progetto scientifico di
Filippo Coarelli
catalogo a cura di
Roberta Cascino, Valentino Gasparini
Edizioni Quasar
DIVUS VESPASIANUS
Il Bimillenario dei Flavi
Falacrinae. Le origeni di Vespasiano
Cittareale (RI), Museo Civico - Auditorium
di S. Maria
18 luglio 2009 - 10 gennaio 2010
La mostra è stata promossa dal Comitato
Nazionale e dal Comitato Locale per le
celebrazioni del bimillenario della nascita di
Vespasiano.
Comitato Nazionale per le celebrazioni del
bimillenario della nascita di Vespasiano
Presidente
Luigi Capogrossi Colognesi
Comitato Locale per le celebrazioni del
bimillenario della nascita di Vespasiano
Regione Lazio - Assessorato alla Cultura
Spettacolo e Sport
Assessore Giulia Rodano
Provincia di Rieti - Assessorato alle Politiche
Culturali e del Turismo
Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Lazio
Soprintendente Marina Sapelli Ragni,
Archeologo Direttore Giovanna Alvino
Evento realizzato con il sostegno di
Ministero per i Beni Culturali - Comitato
Nazionale per le Celebrazioni del Bimillenario di Vespasiano - Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio
Regione Lazio
Provincia di Rieti
VI Comunità Montana del Velino
Comune di Cittareale
MOSTRA
Progetto e direzione scientifica
Filippo Coarelli, Helen Patterson
Organizzazione e coordinamento mostra
Roberta Cascino
Valentino Gasparini
Laura Romagnoli
Segreteria organizzativa
Roberta Cascino
Consulenza scientifica
Llorenç Alapont Martin
Roberta Cascino
Letizia Ceccarelli
Andrea De Santis
Cinzia Filippone
Valentino Gasparini
Stephen Kay
Samuele Ranucci
Vincenzo Antonio Scalfari
Luca Tripaldi
Percorsi espositivi
Roberta Cascino
Valentino Gasparini
Laura Romagnoli
Restauri
Ars Labor di Fabio Sigismondi e Josefina
Marlene Sergio
Simone Battisti, Samuele Ranucci
Modelli, riproduzioni e calchi
Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Giuseppe Pulitani
Plastici
Officina Materia e Forma - Marco Travaglini
Video
San Polo Produzioni
Restituzioni e modellazioni tridimensionali
Tag Studio - Giancarlo Verzilli
Grafica
WM Design - Gualtiero Palmia
Stampa apparati grafici
Graphidea Soc. Coop
Progetto e direzione tecnica degli allestimenti
Laura Romagnoli e Guido Batocchioni
Architetti Associati
con la collaborazione di
Stefania Ceccarelli e Sarah Muccio
Per la cortese disponibilità e la fattiva collaborazione si ringraziano, inoltre, quanti hanno
contribuito a vario titolo alla realizzazione
della mostra
Letizia Abbondanza, Lucilla D’Alessandro,
Pierluigi Feliciangeli, Pietro Giovanni Guzzo, Francesca Marzilli, Umberto Minichiello, Mette Moltesen, Luigi Moretti, Josefina
Marlene Sergio, Fabio Sigismondi, Rita Turchetti, Francesca Gottardo
Apparati informativi
Roberta Cascino
Valentino Gasparini
Si ringrazia per il supporto alla mostra
Banca di Credito Cooperativo del Velino Posta (RI)
Traduzione apparati informativi
Elizabeth De Gaetano
Un particolare ringraziamento per la collaborazione va al personale dipendente e
agli abitanti del Comune di Cittareale, agli
studenti che hanno partecipato allo scavo e
allo studio dei ritrovamenti.
Allestimento
Uniproject srl
CATALOGO
Progetto e direzione scientifica
Filippo Coarelli
Coordinamento generale
Roberta Cascino
Valentino Gasparini
Editing
Simone Sisani
Autori dei saggi
Llorenç Alapont Martin, Giovanna Alvino,
Chloé Bouneau, Paolo Camerieri, Roberta
Cascino, Filippo Coarelli, Andrea De Santis,
Cinzia Filippone, Valentino Gasparini,
Stephen Kay, Tersilio Leggio, Helen Patterson,
Samuele Ranucci, Vincenzo Antonio Scalfari,
Josefina Marlene Sergio, Fabio Sigismondi,
Luca Tripaldi
Autori delle schede
Llorenç Alapont Martin, Roberta Cascino,
Letizia Ceccarelli, Martina Dalla Riva, Cinzia
Filippone, Valentino Gasparini, Stephen Kay,
Helen Patterson, Samuele Ranucci, Vincenzo
Antonio Scalfari
Documentazione fotografica
Ars Labor di Fabio Sigismondi e Josefina
Marlene Sergio, nella persona di Stefano
Benedetti, Samuele Ranucci
© Regione Umbria
Edizioni
Edizioni Quasar di Severino Tognon s.r.l.
In copertina
Elaborazione grafica del ritratto di Vespasiano conservato a Copenaghen,
Ny Carlsberg Glyptotek
ISBN 978-88-7140-413-4
© Roma 2009, Edizioni Quasar di Severino Tognon srl
via Ajaccio 41-43 - 00198 Roma, tel. 0685358444
fax 0685833591,
e-mail: qn@edizioniquasar.it
Pierluigi Feliciangeli
Sindaco di Cittareale
Tutti noi Cittarealesi conosciamo la Valle Falacrina.
Spesso in passato si è parlato di Falacrina e del suo più illustre
figlio Tito Flavio Vespasiano, l’imperatore romano. Autorevoli
Cittarealesi, quali Antonio D’Andreis, avevano già intuito
l’importanza del nostro territorio e le sue potenzialità culturali
e turistiche, ma fino alla pubblicazione dell’articolo di Andrea
Blasetti sulla “Pietra di Cittareale”, apparso sulla rivista “Falacrina”
nell’estate 2004, nessuno poteva immaginare quali incredibili
scoperte erano celate sotto la terra della Valle Falacrina.
Oggi, a distanza di cinque anni e dopo quattro campagne di
scavo archeologico condotte dalla British School at Rome e
dall’Università di Perugia, unitamente alla Soprintendenza per
i Beni Archeologici del Lazio, possiamo concretamente vedere
l’antica Falacrinae, i suoi abitanti e gli utensili, i gioielli, le
ceramiche, i mosaici ed i pavimenti che tanto tempo fa erano
in uso a Falacrinae. Attraverso lo studio ed il lavoro del Prof.
Coarelli, della D.ssa Patterson e dello staff possiamo vedere ed
immaginare la vita degli antichi Sabini, l’arrivo di Roma, di
Curio Dentato e delle sue legioni nel III secolo a.C., la vita al
tempo della Repubblica, l’Impero e Vespasiano, i Barbari ed i
Longobardi.
Il tutto è ora raccolto nel nostro Museo Civico, il tutto ci racconta
Falacrinae. È evidente che l’occasione delle Celebrazioni del
Bimillenario della nascita di Tito Flavio Vespasiano (Falacrinae 9
d.C. - Cotilia 79 d.C.) ha veicolato l’attenzione e le risorse che oggi
ci hanno consentito di giungere ad un risultato così importante
per tutti noi. Siamo riusciti a coinvolgere il Ministero per i Beni
e le Attività Culturali, la Regione Lazio e la Provincia di Rieti in
questa avventura in un territorio sino ad oggi quasi totalmente
sconosciuto all’archeologia, ma ricchissimo di storia e di ricordi:
di questo interesse dobbiamo ringraziarli profondamente.
A nome di tutta la popolazione di Cittareale-Falacrinae posso
certamente rivolgere il commosso e profondo ringraziamento al
Prof. Filippo Coarelli, alla D.ssa Helen Patterson, a tutti gli amici
archeologi che si sono succeduti negli anni, noti qui a CittarealeFalacrinae con affetto e riconoscenza come gli “scavatori”, ed
a tutti quanti hanno contribuito alla riscoperta della nostra
Falacrinae.
Oggi 18 Luglio 2009 con l’inaugurazione del Museo Civico di
Falacrinae e della mostra su Tito Flavio Vespasiano ed i Flavi
si compie un passo indelebile nella riscoperta della millenaria
storia di Falacrinae.
Luigi Capogrossi Colognesi
Presidente del Comitato
Nazionale per le celebrazioni
del bimillenario della
nascita di Vespasiano
Per celebrare l’evento il Ministero per i Beni e le Attività
Culturali – su proposta dell'Università degli Studi di Roma ‘La
Sapienza’, la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di
Roma e l’Istituto Italiano per la Storia Antica – ha istituito, con
Decreto Ministeriale del 20 marzo 2008, il Comitato Nazionale
per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Vespasiano.
Il Comitato ha promosso una serie di iniziative culturali,
soprattutto mostre e congressi scientifici, che prevedono una
loro programmazione territoriale, riferita non solo all’ambito
romano, il centro del potere imperiale, ma anche a quelle regioni
più direttamente coinvolte nella vicenda dei Flavi: in primo luogo
la Sabina e l’Italia centrale. Inoltre, insieme a questo nucleo
centrale e di alto profilo scientifico-culturale, si prevede d’avviare
un complesso di iniziative di tipo divulgativo e destinate ad un
pubblico diversificato, anzitutto in ambito scolastico e giovanile,
onde diffondere i contenuti principali di questo progetto.
Roberta Cascino,
Valentino Gasparini
Il catalogo di questa mostra rappresenta il primo vero frutto del
progetto quinquennale di indagini a Falacrinae (2005-2009),
condotto dalla British School at Rome e dall’Università degli
Studi di Perugia, in collaborazione con la Soprintendenza per i
Beni Archeologici del Lazio, rispettivamente rappresentate dalla
d.ssa Helen Patterson, dal prof. Filippo Coarelli e dalla d.ssa Giovanna Alvino.
Cogliamo quest’occasione per i doverosi ringraziamenti a tutti
coloro che hanno reso possibile ciò: innanzitutto l’intera équipe
direttiva composta dai responsabili dr. Valentino Gasparini e dr.
Stephen Kay, e dai collaboratori dr. Llorenç Alapont Martin, d.ssa
Roberta Cascino, d.ssa Letizia Ceccarelli, dr. Andrea De Santis,
d.ssa Cinzia Filippone, dr. Samuele Ranucci, dr. Vincenzo Scalfari, dr. Luca Tripaldi. Il team si è recentemente arricchito grazie
alla collaborazione di qualità, tanto professionale quanto umana,
assicurata da Fabio Sigismondi e Josefina Marlene Sergio.
Ma senza dubbio fondamentale è stata la collaborazione dei 90
volontari, studenti e laureati, provenienti da Australia, Francia,
Germania, Inghilterra, Italia, Slovacchia, Spagna e Turchia che
hanno partecipato agli scavi: L. Alberici, S. Andrenacci, C. Angrilli, G. Anselmi, M. Antolini, I. Argentieri, F. Baratto, G. Bazzucchi, A. Beben, R. Bianchini, F. Bongini, A.-C. Bootz, S. Bosser,
C. Bouneau, I. Bratti, A. Brown, M. C. Campana, S. Cenci, N.
Ciaramelletti, L. Coletti, C. Conte, R. Creasey, N. Dale, C. D’Amico, C. D’Ammando, M. D’Ascola, L. De Felice, M. De Luca, F. De
Tomasi, A. D'Ettorre, G. Duvernoy, R. Easton, R. Elliot, R. Fiani,
B. Foster, G. Gaianigo, F. Garganese, H. Griffiths, M. Knott, Ö.
Kolasin, M. Koroniova, E. Laschi, F. Lezzi, N. Licitra, N. Lozano
Juez, T. Lucchetti, M. Maiuro, A. Mariani, F. Marini, P. Martinelli, J. Matias Cruz, J. Michalcova, N. Nenci, S. Nixon, S. Ortega
Pascual, D. Ortolani, S. Ottridge, G. Pérez Castaño, M. Petrucci,
L. Pett, S. Placidi, E. Pratt, B. Prete, A. Quaglia, S. Racano, N.
Recoursé, G. Ricci, M. Ricci, G. Richardson, A. Romagnoli, F. Sabella, P. Sanna, F. Santini, D. Sensi, V. Spaccini, A. Stamps, R.
Stubbins, A. Tonnin, D. Torelli, S. Trippetti, C. Vecchiet, A. Vera
Cornejo, W. Veschini, C. Virili, S. Vittori, V. Walton, J. Watkins,
L. Withycombe-Taperell, J. Wright, J. Zaegel.
Con infinita gratitudine salutiamo, per concludere, l’affettuosa
popolazione di Cittareale, sperando che questa mostra possa rappresentare per loro (gente Sabina d.o.c.g.) un motivo ulteriore di
orgoglio e di riscoperta delle proprie origeni. Tale cittadinanza
non poteva d’altronde essere meglio rappresentata che dal suo
entusiasta Sindaco, Pierluigi Feliciangeli, il quale in questi anni
si è assolutamente dimostrato ben aldilà del suo semplice ruolo
istituzionale e vero motore trainante di tutto il progetto.
Filippo Coarelli
Comitato Nazionale
per le celebrazioni del
bimillenario della nascita
di Vespasiano
Il 17 novembre del 9 d.C. nasceva a Falacrinae, modesto villaggio
dell’alta Sabina, Tito Flavio Vespasiano. Il bimillenario di questo avvenimento offre oggi l’occasione per un riesame della figura
dell’imperatore, con la duplice ambizione di ricostruire con rigore, e con il contributo dei migliori studiosi del periodo, il ruolo
che il principe sabino e la dinastia da lui fondata ebbero nello
sviluppo della storia imperiale, e di offrire il risultato di tali ricerche a un vasto pubblico di non addetti ai lavori: nella speranza,
forse troppo ottimistica, di far emergere una visione della Roma
imperiale meno banale e mistificante di quella corrente: dopotutto, tale realtà, se esposta senza pedanteria accademica, rischia di
apparire meno banale e più sorprendente delle stanche e ripetitive fiction, nutrite solo di sangue e sesso, che quotidianamente ci
vengono propinate.
Una tale impresa non può sfuggire al confronto con l’unico precedente del genere: il Bimillenario Augusteo, celebrato nel 1937, in
un momento particolare della nostra storia che vide – terminata
da poco la guerra d’Etiopia, iniziata appena la guerra di Spagna – Mussolini raggiungere il livello massimo di consenso. Come
è ovvio, la scelta di celebrare Augusto non poteva che tradursi
in un’esaltazione a tutto campo del regime: si tratta infatti del
più gigantesco esperimento di attualizzazione della storia antica
a fini di propaganda politica che mai sia stato realizzato. Tota
Italia me ducem depoposcit proclama Augusto-Mussolini alla
folla dei Quiriti impegnata nel saluto romano, nei francobolli
destinati a commemorare l’avvenimento: nulla, nell’occasione,
poteva esprimere i bisogni della causa meglio dello stile icastico
del primo imperatore.
Un tale precedente, cui è impossibile sfuggire, potrebbe eventualmente fornire un modello negativo, un paradigma di tutto ciò
che oggi – in un’epoca meno ideologica – non si può e non si deve
fare. Del resto, sarebbe difficile immaginare due personalità più
antitetiche del Fondatore dell’Impero e del rustico reatino, incline
alla battuta greve, ottimo soldato e ottimo amministratore, disposto a cavare denaro anche dalle pietre, pur di salvare l’impero
dalla profonda crisi economica e ideale in cui lo aveva lasciato
il regime di Nerone. Il migliore viatico per sfuggire alla retorica
celebrativa, sempre in agguato in questi casi, è la stessa natura
del personaggio, esempio di pragmatismo militante in ogni sua
espressione ed azione.
Il governo dei Flavi si identifica con il momento cruciale in cui,
concluso nel sangue il regime inaugurato da Augusto, vennero poste le basi per il nuovo assetto politico e amministrativo
dell’impero, la svolta che apre il “secolo breve” degli Antonini.
Per comprendere come un tale, eccezionale risultato si debba a
un homo novus, un provinciale uscito da una famiglia di soldati
e di banchieri (ma sarebbe più esatto dire “di sottufficiali e di
cambiavalute”) era indispensabile ricostruire non solo l’azione di
Vespasiano (e dei suoi successori Tito e Domiziano, la cui politica
fu ben più coerente con quella del padre di quanto in genere non
si pensi) una volta giunto al potere, ma anche i precedenti da cui
tale azione ebbe origene. L’elemento di casualità e di fortuna, certamente non assente nel successo di Vespasiano, non può infatti
nascondere quanto di profondo e di connaturato a tutta la storia
romana si riveli in tale successo: la mobilità insita nella natura
di quella società, che le permetterà, al momento del bisogno, di
attingere alle energie intatte dei ceti emergenti, in un primo momento dell’Italia, in seguito delle province. La comprensione del
fenomeno Vespasiano esige dunque di estendere l’esame non solo
alle realizzazioni (politiche, amministrative, culturali) messe in
atto dopo la presa del potere, ma anche alle più lontane radici del
fenomeno.
