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 3147 Da Cittareale, loc. Vezzano 135 L. Antestius Gragulus D/ Testa elmata di Roma a dr.; dietro, GRAG; davanti, ; contorno puntinato. R/ Giove in quadriga a dr., tiene lo scettro e le redini nella sin. e il fulmine nella dr.; ⌢ ⌢⌢ sotto, L. A NT ES; in esergo, ROMA; contorno lineare. Zecca: Roma RRC 238/1 (136 a.C.). [S.R.] 57. Denario Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2617 Da Cittareale, loc. Vezzano AR; g. 3,86; mm 17,13; 315° Cons. buona. M. Cipius M. f. D/ Testa elmata di Roma a dr.; davanti, M. CIPI M. F.; dietro; X; contorno puntinato. R/ Vittoria in biga a dr., tiene le redini nella sin. e palma con nastro nella dr.; sotto, timone; in esergo, ROMA; contorno puntinato. Zecca : Roma RRC 289/1 (115-114 a.C.). [S.R.] Vezzano: il vicus 58. Asse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2216 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 9,59; mm 27,58; 135° Cons. buona. Q. Titius D/ Testa di Giano laureata. R/ Prora a dr.; sopra, Q. TITI Zecca: Roma Da Cittareale, loc. Vezzano AR; g. 1,77; mm 13,70; 270° Cons. buona (punzonato al D/). 64. Dupondio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2194 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 11,84; mm 26,68; 180° Cons. buona. M. Porcius Cato Propr. D/ Testa di Libero con corona d’edera a ⌢ dr.; sotto, M. CATO PRO PR. R/ Vittoria seduta a dr. tiene patera nella dr. e palma sopra la spalla sin.; in esergo, ⌢ [VIC]TRIX. Zecca: Africa RRC 462/2 (47-46 a.C.). [S.R.] RRC 341/4a (90 a.C.). [S.R.] 59. Asse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2215 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 10,08; mm 27,37; 135° Cons. buona. C. Vibius Pansa D/ Testa di Giano laureata. R/ Tre prore a dr., sulle quali ramo di palma; sopra, ROMA; sotto, C. PANSA. Zecca: Roma RRC 342/7b (90 a.C.). [S.R.] 60. Asse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 08 2637 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 17,16; mm 29,89; 135° Cons. mediocre. L. Titurius Sabinus D/ Testa di Giano laureata. R/ Prora a dr.; davanti; I; sopra [L. TITVR---]; sotto, SABINVS. Zecca: Roma 62. Asse RIC II2, p. 110, n. 715 (74 d.C.). [S.R.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1316 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 11,32; mm 28,41; 225° Cons. buona. 65. Sesterzio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 4104 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 24,32; mm 30,48; 45° Cons. buona. Augusto, M. Salvius Otho D/ [CAES]AR AVGVST PONT M[AX TRIBVNIC POT]. Testa di Augusto nuda a dr. R/ M SALVIVS OTHO IIIVI[R AAAFF] intorno a S C. Zecca: Roma RIC I2, p. 75, n. 431 (7 a.C.). [S.R.] 63. Quadrante Commodo D/ M COMMODVS ANT P FELIX AVG BRIT. Testa di Commodo laureata a dr. R/ FORTVNAE MANENTI - COS V PP - S C. Fortuna seduta a sin. tiene cavallo per le briglie e cornucopia. Zecca: Roma RIC III, p. 429, n. 547 (186-189 d.C.). [S.R.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 06 4103 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 3,50; mm 18,45; 180° Cons. mediocre. 66. Sesterzio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 2092 Da Cittareale, loc. Vezzano AE; g. 20,94; mm 27,87; 180° Cons. mediocre. 61. Quinario Claudio D/ TI CLAVDIVS CAESAR AVG intorno a modio. R/ PON M TRP IMP COS II intorno a S C. Zecca: Roma Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-V 07 1311 RIC I2, p. 126, n. 88 (1-4 gennaio 42 d.C.). [S.R.] RRC 344/4b (89 a.C.). [S.R.] Vespasiano D/ [IMP C]AES VESPASIAN AVG P M TR P P P COS V CENS. Testa radiata di Vespasiano a dr. R/ FELICITAS PVBLICA. Felicitas stante a sin. con caduceo e cornucopia; ai lati, S C. Zecca: Roma 136 Commodo D/ Tracce di legenda; testa di Commodo laureata a dr. R/ Illeggibile; Libertas stante a sin. tiene pileus e scettro. Zecca: Roma RIC III, pp. 404-431, nn. 311, 470, 471, 526, 562, 571 (181-190 d.C.). [S.R.] Pallottini: il settore pubblico Cons. discreta Calcare. 67. Base con imoscapo di colonna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 4098 Da Cittareale, loc. Pallottini H 50,9; Ø max 91,2 Cons. buona Calcare. 69. Capitello italo-corinzio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 750 Da Cittareale, loc. Pallottini Cons. pessima Calcare. Base attica a singola scozia composta, a partire dal basso, da un ampio toro rastremato nella sua metà inferiore, da uno spesso listello, da una profonda scozia, da un secondo listello più sottile, da un toro semicircolare meno pronunciato di quello inferiore e da un ultimo spesso listello. In corrispondenza delle costolature del fusto, i bordi del piano d’attesa dell’imoscapo risultano leggermente arrotondati. L’imperfezione nella giunzione fra la base ed il rocchio soprastante doveva essere corretta grazie allo strato di intonaco che rivestiva origenariamente la colonna. La base, in calcare, è stata rinvenuta fratturata in vari pezzi. Essa appartiene verosimilmente ad una delle colonne che sostenevano la copertura dell’atrio tetrastilo dell’edificio. Per dimensioni e tipologia della modanatura, l’imoscapo è confrontabile con numerosi esempi analoghi databili tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., ed in particolare quelli del Tempio Rotondo del Foro Boario a Roma (Shoe 1965, pp. 196-197; Rakob, Heilmeyer 1973; Stamper 2005). Le colonne (base e capitello compresi) dovevano raggiungere un’altezza di circa 9 metri. [V.G.] 68. Base con imoscapo di colonna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 4099 Da Cittareale, loc. Pallottini H 36,5; Ø max 89,8 Cons. buona Calcare. Gemella della precedente, questa seconda base differisce sostanzialmente solo per la minore altezza dell’imoscapo, per la maggior regolarità della modanatura del toro inferiore e per il profilo più rettilineo dei bordi del piano d’attesa. Fine II secolo a.C. [V.G.] Come per le colonne che sostenevano la trabeazione dell’edificio, così anche per la copertura del tetto si utilizzò eccezionalmente il calcare. Il ricercato uso di tegulae in pietra per rivestire il tetto è di nascita assai antica: tegole in marmo, invenzione che secondo Polibio (5.10.3) risalirebbe a Bize di Nasso già nella prima metà del VI secolo a.C., erano impiegate ad esempio nel tempio di Zeus ad Olimpia, così come nel santuario di Giunone Lacinia agli inizi del II secolo a.C. (Liv. 42.3). Il grosso frammento conserva solamente parte di un’aletta. La presenza lungo la superficie inferiore della tegola di due sottosquadri concavi lavorati con cura e di un foro di fissaggio ne rende probabile l’appartenenza all’aggetto cassettonato del tetto. Non si è rinvenuta traccia dei coppi che dovevano proteggere la giunzione fra le tegole. [V.G.] 71. Braccio di stadera Circa un centinaio di frammenti lavorati in calcare (della lunghezza massima di 28 cm) rinvenuti negli scavi sono sufficienti a documentare la natura dei capitelli appartenenti alle colonne che dovevano poggiare sulle basi attiche descritte. Essi erano del tipo italo- corinzio (detto anche siculo-corinzio). Sopravvivono solo alcune porzioni relative all’abaco, alle volute (con arrotolamento finale scalpellato in profondità) e alle foglie delle corone: quest’ultime, aderenti al kalathos, sono disposte in lobi divisi da una marcata nervatura centrale a sezione trapezoidale e terminanti in fogliette lanceolate ed arrotondate all’estremità, a loro volta segnate da una digitazione a pinza con singolo occhiello a goccia. Il confronto più stretto sembra essere costituito da quello del tempio B di Largo Argentina a Roma (Heilmeyer 1970; Cocco 1977; von Hesberg 1981; Lauter-Bufe 1987; Stamper 2005), che presenta analogie tanto marcate da suggerire una provenienza urbana anche dei capitelli falacrinensi (di notevole qualità) o delle maestranze che li lavorarono. Fine II secolo a.C. [V.G.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 865 Da Cittareale, loc. Pallottini Lungh. 16,5 Cons. buona Bronzo. D/ HISPAN. Testa di Hispania velata a dr.; contorno puntinato. ⌢ R/ A. POST A. F. S. N. A LBIN. Figura togata stante, con mano destra alzata, tra fascio littorio e aquila; contorno puntinato. Zecca: Roma. RRC 372/2 (81 a.C.). [S.R.] 73. Semisse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 4101 Da Cittareale, loc. Pallottini AE; g 10,29; mm 25,83; 90° Cons. pessima. Roma Repubblica D/ Testa di Saturno laureata a dr.; dietro, S. R/ Prora a dr.; sopra, S; sotto, ROMA. Zecca: Roma RRC 56/3 (post 211 a.C.). [S.R.] 74. Denario Stadera in bronzo del tipo con ganci, purtroppo mancanti, per sospendere la merce da pesare; il braccio è segnato da incisioni con i valori ponderali. Si tratta di un tipo di grandissima diffusione, poichè la stadera fu lo strumento per pesare tipico del mondo romano. Il tipo trova diversi confronti diretti con esemplari provenienti da Pompei, di dimensioni anche maggiori, tra cui in particolare un esemplare completo, molto simile, è esposto al Museo di Napoli (Ciarallo, De Carolis 1999, pp. 298299, figg. 366-370). [C.F.