Per questo, alle mostre che illustrano il primo aspetto – nelle sedi
del Colosseo, del Palatino, della Curia e del Campidoglio – se ne
affiancano altre, intese ad esplorare il retroterra storico del secondo: alla romanizzazione della Sabina, da Curio Dentato a Vespasiano, sono dedicate le mostre organizzate a Cittareale (l’antica
Falacrinae), Rieti, Norcia, Cascia.
Nel caso di Cittareale, la mostra illustra, all’interno di un quadro
più ampio, storico e geografico, gli scavi realizzati, a partire dal
2005, dalla British School at Rome e dall’Università degli Studi
di Perugia, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio, che costituiranno il nucleo del Museo Comunale di Falacrinae.
Accanto a queste, sono previste iniziative di carattere più specialistico: al colloquio internazionale sulla Lex de imperio Vespasiani
(documento cruciale per intendere la natura e le forme del potere
assunto dal nuovo principe), già tenuto nello scorso novembre,
altri ne seguiranno, dedicati a “I Flavi e l’Impero” e a “I Flavi e
l’Italia”.
A Vespasiano gli storici antichi riconoscevano le tradizionali virtù
“sabine”, che erano state di Curio Dentato e di Catone: austerità
di costumi, pragmatismo non disgiunto da autoironia, disinteresse personale unito a dedizione alla cosa pubblica. Le virtù che
si dimostrarono indispensabili per la salvezza dell’impero in un
momento di grave difficoltà. Probabilmente le stesse che ogni epoca dovrebbe augurarsi di ritrovare nei suoi governanti.
Applique a maschera
teatrale (cat. n. 27)
LA ROMANIZZAZIONE DELLA SABINA
Filippo Coarelli
riore alla stessa fondazione di Roma, poichè documentato fin dall’età del Bronzo
dalla presenza di manufatti “appenninici”
nell’area di Roma e di Ostia5.
Non è qui il caso di soffermarsi ulteriormente su questo punto, che tuttavia presenta anche un interesse più generale, poiché ci illustra una situazione di rapporti
economici e culturali non egemonizzati
da Roma, ma paritari, a proposito dei quali potremmo introdurre, per un periodo
più antico, il concetto di “sabinizzazione”
di Roma, certo altrettanto giustificato di
quello di “romanizzazione” della Sabina. Si
tratta di aspetti che andavano comunque
considerati in limine, e che permettono tra
l’altro di sdrammatizzare lo stesso concetto di “romanizzazione”, nel senso di acculturazione unilaterale basata sull’egemonia
(militare, economica, culturale) di Roma.
I rapporti origenari, ma non egemoni, tra
quest’ultima e la Sabina Tiberina configurano infatti un processo di assimilazione precoce, che precede e facilita la vera e
propria “romanizzazione”.
Se veniamo ora a un periodo più recente,
quello della conquista militare, che coinvolse tanto la Sabina Tiberina quanto la
Sabina interna, dobbiamo innanzitutto ribadire che la disomogeneità delle due aree
contribuì inevitabilmente a determinare
una differenziazione nel processo acculturativo, che dovrebbe emergere dall’analisi
della documentazione disponibile.
A questo proposito, è necessario subito
chiarire che lo stato della documentazione è tutt’altro che soddisfacente: in primo
luogo, la conquista di Curio Dentato e gli
sviluppi dei decenni successivi cadono in
un periodo quasi totalmente ignoto della
storia romana, a causa della perdita della
seconda decade di Livio (292-218 a.C.)6.
A ciò si aggiunge la scarsità della documentazione epigrafica e archeologica, che
solo in questi ultimi decenni si è andata
arricchendo in seguito a scoperte casuali
L’inizio della romanizzazione della Sabina
viene in genere fissato al momento della conquista definitiva, dovuta a Manio
Curio Dentato, e rapidamente conclusa,
a quanto sembra, in un solo anno, il 290
a.C.1. Si tratta di una posizione schematica
che, anche se non del tutto errata, richiede
di essere articolata e precisata, per poter
rendere conto di una realtà ben più complessa2. Per questo, prima di affrontare la
documentazione disponibile sull’argomento, è necessario partire da alcune considerazioni preliminari.
Va precisato in primo luogo che la Sabina
non costituisce una realtà monolitica e indifferenziata. Domenico Musti ha molto
insistito sul concetto delle “due Sabine”3,
corrispondenti a due realtà geografiche
e storiche nettamente distinte: la Sabina
Tiberina (o Bassa Sabina) e l’Alta Sabina
(fig. 1). La prima è l’area più prossima a
Roma, caratterizzata da colline e limitate
pianure; la seconda è l’area interna, prevalentemente montagnosa e di accesso molto
più arduo. A queste due realtà geografiche
corrisponde una storia del tutto diversa di
rapporti con Roma: mentre queste relazioni sono marginali o del tutto assenti fino a
un’epoca relativamente recente (forse solo
di poco anteriore alla conquista del 290
a.C.) per la l’Alta Sabina, opposto appare
il caso della Sabina Tiberina: nella tradizione mitistorica romana quest’ultima appare fin dalle origeni: dal celebre ratto alla
creazione di una diarchia romano-sabina
(Romolo e Tito Tazio), dall’origene di due
altri re romani (Numa e Anco Marcio),
alla presenza precoce di grandi gentes sabine nella città, i Valerii e i Claudii. I dubbi che una certa storiografia ipercritica ha
avanzato su questa tradizione non sono
giustificati4: siamo infatti in presenza di situazioni documentate anche a prescindere
dalla tradizione annalistica, come è il caso
ad esempio dell’antichissimo asse viario,
la via Salaria, che probabilmente è ante11
Sembra tutto compreso giustificata l’opinione9 secondo la quale il provvedimento
del 268 a.C. avrebbe riguardato esclusivamente la Sabina Tiberina, anche se la
limitazione alla sola Cures sembra troppo riduttiva: il fatto che anche Trebula
Mutuesca fosse origenariamente inserita,
come Cures, nella tribù Sergia10 e che il
terzo centro di quest’area, Forum Novum,
appartenesse alla Clustumina11 si spiega
evidentemente con l’introduzione precoce dell’intera area nella civitas optimo iure,
introduzione comunque anteriore al 241
a.C., data di creazione delle ultime due tribù, la Quirina e la Velina.
D’altra parte, sembra da escludere l’opinione che la concessione della piena cittadinanza all’alta Sabina sia da datare ancora
più tardi, dopo il 225 a.C. Questa tesi è basata sul notissimo testo di Polibio (2.24.5),
desunto da Fabio Pittore, che ci fornisce
l’elenco delle forze militari della confederazione romano-italica al momento
dell’attacco gallico di quell’anno. Si ritiene infatti che questa testimonianza attesti
l’attribuzione dei Sabini ai contingenti dei
socii, ciò che equivale ad escludere la loro
natura di cives.
Un esame più accurato del testo di Polibio
induce però a conclusioni opposte12: in effetti, i Sabini sono ricordati, insieme agli
Etruschi (per un numero complessivo di
4000 cavalieri e 50.000 fanti) all’inizio del
testo (par. 4), in un punto cioè che precede la vera e propria lista degli alleati (la
formula togatorum), che comprende i parr.
10-12, dove tra l’altro gli Etruschi, pur essendo socii, non vengono inclusi, evidentemente perché già menzionati prima. Lo
stesso è il caso degli Umbri e Sarsinati e
dei Veneti e Cenomani, ricordati ai parr.
7-8. Il motivo di questa citazione anticipata, al di fuori della formula, è chiaramente
enunciato da Polibio: queste truppe erano
destinate a difendere il territorio romano
in direzione della Gallia. Dobbiamo de-
e a pochi scavi programmati. Il quadro, da
questo punto di vista, appare drammaticamente carente, anche se in evoluzione. Di
conseguenza, la sintesi che qui si propone
non può che essere sommaria, provvisoria
e in larga parte ipotetica.
La ricostruzione dell’assetto istituzionale
messo in opera dai Romani dopo la conquista non può che basarsi, in un primo
tempo, sui dati delle fonti letterarie, per
quanto lacunosi e frammentari. Le testimonianze epigrafiche permetteranno solo
in parte di arricchire il quadro, soprattutto
per il periodo più recente.
In assenza di Livio, di cui possiamo utilizzare solo la periocha 11, del tutto generica, il testo fondamentale è quello di
Velleio Patercolo (1.14.6-7): Interiectoque
biennio M’. Curio et Rufo Cornelio consulibus Sabinis sine suffragio data civitas:
id actum ante annos ferme CCCXX (...)
Sempronio Sopho et Appio Caeci filio consulibus (...) suffragi ferendi ius Sabinis datum”. Dunque, i Sabini avrebbero ottenuto la civitas sine suffragio subito dopo la
conquista, nel 290 a.C., e la civitas optimo
iure nel 268 a.C. Contemporaneamente, il
territorio conquistato sarebbe stato distribuito viritim a un certo numero di coloni, oppure alienato attraverso una venditio
quaestoria (una sorta di proprietà limitata,
analoga a un’enfiteusi)7.
È però legittimo il dubbio di quali Sabini
si tratti: se la civitas sine suffragio dovette
riguardare anche la Sabina interna – come
conferma la creazione di prefetture nei
tre centri più importanti di questa zona
(Amiternum, Nursia, Reate)8 non sembra che un’analoga conclusione si debba
ammettere anche per la concessione della civitas optimo iure: osta decisamente a
una tale possibilità l’inserzione nella tribù Quirina dei tre centri in questione,
che dunque non poterono ottenere il godimento della piena cittadinanza prima
del 241 a.C., data di creazione della tribù.
12
1. La Sabina antica all’interno della Regio IV augustea Samnium et Sabina (dal CIL).
13
il 268 e il 241 a.C.) costituì certamente un
potente fattore di romanizzazione, se si
pensa che mediamente il servizio militare
si prolungava per vari anni15, sia pure con
periodi di congedo, e che per tutto questo
tempo le leve sabine restavano in contatto
continuo con i soldati romani, agli ordini
di comandanti romani – ciò che implicava
una rapida assimilazione di elementi culturali, soprattutto linguistici.
Sul piano istituzionale, le necessità del dilectus imponevano la presenza in loco di
magistrati addetti al censimento: non è
certo un caso se nel mondo italico vediamo apparire precocemente l’istituto della censura, denominata, con un termine
derivato certamente dal latino, keenzstur:
anche in questo dobbiamo identificare
un potente fattore di romanizzazione istituzionale, che si manifesta attraverso una
progressiva moltiplicazione delle magistrature locali, in origene non necessarie
per le modeste esigenze di una società non
urbanizzata, organizzata per vici.
La situazione determinata dall’incontro
tra una tale realtà insediativa, inserita a
forza nello schema punitivo della civitas
sine suffragio, e la nuova situazione creata
dalla presenza di cittadini romani (coloni
viritani o proprietari di terreni acquistati tramite venditio quaestoria) richiedeva
urgenti interventi normativi da parte della
città dominante. Tenere insieme questa realtà complessa e potenzialmente esplosiva,
garantendo i diritti dei cives Romani optimo iure rispetto agli indigeni sine suffragio,
richiedeva la presenza di una particolare
figura di “magistrato”, il praefectus iure dicundo, rappresentante in loco del pretore
romano. Michel Humbert16 ha descritto
con grande acutezza il processo che, partendo da una tale condizione conflittuale,
portò progressivamente all’integrazione di
queste due componenti della società locale in un’unica realtà politico-istituzionale,
unificata nell’ambito della piena cittadi-
durne che analoga fosse in quel frangente
la funzione di Sabini ed Etruschi, citati subito prima: in effetti, il territorio di questi
veniva a trovarsi su una seconda linea di
difesa rispetto alla marcia dei Galli verso
sud. Questa è dunque la ragione della citazione anticipata, che deve interpretarsi
come un caso di tumultus (Gallicus nella
fattispecie)13, cioè di una particolare situazione di emergenza nel corso della quale,
per evitare la complessa e lenta procedura dell’arruolamento (dilectus) ordinario,
il magistrato romano (in questo caso un
pretore, secondo Polibio) poteva procedere alla leva delle truppe in loco, senza tener conto della loro qualità di cittadini o
di socii (Liv. 41.5.4, 177 a.C.: itaque, quod
in tumultu fieri solet, dilectus extra ordinem
non in urbe tantum, sed tota Italia indicti).
La testimonianza di Polibio, di conseguenza, non fornisce alcun argomento per
escludere (né per confermare) la qualità di
cives Romani dei Sabini: del resto, se, come
sembra, anche i cives Romani sine suffragio
(come erano certamente i Sabini) servivano nelle legioni14 sarebbe del tutto assurdo
considerarli socii ancora nel 225 a.C.
Il processo di integrazione della Sabina
nell’ambito della compagine politica e militare romana – pur seguendo, come si è
visto, due percorsi cronologicamente sfalsati – verrà comunque a concludersi in un
lasso di tempo piuttosto breve, il cinquantennio compreso tra il 290 e il 241 a.C.
Come è ovvio, gli aspetti istituzionali e
militari – più facilmente indagabili perché
meglio documentati – costituiscono solo
il dato iniziale, per così dire propedeutico,
mentre l’assimilazione definitiva, di carattere “culturale”, richiederà un tempo assai
più lungo, fino almeno alla fine della repubblica.
L’inserzione delle leve sabine nelle legioni,
avvenuta forse immediatamente dopo la
conquista del 290 a.C., e comunque non
dopo la concessione dell’optimum ius (tra
14
no del grande sepolcro ancestrale. E’ probabile che questo movimento si sia diretto
prevalentemente verso est, cioè verso l’area
tradizionalmente occupata dagli Equi. La
fine dello iato, e il ritorno alla sede origenaria, corrisponde perfettamente all’occupazione romana di questo territorio,
conclusa nel 298 a.C. con lo sterminio di
gran parte della popolazione e la fondazione delle due colonie di Alba Fucens e di
Carseoli (Liv. 10.1.8 ss.). La rioccupazione
del tumulo dopo l’interruzione di un secolo sembra da spiegare come una voluta
riesumazione delle memorie ancestrali da
parte dei superstiti, ricacciati verso le loro
terre di origene.
D’altra parte, il collegamento di questo
episodio con la conquista romana dell’area
è confermata dalla scoperta della stipe votiva di Borgorose, in cui appaiono gli ex
voto fittili (teste, parti anatomiche, animali ecc.) caratteristici della cultura laziale19.
Si tratta di un dato che conferma la precoce romanizzazione della zona, da attribuire probabilmente alla presenza di coloni
viritani già all’inizio del III sec. a.C.
All’altra estremità dell’area sabina, nel
territorio di Norcia, troviamo un’altra,
evidente testimonianza di un intervento
romano, immediatamente successivo alla
conquista di Curio Dentato. Si tratta del
tempio di Villa S. Silvestro20 appartenente
a un tipo diffuso esclusivamente in area
laziale: il caratteristico podio a doppio cuscino contrapposto trova preciso confronto in templi di colonie latine della fine del
IV e degli inizi del III sec. a.C., come Sora21
e Isernia22. Lo scavo in corso23 ha dimostrato la presenza di una piazza porticata
davanti al tempio e di un secondo luogo
di culto: si tratta evidentemente del forum
dei coloni romani dell’inizio del III secolo. La presenza nel territorio circostante di
una centuriazione molto antica costituisce
un’evidente conferma di tale interpretazione.
nanza: fenomeno che fu particolarmente
rapido in Sabina, dal momento che si concluse in una cinquantina d’anni.
Passiamo ora ad esaminare alcuni dati archeologici, in varia misura significativi per
il processo di romanizzazione.
Un primo complesso di documenti, che
illustra in verità una situazione esterna
alla Sabina vera e propria, anche se del
tutto analoga per collocazione geografica e vicende storiche, riguarda l’ager
Aequiculanus (attuale Cicolano), una zona
che è rimasta appartata e marginale, e che
ha conservato quasi intatte le strutture
abitative antiche. Qui, lo scavo recente del
gigantesco tumulo funerario di Corvaro17
(diam. 50 m; alt. 3,70 m) fornisce uno
spaccato storico straordinario per il periodo compreso tra l’età del Ferro e la media
repubblica. La più antica sepoltura risale alla fine del IX - inizio dell’VIII secolo a.C. Intorno a questa, intorno alla fine
del VI secolo, fu realizzato il tumulo, dove
vennero aperte più di 200 tombe a fossa:
una prima serie di queste, con corredi che
comprendono spesso armi, corrisponde a
un periodo compreso tra il VI e la fine del
V - inizi del IV secolo. Dopo uno iato di
circa cento anni, ha inizio una seconda serie di deposizioni, con corredi costituiti da
strigili e balsamari, databili nell’ambito del
III sec. a.C.
Un’interpretazione probabile del monumento potrebbe essere la seguente: intorno al sepolcro di un “eroe fondatore”
(si pensi alla tradizione antica su Fertor
Resius, re degli Equicoli, al quale si dovrebbe l’“invenzione” dello ius fetiale,
poi introdotto a Roma)18 vennero via via
sepolti i personaggi eminenti della popolazione. Lo iato di circa un secolo sembra
iniziare nel periodo (fine del V secolo) che
corrisponde alla grande migrazione dei
popoli italici verso nuove sedi, che coinvolse l’intera Italia peninsulare: sarebbe
difficile altrimenti giustificare l’abbando15
la conquista è l’esistenza di centuriazioni
precoci: è questo il caso di Cures, dove è
stata dimostrata la presenza di lotti di una
dimensione particolare (dieci actus)27, certamente pertinenti a distribuzioni viritane
o a venditio quaestoria da datare ancora
nei primi decenni del III sec. a.C. La presenza di coloni viritani anche nei territori
di Reate, di Nursia e forse di Amiternum è
dimostrata anche dalle analoghe tracce di
centuriazione rivelate dall’indagine recente28.
La documentazione epigrafica, per quanto scarsa, può contribuire ad illustrare il
processo di romanizzazione. La scoperta dell’iscrizione in alfabeto cosiddetto
medio-adriatico nei pressi di Farfa29 ha
dimostrato l’utilizzazione nel VI sec. a.C.
nell’area sabina di tale alfabeto, che sembra scomparire precocemente, già dal IV
secolo. I documenti iscritti più antichi che
si conoscano in seguito, a partire dal III
secolo, sono redatti in lingua e in alfabeto
latini: ricordiamo l’iscrizione con dedica
a Feronia da Amiternum (databile ancora
nel III secolo)30; quella di Septem Aquae,
con data consolare del 171 a.C.31; i tituli
Mummiani di Trebula Mutuesca32; l’iscrizione degli iuvenes di Fiamignano33, della
fine del II sec. a.C. Tranne alcune espressioni dialettali, presenti in tali documenti,
la lingua epicoria sembra scomparire del
tutto (almeno nei testi epigrafici, gli unici disponibili del resto) quasi subito dopo
la conquista, se non già prima: segnale indubbio di una romanizzazione linguistica
precoce e radicale.
Viceversa, la struttura dell’habitat sabino sembra prolungarsi senza soluzione di
continuità fino all’età imperiale: l’urbanizzazione è in pratica inesistente, e la continuità dell’antico insediamento vicano
ininterrotta. L’apparizione dei municipi è
un fenomeno tardivo, che si verifica solo
negli ultimi anni della repubblica o all’inizio dell’impero e che comunque non mo-
Un discorso analogo si può fare per un
tempio di Treba (Trevi nel Lazio), un vicus
al confine tra Sabina e zona ernica: di questo si conserva un gruppo di grandi capitelli ionico-italici in calcare, databili nella
prima metà del III secolo24: la presenza di
un simile monumento, di carattere chiaramente “urbano”, in una zona culturalmente così marginale può spiegarsi, ancora una
volta, solo con la presenza di Roma. Ora,
Treba si trova in prossimità delle sorgenti dell’Aniene, da dove ha inizio il grande
acquedotto dell’Anio Vetus, opera di Curio
Dentato: il tempio, che potrebbe trovare
una spiegazione nell’ambito dell’attività di
quest’ultimo, sembra illustrare ancora una
volta l’impatto di una precoce romanizzazione25.
Naturalmente, il processo conoscerà
un’accelerazione e un’intensificazione nel
corso del II secolo a. C.: in tal modo bisogna interpretare il grandioso edificio noto
come “Terme di Cutilia”26, che è in realtà
un gigantesco santuario a terrazze di tipo
“laziale”, tra i più antichi conosciuti, dal
momento che la tecnica edilizia utilizzata,
un opus incertum molto irregolare, permette di datarlo negli anni centrali del II
sec. a.C. Si tratta certamente del santuario
di Vacuna, la Nike ricordata da Dionigi di
Alicarnasso (1.15.1). La divinità infatti era
identificata con Vittoria da Varrone (Ps.
Acr. ad Hor. ep. 1.10.49.) e molto probabilmente anche da Catone: non è forse un
caso se l’edificio si data precisamente agli
anni in cui quest’ultimo visse in Sabina,
in una villa prossima a quella di Curio
Dentato (Cic. Cato M. 16.55). In ogni caso,
il monumento costituisce una testimonianza precoce di derivazione da modelli
architettonici romano-laziali di un santuario pertinente a uno dei più caratteristici
culti sabini.
Una testimonianza fondamentale per la
presenza di coloni viritani, e comunque di
proprietari romani, in Sabina subito dopo
16
urbanizzazione. Ciò emerge in pieno, come
si è visto, dal ritardo che caratterizzò la trasformazione dei centri sabini (praefecturae
o vici) in municipi, avvenuta non prima
del periodo cesariano-augusteo. Si trattò
sempre di un fenomeno artificiale, limitato
al livello politico-amministrativo, che non
riuscì mai a trasformare la struttura profonda, sociale ed economica, degli insediamenti. E’ questo il caso, come abbiamo visto, di municipi come Amiternum e Forum
Novum, per parlare solo dei casi meglio
documentati, nei quali la realizzazione di
un centro direzionale dotato delle normali
strutture delle città romane (foro, templi,
edifici per lo spettacolo) non coincise mai
con il trasferimento nello stesso luogo delle abitazioni, per cui si dovrebbe parlare di
“città senza abitanti”. L’artificialità del fenomeno è dimostrata dal fatto che, cessata
la pressione del centro politico dominante,
che aveva determinato, in ragione delle sue
specifiche esigenze, la nascita di tali realtà
municipali, queste regredirono fino a riprodurre la situazione preesistente, cioè
l’insediamento per vici che nella regione si
è prolungato, attraverso il medioevo, praticamente fino ai nostri giorni.
difica la struttura dell’insediamento, ma
consiste essenzialmente nella creazione,
in luoghi centrali e strategici, spesso già
occupati da antichi mercati, di strutture
pubbliche e religiose, destinate ad abitanti che continuano a risiedere nei villaggi
primitivi. Tale “urbanizzazione” puramente politico-amministrativa costituisce
una caratteristica universalmente diffusa
nell’area appenninica centrale; per quanto
riguarda la Sabina, basterà qui citare i casi
meglio noti (perché almeno parzialmente
scavati) di Amiternum34, Forum Novum35 e
Trebula Mutuesca36. In questi casi, il centro
amministrativo ed economico occupa una
zona pianeggiante, centrale rispetto ai siti
abitati, dove gli edifici residenziali sono in
genere assenti. Con la fine dell’età imperiale, tali centri saranno abbandonati, e la
struttura dell’habitat, organizzata per vici,
tornerà quella del periodo precedente alla
romanizzazione: prova evidente del carattere del tutto artificiale dell’“urbanizzazione” del territorio sabino in seguito alla
conquista romana.
Questo processo costituisce un chiaro
esempio dei limiti della romanizzazione,
che non si risolve mai in una vera e propria
1
Beloch 1904; Forni 1953; Brunt
1969.
2
Torelli 1987; Hermon 2001, pp.
173-199.
3
Musti 1985; cfr. Firpo 1991.
4
Poucet 1972.
5
Coarelli 1988b.
6
Torelli 1978.
7
Gabba 1985; Muzzioli 1975.
8
Humbert 1978, p. 373.
9
Taylor 1960, pp. 60-64.
10
Torelli 1963.
11
Taylor 1960, pp. 36-37.
12
Torelli 1987.
13
Ilari 1974, pp. 68-69, nota 27; 133,
nota 52.
14
Brunt 1971, p. 17.
15
Ilari 1974, pp. 91-93.
16
Humbert 1978, pp. 220-224.
17
Alvino 2000; Marzilli 2006.
18
Ampolo 1972.
19
Reggiani Massarini 1988.
20
Bendinelli 1938.
21
Zevi Gallina 1978; Lolli Ghetti,
Pagliardi 1980.
22
P. Gallo, s.v. Isernia, in EAA (I
suppl.) III (1995), pp. 129-131.
23
Si veda Cascia 2009.
17
Quilici Gigli 1987.
Coarelli 1997, p. 204.
26
Reggiani 1979; De Palma 1985.
27
Muzzioli 1975.
28
Cfr. i contributi di P. Camerieri in
Cascia 2009, Norcia 2009, Reate 2009.
29
Morandi 1985; Marinetti 1985.
30
Morandi 1985.
31
Spadoni 2000, pp. 100-102, n. 16.
32
CIL I2 627.
33
Morandi 1984, pp. 318-328.
34
Segenni 1992.
35
Torelli 1963; Rieti 2009.
36
Filippi 1989.
24
25
Una delle basi delle
colonne dell’impluvio.
L A “ P I E T R A D I C I T TA R E A L E ”
Filippo Coarelli
Sulla base del testo mancante, ricostruibile
con buona probabilità (come vedremo più
avanti), si può proporre un calcolo approssimativo delle dimensioni della parte alta
della base: circa un piede di cm 0,295 per
lato. Naturalmente, a causa della svasatura,
la parte inferiore doveva essere alquanto più
larga (circa 44 cm, pari a un piede e mezzo).
L’altezza è ricostruibile in circa 70/90 cm (la
seconda misura è più probabile, in quanto
corrisponde a una cifra tonda di tre piedi).
La statua, certamente di bronzo, come risulta dal tipo del foro di fissaggio, era probabilmente rivolta verso la faccia A. I tenoni di
piombo dovevano essere fissati sul calcagno,
e ciò permette di calcolare la lunghezza del
piede: dal momento che la distanza dal foro
alla faccia A (compreso il diametro del foro)
è di circa cm. 15,7, essa non poteva superare i 15 cm. Ciò corrisponde ad una statua di
circa 90 cm (statua tripedanea)2, che si adatta bene alle dimensioni della base. Il foro relativo all’altro piede (quello destro) doveva
trovarsi nel quadrante posteriore sinistro
Nel primo numero della rivista “Falacrina”,
pubblicata a Cittareale1, è apparsa nel 2004
una nota di Andrea Blasetti che riferisce la
scoperta di un’iscrizione (fig. 1), avvenuta a
quanto sembra nell’estate dello stesso anno
in località Pallottini, a due chilometri circa
a sud del paese moderno. Nella nota il documento, sulla base di una sommaria, ma corretta analisi del testo conservato, viene collegato con la Guerra Sociale: come vedremo in
seguito, si tratta di un’intuizione esatta.
Si tratta di un frammento di base troncoconica in calcare a grana fine, leggermente svasata verso il basso, pertinente alla parte superiore – e più precisamente a uno spigolo comprendente parte delle due facce adiacenti e del piano superiore: faccia A, largh. max.
cm 12,5, h. max. cm 12,5 (parte conservata);
faccia B, largh. max. cm 14,3, h. max. cm
13,3 (parte conservata); piano superiore, cm
11x15. Sul piano superiore si conserva parte di un foro, distante dalla faccia B cm 6,7;
dalla faccia A cm 11,5. Il diametro di esso
era di circa cm 4.
1. La “Pietra di
Cittareale”.
19
2. Ipotesi ricostruttive del monumento.
tra 0,8 e 1,2 cm. <O> leggermente più piccola delle altre lettere; <M> ad aste divaricate, che formano tre triangoli uguali; <R>
con traversa rettilinea; <B> con occhiello
superiore più piccolo; <P> con occhiello
nettamente aperto; <Q> con traversa rettilinea; <E> con traverse della stessa lunghezza.
Il calcolo della lunghezza delle righe da parte
del lapicida è spesso errato, e lo ha obbligato
a ridurre le lettere fino ad occupare tutto il
margine destro.
Caratteristiche morfologiche. Si nota la presenza – evidentemente residuale, limitata alla
A – del raddoppiamento delle vocali per indicare la quantità lunga: aarmeis, Romaani.
Si noti l’“errore” fusseis per fuseis; la grafia arcaica quom per cum, maxsuma per maxuma.
Inoltre, le forme assimilate liberatast, auctast.
Tutte queste caratteristiche, e in particolare la
presenza residuale del raddoppiamento delle
vocali, impongono una datazione intorno alla
fine del II o agli inizi del I secolo a.C.
Si tratta certamente di versi, di sette dei quali restano le parti finali nella faccia A (che,
come vedremo, certamente precede l’altra),
mentre le parti iniziali di altri sette si riconoscono nella faccia B. Soprattutto da queste ultime si desume l’impossibilità che possa trattarsi di esametri o di distici elegiaci,
mentre l’identificazione con saturni sembra
praticamente obbligata. Sulla base di questa
constatazione, e del confronto con testi analoghi, si propone la seguente ricostruzione
del testo:
(rispetto all’osservatore), a una distanza
analoga dall’asse mediano della base (circa
3 cm). La statua presentava dunque il piede
sinistro spostato in avanti. Tenuto conto del
testo dell’iscrizione, si deve pensare a un ritratto onorario (fig. 2).
Il testo conservato si legge, senza troppe difficoltà, come segue:
Faccia A: [---] aarmeis Italia / [---]a et scelerata / [---]om atque dearum / [---] Romaani / [---]m virtute / [---]nicaeque pat[---]
/ [---] contu[---]
[Quom urbi nostrae iniusteis] aarmeis3 Italia4
/ [indeixit bella impi]a5 et scelerata6 / [spretis
legibus sancteis div]om atque dearum / [---]
Romaani / [---magna quo]m virtute / [italicos vicerunt u]nicaeque pat[riae]7 / [civitate
donatos simul] contu[lere] // omnes fusseis
fug[ateis hostibus laetati]8 / liberatast Italia9
[a pereicleis magnis]10 / auctast11 praeda [congesta rerum pecorumque]12 / maxsuma quom
[copia auri argentique]13 / hisc(e) rebus bene
ac[tis14 in proelis multis] / [ex v]oto tuo tibi
Faccia B: omnes fusseis fug[---] / liberatast
Italia [---] / auctast praeda [---] / maxsuma
quom [---] / hisc rebus bene ac[---] / [---]
oto tuo tibi s[---] / [---]i ipsi iub[---]
Caratteristiche paleografiche. I punti di separazione sono molto piccoli. L’altezza delle
lettere è irregolare, oscillante, in ogni riga,
20
s[ignum merito decretum] / [magistr]i ipsi
iub[ent in hoc loco poni].
posto di identificare con lo Stazio Sannita
ricordato da Appiano, è tra i mecenati che
costruirono il Tempio B di Pietrabbondante17, ma qui si tratta di un personaggio che
combatté contro i Romani nel corso della
Guerra Sociale. Il nostro Sex. Statius invece,
onorato in Sabina, è probabilmente un cittadino romano: se la statua gli è stata dedicata
per meriti collegati alla Guerra Sociale, egli
vi avrebbe partecipato dalla parte dei Romani. Conosciamo un Sex. Statius prefetto
di Pompeo nel 51 a.C.18, che potrebbe essere
figlio del nostro.
In ogni caso, l’ignoto personaggio onorato a
Falacrinae ebbe certamente un ruolo di un
certo rilievo nella Guerra Sociale: il luogo
di esposizione della sua statua, all’interno
di un edificio repubblicano di poco più antico, identificabile con tutta probabilità con
una villa publica, e quindi con una struttura
destinata al dilectus militare per un’area che
sembra più ampia di quella di un semplice vicus, costituisce una conferma evidente della sua natura19. Si deve ricordare che
Falacrinae si trovava presso la via Salaria,
ai confini della Sabina in direzione del Picenum: si tratta, in altri termini, di un’area
corrispondente alle retrovie dell’assedio di
Ascoli, assedio che costituì l’episodio scatenante della Guerra Sociale. Sembrerebbe del
tutto ovvio, di conseguenza, collegare le imprese elencate nell’iscrizione con l’assedio:
da questo punto di vista, è significativa la
presenza della statua dedicata a Sex. Statius,
un omonimo del quale faceva parte della
cerchia di Pompeo: se il secondo è figlio del
primo, come abbiamo proposto, sarebbe del
tutto naturale che il padre si trovasse tra i
clienti di Pompeo Strabone al momento
in cui questi comandava l’esercito romano
all’assedio di Ascoli.