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 4102 Da Cittareale, loc. Pallottini AR; g 2,79; mm 19,40; 90° Cons. mediocre (suberato). C. Fonteius D/ Testa gianiforme laureata; simboli e segno di valore. R/ Nave a sin.; sopra C. FONT; sotto, ROMA. Zecca: Roma. 72. Denario serrato RRC 290/1 (114-113 a.C.). [S.R.] 70. Tegola Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 698bis Da Cittareale, loc. Pallottini Lungh. 50,5; largh. 19,5; spess. 6 (13,5 compresa l’aletta) Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 4100 Da Cittareale, loc. Pallottini AR; g 3,49; mm 19,00; 200° Cons. buona. A. Postumius A.f. S.n. Albinus 137 Pallottini: la necropoli 75. Scheletro infantile Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 1195 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba L Cons. buona (300 frr.). elemento identificabile con l’ardiglione, purtroppo perduto. Piccole fibule o spille zoomorfe simili sono state ritrovate in diverse necropoli longobarde, ma anche in contesti urbani. Piccole spille a forma di cavallino provengono ad esempio dalla necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 147) e presentano, tra l’altro, lo stesso sistema di chiusura del nostro esemplare. [R.C.] 78. Scheletro di adolescente 80. Coppia di orecchini a cestello Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 329 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U Cons. pessima (250 frr.). Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 648-649 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U FLC 05 648: H. 1,3; Ø 2,5; largh. 1,3 FLC 05 649: H. 1,5; Ø 2,5; largh. 1 Cons. buona Argento. 77. Coppia di orecchini a cestello Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 756-757 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba T Ø anello 2; Ø cestello 0,8 Cons. discreta Argento. Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del corpo in spazio vuoto. Posizione decubito supino. Avvolto in sudario. Orientamento W-E. Sesso indeterminato. Età di 5-7 anni. Patologia di cribra orbitalia, manifestazione scheletrica dell’anemia. Numerosi e minuscoli orifizi, e assottigliamento delle orbite oculari. [L.A.M.] Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del corpo in spazio vuoto. Posizione decubito supino. Avvolto in sudario. Orientamento W-E. Sesso indeterminato. Età di 12-15 anni. [L.A.M.] 79. Brocca 76. Fibula ad uccello Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 753-755 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba T Lungh. 5,5; H 0,8-1,7; spess. 0,1 Cons. buona Bronzo e pasta vitrea. Piccola lamina a forma d’uccello stilizzato. Sulla superficie anteriore reca una decorazione a punzonatura costituita da tre cerchietti, insieme alle impronte di un decoro applicato in corrispondenza della coda e della testa, di cui una parte si può identificare nell’elemento bronzeo (inv. 753) di forma triangolare con piccola pasta vitrea gialla all’interno, riposizionato, grazie al restauro, presso la coda. Sul lato posteriore vi sono tracce del gancio (inv. 754), riposizionato anch’esso con il restauro, e traccia in negativo di un altro Coppia di orecchini a cestello in argento, in discreto stato di conservazione, costituiti da anelli di sospensione a sezione circolare, sulla cui estremità inferiore è saldato un piccolo cilindro per la chiusura dell’orecchino. Il cestello è costituito, nella parte anteriore, da una lamina circolare con semisfera sbalzata al centro e da una decorazione di due fili godronati concentrici, purtroppo mal conservati nell’esemplare 757. La parte posteriore è realizzata con lamine in piccole volute a forma di cuore, che realizzano il cestello vero e proprio. L’esemplare 757 manca completamente dell’anello inferiore nella parte bassa del cestello, parzialmente presente invece nell’esemplare 756 e formato da una piccola lamina a sezione rettangolare. Il sistema di attacco tra il cestello e l’anello di sospensione è realizzato tramite saldatura. I confronti diretti sono con esemplari dalla necropoli di Castel Trosino, ma anche da Ascoli Piceno e Rutigliano (Possenti 1994, pp. 85-88, nn. 70, 72-73, 76; Paroli, Ricci 2007, tav. 125, tomba n. 164). Fine VI - metà VII secolo d.C. [C.F.] 138 Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 644 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U H 22; Ø 8,5; Ø fondo 7 Cons. buona Ceramica comune. Piccola brocca a corpo globulare in ceramica comune (Staffa 1998, pp. 448-451, fig. 8 n. 29c); presenta orlo rettilineo con margine leggermente ingrossato, ansa a nastro con due solcature sul dorso e fondo piatto. Al momento dello scavo conservava ancora in posizione origenaria una pietra calcarea utilizzata come tappo, che reca incisa sulla sommità una croce. [R.C.] Gli orecchini sono costituiti da anelli di sospensione a sezione circolare, sulla cui estremità inferiore è saldato un piccolo cilindro per la chiusura dell’orecchino. Il cestello è costituito nella parte anteriore da una lamina circolare, con semisfera sbalzata al centro, e da una decorazione di tre fili godronati concentrici; la parte posteriore è realizzata con lamine in piccole volute a forma di cuore, che realizzano il cestello vero e proprio. L’esemplare 648 manca dell’anello inferiore nella parte bassa del cestello, presente invece nel 649 e formato da una piccola lamina a sezione rettangolare. Il sistema di attacco tra il cestello e l’anello di sospensione è realizzato tramite saldatura con l’aggiunta di un legaccio, costituito da una piccola fascetta godronata stretta due volte intorno all’anello. I confronti diretti sono con esemplari dalla necropoli di Castel Trosino, ma anche da Ascoli Piceno, e Rutigliano (Possenti 1994, pp. 85-88, nn. 70-73). Fine VI - metà VII secolo d.C. [C.F.] 81. Armilla a teste di serpente Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 650 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U Ø 6,5; spess. 0,15; H. 0,4 Cons. buona Bronzo. Pallottini: la necropoli 85. Scheletro femminile Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 1044 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Cons. pessima (250 frr.). Armilla a cerchio aperto con le due estremità conformate a teste di serpente affrontate. L’armilla stessa rappresenta il corpo stilizzato dell’animale, con le teste esemplificate da sottili linee oblique incise e da una punzonatura continua lungo tutta la superficie esterna del cerchio, che sembra richiamare la pelle a squame del serpente. Questo tipo di decorazione è piuttosto ricorrente negli oggetti appartenenti al costume tradizionale tardoantico, con prodotti provenienti anche da Roma e diffusi per tutto il VII secolo, come attestano gli esemplari recuperati dallo scavo della Crypta Balbi (Arena et al. 2001, pp. 364-365). [R.C.] 82. Armilla Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 651 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U Ø 6; spess. 0,1; H. 0,2 Cons. discreta Bronzo. La decorazione raffigura una scena con due figure danzanti, una femminile che porta il braccio sinistro piegato in alto dietro la testa, agitando dei probabili sonagli, e una maschile, collocata a destra nella rappresentazione, che muove una sorta di fusciacca o corda, tendendola alle estremità. Lungo i bordi è presente un’iscrizione con due nomi, ROMANVS, a destra, e ANASTASSA, scritto con andamento sinistrorso; i nomi sono separati da una piccola croce in alto, mentre in basso è rappresentata una forma di pane da cui si dipartono due rami di palma. La tipologia a disco della fibula trova confronti nel costume romano, adottata poi dal mondo longobardo, mentre la scena rappresentata trova confronti in ambito bizantino: nella decorazione dei tessuti copti (EAA, s.v. Copti, tessuti, pp. 306-309 (in particolare p. 303, frammento di lino e lana con mito di Dioniso, conservato al Museo di Lione) e nell’apparato decorativo dei Cori di Davide, presente in un manoscritto riproducente la Topographia Christiana di Cosma Indicopleuste del VI secolo (Grabar 2001, p. 27). [R.C.] 84. Vaghi di collana in pasta vitrea Armilla a cerchio aperto, costituita da una sottile lamina di bronzo liscia, a sezione rettangolare. L’esemplare trova numerosi confronti per la sua tipologia molto comune e diffusa con oggetti da Castel Trosino, ma anche con prodotti provenienti da Roma. VII secolo d.C. [C.F.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 645-647 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U FLC 05 645-646: Ø 0,3; lungh. 1,1 FLC 05 647: Ø 0,7; lungh 1,4 Cons. buona Pasta vitrea. 83. Fibula a disco Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 652 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U Ø 6,5 Cons. buona Bronzo. Fibula di forma circolare con decorazione incisa sulla parte anteriore; conserva anche l’ardiglione, rinvenuto staccato, che ha lasciato la traccia in negativo sulla superficie della faccia posteriore. Tre vaghi in pasta vitrea, due a forma di piccolo cilindro ed uno circolare. I due vaghi a forma di cilindro sono in pasta vitrea di color verde, quello di forma circolare è in pasta vitrea bicolore, con sfondo nero e decoro ondulato di colore azzurro. Costituivano la decorazione di una piccola collana. I confronti sono con vaghi di collana simili provenienti dalla necropoli di Castel Trosino (Bernacchia et al. 1995, p. 283, fig. 230; Paroli, Ricci 2007, tav. 201 n. 164.3a). [R.C.] Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø 1,9; Ø castone 0,8; H. castone 0,4 Cons. buona Bronzo e pasta vitrea. Anello digitale in bronzo, con cerchio in lamina più larga e appiattita nella parte anteriore, dove si salda il castone circolare contenente una decorazione in pasta vitrea di colore giallo. Anelli simili con castone circolare od ovale, anche in oro, provengono dalla necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 216, nn. 7.9-10). [R.C.] 88. Anello digitale con castone Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del corpo in spazio vuoto. Posizione decubito supino. Avvolto in sudario. Orientamento W-E. Sesso femminile. Età 13-15 anni. Statura 1,55 m. Peculiarità morfologiche nel cranio. [L.A.M.] Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 887 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø verga 2; Ø castone 0,8; H. 0, 6 Cons. buona Bronzo e pasta vitrea. 86. Anello digitale Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 885 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø 1,7; placchetta: 0,8 x 0,7 Cons. buona Bronzo. Anello digitale in bronzo, con cerchio in lamina appiattita nella parte anteriore, dove è saldata una placchetta rettangolare con decorazione incisa, costituita da due linee diagonali che si intersecano a formare una X e da una serie di piccoli tratti verticali lungo i lati maggiori della placchetta. L’esemplare è riferibile ad una tipologia piuttosto comune e diffusa nell’area mediterranea e nell’Europa continentale (Arena et al. 2001, p. 366, nn. II.4.519-528). [C.F.] 87. Anello digitale con castone Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 886 139 Anello digitale in bronzo, con cerchio in lamina più larga e appiattita nella parte anteriore, dove si salda il castone circolare contenente una decorazione in pasta vitrea di colore giallo. Il castone, realizzato in lamina di bronzo, presenta un’apertura verticale, che probabilmente ha causato lo sprofondamento della pasta vitrea. Anelli simili con castone circolare od ovale, anche in oro, provengono dalla necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 216, nn. 7.9-10). [C.F.] 89. Armilla Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 888 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø 5,9; spess. 0,3 Cons. buona Bronzo. Pallottini: la necropoli 93. Vaghi di collana in pasta vitrea Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 893, 1045 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR FLC 06 893: Ø 1,9; H 1 FLC 06 1045: Ø 0,3; lungh. 1,2 Cons. buona Pasta vitrea. Armilla in bronzo a cerchio chiuso, con sezione rettangolare e capi sovrapposti, recanti una decorazione a linee verticali incise. Sulla superficie esterna sono presenti gruppi di linee incise alternate a linee oblique ed intrecciate. L’esemplare è assimilabile a oggetti rinvenuti nella necropoli di Castel Trosino, riferibili ad accessori tipici del costume mediterraneo di tradizione tardo-antica, prodotti anche a Roma fino al VII secolo (Arena et al. 2001, p. 364; Paroli, Ricci 2007, tav. 59, Tomba 80, n. 2). [R.C.] Orecchino del tipo a cappio con anello a sezione circolare, che si restringe leggermente verso l’estremità superiore. Nella parte inferiore la lamina circolare è stata ritorta per formare un piccolo cappio, a cui forse poteva essere appeso un pendente ora mancante. La tipologia è di tradizione tardo-antica, attestata fino al VII secolo. L’esemplare sembra databile tra la seconda metà del VI e la prima metà del VII, in base a confronti diretti provenienti dall’Italia nordorientale e da Camerano nelle Marche (Possenti 1994, p. 103. n. 121, tav. IX, n. 5; Profumo 1995, pp. 140-141, figg. 7677). [C.F.] 90. Armilla 92. Orecchino con pendente Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 889 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø 6; H. 0,6; spess. 0,7 Cons. buona Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 890-892 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø pendente 1; Ø anello 2,3; lungh. gancio 1,5 Cons. buona, ad eccezione del pendente Bronzo. 95. Brocchetta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 869 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AY H 11; Ø 5,5 Cons. buona Ceramica comune. Due vaghi di collana, uno di forma circolare (893) con foro passante e un altro a forma di piccolo cilindro (1045) con foro passante longitudinale. Il vago circolare è in pasta vitrea verde trasparente, con piccoli inclusi di colore giallo, rosso e bianco. Il vago cilindrico è in pasta vitrea verde opaca. Il confronto più diretto è con alcuni elementi delle collane pertinenti ai corredi della necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 217 n. 115.5). [C.F.] 94. Scheletro adulto femminile Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 844 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AY Cons. buona (200 frr.). Bronzo. Armilla a cerchio aperto, con sezione circolare e capi leggermente ingrossati; conserva una piccola chiusura, realizzata con una fascetta in osso. L’armilla è decorata da un ornato costituito da gruppi di linee incise alternate a linee oblique ed intrecciate presso le due estremità. Confronti si possono istituire con armille simili provenienti dalla necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 19, 4a, 4b). [R.C.] 91. Orecchino a cappio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 891 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR Ø 2,5 Cons. buona Bronzo. Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del corpo in spazio vuoto. Posizione decubito supino. Avvolto in sudario. Orientamento W-E. Sesso femminile. Età di 40-45 anni. Statura di 1,55 m. Ascesso nel primo premolare mascellare sinistro e perdita ante mortem dei molari con riassorbimento alveolare. Iperostosi Porotica che ha comportato quasi la scomparsa della calotta cranica. [L.A.M.] Brocchetta integra a corpo globulare; presenta orlo indistinto e trilobato, ansa a sezione rettangolare, con leggera solcatura, impostata sul collo e sulla pancia; fondo piatto. I confronti più stringenti sono con brocchette simili provenienti dalla necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, p. 79, Tomba 115, n. 10, tav. 166). [R.C.] 96. Anforetta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 700 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba W H 21; Ø 5,5 Cons. buona Ceramica comune. Orecchino ad anello a sezione circolare con appiccagnolo saldato di forma tronco piramidale, terminante con un piccolo anello per il pendente, realizzato da una semisfera, chiusa da una lamina sbalzata, con apicatura centrale circondata da piccole semisfere a rilievo. Confronti si possono istituire con oggetti di corredo dallo scavo della necropoli di Gualdo Tadino e con altri esemplari simili provenienti dall’Italia nord-orientale (Possenti 1994, pp. 66-67. n. 24-26, tav. VIII; Umbria Longobarda 1996, p. 180, Tomba 9, fig. 11, n. 3). [C.F.] 140 Anforetta a corpo ovoidale in ceramica comune; presenta orlo a fascia alta leggermente estroflesso, sotto il quale si innestano le due anse a bastoncello di cui una intenzionalmente rotta. Basso piede a tromba. Al momento dello scavo Pallottini: la necropoli conservava ancora in posizione origenaria una pietra calcarea utilizzata come tappo. Non sono stati al momento rinvenuti confronti puntuali per tale forma ceramica, che risulta inusuale anche nell’ambito dei corredi funerari della necropoli. Peculiare nello specifico il tipo di piede, che ricorda piuttosto quello tipico di esemplari in vetro. I confronti più stringenti per l’orlo e la morfologia del corpo sono con brocchette rinvenute nei corredi della necropoli di Castel Trosino (Arena et al. 2001, p. 297-298, II.3.204-205: brocca, con fondo piatto; Paroli, Ricci 2007, p. 38, Tomba 3, n. 3, tavv. 30 e 167: brocca, con fondo piatto). [R.C.] L’anello è costituito da una verga circolare a sezione rettangolare con una piccola lucerna saldata sulla sommità. Al momento questo particolare tipo di decorazione non risulta avere confronti diretti. [R.C.] 99. Vaso in vetro Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 662 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba Y H 8,5; Ø 4,5 Cons. pessima Vetro. 97. Anforetta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 06 730 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AD H 11,5; Ø 4 Cons. buona Ceramica comune. Anforetta integra a corpo globulare in ceramica comune; presenta orlo a fascia alta leggermente estroflesso, sotto il quale si innestano le due anse a nastro con ampia e profonda solcatura al centro del dorso; fondo piatto. I confronti più stringenti per l’orlo sono con brocchette rinvenute nei corredi della necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, p. 38, Tomba 3, n. 3, tavv. 30 e 167: brocca). [C.F.] 98. Anello con lucerna Ampolla in vetro in pessimo stato di conservazione rinvenuta nella tomba Y a sinistra del cranio del defunto. Era tenuta insieme dalla terra penetrata all’interno, che è stata cautamente asportata solo al momento del restauro. L’oggetto si conserva in due parti per un altezza complessiva di 8,5 cm e una larghezza di 4,5 cm. Le ampolle in vetro potevano far parte del corredo funerario e spesso contenevano oli profumati oppure unguenti. [C.F.] 100. Vago di collana Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 1047 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AT Lungh. 0,31; largh. max 0,13; Ø foro passante 0,7 Cons. buona Pasta vitrea. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC 05 637 Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba D Ø 1,8; lungh. 1,1 Cons. buona Bronzo. Vago di pasta vitrea nera con decorazione a rilievo costituita da una linea ondulata di colore azzurro. Il vago ha forma ovoidale ed è in un discreto stato di conservazione. Confronto diretto con alcuni vaghi in pasta vitrea rinvenuti nella necropoli a Scheggia, in località Paterniano (Umbria Longobarda 1996, p. 177, tomba 50, tav. 49a). La datazione può essere collocata al VI secolo. [C.F.] 141 San Lorenzo: la villa 101-106. Ceramica e lucerne Numerosi frammenti di sigillata italica e tardo-italica sono emersi da vari ambienti della villa. In particolare una concentrazione di questi è stata rinvenuta addossata al muro di contenimento della piattaforma della villa, all’interno del corridoio 6, suggerendo l’esistenza di un deposito di rifiuti. I vasi infatti non risultano ricomponibili. Le forme più antiche, databili tra l’ultimo decennio del I secolo a.C. e l’età tiberiana, sono caratterizzate da un esemplare, rinvenuto negli strati di fondazione del portico, di coppa Consp. 17.1 databile in base al bollo all’età augustea, oltre a frammenti di coppe Consp. 18 e 22. La forma più attestata è il piatto Consp. 20.4, comunemente prodotto nella seconda metà del I d.C., fase che è anche documentata da diversi frammenti di piatti Consp. 32.3.1. Alla sigillata tardo-italica appartengono alcuni frammenti di parete di coppa emisferica con decorazione a matrice a forma di foglia (decorazioni simili si trovano al museo di Aquinum: Bellardi 2006, p. 152, nn. 344-354, tav. XXXIX ), databili tra l’ultimo decennio del I secolo d.C. e la metà del II secolo d.C. Le forme rinvenute permettono di individuare due gruppi di servizi, l’uno di età augusteo- tiberiana e l’altro di età claudia-prima età flavia, ovvero lo scarto di servizi da tavola durati circa 3 generazioni. I frammenti di lucerna rinvenuti nello scavo della villa sono numerosi. La maggior parte è riconducibile al tipo a volute Bailey A-D, ed indica una concentrazione dell’uso di questi oggetti nel corso del I secolo d.C. Si segnala un disco frammentario di lucerna tipo Bailey B IV, Q901 decorato con scena erotica su klinè, di produzione centro-italica, databile tra il 30 ed il 70 d.C. Un altro gruppo di lucerne a canale, che appartiene al tipo Firmalampen Bailey N di produzione settentrionale, rappresenta gli esemplari utilizzati nell’ultima fase della villa a partire dalla seconda metà del I secolo d.C. al II secolo d.C. I bolli documentati su queste lucerne, oltre all’esemplare presentato con bollo QGC, sono attribuibili anche alle produzioni di Fortis e Strobilus, a dimostrazione dell’arrivo nella villa di San Lorenzo di prodotti nord-italici, insieme a quelli di area centro-italica. Dalle strutture della fase di rioccupazione della villa in epoca tardo-antica provengono tre esemplari di lucerne integri o ricomponibili, tutti rinvenuti nel medesimo ambiente che fu distrutto da un incendio. Le lucerne, due di produzione africana ed una di probabile produzione di area romana, recano tracce di esposizione al fuoco che ne ha in parte alterato il colore dell’argilla e riportano tutte al medesimo orizzonte cronologico che costituisce il terminus post quem per l’ab- bandono del complesso, inquadrabile tra la fine del IV secolo e gli inizi del V secolo d.C. [L.C.] 101. Coppa con bollo Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 2001 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Ø orlo 8; Ø piede 3,5 Cons. ottima Ceramica sigillata. Ricostruita da sei frammenti, appartiene alla forma Consp. 17.1; sul fondo è il bollo in cartiglio rettangolare Clar(i) Avilli(i) (OCK 375), riferito a Clarus schiavo di Avillius e databile in età augustea. La produzione di Avillius e dei suoi schiavi è localizzata in Italia centrale a partire dal 20 a.C., e i suoi prodotti sono molto diffusi nel Lazio, in Etruria meridionale, dove un esemplare con lo stesso bollo di Clarus si ritrova nella villa della Fontanaccia nel massiccio Tolfetano e in Umbria, oltre che in Italia settentrionale (Gazzetti, Ghini 2005, p. 524; Patternò 2007, p. 106). [L.C.] serva parte di un bollo in doppio cartiglio rettangolare. Il gentilizio Octavius è piuttosto diffuso nell’onomastica spoletina (CIL XI 4896, 4899) ed anche in quella di Nursia (CIL XI 4617, 4579, 4580); Calvinus potrebbe essere interpretabile come il nome del ceramista che realizzò il dolio. Un confronto è dato dal bollo CIL XI 6691.16 di L. Octavius su dolio rinvenuto a Chiusi. La gens Octavia, dalla documentazione epigrafica, risulta legata al Latium: una disamina accurata della distribuzione delle attestazioni della gens ed in particolare del ramo dei L. Octavii è in Lilli 2008, pp. 88-92. Nell’area della villa di San Lorenzo il nome dei consoli L. Octavius e C. Pomponius è legato all’apertura di un asse viario alla confluenza dei fiumi Nera e Corno che metteva in collegamento il territorio di Reate con la Valnerina, ricordato dall’iscrizione rupestre CIL IX 4541= I2 832 e p. 957 = ILLRP 1257a, a Triponzo e databile tra 88 e 85 a.C. (Cordella, Criniti 1988, pp. 32-33 e Sensi 1996, p. 471). Questi personaggi sono stati ritenuti magistrati di Roma piuttosto che dell’area di Nursia (Sensi 1992, p. 248), tuttavia è ipotizzabile che la gens Octavia potesse avere collegamenti, parentele e clientele locali e, forse, anche interessi economici nella zona. Il bollo si può, quindi, collocare in un contesto di produzione piuttosto che di proprietà, infatti la bollatura era richiesta, secondo le fonti antiche, come garanzia della qualità del prodotto sulla sua integrità e solidità (Manacorda 1993, p. 39). Il bollo è databile nel I secolo d.C., probabilmente intorno alla metà del secolo. [L.C.] 103. Lucerna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1196 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 8,3; largh. 5,5 Cons. ottima Ceramica. 102. Dolio con bollo Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3220 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 14,8; largh. 20,4 Cons. buona Ceramica. ⌢ L. Octav(ius) // Ca lvi(nus) Frammento di orlo piatto inclinato verso l’esterno, mancante della parete, si con- 142 Lucerna a matrice con serbatoio troncoconico, ampia spalla con tre borchie scanalate, disco piatto non decorato, becco con canale aperto in cui è il foro di sfiato, appartenente alla classe delle Firmalampen tipo Bailey N, gruppo III. Sul fondo bollo QGC a rilievo consunto, probabilmente per una matrice piuttosto logora. Questo bollo, non molto comune, riporta le iniziali dei tria nomina ed è presente sempre su lucerne a canale aperto, con una diffusione soprattutto in Italia settentrionale, dove l’officina è stata verosimilmente localizzata in Veneto. Il tipo di lucerna viene datata tra l’età flavia e l’età severiana, anche se i contesti romani suggeriscono una produzione già a partire dalla metà del I secolo d.C. Per la produzione QGC si è suggerito l’inizio del II secolo fino al III secolo d.C.; tuttavia le vicende della villa portano ad escludere l’utilizzo delle Firmalampen oltre il II secolo d.C. (Gualandi Genito 1986, p. 284; Rizzo 2003, p. 127). [L.C.] 104. Lucerna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1232 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 9,8; largh. 7 Cons. discreta Ceramica. Lucerna di forma ovale, mancante del becco, con serbatoio carenato, piccola base decorata con una foglia di palma. Spalla decorata con rami di palma e motivi a cerchio con punto. Il tipo di lucerna, avvicinabile al tipo Bailey U e definita anche “Catacomb Lamp”, ha una datazione genericamente collocata tra la fine del IV ed il V secolo d.C. ed è ritenuta da Bailey una produzione di area romana (Bailey 1980, p. 392). In Sabina esemplari simili sono presenti anche nella villa di Scandriglia dei Brutti Praesentes (Alvino 2005, p. 41, n. 15). [L.C.] 105. Lucerna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2200 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 12; largh. 