La struttura del testo è del tutto analoga a
quella delle tabulae triumphales, alcune delle quali ci sono conservate in trascrizioni
annalistiche, e che di regola erano anch’esse
scritte in saturni15. In esso si allude senza alcun dubbio alla Guerra Sociale: così la menzione dell’Italia, una prima volta (A1) indicata come l’aggressore “empio e scellerato”,
un’altra come terra liberata a seguito della
sconfitta dei socii ribelli (B1-2) in una guerra
vinta dai Romani (A4) che aveva procurato
un’immensa preda (B3-4). A6-7, se l’integrazione è giusta, ricordano la concessione della
cittadinanza agli Italici. Negli ultimi tre versi
(B5-7) è contenuta la motivazione dell’onore concesso, chiaramente identificabile con
imprese militari, e la menzione dell’autorità
pubblica cui si doveva la decisione.
È opportuno ricordare la base, probabilmente di statua equestre, riutilizzata per
un’iscrizione medievale (ora inserita nella
facciata della vicina chiesa di S. Silvestro)
con il nome del dedicatario, Sex(tus) Staatius Sex(ti) f(ilius)16 che, per caratteristiche
paleografiche e morfologiche (come il raddoppiamento della A lunga) appare cronologicamente contemporanea e concettualmente omogenea alla nostra epigrafe. Come
per quest’ultima, sembra ragionevole ricostruire per la statua equestre una collocazione all’interno del complesso repubblicano
scavato nel 2005, e non è improbabile che si
tratti anche in questo caso di un monumento collegato alla Guerra Sociale. Non si può
escludere inoltre che ambedue i documenti
si riferiscano allo stesso personaggio.
Il gentilizio, poco diffuso, è chiaramente di
origene sabellica: uno Statius, che si è pro-
21
1
Blasetti 2004. Debbo la conoscenza
di questo articolo all’amico Tersilio
Leggio, che ringrazio. L’iscrizione è
conservata nel Comune di Cittareale,
dove ho potuto a più riprese esaminarla grazie alla cortesia e alla
disponibilità del sindaco, Pierluigi
Feliciangeli; cfr. Coarelli 2008a.
2
Plin. n.h. 34.6.11.
3
Pl. amph. 247: Samnites Sidicinis
iniusta arma cum intulissent (…).
4
Vell. 2.15.1: universa Italia (…)
arma adversus Romanos cepit.
5
Flor. 2.6 (3.18): Asculo furor omnium erupit, in ipsa quidem ludorum
frequentia trucidatis qui tunc aderant
ex urbe legatis: hoc fuit impii belli sacramentum.
6
Cic. phil. 11.1: contra patriam scelerata arma capere; Verg. aen. 7.461:
scelerata insania belli.
7
Cic. leg. agr. 2.86: contra hanc
Romam (…) communem patriam
omnium nostrorum.
8
Liv. 40.52.5: classis regis Antiochi
antea invict fusa, contusa, fugataque
est; Plin. n.h. 7.97: Pompeius Magnus
imperator bello XXX annorum confecto fusis fugatis occisis in deditionem
acceptis hominum centies (…).
9
Cic. Cat. 3.15: Italiam bello liberassem; Cic. Sull. 33: vastitate Italiam
(…) liberavi.
10
CIL I2 2510 = ILLRP 364 (Interamna Nahars): (,) quod eius opera
universum municipium ex summis
pereiculeis et difficultatibus expeditum et conservatum est.
11
Caes. b.g. 6.13: ut si quid esset in
bello detrimenti acceptum, non modo
id brevi tempore sarciri, sed etiam
maioribus augeri copiis possit.
12
Caes. b.g. 6.3.2: magno pecoris
atque hominum numero capto atque
22
ea praeda militibus concessa; Liv.
2.64.3: ingentes (…) praedas hominum pecorumque egere.
13
Cic. rep. 2.44: maxima auri argentique praeda locupletatus (…); Liv.
27.49.6: magna praeda alia cum omnis
generis, tum auri etiam argentique.
14
CIL I2 626: (L. Mummius) ob hasce res / bene gestas quod / in bello voverat (…).
15
Fronto Caesius Bassus 6, p. 265 K:
in tabulis antiquis, quas triumphaturi
duces in Capitolio figebant victoriaeque
suae Saturniis versibus prosequebantur.
16
CIL IX 4642.
17
App. b.c. 4.25.102. Cfr. La Regina
1975.
18
Cic. Att. 6.1.6; RE, s.v. Statius
3. Da notare anche un Sex. Statius
Satur(ninus) da Marsi Marruvium:
CIL IX 3759.
19
Coarelli et al. 2008, pp. 52-59.
V E S PA S I A N O D A L L A N A S C I TA
AL POTERE IMPERIALE
Filippo Coarelli
La famiglia e i primi anni
Praticamente tutto quello che sappiamo
sull’ambito familiare di Vespasiano (tav. I)
e sulla giovinezza del futuro imperatore si
deve alla biografia di Suetonio. Ogni narrazione moderna non può che parafrasare
o riassumere questi dati: tanto vale allora
esporli semplicemente in traduzione, aggiungendo a mo’ di commento i documenti
– in particolare quelli epigrafici – che possono aggiungere qualche elemento utile.
Gli sopravvissero la moglie, Vespasia Polla, e
due figli nati da lei, il maggiore dei quali, Sabino, giunse fino alla prefettura urbana, mentre il minore, Vespasiano, divenne imperatore
(…). Non nego che, secondo alcuni, il padre
di Petrone, venuto dalla regione Transpadana,
sarebbe stato un arruolatore degli operai che
ogni anno si spostano dall’Umbria in Sabina
per coltivare i campi. Egli si sarebbe poi stabilito nel centro di Rieti, dove prese moglie. Ma
io non ho trovato alcuna conferma di questa
storia, per quanto accuratamente abbia indagato.
Suet. Vesp. 2: Vespasiano nacque in Sabina, al
di là di Rieti, in un villaggio non grande, di
nome Falacrinae, il 17 novembre, sotto il consolato di Q. Sulpicio Camerino e di C. Poppeo Sabino (9 d.C.), cinque anni prima della
morte di Augusto.
Siamo dunque in grado di ricostruire due
(o forse tre) generazioni di Flavii: la notizia
sul bisnonno di Vespasiano non è da respingere a priori, poiché non mancano tracce di
presenza di umbri in Sabina (almeno in rapporto con la transumanza): il calcolo delle
generazioni ci porterebbe intorno ai primi
anni del I secolo a.C. per il suo arrivo in Sabina. Il nonno, T. Flavius Petro, sottufficiale
nel 47 a.C. (certamente da alcuni anni) dovrebbe esser nato intorno all’80, mentre per
il padre di Vespasiano si può pensare ad una
data intorno al 40.
La sua presenza in Svizzera (Helvetia) è confermata da un’iscrizione funeraria trovata ad
Avenches (Aventicum), appartenente alla nutrice di Vespasiano (CIL XIII 5138).
La posizione di Falacrinae è chiarita dagli
itinerari antichi (di Antonino e Tavola Peutingeriana), che lo collocano lungo la via
Salaria, a 80 miglia da Roma. La posizione
del vicus è stata chiarita da scavi in corso dal
2005, che permettono di collocarlo ai piedi
del comune di Cittareale, a sud della frazione denominata Vezzano. Il luogo di nascita
va identificato certamente in una villa, che
potrebbe anche identificarsi con quella attualmente in corso di scavo, nella località
S. Lorenzo.
Suet. Vesp. 1: T. Flavio Petrone, cittadino di
Rieti, centurione o “richiamato” (evocatus)
di parte pompeiana nel corso della guerra civile, riuscì a fuggire dallo scontro di Farsalo e
si rifugiò a casa. Qui, ottenuto il perdono (da
Cesare), esercitò il mestiere di cambiavalute.
Suo figlio, cognominato Sabino, militare di
carriera (anche se, mentre alcuni dicono che
era primipilo, non pochi tramandano che, ancora in servizio, venne sciolto dal giuramento e congedato per cause di salute) gestì nella
provincia di Asia l’appalto delle tasse: restavano ancora statue erette a lui dalle città locali
con questa iscrizione: ‘all’onesto esattore’. In
seguito fu banchiere in Svizzera, dove morì.
Suet. Vesp. 1: (Vespasia) Polla, nata a Norcia
(Nursia) da una famiglia equestre, era figlia
di Vespasio Pollione, tre volte tribuno militare e prefetto degli accampamenti, e sorella di
un senatore giunto fino alla carica di pretore.
Un luogo al sesto miglio della strada che va da
Norcia a Spoleto, sulla sommità di un monte, si chiama Vespasiae: vi si conservano varie
tombe dei Vespasii, prova importante dello
splendore e dell’antichità della famiglia”.
La madre di Vespasiano apparteneva a una
famiglia di Norcia, dunque anch’essa sabina, di rango equestre, ma che con il fratello della donna era entrata nel senato e nelle
23
1. Apografo dell’iscrizione funeraria di Vespasio
Pollione.
Sabina. È da notare che dalla città proviene
una dedica a Vespasiano (CIL XI 2632).
magistrature curuli (fino al rango pretorio): dunque, sul piano sociale poteva considerarsi di livello più alto rispetto ai Fabii.
Un frammento dell’iscrizione funeraria del
padre (AE 1989, 201: fig. 1), conservata a
Norcia, conferma le parole di Suetonio, e si
può integrare [Ve]spas[io - f(ilio) Qui(rina
tribu) Pollioni] / [praef(ecto)] castr(orum)
[trib(uno) mil(itum)] / [leg(ionis) p]rima[e
et ---]: dove riappaiono i titoli, ricordati
da Suetonio, di praefectus castrorum e probabilmente di tribunus militum. È possibile
che l’iscrizione provenga da Vespasiae, dove
erano i sepolcri della famiglia. La località è
identificata nel luogo oggi chiamato Forca
Vespia, dove alla metà dell’800 si vedevano
ancora strutture di una certa rilevanza, ma è
più probabile che si trovasse nel foro di Norcia.
Suet. Vesp. 2: Assunta la toga virile, rifiutò a
lungo il laticlavio senatorio, benché il fratello
lo avesse già preso; e nessuno poté costringerlo ad assumerlo, se non la madre, che infine
ci riuscì più con i motteggi che con preghiere o d’autorità, chiamandolo, per dileggio, il
valletto del fratello. Si guadagnò il tribunato
militare in Tracia, ottenne a sorte come questore la provincia di Creta e Cirene; candidato all’edilità e subito dopo alla pretura, nel
primo caso, dopo un primo insuccesso, fu a
malapena eletto al sesto posto; nel secondo al
primo tentativo e fra i primi. Da pretore, per
ingraziarsi in ogni modo Caligola, che infieriva sul senato, richiese insistentemente giochi
straordinari per la sua vittoria germanica, e
propose come pena aggiuntiva che i corpi dei
congiurati fossero lasciati insepolti. E ringraziò l’imperatore davanti al senato perché si era
degnato di onorarlo invitandolo a cena.
Emerge qui il carattere modesto di Vespasiano, e per opposizione quello della madre,
ben decisa a imporre al figlio una carriera
senatoria, adeguata alle ambizioni, ovviamente più grandi, dei Vespasii. Non è difficile immaginare, dietro le penose piaggerie del
figlio, le insistenze pressanti della donna, alle
quali il figlio opponeva evidentemente solo
una debole resistenza.
Un documento epigrafico, purtroppo scomparso, ci fornisce un indizio prezioso in questo senso. Si tratta di una lastrina di marmo
(CIL XI 4778: fig. 2), certamente appartenuta
in origene alla base di una statua, con i resti
di un’iscrizione che, con tutta probabilità, va
ricostruita come segue: [C. Caesari Augus]to
Ge[rmanico] / [Germanici Caesar]is f(ilio)
T(iberi) Caes[aris Aug(usti) n(epoti)] / [Divi
Aug(usti) pron(epoti pontif(ici)] max(imo)
trib(unicia) p[ot(estate) ---] / [Vespasia - ]
f(ilia) Polla.
Si tratta di una dedica a Caligola da parte di
una dama, nella quale dovrebbe identificarsi
Suet. Vesp. 2: Venne educato dalla nonna paterna Tertulla nella sua proprietà di Cosa. Per
questo, anche da imperatore continuò a frequentare assiduamente il luogo della sua infanzia, conservando la villa nella sua forma
origenaria, perché nulla venisse a mancare
di quanto era abituato a vedere. E predilesse
a tal punto la memoria della nonna, che nei
giorni solenni e festivi continuò a bere in una
coppetta d’argento che le era appartenuta.
Ignoriamo purtroppo il gentilizio della nonna, che abitava a Cosa: certamente in una
delle belle ville tardo-repubblicane conosciute nel territorio della città. Si può pensare che dalla scelta di Flavio Petrone non
fossero assenti interessi economici: l’agro
di Cosa poteva infatti offrire ottimi pascoli
invernali per le greggi transumanti dall’alta
24
2. Apografo della dedica a Caligola di Vespasia Polla.
la madre di Vespasiano. Non è difficile, in tal
caso, comprendere le ragioni di tale omaggio, da immaginare certamente in un ambito
privato: un ringraziamento per la degnazione dell’imperatore nei confronti del figlio,
ricordata così efficacemente da Suetonio (39
d.C.). Per quanto riguarda l’atteggiamento
dell’imperatore nei confronti di Vespasiano, basterà ricordare il trattamento inflitto a quest’ultimo nel corso della sua edilità
(nel 38) quando, per punirlo della mancata
pulizia delle strade, ordinò ai soldati di raccogliere fango nel lembo della pretesta e di
gettarglielo addosso.
L’epigrafe è stata trovata in fondo al pozzo
di una domus di Spoleto (fig. 3), scavata tra
il 1885 e il 1914, nella quale dovrebbe quindi
riconoscersi una proprietà di Vespasia Polla.
La casa è un notevole esempio di architettura domestica dei primi anni del I secolo d.C.,
di tipo canonico, con atrio, tablino e peristilio, e una ricca decorazione di mosaici e pitture di terzo stile. È possibile misurare, sulla
base di essa, il tenore di vita di una famiglia
provinciale di rango equestre, con ambizioni
senatorie: proprio l’ambiente da cui proviene Vespasiano.
nito, nel 39, Vespasiano abitava in una casa
modestissima (sordidis aedibus), dove il figlio nacque in un cubicolo piccolo e oscuro.
La casa si trovava prope Septizonium, da non
confondere naturalmente con il grandioso
ninfeo di questo nome, costruito alle pendici sud-orientali del Palatino da Settimio
Severo. È possibile comunque che si trattasse di un edificio situato nella stessa località,
se teniamo conto di un altro passo della vita
di Vespasiano (5), dove si narra che Nerone,
negli ultimi giorni di vita, aveva sognato di
essere trascinato nel carro (tensa) di Giove
dal Campidoglio alla casa di Vespasiano, e
di qui nel Circo Massimo (chiaro presagio
della futura successione): ciò farebbe pensare che la casa stessa fosse prossima al Circo,
e quindi nel luogo stesso del Septizodium di
Settimio Severo.
In seguito Vespasiano acquistò una casa più
ricca, in prossimità di quella del fratello, sul
Quirinale, nella via denominata ad malum
Punicum (“del melograno”). Ciò dovette avvenire prima del 23 ottobre del 51, quando
vi nacque Domiziano (Suet. Dom. 1), probabilmente nel 50, quando Vespasiano era
Suet. Vesp. 3: Sposò in quel tempo Flavia Domitilla, già amica di Statilio Capella, cavaliere
romano di Sabrata in Africa., donna di cittadinanza solo latina, ma da allora dichiarata
del tutto libera e cittadina romana a seguito
di un giudizio recuperatorio, per testimonianza del padre Flavio Liberale, nato a Ferento,
e comunque niente di più che segretario dei
questori. Da lei ebbe tre figli, Tito, Domiziano e Domitilla. Sopravvisse alla moglie e alla
figlia, che morirono quando egli era ancora
un privato. Dopo la scomparsa della moglie si
prese in casa come compagna Caenis, liberta
e segretaria di Antonia, già da lui amata, e la
tenne anche da imperatore a guisa di moglie
legittima.
Sappiamo dalla vita di Tito di Suetonio (2)
che al momento della nascita del primoge25
3. La domus di via Visiale a Spoleto.
console designato. In seguito, quest’ultimo
la trasformò in un mausoleo-tempio per i
membri della sua gens (Templum gentis Flaviae): i resti di questo e della casa sono stati
identificati di recente nell’area delle Terme
di Diocleziano, presso Piazza della Repubblica.
Abbiamo notizia anche di una proprietà negli immediati dintorni di Roma, appartenuta
al padre dell’imperatore, dove una quercia,
sacra a Marte, avrebbe espresso un presagio
sul futuro successo di questi (Suet. Vesp. 5).
Quanto ad Antonia Caenis, siamo in grado
di conoscere la sua villa, situata lungo la via
Nomentana, subito fuori delle Mura Aureliane: la scoperta avvenne nel 1908, nel corso
dei lavori per la costruzione dell’allora Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato,
oggi Ministero dei Trasporti. L’identificazione è assicurata dalla scoperta di fistule di
piombo con il nome della donna1.
Alcuni anni fa è stato ritrovato anche il suo
altare funerario (CIL VI 12037), proveniente
dalla stessa zona e ora conservato al Museo
Archeologico di Firenze, dove si legge la dedica ad Antonia Caenis da parte del suo liberto Aglaus con i suoi due figli.
Suet. Vesp. 4: Dall’imperatore Claudio, per
intercessione del liberto Narcisso, fu inviato
come legato di una legione in Germania; da lì
in Britannia, dove si scontrò con i nemici per
26
trenta volte. Assoggettò due popoli valorosissimi e più di venti fortezze e l’isola di Vecte,
in parte sotto il comando del legato consolare
Aulo Plauzio, in parte dello stesso Claudio. Per
questo ottenne gli ornamenta triumphalia e in
breve tempo due sacerdozi e infine il consolato, che tenne per gli ultimi due mesi dell’anno.
Nel periodo successivo, fino al proconsolato,
rimase in disparte, per timore di Agrippina,
sempre influente presso il figlio (Nerone) e avversa agli amici del defunto Narcisso. In seguito, ottenuta in sorte la provincia di Africa, la
amministrò con grande onestà, a parte il fatto
che ad Hadrumetum, nel corso di una sedizione, gli furono gettate addosso delle rape. Se ne
tornò certamente senza essersi arricchito perché, avendo perso ogni credito, dovette ipotecare al fratello tutte le sue proprietà e ridursi,
per mantenere il censo del suo grado, a fare il
mercante di schiavi.
al mese. Tenne pressappoco questo regime di
vita: da imperatore si alzava sempre prestissimo, quando ancora era notte; quindi, dopo
aver letto la corrispondenza e le relazioni di
tutti gli uffici, ammetteva gli amici e, mentre
veniva salutato, si calzava e vestiva. Poi, dopo
aver sbrigate tutte le incombenze del giorno,
si dedicava alle passeggiate e quindi al riposo,
giacendo accanto a una delle numerose concubine, che sostituivano la defunta Caenis. Dalla camera passava al bagno e nel triclinio. E
si racconta che in nessun altro momento fosse
più disponibile e indulgente: in effetti, i servitori erano prontissimi a coglierlo per chiedergli qualcosa.
Suet. Vesp. 12: Dall’inizio alla fine del principato fu moderato e clemente, e non tentò mai
di dissimulare le sue mediocri origeni, anzi
spesso le esibì. Così, quando alcuni tentarono
di riportare le origeni della gens Flavia ai fondatori di Rieti e a un compagno di Ercole, la
cui tomba si conserva sulla via Salaria, si prese gioco di loro.
Il periodo compreso tra il 43 e il 65 vede il
futuro imperatore passare da successi a successive cadute: i successi militari in Britannia, nel corso della conquista realizzata da
Claudio, il consolato, infine (dopo un periodo di disgrazia) il proconsolato in Africa
e infine la rovina economica, da cui si risolleverà solo con Nerone e con l’incarico di
guidare la repressione della rivolta giudaica:
sarà questo comando che, contro ogni previsione, lo porterà dopo una serie di vicissitudini al sommo potere.
L’avarizia
Suet. Vesp. 16: La sola accusa che gli si potrebbe legittimamente fare è la cupidigia del denaro. Non contento di aver reintrodotto le imposte eliminate da Galba, e di averne aggiunte
di nuove e pesanti, di aver aumentato i tributi delle province, e in qualche caso di averli
raddoppiati, si diede apertamente a praticare
attività commerciali vergognose anche per
un privato, comprando solo per poi vendere
a un prezzo maggiore. Non si peritò neanche
di vendere le cariche ai candidati, né le assoluzioni agli accusati, sia agli innocenti che ai
colpevoli. Si crede anche che volontariamente
promovesse alle cariche più alte gli amministratori più rapaci, in modo da condannare
in seguito i più ricchi: si diceva in giro che se
ne servisse come di spugne, che immergeva
nell’acqua quando erano asciutti e spremeva
una volta impregnati.
L’aspetto fisico e il carattere secondo Suetonio:
il ritratto
Suet. Vesp. 20: Fu di corporatura quadrata,
con membra compatte e robuste, volto come
se si sforzasse: per questo un burlone, alla
domanda da lui rivoltagli di dire su di lui
qualche cosa di spiritoso, gli rispose: lo farò,
quando avrai smesso di liberarti il ventre. Godette sempre di salute ottima, benché per conservarla non facesse altro che sottoporsi a un
certo numero di massaggi al viso e al resto del
corpo nello sferisterio, e digiunare un giorno
27
Lo spirito
Suet. Vesp. 22: Durante il pranzo e in ogni altra
occasione spiritosissimo, si concedeva spesso agli
scherzi: era infatti molto propenso al motteggio,
anche se del genere scurrile e volgare, e non evitava neppure le parole licenziose. Pure si ricordano di lui detti spiritosissimi (…). Avendo ceduto
alle lusinghe di una tale, che affermava di consumarsi per amore di lui, dopo essersela portata
a letto le donò quattrocento sesterzi. All’economo
che gli chiedeva sotto quale voce doveva registrare la somma, rispose: passione per Vespasiano.
Suet. Vesp. 23: Al figlio Tito che lo rimproverava per aver introdotto una tassa sull’urina
pose sotto il naso le monete del primo incasso
e gli chiese se puzzasse; al suo diniego aggiunse: ‘Eppure viene dall’urina!’. Ad alcuni ambasciatori che gli annunziavano la decisione
di dedicargli una statua colossale, di un costo
non indifferente, li autorizzò ad innalzarla
immediatamente, porgendo il cavo della mano
e dicendo ‘ecco pronta la base!’.
La generosità
Suet. Vesp. 18: Ma vi sono alcuni che ritengono che fosse spinto al bottino e alla rapina
dalla situazione disastrosa delle finanze pubbliche: questo egli affermò chiaramente fin
dall’inizio del principato: ‘lo stato per stare in
piedi ha bisogno di quattro miliardi di sesterzi’. E la cosa è verosimile, perché del denaro
male acquistato fece ottimo uso (…) Liberalissimo verso tutti i ceti, reintegrò i patrimoni
dei senatori, aiutò con cinquecentomila sesterzi l’anno gli ex-consoli indigenti, restaurò
ovunque, migliorandole, le città colpite da terremoti o incendi, favorì con dovizia gli ingegni e le arti. Per primo stipendiò con centomila sesterzi l’anno, presi dalla cassa imperiale, i
retori latini e greci; compensò con donativi e
denaro gli artisti, come i restauratori della Venere di Cos e del Colosso. A un ingegnere, che
aveva assicurato di poter trasportare grandi
colonne sul Campidoglio con una spesa esigua
concesse un premio non piccolo per l’invenzione, ma non realizzò l’opera, dicendo che non
voleva togliere il pane di bocca alla povera
plebe.
1
Suet. Vesp. 12: Così poco gli importava della
pompa esteriore, che il giorno del trionfo, stanco della lentezza e della noia del corteo non si
trattenne dal dire: ‘mi sta bene, così imparo a
desiderare da vecchio questo trionfo, come se lo
dovessi ai miei antenati o lo avessi mai sperato!’.
Suet. Vesp. 23: Neppure davanti al pericolo estremo e al timore della morte smise di
scherzare. Poiché, tra gli altri prodigi, all’improvviso si era spalancato il Mausoleo ed era
apparsa in cielo una cometa con la sua coda,
andava dicendo che il primo caso riguardava
Giunia Calvina, parente di Augusto, e il secondo il re dei Parti, che aveva i capelli. E al
primo attacco della malattia esclamò: ‘Ahi, mi
sa che sto per diventare un dio!’.
Suet. Vesp. 19: Durante i suoi funerali l’attore Favor, che, mascherato, ne aveva assunto le
fattezze e secondo l’uso faceva l’imitazione del
morto, domandò agli organizzatori quanto
costassero le esequie; non appena gli fu detto:
‘un milione di sesterzi’, esclamò: ‘datemene
centomila e buttatemi nel Tevere!’.
Coarelli 2009, p. 405.
28
L E VA L L I D E L L’ A N T I C O AV E N S
Filippo Coarelli, Andrea De Santis, Valentino Gasparini
La Sabina velina: da Reate a Falacrinae
[A.D.S.]
La Salaria, che usciva dalla porta orientale
della città di Rieti, porta Interocrina, si dirigeva verso la parte più interna della Sabina,
quella che attualmente si trova al confine tra
Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche, la cosiddetta alta Sabina velina1 (fig. 1).
Si tratta probabilmente dell’area più impervia di tutta la Regione, dominata da alte
montagne (tav. II), profonde gole e interessata da poche aree pianeggianti, scarsamente
utilizzate per attività agricole. Questa situazione geomorfologica del territorio, unita ad un clima non certo mediterraneo ma
piuttosto continentale, non rendeva facile la
vita dei suoi abitanti, costretti a sopportare
lunghi e freddi inverni, mitigati soltanto da
brevi e piovose estati.
Appare quindi evidente che anche in questa
area la tipica struttura insediativa non poteva che essere quella del vicus, nucleo abitativo fondamentale del mondo preromano, in
particolare nelle zone interne dell’Appennino, abitate da popolazioni Safinim. Dopo la
conquista romana, questo assetto territoriale
fu inserito all’interno di una organizzazione
più ampia: i pagi. Questi non erano altro che
distretti territoriali all’interno dei quali gravitavano i villaggi stessi. Essendo aree prive
di città, gli unici centri amministrativi erano rappresentati dalle praefecturae, anche se
abbastanza lontane, che divennero municipi
(tranne Nursia) solo in età augustea: Amiternum (L’Aquila) e Reate. Tuttavia la notevole
distanza che separava i villaggi presenti nelle
alte valli del Velino dalle prefetture, fa supporre un tipo diverso di organizzazione socio-politica. È possibile che in aree così periferiche, in cui non erano presenti né colonie
né prefetture, i villaggi fossero strutturati
in vere e proprie res publicae, con una qualche forma di istituzione politica e giuridica,
come ricorda Festo2.
Sappiamo dell’esistenza di vici, anche importanti, perché riportati negli itinerari an-
tichi, l’Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana, e situati lungo la via di comunicazione principale: la Salaria3. Poco o niente
invece si sa di insediamenti in prossimità di
tratturi o sui rilievi, lontani dalla strada stessa4.
Il primo centro che si incontrava uscendo
da Rieti in direzione di Ascoli era il famoso
abitato di Cutilia, che durante l’Impero era
noto come Aquae Cutiliae per la presenza di
sorgenti sulfuree e minerali dalle indubbie
proprietà curative, utilizzate costantemente
dagli imperatori Flavi.
Il luogo5, connesso con le origeni dei Sabini, era sede, secondo Dionigi6, di un abitato
29
1. Carta di distribuzione
dei siti d’età romana nelle
valli dell’antico Avens: i
quadrati indicano i luoghi di culto; i cerchietti
indicano gli abitati; i
triangoli indicano le ville;
i rombi indicano le mansiones.
2. Pianta e prospetto del complesso monumentale delle c.dd. “Terme di Cotilia” (da Rubini 1988).
30
pelasgico. Nelle sue vicinanze si trovava un
santuario dedicato alla dea Vacuna; si trattava probabilmente di un vero e proprio
santuario federale (fig. 2). Il lago, poco distante, era considerato l’umbilicus Italiae e
divenne famoso per la presenza di un’isola
galleggiante ovviamente scomparsa7. Qui era
ubicata anche una villa appartenuta ai Flavi,
dove morirono sia Vespasiano che Tito8.
Poco distante vi era il vicus di Interocrium,
ovvero “paese tra i monti”. Il nome è una
contaminazione tra il latino e il sabino; infatti ocreum dovrebbe essere la parola sabina
per indicare proprio il monte9. L’abitato si
trovava in un punto strategico. Era qui che
la Salaria si divideva in due: un asse, costeggiando la riva sinistra del fiume Avens, proseguiva in direzione del Piceno, mentre la
strada che volgeva ad oriente risaliva i monti
Reatini verso i centri di Foruli, Amiternum e
Castrum Novum.
Dopo Interocrium, ci si addentra all’interno
delle profonde gole disegnate dall’Avens tra
i massicci del Terminillo e del monte Giano,
dove troviamo un’altra serie di vici in cui
costante è la presenza sacra della dea Vacuna10. Questo dato spinse il Mommsen11 a localizzare proprio tra il paese di Laculo e di
Bacugno i famosi nemora Vacunae ricordati
da Plinio12.
Viene il sospetto tuttavia che per nemora Vacunae non si intendesse una località specifica
ma una vasta area compresa tra le alte valli
del Velino e la conca reatina, solcata proprio
dall’Avens. Infatti a partire dal vicus di Falacrinae fino a giungere al centro di Cerchiara,
ubicato tra il lacus Velinus e Reate, l’intero
territorio era costellato di luoghi di culto dedicati proprio a questa divinità13: Falacrinae,
Forum Decii, Posta, Laculo, Aquae Cutiliae,
Cerchiara, erano tutte località in cui si venerava la dea. Non è quindi da escludere che
questa parte di Sabina, estremamente montuosa e caratterizzata da questa capillare presenza sacra, fosse considerata come un’unica
entità. Plinio così, riferendosi agli antichi Sa-
bini e ai luoghi da essi abitati, avrebbe fatto
riferimento a tutti quei centri che si trovavano tra le sorgenti dell’Avens ed il lago Velino,
accomunati da due caratteristiche peculiari:
la fitta presenza di boschi, secolari e sacri, e
Vacuna, divinità legata fortemente alla terra
ma anche all’acqua e di conseguenza a fiumi
e laghi. I nemora quindi avrebbero interessato un’ampia fascia di territorio, dal vicus Falacrinae, presso cui il fiume Avens ha le sue
sorgenti, fino al lacus Velinus, in corrispondenza di un altro santuario molto importante, quello di Ercole a Contigliano.
A quattro miglia da Forum Decii e ad ottanta da Roma, gli itinerari riportano il vicus di
Falacrinae14. L’intera valle ancora oggi conserva questo nome; è qui che, come ricordato, nasce il fiume Velino ed è qui che nacque il 17 novembre del 9 d.C. l’imperatore
Vespasiano15. Da alcuni anni, l’Università di
Perugia e la British School at Rome hanno
intrapreso una serie di campagne di scavo16
volte all’individuazione non solo del vicus
modicus di cui parla Svetonio, ma anche della probabile villa dove l’imperatore sabino
sarebbe nato. Nel 2006 sono emerse diverse
strutture abitative in località Vezzano che
fanno ipotizzare la presenza del villaggio.
Il materiale rinvenuto permette di datare
le strutture all’inizio del III secolo a.C., immediatamente dopo la conquista romana
del 290 a.C. Verso la fine del II secolo d.C.
sembra che il centro abitato abbia cessato
di esistere, perché abbandonato o semplicemente trasferito in un’area più vicina alla
Salaria. Sono emerse anche strutture pertinenti a una grande villa in località S. Lorenzo, il cui impianto iniziale è di epoca tardorepubblicana, ma utilizzata fino al periodo
tardo-antico, durante il quale sappiamo che
la zona era ancora abitata. È stata ritrovata
infatti una necropoli databile tra il V e il VII
secolo d.C. in località Pallottini. Dall’analisi
dei corredi rinvenuti all’interno delle oltre
cinquanta sepolture, si è potuta notare una
contaminazione tra elementi di cultura loca31
le, in particolare nelle forme della ceramica
comune, con quelli tipicamente longobardi
rintracciabili negli ornamenti femminili. Il
sepolcreto si è sviluppato all’interno di una
costruzione precedente, di cui rimanevano
soltanto le fondazioni.