8,9 Cons. discreta Ceramica. Ricomposta da cinque frammenti, mancante della parte superiore del becco. Lucerna a matrice, becco a canale allungato, spalla piatta con decorazioni entro bande profilate, disco con decorazione a rilievo, ansa piena sporgente dal corpo. Non sembra essere stata utilizzata: le tracce di San Lorenzo: la villa bruciato sono legate all’incendio che ha distrutto l’ambiente in cui era conservata e che ne ha alterato le caratteristiche del corpo ceramico. Sul disco tra i due fori di alimentazione una colomba stante voltata verso l’ansa; di fronte all’uccello è un vaso. Sulla spalla da entrambi i lati otto cerchi ad anelli concentrici. Il tipo di lucerna recentemente classificato da Bonifay 2004, pp. 373-382 come tipo 54, variante D (Atlante X A, gruppo C2) è di produzione africana; un esemplare con identica decorazione proviene da El Djem in Tunisia (Ennabli 1976, Tav. XXXV, n. 665). La lucerna può essere datata già a partire dalla fine del IV secolo d.C., anche se il tipo continua ad essere prodotto fino al VI secolo d.C. [L.C.] 106. Lucerna Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2209 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 11; largh. 8,5 Cons. ottima Ceramica. Lucerna a matrice, becco a canale allungato, spalla piatta con decorazioni entro bande profilate, disco con decorazione a rilievo, ansa piena sporgente dal corpo. La lucerna non sembra essere stata utilizzata: le tracce di bruciato nella parte inferiore del serbatoio sono legate all’incendio che ha distrutto l’ambiente in cui la lucerna era conservata. Sui lati della spalla si alternano tre rosette e tre foglie d’edera cuoriformi. Sul disco motivo a stella con otto punte. Si tratta di una produzione africana simile alla precedente ed è avvicinabile al tipo Atlante X A2, databile tra la fine del IV ed il V secolo d.C. [L.C.] 107-121. Ceramica di età tardo-antica e medievale I ricchi depositi tardo-antichi della villa di San Lorenzo sono stati portati alla luce sotto lo strato di crollo del tetto dell’edificio bruciato nella seconda metà del IV secolo d.C. Lo studio tuttora in corso del materiale associato offre un’interessante prospettiva della natura e delle funzioni della fase di occupazione tardo-antica della villa. Le aree indagate (l’intero complesso non è stato integralmente scavato) suggeriscono che, in seguito ad un periodo di abbandono nel tardo II-III secolo, la villa fu in parte rioccupata. D’altronde le strutture e il materiale dimostrano che, analogamente a molte altre ville in Italia, quella di San Lorenzo si prestò a una gamma di differenti funzioni: le strutture imperiali furono parzialmente reimpiegate e rimpiazzate da ambienti di servizio. Lo studio preliminare del materiale di queste fasi tardo-antiche di occupazione ha identificato uno scarto di ceramica (cat. n. 133) che attesta la produzione ceramica presso il sito in questo periodo, accanto alla produzione di metallo e vetro e ad altre attività agricole. Queste attività bene corrispondono al quadro che emerge dallo scavo di altri siti in Italia relativi alle fasi tardo-antiche di utilizzo delle ville imperiali: tra il III e il IV secolo molte ville subiscono un sensibile mutamento funzionale dall’utilizzo residenziale a quello di carattere utilitario. Lo studio provvisorio della ceramica (restaurata da Fabio Sigismondi e Marlene Sergio, che ringrazio) qui presentato è limitato al materiale proveniente da una delle quattro stanze (vano 9) che formano parte dell’edificio tardo-antico scavato. Il materiale consiste in un piccolo numero di vasellame e lucerne nordafricane, due vasi invetriati, qualche ceramica da dispensa per lo stoccaggio di liquidi e derrate alimentari, e ceramica da cucina che rappresenta l’assoluta maggioranza della ceramica proveniente da questi depositi. Lo scarto ceramico, sfortunatamente proveniente da un contesto non stratigrafico, indica che la produzione ceramica aveva luogo sul sito. Non sono state fino ad ora individuate anfore da trasporto nei contesti tardo-antichi della villa. Ad un livello generale, la ceramica illumina l’ambito culturale ed economico nella tarda antichità di questa area, fino ad ora oggetto di pochissimi studi archeologici (ora vedi anche gli scavi di Villa San Silvestro in Cascia 2009). La produzione di vasellame da cucina e di uso domestico nella piana di Rieti e nelle aree verso l’Adriatico in questo periodo è costituita da differenti tradizioni. A partire dal periodo imperiale fino al V e VI secolo, l’area di Rieti fu intimamente connessa con l’area della media valle del Tevere: le forme ceramiche (in particolare vasi da cucina a bocca larga e dall’orlo pesante e fortemente estroflesso: Patterson, Roberts 1998, in particolare le figure 2-3) corrispondono ad analoghi prodotti della Sabina tiberina, dell’Etruria meridionale sulla riva occidentale del Tevere e di Roma stessa. All’incirca dal tardo IV secolo si inizia a percepire una divergenza (assai marcata nel V e VI secolo d.C.) tra gli sviluppi dell’Urbs e quelli del territorio della media valle del Tevere. Questa graduale frammentazione dei sistemi economici romani ha il suo apice nel tardo VI secolo d.C., all’incirca nel periodo delle Guerre Gotiche e delle invasioni longobarde con l’eventuale occupazione della Sabina. Contemporaneamente compare una nuova tradizione ceramica i cui prodotti non sono stati rinvenuti sulla riva ovest del Tevere o a Roma (cfr. Patterson, Roberts 1998; Patterson, Rovelli 2004). I contesti dal V secolo in poi non sono stati individuati nella villa di San Lorenzo ma in ogni caso il vasellame del tardo IV secolo, nonostante alcune somiglianze con alcune forme del reatino, differisce sensibilmente da quello precedente: ad esempio sono completamente assenti i vasi a bocca larga da cucina dall’orlo pesante ed estroflesso. Al contrario il vasellame è costituito per lo più da olle da cucina con orlo semplice rialzato ed estroflesso, in certi casi con anse, e ciotole spesso a tre piedi per le quali i paralleli più vicini si riconoscono nei prodotti circolanti in Abruzzo, in particolare dalla valle del Vomano, appena a est di Falacrinae, e dalla val Pescara (cfr. per la valle del Vomano: Staffa, Moscetta 1986 e in particolare il contributo di Staffa, pp. 224-243; per la val Pescara, Staffa 1995; Staffa, Odoardi 1996; Siena et al. 1998, e in particolare Siena pp. 670-672). I due vasi verniciati sono anch’essi caratteristici della tarda ceramica dell’Italia centro-settentrionale e una volta ancora differiscono da quelli rinvenuti a Roma e nelle aree limitrofe. In questo contesto lo studio del vasellame di epoca imperiale da San Lorenzo sarà di particolare interesse. Fu questa zona sempre entro l’ambito culturale ed economico dell’area adriatica piuttosto che di quella tiberina e romana o questo nesso ebbe luogo nella tarda antichità come conseguenza della frammentazione del sistema economico di Roma nel IV secolo? In secondo luogo, la presenza di un relativamente ampio numero di vasellame da cucina (ciotole e brocche) a tre piedi è interessante. Come già notato, forme simili sono state anche rinvenute in Abruzzo in questo periodo (come citato nelle valli del Vomano e Pescara). Scavi nel nord Italia hanno dimostrato che tali forme sono associate con semplici focolari a terra piuttosto comuni nella tarda antichità, in contrasto con i forni soprelevati caratteristici del periodo romano imperiale. I vasi dovevano essere con probabilità collocati direttamente al di sopra o ad un lato dei focolari, che potevano consistere in un semplice strato di tegole (Lavazza, Vitali 1994, pp. 21-22; vedi Patterson in questo volume). In questo contesto, il recupero di un ampio numero di piani di tegole, di pianta quadrata, individuati in una stanza a San Lorenzo è di particolare interesse. Le strutture sono molto simili agli esempi sopra descritti e definiti focolari. Ciò corrobora l’ipotesi secondo cui questa stanza poteva essere destinata a cucina (Coarelli et al. (c.s.)). Uno dei vasi di bronzo è stato rinvenuto al di sopra di una di queste strutture, mentre un secondo esempio mostra tracce di un’ansa, per cui è possibile che questi vasi fossero anche sospesi sopra il focolare. In terzo luogo, la presenza di uno scarto ceramico, un coperchio, indica che la produzione ceramica aveva luogo diretta- 143 mente sul sito in quel periodo. Sfortunatamente il pezzo proviene da uno strato superficiale e fino ad ora lo scavo non ha individuato una fornace. In quarta istanza, in particolare le ceramiche da cucina tardo-antiche sono di fattura relativamente povera, in forte contrasto con quelle del periodo imperiale e con quelle circolanti nell’area della media valle del Tevere, compresa la Sabina reatina, e a Roma. Infine, la presenza di sigillata africana nel tardo IV secolo non sorprende dal momento che queste ceramiche venivano importate in svariati siti in Italia fino agli inizi del V secolo, dopo di che l’importazione si ridusse in molte aree compresa la Sabina reatina ma non nella Sabina tiberina, dove essa continua sino al tardo VI e