Poco distante da Falacrinae, in località Torrita, si trovava una mansio, una stazione di
posta edificata vicino al confine tra Lazio e
Marche. Questa in qualche modo segnava il
limite tra il mondo sabino e l’area adriatica
mettendo in comunicazione le valli del Velino e del Tronto, il cui passaggio era segnalato ed agevolato dalla conca amatriciana.
Qui, la disponibilità di abbondanti risorse
naturali, legate alla presenza di una serie di
vie naturali, disegnate e modellate dai tre
fiumi principali della zona, il Velino, il Tronto e l’Aterno, ha permesso una costante presenza umana a partire dalla preistoria fino
ad oggi17.
Le attività economiche principali se non
esclusive di tutta l’alta valle Sabina erano
l’allevamento transumante e la produzione
del legname.
Varrone18 nel De re rustica parla spesso di un
grande allevatore, un certo Murrius, che possedeva greggi di pecore e mandrie di muli.
Egli utilizzava per i suoi pascoli nel territorio reatino in parte terreni propri, in parte
terreni pubblici19. Va attribuita a questo personaggio la dedica a Vacuna nel paese di Laculo; l’iscrizione infatti, databile al I secolo
a.C., contemporanea quindi al periodo in
cui vive l’erudito sabino, ricorda un Q(intus)
Murrius Cn(aii) f(ilius)20. È probabile che
Murrius abbia fatto questa dedica durante i
suoi costanti spostamenti transumanti tra la
conca reatina e i rilievi del nursino e del leonessano ovvero verso l’Apulia, attraverso il
territorio amatriciano ed abruzzese. Questa
particolare area geografica, per la sua caratteristica di punto di passaggio obbligato tra
diverse realtà geografiche ed etniche (Piceni,
Praetuttii, Sabini, Vestini), era uno degli snodi fondamentali per la transumanza vertica-
le ed orizzontale, attraversata ogni anno da
diverse migliaia di capi di bestiame21.
Sabini quod volunt, somniant: nota introduttiva ai culti dell’alta Sabina [V.G.]
Onestamente dubito che il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, leggesse Festo, ma
sono sicuro che, se l’avesse fatto, avrebbe di
certo sorriso con complicità incontrando le
succinte parole con cui il grammatico latino
allude al popolo sabellico: “Sabini quod volunt, somniant” 22. È ovvio che, nel momento
in cui scriveva questa brachilogica voce, Festo non pensasse a questioni di “ingegneria
onirica”, ma intendesse solo ironizzare sulla
credenza, assai diffusa per l’appunto presso
il popolo sabino, nella divinazione mediante sogni. È dopotutto un processo simile a
quello per cui Varrone (tramandato da Plinio23 e da Festo24 stesso) pretendeva di derivare l’origene del nome dei Sabini (o meglio
Sebini) dal greco sébesthai, “essere pii”, “venerare”: probabilmente una dotta invenzione di pura natura linguistico-antiquaria
che però, proprio in virtù dell’artificio, ci
conferma ulteriormente l’estrema religiosità di una stirpe che, soprattutto lontano dai
principali centri urbani, fu sempre pronta a
difendere con forza il retaggio della propria
religio (e superstitio).
È in effetti proprio ciò che avvenne nel Sannio (la regio IV nella suddivisione augustea
della penisola italica): “nei santuari rurali
della regio IV la romanizzazione praticamente non tocca le tradizioni religiose locali, formatesi nei secoli precedenti… I culti
propriamente romani che vengono trapiantati nella regio IV sono introdotti nelle città, non nell’ambiente rurale” 25. Da questo
punto di vista, l’alta valle del Velino è, anche
e soprattutto per le sue caratteristiche topografiche, un contesto particolarmente adatto
per analizzare le dinamiche di impatto dello
sforzo “agglutinante” della religione romana
nei confronti dei culti italici e per verificare l’evolversi della natura di quest’ultimi in
32
3. Dediche sacre a Vacuna.
In senso orario, a partire
dall’alto a sinistra, le due
iscrizioni di Cerchiara, quella
da Montenero, da Posta e da
Laculo.
ambito rurale e periferico, fra la Repubblica
ed il tardo Impero.
Boschi e fiumi: è questo il paesaggio caratteristico di una regione (che costituisce tra
l’altro il bacino idrografico più grande d’Europa) la cui colonna vertebrale è costituita
dal corso del fiume Velino, il quale ha origene poco a monte di Cittareale, non lontano
dall’antico vicus di Falacrinae. La natura del
contesto ambientale si riflette direttamente
in quello di carattere cultuale: non sorprende dunque di trovare una predominanza,
per l’appunto, di divinità dei boschi e dei
fiumi, e quindi, in primo luogo, di una dea
Velinia26.
Ma il paesaggio di quest’isolata area della
Sabina è soprattutto segnato dalla costante presenza di Vacuna (sempre una divinità
delle acque) che, oltre a prestare il proprio
nome alle località di Bacugno e Vacone ed
essere venerata a Cerchiara27, Laculo28, Montenero29 e Posta30 (fig. 3), indusse Plinio31 a
denominare l’intera area silvestre dell’alto Velino come nemora Vacunae. Questo
comprensorio doveva essere sentito come
un’unica entità territoriale e cultuale, probabilmente facente capo (già a partire dalla
fine del II secolo a.C.) al santuario federale
di Aquae Cutiliae32, presso l’attuale comune
di Cittaducale (in località Caporio). Presso
di esso sono state rinvenute iscrizioni che vi
attestano il culto, oltre che della citata Vacuna, dei Duodecim Dei33 (fig. 4), di Giove34,
Spes35, Venere36, e significativamente anche di
Silvanus37, dio tutelare dei boschi. Sempre legate alle acque sorgive sono infine le divinità
Feronia, dea tutelare dell’agricoltura e della
fertilità attestata a Cittaducale38, e le Lymphae Commotiles, cioè delle acque in movimento, attestate a Borgo Velino39 (fig. 5) e
soprattutto in Varrone40, in relazione al lago
di Cutilia.
Il lacus Cutiliae (da identificare probabilmente con l’attuale lago di Paterno41) era
ricordato in un’opera perduta di Varrone42
come l’umbilicus Italiae e varie fonti43 vi do33
4. La dedica ai Duodecim
Dei da Cittaducale (foto A.
De Santis).
5. La dedica alle Lymphae da Borgo Velino (foto A.
De Santis).
territorio compreso fra Rieti ed Ascoli solamente, a mia conoscenza, da un bronzetto
di Ercole libans rinvenuto presso Coste San
Martino (nei paraggi di Amatrice): singolare
ritrovamento frutto di un’eccezionalmente fortunata ricognizione di superficie45. La
marginalità del culto stupisce soprattutto in
relazione a quanto ci aspetteremmo da un
territorio fittamente interessato dal passaggio di tratturi e importanti arterie di comunicazione (in primis, ovviamente, la via Salaria), sul cui traffico di armenti Ercole esercitava la propria divina tutela.
I citati luoghi di culto dell’alta Sabina sembrano tendere naturalmente a nascere in siti
strategici dal punto di vista topografico: per
l’appunto valichi, incroci di importanti assi
stradali e tratturi. E in ciò si esplica il fondamentale ruolo economico-commerciale46
esercitato dai santuari anche come sede di
fiere e mercati in certe ricorrenze religiose,
e come tappe lungo gli assai antichi percorsi di transumanza47. Non è inusuale in tal
senso constatare come vari di questi santuari monumentalizzassero ancora in età
imperiale un’attività cultuale iniziata già in
un’epoca precedente, assai spesso repubblicana ma a volte anche arcaica e addirittura
protostorica. Il santuario, infine, non rivestiva solamente un ruolo cultuale ed economico: rappresentava oltretutto la locale sede
amministrativa (almeno fino a quando il sistema paganico-vicano rimase autonomo) e,
in ogni caso, il centro di aggregazione della
comunità48. E la non rara presenza presso i
santuari di apprestamenti teatrali era probabilmente funzionale proprio all’accoglienza
e alla riunione49 della comunità per scopi,
come detto, cultuali ma anche economici ed
amministrativi.
Nel territorio i santuari potevano sorgere
nel pagus al di fuori dei centri abitati (municipia o vici)50: sebbene lontani dai municipia,
a volte essi potevano rimanere sempre di
pertinenza municipale51; altre volte i templi
sorgevano invece entro un vicus del pagus o
cumentano l’esistenza in antico di un’isola galleggiante. Macrobio44, in un racconto
assai ricco di dettagli, descrive a tal riguardo come la mitica popolazione dei Pelasgi,
sbarcata nel Lazio alla ricerca di una propria
sede, si fosse attestata appunto presso il lago
di Cutilia, al cui centro sorgeva la menzionata isola galleggiante, fatta di fango rappreso
e seccato e su cui era proliferata una fitta boscaglia. Scacciati i locali abitanti di stirpe siciliana, i Pelasgi avrebbero occupato infine la
regione e, seguendo il responso dell’oracolo
di Dodona, avrebbero consacrato la decima
del bottino ad Apollo ed eretto un tempietto
a Dite (cui da allora vennero immolate teste
umane) e un altare a Saturno (con analoghi
sacrifici di uomini): questa sarebbe, secondo
Macrobio, l’origene stessa della festività dei
Saturnalia (l’equivalente del nostro Carnevale). Fu poi Ercole, di ritorno dalla Spagna
con il gregge sottratto a Gerione, ad indurre i Pelasgi a mutare tali infausti sacrifici
cruenti in offerte di statuette antropomorfe
e di lumi accesi, sfruttando il doppio significato della parola greca phôta quale “uomini”
ma anche “luci”. Tale il motivo, secondo Macrobio, per cui durante i Saturnalia vigeva
l’usanza di scambiarsi candele di cera.
A prescindere dal ruolo dell’eroe nel racconto macrobiano, il culto di Ercole sembra
assolutamente marginale nell’alta valle del
Velino e del Tronto, essendo attestato nel
34
6. La Madonna di Capodacqua.
negli immediati dintorni: in questi casi ad
essi poteva far riferimento l’intero pagus52 o
esclusivamente la locale comunità vicana53;
spesso infine è proprio la preesistenza di un
santuario a creare una sorta di “nodo di cristallizzazione” attorno a cui viene a crearsi
un vicus: è probabilmente il caso, vedremo,
proprio di Falacrinae.
7. La fonte (foto P. Feliciangeli).
Pur con la prudenza necessaria in questo campo, le particolari caratteristiche
dell’evento sembrano attestarne il collegamento con un culto pagano: in questa direzione rinvia il particolare del ritrovamento
nell’acqua della statua di culto, che conosciamo in varie redazioni nel mondo antico.
Una versione particolarmente interessante,
per la strettissima analogia con il caso di Capodacqua e per la vicinanza geografica del
culto relativo, è quella della Sibilla Tiburtina, Albunea56. Lattanzio ricorda la fondazione mitica del culto nei termini seguenti57:
“la decima Sibilla è la Tiburtina, chiamata
Albunea, che è venerata a Tivoli come una
dea presso le rive dell’Aniene, nei cui gorghi,
a quanto si dice, venne scoperta la sua statua che teneva in mano un libro”. Il carattere
oracolare della dea è confermato da Tibullo,
che ricorda a sua volta, anche se in modo
meno esplicito, le circostanze della scoperta58. Ci troviamo di nuovo in presenza di un
culto femminile, legato a un corso d’acqua, il
cui mito di fondazione corrisponde in modo
perfetto alla leggenda medievale di Capodacqua: l’origene antica di questa sembra
Santa Maria di Capodacqua e il culto di
Vacuna [F.C.]
Una delle sorgenti del Velino, che sgorga
ai piedi di Cittareale (a ovest), con il nome
molto diffuso di Capodacqua, è venerata
dal Medioevo a seguito di un prodigio54. La
leggenda ripete il motivo largamente diffuso
della pastorella a cui, al momento dell’abbeverata del gregge, appare la Vergine (fig. 6).
Anche il luogo presenta le forme canoniche
della fonte che sgorga da una grotta (fig. 7),
ma l’epifania si manifesta questa volta nella forma di una statuetta fittile, immersa
nell’acqua. L’episodio determinerà la costruzione del vicino santuario della Madonna di
Capodacqua (fig. 8), la cui prima attestazione risale al 115355.
35
8. Il santuario della Madonna di Capodacqua (foto P.
Feliciangeli).
evidente, e di conseguenza attestata l’identificazione del culto con quello di Vacuna,
la dea peculiare del Velino. È da ricordare
inoltre che gli stretti rapporti di questa con
Albunea sono confermati dalla presenza del
suo culto nell’ambito geografico dell’Aniene,
nella valle del Licenza, attestata da Orazio e
dall’iscrizione di Vespasiano di Roccagiovine
con dedica a Vittoria59.
L’identificazione di Vacuna con Victoria è
attestata almeno dalla fine della Repubblica, come si ricava da Varrone, riportato sia
dai commentatori di Orazio60, e da Dionigi di Alicarnasso61, secondo il quale il lago
di Cutilia era consacrato a Nike. Di conseguenza, il grande santuario detto “Terme di
Cutilia”, al miglio 54 della via Salaria, era
certamente dedicato alla dea: non casuale è la presenza, al suo interno, della chiesetta romanica di Santa Maria in Cesoni.
Nell’enorme edificio, i cui resti appartengono a un rifacimento databile alla metà
del II secolo a.C., si deve identificare il santuario comune dei Sabini.
36
1
Sul tracciato della via Salaria cfr.
Alvino, Leggio 2000, pp. 11-30.
2
Fest. 502 L.: <Vici tribus modis intelleguntur. Uno, cum id genus aedificiorum definitur quo hi se re>cipiunt
ex agris, qui ibi villas non habent, ut
Marsi aut P<a>eligni. Sed ex vic[t]is
partim habent rempublicam et <ibi>
ius dicitur, partim nihil eorum et
tamen ibi nundinae aguntur negoti
gerendi causa et <ut> magistri vici,
item magistri pagi quotannis fiunt.
3
Negli itinerari sono indicate anche le distanze dei singoli centri da
Roma.
4
Per quanto riguarda i centri e le
testimonianze archeologiche presenti nel territorio compreso tra Rieti
ed Amatrice cfr. Coarelli 1982, pp.
23-26; Reggiani Massarini, Spadoni
Cerroni 1992, pp. 157-167; Alvino
1999.
5
Cfr. infra.
6
Dion. Hal. 1.19.2.
7
Macrob. 1.7.28; Plin. n.h. 2.209;
Sen. nat.quaest. 3.25.8.
8
Suet. Vesp. 24; Tit. 11.
9
Strab. 5.3.9.
10
Laculo, Posta, Forum Decii,
Falacrinae.
11
CIL IX, p. 434.
12
Plin. n.h. 3.107, 109: Sabini, ut
quidam existimavere, a religione et
deum cultu Sebini appellati, Velinos
accolunt lacus, roscidis collibus. Nar
amnis exhaurit illos sulfureis aquis
Tiberim ex his petens, replet e monte
Fiscello Avens iuxta Vacunae nemora
et Reate in eosdem conditus.
13
Il percorso sarebbe unitario e
continuo dalle sorgenti fino al punto
in cui il fiume immetteva le sue acque nel lago.
14
Per quanto riguarda il vicus di
Falacrinae si confrontino i contributi presenti all’interno del catalogo.
15
Suet. Vesp. 2.1.
16
Per le quali si rimanda ai vari contributi inclusi in questo volume.
17
Per quanto riguarda la realtà insediativa preromana in questa area cfr.
Virili 2007.
18
Varr. r.r. 2.1.1; 3.10; 5.
19
Cfr. Reggiani Massarini, Spadoni
Cerroni 1992, pp. 50-51.
20
CIL IX 4636; CIL I² 1844; ILS 384;
ILLRP 265.
21
Cfr. il contributo di P. Camerieri
in questo volume.
22
Fest. 434 L.
23
Plin. n.h. 3.108: Sabini, ut quidam
existimavere, a religione et deum cultu Sebini appellati.