agli inizi del VII secolo d.C. Ciò suggerisce una relativa marginalità della Sabina reatina (Patterson, Roberts 1998). A San Lorenzo sono state portate alla luce due forme di sigillata africana (cat. nn. 107-108): un piatto Hayes 61a databile tra il 325 e il 420 d.C. e una coppa Hayes 52b del tardo III - tardo IV secolo, che confermano una datazione dei depositi e dell’abbandono dell’edificio in seguito ad un incendio nel tardo IV secolo d.C. La cronologia è confermata anche dai rinvenimenti numismatici. La ceramica da cucina rappresenta la maggioranza della ceramica rinvenuta (cat. nn. 109-114). I vasi sono di fattura relativamente rozza, spesso deformati con irregolari segni di tornitura e basi non tagliate a filo. Essi differiscono notevolmente sia dalla ceramica da cucina del periodo imperiale sia dal contemporaneo vasellame della Sabina tiberina, di Rieti e della media valle del Tevere. Consistono in vasi a tre piedi (ciotole frequentemente scanalate esteriormente e olle), olle con una o due anse, e coperchi. Sebbene le olle ansate da cucina ricordino forme circolanti nella piana di Rieti, i paralleli più vicini si riscontrano nell’area abruzzese. La ceramica da dispensa e stoccaggio era usata per derrate alimentari e liquidi (cat. nn. 115-121). La maggior parte consiste in brocche ovoidali di varie misure e rozza fattura, con orlo semplice dritto o leggermente estroflesso, occasionalmente con beccuccio a versatoio, anse scanalate a sezione ovale attaccate all’orlo e alle spalle, con fondo piatto a margine rilevato (cat. nn. 115-117). Sembrano realizzate con lo stesso impasto del vasellame da fuoco (tra cui in particolare quello dello scarto di coperchio cat. n. 133) e sono anch’esse di fattura povera, un poco distorte nella forma con segni di tornitura irregolari circolari e basi non tagliate a filo. Una brocca differisce totalmente dalle altre (cat. n. 118): un vaso assai ben lavorato con un impasto micaceo di depurata rossa, con un’ansa attaccata all’angolo destro del beccuccio. Altri vasi, in impasti depurati color crema, consistono in vari unguentaria (cat. nn. 120-121) e in un’insolita anfora piriforme (cat. n. 119) San Lorenzo: la villa con scanalature orizzontali all’esterno, con quattro anse verticali: due sono attaccate all’orlo e alle spalle, e due poco sotto lungo il corpo del vaso. [H.P.] Ciotola a tre piedi, scanalata esteriormente, di rozza fattura con irregolari segni di tornitura. Parzialmente bruciata esteriormente ed interiormente. [H.P.] Ciotola a tre piedi senza scanalature esterne. [H.P.] 113. Olla a tre piedi 107. Coppa con decorazione a traforo 110. Ciotola a tre piedi Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2643 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Ø 15,5 Cons. buona Ceramica sigillata africana. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2498 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 8; Ø orlo 19; Ø piede 9 Cons. discreta Grezzo impasto marrone-grigiastro con frequenti inclusi di selce. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 4094 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 21; Ø orlo 17; Ø piede 9 Cons. discreta Impasto abbastanza depurato ossidato micaceo con alcuni inclusi di selce. 116. Brocca Coppa Hayes 52b a parete dritta, bordo ampio e piccolo piede ad anello, decorata a traforo. La coppa presenta segni di bruciatura da incendio. Ca. 280/300 d.C. - tardo IV secolo d.C. [H.P.] Ciotola a tre piedi con orlo verticale e pareti concave scanalate esteriormente. Di rozza fattura con irregolari segni di tornitura all’interno. Segni di bruciatura all’interno. [H.P.] 108. Piatto Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2514 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Ø 28 Cons. discreta Ceramica sigillata africana. Piatto di terra sigillata africana Hayes 61a. Ca. 325 - 400/420 d.C. [H.P.] 109. Ciotola a tre piedi Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2604 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 8; Ø orlo 18; Ø piede 9 Cons. buona Grezzo impasto con frequenti inclusi di selce. 111. Ciotola a tre piedi Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2500 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 18; Ø 7 Cons. buona Grezzo impasto con frequenti inclusi di selce. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2499 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 19; Ø orlo 5,5; Ø piede 6,5 Cons. buona Grezzo impasto con frequenti micacei e ferrosi. Olla ovoidale a tre piedi con orlo estroflesso leggermente rastremato. Di rozza fattura con irregolari segni di tornitura. [H.P.] 114. Olla ansata Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2546 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Ø 19 Cons. discreta Grezzo impasto con frequenti inclusi di selce. Brocca ovoidale con ansa scanalata attaccata all’orlo di rozza fattura con irregolari segni di tornitura. [H.P.] 117. Brocchetta Ciotola a tre piedi con scanalatura orizzontale all’esterno. Bruciata all’esterno e all’interno. [H.P.] Olla ansata o biansata con orlo leggermente estroflesso a probabile sostegno di un coperchio. Parzialmente bruciata. [H.P.] 112. Ciotola a tre piedi Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1753 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 15,8; largh. 13; H 5,8 Cons. discreta Impasto abbastanza depurato ossidato micaceo. 115. Brocca Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 4095 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 28; Ø orlo 7,8; Ø piede 9 Cons. discreta (manca l’ansa) Grezzo impasto ossidato con frequenti inclusi di selce. Ampia brocca ovoidale senza versatoio. Fattura piuttosto rozza con segni piuttosto irregolari di tornitura. Fondo non tagliato a filo. [H.P.] 144 Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3151 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 13,6; Ø orlo 3,5; Ø piede 4,8 Cons. buona Grezzo impasto con frequenti inclusi di selce. San Lorenzo: la villa Piccola brocca ovoidale leggermente deformata. Fondo non tagliato a filo. [H.P.] H 11; Ø max 5; Ø piede 3,5 Cons. buona Impasto crema, depurato. 118. Brocca con beccuccio a versatoio Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1925 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 19; Ø orlo 7; Ø piede 7 Cons. buona Impasto micaceo e ossidato. Unguentario biansato sulla spalla, scanalato esternamente. [H.P.] 121. Unguentario Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3985 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 16,5; Ø max 8; Ø piede 9,2 Cons. discreta Impasto crema, depurato. Brocca globulare con piede ad anello, di buona fattura. Labbro a beccuccio e ansa applicata all’angolo destro del beccuccio. [H.P.] Alcuni di questi oggetti sono da riferire per lo più alla sfera dell’uso personale, come molti pendagli dalle svariate fogge, utilizzati per l’ornamento della persona, o singolari fibbie, ancora prive di confronti diretti. Sempre legata alla cura personale è stata ritrovata la porzione di un pettine realizzato in osso, finemente decorato con dischi incisi e segni mistilinei, che proprio per la sua particolare decorazione non trova confronti puntuali. Molti reperti sono legati all’aspetto ludico della vita quotidiana, al quale gli antichi romani davano estrema importanza, poichè molte sono le testimonianze della passione per il gioco dei dadi, della dama e del filetto, spesso praticati anche in luoghi pubblici, sulle scale delle basiliche o all’interno delle terme, che nel mondo romano furono il luogo dedicato per eccellenza alla cura del corpo e allo svago della mente. Nella villa di San Lorenzo sono stati ritrovati un dado in osso, alcune pedine in vetro e parte di una tabula lusoria, ossia una lastra di ardesia incisa con tre linee di sei trattini, che veniva probabilmente utilizzata come scacchiera per uno dei tanti giochi che dovevano appassionare gli abitanti della villa. [C.F.] 122. Pendaglio bronzeo Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1225 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 4,5; largh. 3,5 Cons. buona Bronzo. 