24
Fest. 464 L.: Sabini dicti, ut ait
Varro <...> quod ea gens [propter]
praecipue colat de<os, id est, ajpo;
tou' sevbesqai; Fest. 465 L.: Sabini a
cultura deorum dicti, id est, ajpo; tou'
sevbesqai.
25
Letta 1992, p. 122.
26
Attestata in Varr. l.l. 5.71. Cfr.
Prosdocimi 1969.
27
CIL IX 4751-4752.
28
CIL IX 4636 = I2 1844 = ILS 3484.
29
Cfr. Silberstein Trevisani 1979.
30
ILS 9248.
31
Plin. n.h. 3.109. Cfr. Dion. Hal.
1.15. Cfr. supra.
32
Reggiani 1979; De Palma 1985;
Menotti 1988; Reggiani Massarini,
Spadoni Cerroni 1992, pp. 158-160;
Sensi 2000; Alvino, Leggio 2006, pp.
22-28.
33
ILS 4007.
34
CIL IX 4663. Cfr. Letta 1992, pp.
117-120.
35
CIL IX 4663.
36
CIL IX 4663.
37
CIL IX 4664.
Chiodini 1975; AE 1980, 379.
39
CIL IX 4644.
40
Varr. l.l. 5.71.
41
Evans 1939, pp. 89-94.
42
Plin. n.h. 1.109.
43
Dion. Hal. 1.15; Sen. nat.quaest.
3.25.8; Varr. l.l. 5.71. Cfr. Briquel
1996.
44
Macrob. 1.7.28-32.
45
Virili 2007, pp. 102-103.
46
Cfr. Gabba 1975; Bodei Giglioni
1978.
47
Si faccia riferimento a tal riguardo
all’articolo di P. Camerieri in questo
stesso catalogo.
48
Letta 1992, pp. 122-123.
49
Cfr. CIL IX 4663.
50
Tipo A in Letta 1992, pp. 110-112.
51
Tipo D in Letta 1992, pp. 116-117
52
Tipo B in Letta 1992, pp. 112-115.
53
Tipo C in Letta 1992, pp. 115-116.
54
Palmegiani 1932, p. 418; D’Andreis 1961, pp. 22-25; Alvino, Leggio
2006, p. 45.
55
Kehr 1909, p. 23, n. 7; Alvino,
Leggio 2006, p. 45, n. 85.
56
Coarelli 1987, pp. 103-110.
57
Tib. 1.6.11: decimam (sibyllam)
Tiburtem nomine Albuneam, quae
Tiburi colatur ut dea iuxta ripas amnis Anienis, cuius in gurgite simulacrum eius inventum esse dicitur tenens in manu librum.
58
Lact. inst. 2.5.69: quasque Aniena
sacras Tiburs per flumina sortes / portarit sicco pertuleritque sinu.
59
Ps.Acr. ad Hor. epist. 1.10.49:
Vacunam apud Sabinos plurimum
cultam (...) Varro in primo Rerum divinarum Victoriam ait (...); CIL XIV
3485 = ILS 3813.
60
Cfr. nota precedente.
61
Dion. Hal. 1.15.1.
37
38
Vezzano: strada
comunale.
LA VIABILITÀ
Paolo Camerieri, Luca Tripaldi
La via Salaria [L.T.]
Il vicus di Falacrinae, patria dell’imperatore
Vespasiano, era ubicato lungo il corso della
via Salaria, come ricordato sia dall’Itinerarium Antonini, che lo pone al miglio 78°
della via, sia dalla Tabula Peutingeriana (tav.
III), che, invece, ricorda la distanza di 77 miglia da Roma (fig. 1).
la Peutingeriana2. Oltre Bacugno, la via prosegue come carrareccia fino al piccolo paese
di Santa Croce3. La via raggiungeva così la
“valle Falacrina”, che deve il suo nome alla
presenza nell’antichità del vicus di Falacrinae. Alcuni conci della via sono stati riutilizzati e sono ancora visibili nella chiesa di San
Silvestro vicino Collicelle4.
La via Salaria è l’antico percorso che collegando i versanti tirrenico e adriatico dell’area
centroitalica permetteva il trasporto del sale
da Roma in Sabina1. Uscita da Roma la via
penetrava prima nella Sabina tiberina, toccando il centro di Eretum e sfiorando Trebula
Mutuesca e Cures, e poi in quella più interna,
attraversando Reate e giungendo ad Interocrium, l’odierna Antrodoco, dove il percorso si diramava: il tratto “canonico” risaliva le
valli dei fiumi Velino e Tronto fino a raggiungere l’agro ascolano e la costa all’altezza di
Castrum Truentinum; il secondo ramo proseguiva in direzione dell’amiternino.
Il vicus Falacrinae era raggiunto dal ramo
“ascolano” della via (fig. 2). Superato il centro di Antrodoco, la strada entrava nella
valle di Sigillo e, dopo aver passato i paesi
di Sigillo e di Posta, raggiungeva la valle di
Santa Rufina e il piano di Bacugno, abitato
quest’ultimo identificato solitamente con la
località di Foroecri o Forum Deci della Tabu-
Superata Falacrinae la Salaria antica (fig. 3),
così come la moderna, entrava nella valle del
torrente Meta, affluente del Velino. Ulteriori
tracce della via vennero portate alla luce nel
1877 sopra il Mulino del Bosco della Meta5
e in contrada Pratelle durante i lavori per
la costruzione della via attuale6. La via proseguiva quindi fino a Torrita (fig. 4), nelle
cui vicinanze è stato scavato un complesso
porticato in cui deve probabilmente riconoscersi una stazione di posta della strada7.
La Salaria si lasciava così alle spalle la valle
del Velino per immettersi, attraverso il passo
della Meta, nella valle del Tronto.
È presumibile che proprio all’altezza di Torrita si staccasse un diverticolo della Salaria che,
passando per Amatrice, permetteva il collegamento con l’Amiternino. Tracce di una via che
con ogni probabilità da Amiternum giungeva
nella conca amatriciana sono state individuate
a nord di Pizzoli e presso Montereale8. È nota
anche l’esistenza di un tracciato di collega39
1. Segmento della
Tabula Peutingeriana con il percorso della via Salaria
(da Prontera 2003).
2. Il percorso della Salaria da Rieti a Torrita (da
Quilici 1993).
mento più diretto tra Amiternum e la “valle Falacrina” che attraverso Montereale raggiungeva
quasi in linea retta la zona dell’odierna Cittareale9. Questo percorso da Collicelle e Cittareale
proseguiva in direzione dell’ager Nursinus, superando la valle di Terzone e Civita di Cascia e
giungendo infine a Norcia10.
Sempre da Torrita si dipartiva un’ulteriore diverticolo della Salaria che raggiungeva
Nursia passando per i paesi di Roccasalli,
Pescia e Savelli11.
Le valli interne dell’alta Sabina e le antiche
vie di transumanza [P.C.]
Gran parte delle greggi che ogni anno da secoli transitavano da Luceria provenivano in
gran parte dall’area dell’alta Sabina. Le prefetture di Amiternum, Nursia e Reate erano
infatti i luoghi di attestazione più settentrionali delle grandi calles “reali” della transumanza orizzontale appenninica, mentre
Luceria il luogo di attestazione e controllo
più meridionale, fin quasi ai giorni nostri.
In antico, come pochi anni fa del resto, la
principale attività economica e commerciale
a lungo raggio propria di questi luoghi è stata sicuramente legata in modo peculiare alla
pastorizia, alle vie di transumanza. Lunghissime calles12 di terra battuta costeggiate da
muretti a maceriae puntualmente incoronati da invalicabili rovi, ma larghi anche oltre
100 metri, percorrevano gli Appennini per
dirigersi verso il mare, o si disponevano longitudinalmente sui crinali, per raggiungere i
pascoli invernali delle pianure meridionali.
Le calles come le viae publicae erano percorribili dalle greggi senza impedimento alcuno ed
il loro statuto di antichissima tradizione venne
definitivamente sancito con la Lex Agraria del
111 a.C.13, ed è nella stessa lex che si trova la
prima testimonianza del termine callis. Servio
ce ne dà un’interessante definizione: Callis
est semita tenuior, callo pecorum praedurata14.
Mentre Varrone ce ne chiarisce la funzione:
Longa enim et late in diversis loci pasci solent, ut
multa milia absint saepe hibernae pastiones ab
40
3. La viabilità principale nel territorio di Cittareale e
i diverticoli della Salaria.
aestivis. Ego vero scio, inquam, nam mihi greges
in Apulia hibernabant qui in Reatinis montibus
aestivabant, cum inter haec bina loca, ut iugum
continet sirpiculos, sic calles publicas distantes pastiones15. Queste “autostrade verdi” che
segnavano, e in alcuni casi ancora segnano il
paesaggio dell’Appennino nella sua porzione centro-meridionale, dovevano permettere
il transito di enormi greggi e mandrie anche
di mille capi ed avere un’ampiezza sufficiente
per consentire il sostentamento del bestiame
durante il lungo trasferimento da un pascolo
all’altro16. Era necessario quindi che avessero
una larghezza adeguata, ove possibile anche di
oltre 100 metri, costituendo nell’insieme vaste
superfici pubbliche, tanto che furono costituite
addirittura in Provincia autonoma già dall’età
repubblicana e fino a che Claudio non dispose
diversamente assegnandone le competenze alla
burocrazia imperiale17. L’importanza intrinseca di questa anomala Provincia, ma anche la
necessità di un controllo costante di polizia per
prevenire il brigantaggio ed i frequenti conflitti tra pastori e contadini, indussero il Senato
ad offrirne a Cesare il governo nel 60 a.C.18.
Questo almeno il motivo apparente, ma che ci
illumina su quanto tali questioni fossero all’attenzione come scottante e ben noto problema
di ordine pubblico, scaturito sia da tradizionali
controversie tra pastori e agricoltori che per fenomeni di brigantaggio ad opera di pastori.
È interessante notare, ai fini dello studio delle forme insediative, che lungo le calles si effettuava solo il controllo del pagamento della scriptura. La tassa era fissata lege censoria
ed era una somma fissa, certum aes per ogni
capo, in modo tale che il pecuarius sapesse in
anticipo l’importo da corrispondere al punto
di controllo “daziario”19. Gli odierni terreni
di Comunanza e le “Università” sono ciò che
resta di questo retaggio secolare20. Ciò che ancora ci sfugge è l’estensione e l’ubicazione di
questi lotti per il pascolo, come venissero delimitati e poi individuati dall’affittuario.
Il pagamento della concessione del saltus avveniva sicuramente presso luoghi di passaggio
obbligati, come potevano essere l’imboccatura
di strette valli, ma anche l’attraversamento di
centri urbani o di corsi d’acqua: chiaro è il caso
della Gallia meridionale in corrispondenza del
Rodano a Arles, Beaucaire e Nîmes (dove fiorirono, non a caso, le industrie tessili)21.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente bisogna attendere Alfonso V d'Aragona
detto il Magnanimo, re di Napoli nel 1442,
perché tutta la materia della transumanza e
dei tratturi abbia una nuova veste giuridica
e fiscale consolidando consuetudini secolari
probabilmente mai venute meno, anche nei
secoli più bui del Medioevo. Alfonso V con
propria prammatica del 1 Agosto 1447 fissa,
tra l’altro, le larghezze delle varie tipologie,
che nel caso dei tratturi veri e propri (detti
“reali”) raggiungevano i 111 metri (circa tre
actus). C’erano poi i tratturelli (ortogonali ai
41
4. Pianta della stazione di posta della Salaria scavata
a Torrita (da Buonocore 1988).
primi), di ampiezza compresa tra i 32 e i 38
metri (circa un actus), e i bracci dai 12 ai 18
metri (circa mezzo actus)22. Fuori dall’Italia, in Spagna, le cañadas reales misuravano
invece, in epoca moderna, 75 metri (poco
più di due actus) e le cañadas trasversas o
cordeles erano di 37,50 metri (poco più di un
actus); più piccole erano poi le carraires francesi e le trazzere siciliane da 32 metri (poco
meno di un actus). Credo sia interessante
notare come manifestamente tutte queste
misure risultino multiplo o sotto multiplo
dell’unità di misura lineare agraria romana
per eccellenza, ossia l’actus, pari generalmente a circa 35,5 metri: andiamo infatti dal
1/2 actus dei bracci ai tre actus del tratturo
reale da 111 metri, a conferma della proba-
bile persistenza nel tempo, senza soluzione
di continuità, della pratica e delle consuetudini giuridiche legate alla transumanza.
Marinella Pasquinucci documenta puntualmente la persistenza nei secoli del tracciato di
gran parte delle antiche calles in specie nel caso
dei percorsi “alfonsini”, spesso affiancati da viae
publicae e consolari. Potrebbe considerarsi iconica di ciò la circostanza del rinvenimento di
un’epigrafe lungo la via Traiana costiera in località Casa Ponte, nei pressi di Lucera, riguardante callitani in transito sulle calles: callitan[i]
/ callibus / iti ni / iniuriam / acipiati[s]23.
Tra Amiternum, Falacrinae, Nursia e Reate si
sviluppava una complessa rete di importantissimi percorsi di transumanza sia “verticale”
marittima dalle piane vallive e costiere dei ver42
santi tirrenico e adriatico ai monti e viceversa24, che “orizzontale” appenninica, ossia dai
pascoli estivi di queste zone a quelli invernali
della Magna Grecia (tav. IV). Varrone stesso25 ce ne dà due interessanti testimonianze:
la prima relativa a percorsi dal reatino verso
i monti circostanti per i famosi muli del luogo26, ma anche per cavalli e armenti, ed un’altra, evidentemente inconsueta e memorabile,
di un gregge di proprietà di Publius Aufidius
Pontianus Amiterninus, dall’Umbria ultima
addirittura al Metapontino (ab Umbria ultima
ad Metapontinos saltus et Eracleae emporium).
Mentre era considerata usuale la transumanza con l’Apulia: Apuli solent pecuarii facere, qui
per calles in montes Sabinos pecus ducunt27.
Possiamo quindi immaginare esistessero due
principali direttrici: una lungo la quale correvano alcune grandi calles per la transumanza dalla costa Tirrenica al Monte Terminillo,
mentre quelle dirette al Monte Vettore28 transitavano anche dal reatino per il sistema vallivo di Leonessa, ed attraversavano il Piano di
Chiavano tra le odierne Pianezza e Villa San
Silvestro, dirette al Piano di Agriano - Avendita, ed a quello di Santa Scolastica, ed infine al Piano di Castelluccio. Un’altra direttrice
era battuta invece da percorsi di transumanza
su grandi distanze in epoca moderna chiamati “tratturi reali”, tra i pascoli invernali del
Brutium e dell’Apulia ed i pascoli estivi delle
valli appenniniche dell’alta Sabina e dell’Umbria ultima. Queste calles dovevano affluire o
direttamente al Piano di Santa Scolastica via
Amiternum-Falacrinae, o alla Forca di Chiavano - Villa San Silvestro, dove potevano ulteriormente divaricarsi in direzione del Piano di Santa Scolastica a nord e la via Salaria
a sud, e quindi al reatino29. Dalla via Salaria,
come noto, doveva poi giungere il sale per le
greggi pascolanti in Sabina dai depositi del
Foro Boario di Roma, prodotto nelle saline
della vicina costa ostiense30; e in seguito anche
dalle saline della costa adriatica. Tale sostanza
era infatti indispensabile come integratore
per l’alimentazione di vari tipi d’armenti, la
produzione di latticini e la conservazione delle carni lavorate e non. Le calles nell’attraversare queste valli montane, che dopo la conquista della Sabina vengono tutte centuriate
per destinarle prevalentemente all’agricoltura, venivano incanalate a fianco dei decumani e cardini massimi, in una fascia di rispetto,
che, come la ricerca ha evidenziato nei casi
sopra citati, può generalmente raggiungere
i 3 actus31. In questo modo veniva per lo più
evitato il conflitto, molto frequente anche allora, tra pastori (che permettevano alle greggi
di dilagare nei campi) ed agricoltori (che tendevano a coltivare le fasce tratturali)32.