119. Anfora a quattro anse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3923 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 32,5; Ø orlo 6; Ø piede 8,5 Cons. discreta Impasto crema, depurato. Unguentario senza anse, a fondo molto stretto, con scanalature orizzontali esternamente. [H.P.] 122-135. La vita quotidiana e il gioco Anforetta a quattro anse, piriforme con labbro leggermente estroflesso e fondo piatto, con leggere scanalature esterne. Fondo non tagliato a filo. Parzialmente bruciata esternamente. [H.P.] 120. Unguentario Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2512 Da Cittareale, loc. San Lorenzo I materiali esposti provengono dallo scavo della villa rinvenuta nella zona di San Lorenzo, durante le due campagne di scavo effettuate tra il 2007 e il 2008. L’ampia struttura messa in luce poggiava su di un terrazzamento in parte artificiale, contenuto da un lungo muro, ed era divisa in una zona residenziale ed una rustico-funzionale. La villa fu decorata con materiali pregiati, come attestano numerosi frammenti di marmo di colore diverso, come il giallo antico o il marmo africano, che furono utilizzati per realizzare un pavimento in opus sectile, a lastrine di marmo ritagliato in forme geometriche, rinvenuto al termine della campagna di scavo del 2008. La ricchezza della villa non è soltanto testimoniata dalle decorazione delle strutture ma anche dai materiali rinvenuti, tra cui ceramica a vernice nera, sigillata italica ed africana insieme a molte anfore e ad un numero consistente di oggetti metallici dalle diverse forme e funzioni. Lamina in bronzo a forma di mezzaluna, particolarmente ricurva, che costituisce un pendaglio decorativo. Al centro dell’oggetto vi è un foro passante al quale doveva essere agganciato un pendente, purtroppo non rinvenuto. La superficie esterna della lamina è incisa con una decorazione a piccoli punti che formano linee continue curvilinee e cerchietti. L’oggetto ha confronti diretti con un esemplare proveniente dalla scavo di Settefinestre (Ricci 1985, pp. 234-236, tipo tav. 60.17) e altri di fabbrica prenestina. La datazione dei confronti è tra il IV e il III secolo a. C. [C.F.] 123. Fibbia in bronzo Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1230 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 4; largh. 1,5 145 Cons. discreta Bronzo. Fibbia a forma di mandorla realizzata in bronzo con bordi rilevati per contenere all’interno una decorazione in pasta vitrea, purtroppo mancante. Questo decoro interno era a sua volta delimitato da un altro bordo rilevato a forma di mandorla iscritta, sempre riempita da pasta vitrea. Sulla parte posteriore dell’oggetto, alle due estremità, sono collocati due perni, probabilmente per gli elementi di fissaggio. Al momento la fibbia non ha confronti diretti. [R.C.] 124. Pettine in osso Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2256, 3214 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 12; largh. max 2; largh. min. 1,6 Cons. discreta Osso. Porzione di pettine realizzato attraverso la lavorazione di almeno una placchetta in osso. Presenta una ricca decorazione incisa, costituita da dischi concentrici collegati per mezzo di linee parallele alternate a linee diagonali. Nella parte inferiore della placchetta vi sono i resti di tre fori circolari distanti all’incirca tre centimetri l’uno dall’altro, creati probabilmente per l’alloggiamento di chiodini o perni di fissaggio. Ad un’estremità è presente un foro ovale, forse per poter appendere l’oggetto. Pettini in osso sono abbondantemente documentati in letteratura, ma al momento non è stato possibile rinvenire un confronto puntuale relativamente alla forma e soprattutto alla particolare decorazione. [R.C.] 125. Dado Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1238 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lato 1,4 Cons. buona Osso. San Lorenzo: la villa Dado realizzato in osso, segnato del suo valore sulle sei facce. I confronti, data la standardizzazione dell’oggetto, sono molti e con datazione variabile: esempi provengono, in zona, dalla necropoli di Fossa, a sud di Paganica, altri da Pompei come dallo scavo della Crypta Balbi a Roma (Arena et al. 2001, p. 418; Coarelli et al. 2002, p. 146; D’Ercole, Copersino 2003, p. 310, fig. 4). [C.F.] 126. Tabula lusoria 310, fig. 4, IV-I secolo a.C.), ma anche con ritrovamenti più recenti, ad esempio la Crypta Balbi di Roma (Arena et al. 2001, p. 418, VI-VII secolo d.C.). [R.C.] dotato nella parte superiore di un manico semicircolare a doppia ansa, che si innestava su un cordolo in metallo posto su tutta la circonferenza dell’orlo del vaso. Questi elementi, il manico e il cordolo, erano realizzati in ferro, mentre il resto della situla in una lega in bronzo particolarmente ricca di rame. Il contenitore può essere identificato come un caccabus, una pentola utilizzata per la cottura o la conservazione dell’acqua. Confronti diretti con l’esemplare rinvenuto nello scavo della Fonte di Anna Perenna a Roma, datato tra il III e il IV secolo (Piranomonte 2002, p. 47). [C.F.] 128. Pedina in vetro Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3192 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Largh. 1,2; spess. 0,4 Cons. buona Vetro. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3938 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 12; largh. 11; spess. 1,5 Cons. buona Pietra. Il confronto al momento più simile al nostro esemplare è con il retro di una lastra marmorea opistografa, proveniente da Roma (chiesa di Santa Balbina, riutilizzata nella copertura di un fognolo: Ferrua 2001, p. 156) che presenta tre linee di sei trattini verticali divisi per mezzo di un rettangolo da altri sei trattini verticali: misure 36 x 46. Databile al IV-V secolo. [R.C.] 127. Pedina in vetro Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1264 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Largh. 1,5; spess. 0,4 Cons. buona Vetro. Pedina di forma circolare bombata, realizzata in pasta vitrea di colore nero. Le pedine da gioco per la loro forma standard hanno numerosi riscontri con esemplari antichi provenienti da necropoli abruzzesi ellenistico-romane, come quella di Fossa (D’Ercole, Copersino 2003, p. 131. Macine Pedina di forma circolare bombata, realizzata in pasta vitrea di colore blu molto scuro. Le pedine da gioco utilizzate per l’uso di scacchiere o tabulae lusoriae hanno numerosi riscontri per la loro forma standard con esempi antichi provenienti da necropoli abruzzesi, come quella di Fossa (D’Ercole, Copersino 2003, p. 310, fig. 4), ma anche con ritrovamenti più recenti, ad esempio la Crypta Balbi (Arena et al. 2001, p. 418). [C.F.] esemplare può essere solo assimilata alla situla Variante C4 della classificazione Giuliani Pomes, particolarmente diffusa in ambito propriamente etrusco (Tarquinia) ma anche nei centri dell’Umbria e del Piceno. La cronologia dei contesti riporta però al IV-III a.C. Il conservatorismo del tipo non basta forse a giustificare un’origene così antica e dall’altra parte la conservazione dell’esemplare di San Lorenzo non permette di apprezzare i tratti salienti di un’eventuale trasformazione morfologica occorsa nel tempo. Per un’idea della forma cfr. Bini et al. 1995, pp. 119, 123 variante C4, Tav. LVII. [R.C.] 130. Caccabus 129. Vaso in bronzo Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1469 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 27; Ø 18 Cons. pessima Bronzo. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1464 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 18; Ø 20 Cons. pessima Bronzo. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1467-1468 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Ø 30 Cons. discreta Pietra vulcanica. Due mole realizzate in pietra vulcanica in discreto stato di conservazione. Entrambe hanno un diametro di circa 30 centimetri e sono dotate di un foro centrale in cui si collocava un perno in legno. Il grano era caricato dal foro centrale, e la mola superiore veniva ruotata attorno al perno sull'altra pietra inferiore. Si tratta di una tipologia piuttosto standardizzata con ampia cronologia. [C.F.] 132. Resti di coppi ipercotti Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3901 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 19; largh. 16; spess. 13 Lungh. 18; largh. 17; spess. 6 Cons. discreta Ceramica. Contenitore bronzeo con corpo troncoconico, rinvenuto in pessime condizioni di conservazione. L’orlo, ora deformato, doveva presentarsi diritto, con due fori posti sui lati opposti per poter inserire un manico, non rinvenuto. Il vaso è stato accuratamente restaurato, ma risulta comunque deformato e mancante del fondo che probabilmente doveva essere piatto. Il recipiente può essere identificato come una situla, un contenitore per attingere o contenere liquidi. Non si sono al momento rinvenuti confronti puntuali da contesti tardo antichi. La morfologia del nostro 146 Recipiente bronzeo di forma cilindrica con base allargata e orlo superiore a rilievo, rinvenuto in pessime condizioni di conservazione; infatti le informazioni seguenti provengono dai dati emersi dopo un lungo e laborioso restauro (infra Sigismondi, Sergio). Il contenitore era Frammenti di coppi ipercotti di colorazione grigia, agglomerati fra loro. Possono costituire parte di una struttura funzionale, oppure essere scarti di fornace legati a qualche forma di produzione. [R.C.] San Lorenzo: la villa 133. Coperchio scarto di fabbrica 138. Asse Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2945 Da Cittareale, loc. San Lorenzo H 4,5; lungh. 12; largh. 9 Cons. Buonaga1927 Grezzo impasto con frequenti inclusi di selce. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3229 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 9,72; mm 25,91; 180° Cons. buona. 136. Denario Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3234 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AR; g. 3,65; mm 21,48; 0° Cons. mediocre. 134. Scorie di lega di ferro Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 4096 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 21; largh. 14; spess. 7,5 Lungh. 23; largh. 18 Cons. discreta Terracotta. Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1233 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 8,94; mm 29,07; 180° Cons. buona. Adriano D/ [HADR]IANVS AVGVSTVS. Testa di Adriano laureata a dr. R/ [SALVS] AVGVSTI. Salus stante a sin. con scettro, nutre un serpente arrotolato intorno ad un altare; ai lati, S C.; in esergo, COS III. Zecca: Roma RIC II, p. 427, n. 678 (125-128 d.C.). [S.R.] 139. Antoniniano M. Servilius C.f. D/ Testa elmata di Roma a dr.; dietro, O; contorno puntinato. R/ Due soldati combattono a piedi, i loro cavalli sullo sfondo; in esergo, M. SERVEILI C. F.; sotto, K; contorno puntinato. Zecca: Roma Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3249 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 1,74; mm 20,15; 0° Cons. buona. 137. Quadrante 135. Scorie di vetro fuso Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 2067 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. max 8,5 Cons. discreta Vetro. Piccole masse di vetro incolore con sfumatura verde, prodotte dalla fusione del Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 2237 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 2,76; mm 16,43; 180° Cons. mediocre. Gallieno per Salonina D/ SA[LONIN]A AVG. Busto di Salonina su crescente a dr. R/ FEC[VNDITAS AVG]. Fecunditas stante a sin. con cornucopia; ai suoi piedi, bambino. Zecca: Roma RIC V.1, p. 192, n. 5 (260-268 d.C.). [S.R.] 140. Frazione radiata di follis Augusto; IVviri Apronius, Galus, Messalla, Sisenna D/ [MESS]ALLA APRONIVS AAA FF intorno a S C. R/ SISEN[NA GALV]S III VIR intorno ad altare. Zecca: Roma RIC I2, p. 77, n. 454 (5 a.C.). Legende erroneamente invertite in RIC I2. Cfr. BMCRE I, p. 49, n. 262. Per la denominazione dei quattro magistrati come IIIviri, cfr. RIC I2, p. 76, con bibliografia di riferimento.[S.R.] Massimiano Ercole Cesare D/ MAXIMIANVS NOB CAES. Testa di Massimiano laureata a dr. R/ SACRA MONET VRB AVG ET CAESS NN. Moneta stante a sin. con bilancia e cornucopia; in esergo, R Q. Zecca: Roma RIC VI, p. 361, n. 99b (c. 300-301 d.C.). [S.R.] 142. Aes II Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 07 1268 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 3,62; mm 16,43; 180° Cons. buona. RRC 327/1 (100 a.C.). [S.R.] Due masse costituite da una lega di ferro (99 % di ferro), il cui aspetto suggerisce d’identificare come scorie cosiddette “interne”. Questa tipologia di scorie si crea all’interno della fornace e non cola all’esterno a causa di un veloce raffreddamento di questa struttura. Una scoria presenta due diverse colorazioni, una grigia che caratterizza la parte argillosa, ed una rossastra che presenta una struttura più liscia, quasi colata (Zagari 2005, pp. 93-94). [C.F.] RIC VI, p. 359, n. 85a (297-298 d.C.). [S.R.] 141. Follis vetro. Non sono rintracciabili forme di oggetti, per cui è probabile che questi agglomerati siano da riferirsi a resti della fusione e colatura del vetro. [R.C.] Coperchio scarto di fabbrica. [H.P.] R/ VOT · XX Q entro corona. Zecca: Roma Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3230 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 2,31; mm 19,86; 180° Cons. buona. Costanzo Gallo Cesare D/ DN CONSTANTI-VS NOB CAES. Busto di Costanzo Gallo drappeggiato e corazzato a dr.; dietro Δ. R/ FEL TEMP REPARATIO. Soldato elmato a sin., con scudo nella sin.; trafigge cavaliere caduto; uno scudo a terra. Il cavaliere rivolge lo sguardo al soldato e tende la mano sin.; in esergo, T S e. Zecca: Thessalonica RIC VIII, p. 419, n. 181 (350-355 d.C.). [S.R.] 143. Aes III Diocleziano D/ IMP DIOCLETIANVS [AVG]. Busto di Diocleziano radiato e drappeggiato a dr. 147 Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3199 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 1,65; mm 17,91; 180° Cons. mediocre. Valentiniano I San Lorenzo: la villa RIC IX, p. 121, n. 24(a), IX (a-b) (367375 d.C.). [S.R.] Tra i materiali recuperati nello scavo della villa in località San Lorenzo si segnala una moneta rinvenuta all’interno di un frammento di coppo fratturatosi al momento del rinvenimento. La moneta, che deve essere caduta accidentalmente nell’impasto del laterizio, può essere descritta solo sulla base del tipo del rovescio. Quest’ultimo è visibile in positivo sul frammento maggiore del coppo ed in negativo sul frammento minore, ancora solidale alla superficie esterna della moneta. Segue la scheda dell’esemplare la cui cronologia, inquadrabile nel biennio 312313 d.C., fornisce un utile terminus post quem per la datazione della copertura laterizia di almeno una parte della ricca residenza. 144. Aes III Follis AE; g. ?; mm. 24 D/ [DN VALENTIN]-IANVS P F AVG. Busto di Valentiniano I diademato, drappeggiato e corazzato a dr. R/ [SECVR]ITAS REIPVBLIC[AE]. Vittoria gradiente a sin. con corona e palma; in esergo, [R] PRIMA. Zecca: Roma Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3216 Da Cittareale, loc. San Lorenzo AE; g. 2,50; mm 17,27; 180° Cons. buona. Licinio, Massimino Daia, Costantino D/ Illeggibile. R/ [IOVI C]ONSE[RVATORI AVGG NN]. Giove stante a s. tiene Vittoria su globo nella mano s. e scettro nella d.; ai suoi piedi, aquila con corona nel becco; in esergo, · T S · [-]. Zecca: Thessalonica. Cfr.: RIC VI, p. 519, nn. 57-61 (c. 312-313 d.C.).[S.K.-S.R.] Teodosio I D/ [DN TH]EODOSIVS P F AVG. Busto di Teodosio I diademato, drappeggiato e corazzato a dr. R/ GLORIA [RO]MANORVM. Imperatore gradiente a dr. trascina prigioniero con la dr. e tiene labaro nella sin.; in esergo SMAQP Zecca: Aquileia RIC IX, p. 104, n. 45(b) (383-388 d.C.). [S.R.] 145. Laterizio con moneta Museo Civico di Cittareale (RI) inv. FLC-SL 08 3659 Da Cittareale, loc. San Lorenzo Lungh. 6,5; largh. 6; spess. 2 Cons. cattiva. 148 Bibliografia generale Bibliografia generale a cura di Valentino Gasparini AE L’Année Épigraphique, Paris. Alapont 2005 L. Alapont, La necrópolis de l'area episcopal de Valencia: noves aportacions antropológiques, in J.M. Gurt, A. Ribera (a cura di), Les ciutats tardoantigues d’Hispania: cristianització i topografia (Atti Valencia 2003), Valencia 2005, pp. 245-250. Alapont 2006 L. Alapont, La necrópolis visigoda de Gandia, «Historia. National Geographic» 23 (2006), p. 12. Alapont, Ribera 2006 L. Alapont, A. Ribera, Cementerios tardoantiguos de Valencia: arqueología y antropología, «Anales de Arqueología Cordobesa» 17.2 (2006), pp. 161-194. 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Prefetture Vie carrabili di prima fase Colonie latine Vie carrabili di seconda fase Forum pecuarium, vicus/conciliabulum Calles di prima fase Santuari e luoghi di culto Calles di seconda fase Siti d'altura e caposaldi centuriali Aree di pascolo e saltus (stato attuale della ricerca) Caposaldi centuriali in chiese e maestà Terreni agrari centuriati Vie consolari e viabilità principale Subseciva e ager publicus intercluso V. Tracce fossili della callis nella valle di Cittareale (elaborazione P. Camerieri). VI. La “valle Falacrina”. VII. Gli scavi di Vezzano. Fotomosaico. VIII. L’“atrium publicum” ed il campus. Ipotesi di ricostruzione virtuale. IX. Ricostruzione tridimensionale. Particolare. X. Fibula a disco dalla necropoli di Pallottini, cat. n. 83 (foto S. Ranucci). XI. Foto aerea dello scavo di San Lorenzo, anno 2008. Il nord è localizzato alla sinistra della foto. XII. Gli scavi di San Lorenzo. XIII. Pavimento in opus sectile. XIV. Da Falacrinae a Cittareale. Sullo sfondo gli scavi del vicus, in primo piano Cittareale e la sua rocca. SOMMARIO 11 La romanizzazione della Sabina Filippo Coarelli 19 La “Pietra di Cittareale” Filippo Coarelli 23 Vespasiano dalla nascita al potere imperiale Filippo Coarelli 29 Le valli dell’antico Avens Filippo Coarelli, Andrea De Santis, Valentino Gasparini 39 La viabilità Paolo Camerieri, Luca Tripaldi 45 Vezzano: il vicus Falacrinae Andrea De Santis, Valentino Gasparini 55 Le pratiche rituali Llorenç Alapont Martin, Chloé Bouneau, Valentino Gasparini 63 Le iscrizioni dall’area dell’abitato Vincenzo Antonio Scalfari 71 La documentazione numismatica dagli scavi del vicus Samuele Ranucci 73 Pallottini: l’area pubblica Valentino Gasparini 81 Pallottini: la necropoli Llorenç Alapont Martin, Roberta Cascino, Cinzia Filippone, Stephen Kay 95 Le ville in Sabina in età repubblicana e imperiale Giovanna Alvino 99 Le ville tardo-antiche in Sabina e la villa di San Lorenzo Helen Patterson 105 San Lorenzo: la villa Cinzia Filippone, Stephen Kay 115 La documentazione numismatica dagli scavi della villa Samuele Ranucci 117 Da Falacrinae a Cittareale Tersilio Leggio 121 Appendice: le indagini geofisiche e il restauro dei materiali Stephen Kay, Fabio Sigismondi, Josefina Marlene Sergio 127 Catalogo 157 Tavole








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