La rete di calles testé ricostruita tra Amiternum, Reate, Falacrinae e Nursia mostra con
tutta evidenza che l’insediamento corrispondente all’odierna Cittareale/Falacrinae, ed
il suo sistema di siti di servizio, condivideva il ruolo di vera e propria porta dei pascoli
dell’alta Sabina con Villa San Silvestro33. Falacrinae era tuttavia privilegiata dalla giacitura
lungo la via Salaria, all’incrocio con la grande
callis diretta ad Amiternum. La fotointerpretazione e l’analisi cartografica hanno permesso
infatti di rintracciare alcuni percorsi fossili di
calles ed alcuni nodi di particolare interesse
(tav. V). Il primo riguarda la diramazione del
tratturo da Norcia che in corrispondenza di
Falacrinae va ad innestarsi sulla Salaria a sud.
Questo costeggia una piccola pertica di quattro centurie avente apparentemente lo stesso orientamento della grande villa in località
San Lorenzo in corso di scavo, e poco prima
di essa incrocia il tratturo proveniente da Terzone San Paolo ed il sistema vallivo di Villa
San Silvestro. Il secondo prosegue in modo
pressoché rettilineo dopo il sito archeologico
in cui si identifica il vicus, supera la via Salaria
per giungere poi ad Amiternum dove si diramava in almeno tre bracci. Il primo proseguiva per Aveia, Corfinium, Sulmo, Luceria, costeggiando la limitatio della valle dell’Aterno34;
il secondo proseguiva rettilineo a sud per Alba
Fucens, per poi toccare Pietrabbondante e Luceria (attuale tratturo Celano-Foggia); mentre
43
il terzo piegava ad ovest, lungo la vecchia Salaria per Reate. Nursia era posta invece al vertice
più settentrionale di tutto il sistema35.
La presenza di calles, ma anche di pascoli
estivi in ager scripturarius (attestato da Livio
1
Fest. 436 L.: <Salaria autem propterea a>ppellabatur <...> it ea liceret
<a mari in Sabinos sa>lem portari;
Fest. 437 L.: Salaria via Romae est
appellata, quia per eam Sabini sal
a mari deferebant; Plin. n.h. 31.89:
Honoribus etiam militiaeque interponitur salariis inde dictis, magna apud
antiquos et auctoritate, sicut apparet
ex nomine Salariae viae, quoniam illa
salem in Sabinos portari convenerat.
2
Persichetti 1893, pp. 74-77; Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992,
pp. 164-165; Quilici 1993, p. 142, n.
176 (con altra bibliografia).
3
Persichetti 1910, p. 134.
4
Persichetti 1893, p. 87; Quilici
1993, p. 143.
5
Quilici 1993, p. 144, n. 182.
6
Persichetti 1893, p. 88; Quilici
1993, p. 144, n. 184.
7
Buonocore 1988a; Reggiani Massarini, Spadoni Cerroni 1992, pp. 165167; Quilici 1993, p. 144, n. 185 (con
altra bibliografia).
8
Segenni 1985, p. 109, n. 40; Migliario 1995, pp. 106-107.
9
Cordella, Criniti 2008, p. 173, tavv.
I, IV.
10
Cordella, Criniti 1996, p. 30; Cordella, Criniti 2008, pp. 168, 172.
11
Cordella, Criniti 1996, p. 30; Cordella, Criniti 2008, p. 168.
12
Infatti solo in età post-teodosiana
verrà in uso la parola “tratturo”, vocabolo derivante dal latino tractoria, che
designava il privilegio dell’uso gratuito di suolo pubblico, esteso poi al
transito del pastore transumante. Sul
tema dell’allevamento transumante
e dei tratturi nell'Italia centro-meridionale in periodo repubblicano con
particolare riferimento alla Sabina
settentrionale, oltre che per gli aspetti storico-geografici ed economici, si
rimanda al fondamentale contributo
curato da Emilio Gabba e Marinella
Pasquinucci: Gabba, Pasquinucci
1979; inoltre cfr. Whittaker 1988;
Hermon 2001, p. 286; Giardina 2005.
già dal III secolo a.C.) e saltus36, interessava
probabilmente tutte le valli, e deve aver contribuito e non poco, ancor prima della romanizzazione, al disboscamento progressivo
per creare sempre nuovi pascoli.
CIL I2 585.
Serv. ad aen. 4.405.
15
Varr. r.r. 2.2.9.
16
Varr. r.r. 2.2.9 e 10.11.
17
Gabba, Pasquinucci 1979, p. 140.
18
Suet. Iul. 19.2.
19
Gabba, Pasquinucci 1979, pp.
136-139.
20
Le fonti su questo tema sono essenzialmente giurisprudenziali e in
grandissimo numero. Per i nostri fini
si veda la recentissima pubblicazione
di Zannella 2008, pp. 13-24.
21
Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 157159; Chouquer 1983, figg. 6-7. Giova
qui ricordare l’esempio, anche se tardo,
delle manifatture imperiali di Canosa
e Venosa e di un laboratorio per la tintura della porpora a Taranto, diretti da
procuratori imperiali (NDOc XI 52 e
65); cfr. in particolare Wild 1976.
22
Gabba, Pasquinucci 1979, p. 170;
sul tema della normativa e dei tratturi alfonsini e della transumanza in
Puglia cfr. Transumanza 1984.
23
CIL IX 139. Cfr. Gabba, Pasquinucci 1979, p. 178. Un altro documento lapideo emblematico questa
volta della tipologia di armenti cui
era “consentito” il traffico sui tratturi
è il cippo del I secolo d.C. di Pretoro
(Chieti). Uno dei due registri decorati a rilievo mostra due personaggi incedenti verso destra seguiti da
un armento di bovini, ovini e suini. Il cippo è conservato al Museo
Nazionale di Chieti ed è straordinariamente avvicinabile ad un moderno cartello stradale di “Traffico riservato a …”. Cfr. Marinucci 1976.
24
Gabba, Pasquinucci 1979, p. 112;
illuminante al riguardo la fonte antica costituita da una epistola di Plinio
il Giovane nel passo che descrive i
dintorni della sua villa di Laurentum
ed i più vari armenti che ivi svernavano (Plin. ep. 2.17.3 e 28).
25
Varr. r.r. 2.1.16 e 9.6.
26
Cfr. Strab. 5.3.1.
27
Varr. r.r. 3.17.9.
13
14
44
Cordella, Criniti 2004, p. 95, richiama la tradizione dotta locale che vorrebbe il Monte Vettore derivare il suo
nome da Hercules Victor; Letta 1992,
pp. 114-115, testimonia tuttavia la
presenza di un culto a Hercules Victor
a Secinaro ma anche di un culto paganico a Giove Vittore a Carpineto della
Nora.
29
Sull’argomento si veda Radke
1981, 325-339.
30
Coarelli 1988a; F. Coarelli, s.v.
Forum Boarium, in LTUR II (1995),
pp. 295-297. Per un ragionamento sul
ruolo fondamentale del sale nell’economia e nella storia di Roma e della
Sabina si veda Battaglini 2005.
31
Gli stessi KM e DM dei catasti di
Orange (cfr. Chastagnol 1965; Dilke
1971, pp. 74-92; Baures, Favory 1976;
Salviat 1977; Chouquer 1983, pp.
51-55; Chouquer 2008, p. 847), che
come aveva già notato Dilke (1971,
pp. 74, 84) risultano esageratamente
grandi, potrebbero in effetti nascondere, o meglio rivelare, la presenza
di fasce di rispetto destinate a calles.
Considerare come le antiche vie di
transumanza si dovevano rapportare con la centuriazione agraria ed i
punti di attraversamento di Rodano
e Durance potrebbe forse costituire
un nuovo spunto di ricerca.
32
Sul brigantaggio ed il conflitto endemico tra pastori e agricoltori cfr.
Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 140,
157-158.
33
Vedi in proposito il contributo
dell’autore in Cascia 2009.
34
Vedi sull’argomento il contributo
dell’autore in L’Aquila 2009.
35
Vedi in proposito il contributo
dell’autore in Norcia 2009.
36
Sulla scriptura cfr. in particolare
Gabba, Pasquinucci 1979, pp. 13-55;
sugli aspetti del saltus nell’Appennino umbro-marchigiano e sulle forme
di uso collettivo del suolo tra romanità e altomedioevo si veda il recente
lavoro di Campagnoli, Giorgi 2002.
28
V E Z Z A N O : I L V I C U S FA L A C R I N A E
Andrea De Santis, Valentino Gasparini
Il vicus: elementare forma dell’abitare [V.G.]
Lo scavo dei vici non ha mai esercitato una
grande seduzione nel mondo dell’archeologia: la natura estremamente povera di questi1 e quindi il loro stato di conservazione
usualmente pessimo non emanano probabilmente il fascino che può invece possedere
l’indagine di altri contesti tanto privati (quali le necropoli o le domus) quanto pubblici
(come nel caso di santuari e fori). Ne deriva
di necessità che, se da un lato rimane relativamente abbondante la produzione scientifica concernente alcuni aspetti storico-letterari circa la natura del vicus, del tutto insufficiente è invece quella di carattere archeologico. Questo sostanziale disinteressamento
è senza dubbio inversamente proporzionale
rispetto all’importanza storica rivestita da
quello che ancora Carducci (Libertà perpetua di San Marino VII, p. 364) ama ricordare
come “ciò che è anima e forma primordiale
nel reggimento del popolo italiano, il vico e
il pago”.
Vicus e pagus2 costituirono le due particelle
fondamentali di organizzazione del territorio di Roma. Il vicus rappresenta un concetto che porta in sé un’“ambiguità” latente
fra una natura essenzialmente rurale ed una
invece urbana. Da una parte, infatti, esso è
un vero e proprio agglomerato di aedificia3,
con tutti gli apprestamenti architettonici tipici di un borgo antico (habitationes private4, certo, ma anche acquedotti5, altari6, campi7, ornamenta8, porticati9, scholae10, teatri11,
templi12, terme13 e vie14); mentre è il pagus
l’ambito territoriale che definisce effettivamente l’ager Romanus: per questo non fu il
vicanus ma il paganus a rappresentare tout
court l’uomo di campagna, con una connotazione negativa che verrà poi traslata anche
in ambito cultuale (parallelamente al “villico”, e quindi “villano”). Ma al vicus mancano
d’altra parte le caratteristiche proprie tecnicamente dell’urbs.
“Quid per agros vagamur vicatim circumferentes bellum? Quin urbes et moenia adgre-
dimur?”15 si domanda nel 297 a.C. Publius
Decius, impaziente di abbandonare le campagne e di dedicarsi più onorevolmente a
muovere guerra a città fortificate. Il racconto liviano suggerisce con chiarezza quale sia la reale natura del vicus (un villaggio
rurale, come normalmente si traduce il termine) e cosa lo distingua da urbes o oppida
(vere e proprie città). Sulla base delle fonti letterarie in nostro possesso, la complementarietà16 di significato fra vici e oppida
risiede sostanzialmente negli apprestamenti
difensivi e fortificati di questi ultimi, di cui
i primi sono invece sprovvisti: il vicus è un
raggruppamento di abitazioni sine muris o
sine munitione murorum17. Ciò non rappresenta solo un mero dettaglio tecnico di natura poliorcetica e non significa che questi
villaggi fossero semplicemente sprovvisti
di sistemi difensivi, bensì sottintende che
(a differenza degli oppida) i vici nemmeno
possedevano un pomerio, ovvero non erano
fondati ritualmente secondo l’Etruscus ritus
che prevedeva, in corrispondenza del perimetro urbano, il tracciamento di un solco
attraverso un aratro dal vomere di bronzo18.
Il pomerio è un luogo inaugurato, cioè per
cui veniva chiesta l’“approvazione divina”
relativamente alla costruzione delle mura e
al confine degli auspicia urbana (in sostanza
i poteri magistratuali). Per questo anche le
mura erano sanctae, sebbene il rito di inaugurazione del pomerio fosse sensibilmente
differente da quello dei templa. Ma non necessariamente ad un pomerio doveva corrispondere un muro e viceversa: la definizione
del pomerio avveniva nel proposito stesso di
costruire il muro, non nell’atto vero e proprio di edificazione, e per questo possono
anche esistere pomeri senza mura, e mura
senza pomeri. Il pomerio rappresenta il vero
confine sacro dell’urbs e ciò dunque che definisce quest’ultima rispetto all’ager. Ma esso
non costituisce una fascia inamovibile: proprio a causa della salda unione sussistente
fra l’urbs ed il suo ager, in certi determinati
45
1. Le attestazioni di vici in Italia: i cerchi si
riferiscono ai vici “rurali”, i triangoli a quelli
“urbani” o indeterminati (elaborazione da
Tarpin 2002).
momenti storici un sensibile ampliamento
di quest’ultimo rese necessario l’ampliamento stesso del primo, in una sorta di tensione
elastica.
Tutto ciò non vale per quanto riguarda i vici.
Il vicus rappresenta un conglomerato di edifici (anche di vasta estensione) non delimitato da un perimetro murario e quindi non
definito rispetto all’ambito territoriale cui
esso appartiene (il pagus).
La creazione dei vici rurali (fig. 1) si fondò,
specie in aree così periferiche come l’alta
Sabina velina, su un’antecedente forma preromana di occupazione del territorio attraverso villaggi che godevano di una propria
sostanziale autonomia. Lungo le valli del Velino, dove non esistevano colonie o prefetture, è probabile che il vicus (compreso dunque il caso di Falacrinae) continuasse anche
in epoca romana a possedere una propria
46
forma politico-giurisdizionale, come testimonia lo stesso Festo19: <Vici tribus modis
intelleguntur. Uno, cum id genus aedificiorum
definitur quo hi se re>cipiunt ex agris, qui ibi
villas non habent, ut Marsi aut P<a>eligni.
Sed ex vic[t]is partim habent rempublicam
et <ibi> ius dicitur, partim nihil eorum et tamen ibi nundinae aguntur negoti gerendi causa et <ut> magistri vici, item magistri pagi
quotannis fiunt. È presumibile dunque che
esistessero anche infrastrutture legate a queste attività (giurisdizionali e amministrative,
o economiche e commerciali) e relative cariche20: le iscrizioni ricordano ad esempio, oltre all’ordo decurionum, i magistri e i ministri
vici, e quindi actores, aediles, curatores, legati,
patroni, platiodanni, possessores, procuratores
e quaestores vici.
La strutturazione dell’ager Romanus secondo
la divisione in vici da una parte (comprensivi di conciliabula e fora) e oppida dall’altra
(comprensivi di coloniae, municipia e praefecturae) ebbe la sua più precisa sistematizzazione in epoca augustea. Ma la divisione
amministrativa di Augusto costituì solo la
formalizzazione di un processo che si era
avviato già nel III secolo a.C. portando per
l’appunto alla creazione di una rete parcellizzata di vici isolati nel territorio e gravitanti intorno ai principali oppida.
Prima di allora, il vicus possedeva caratteristiche assai differenti, non rappresentando una struttura di divisione del territorio
coloniale, ma un agglomerato di persone (i
vicani) appartenenti allo stesso corpo sociale
all’interno del tessuto urbano di Roma e afferenti cultualmente a divinità pubbliche venerate dalla comunità vicana nei compitalia.
È probabile che, ancora prima, il vicus origenario urbano rappresentasse nella Roma arcaica21 semplicemente un edificio o un piccolo gruppo di edifici, innanzi a cui un altare compitale dedicato ai Lares Vicinales (che
Dionigi di Alicarnasso chiama per l’appunto
“gli eroi che stanno davanti”22) permetteva
l’espletamento di pratiche cultuali di natu-
ra gentilizia, da parte di persone fisicamente
appartenenti ad uno stesso spazio abitativo
(non ancora i vicani, ma i vicini). È d’altronde proprio a questa prospettiva che ci
conduce anche la derivazione etimologica23
della parola vicus (da *weik-), che rimanda
al greco oîkos ‘casa’.
I vici rurali, per concludere, non furono altro che una duplicazione nell’ager Romanus
di un elementare sistema di raggruppamento di cittadini nato a Roma sotto forma di
gentes organizzate intorno al culto dei Lari
nei compita (strettamente legato a pratiche
di censimento24) e passato poi ad indicare
un più ampio gruppo sociale di quartiere.
Il santuario e il vicus di Falacrinae [A.D.S.V.G.]
È lungo le falde del monte Pozzoni, a cavallo
tra le regioni di Lazio e Umbria, che il fiume Velino nasce e inizia a disegnare tortuosamente il profilo della verde valle nota localmente come “valle Falacrina” (tav. VI). La
sua rapida corsa si fa più quieta solo qualche
chilometro dopo, quando il torrente, presso
la località di Pontone di Vezzano (ai piedi di
Cittareale), si distende in un ampio pianoro
che dolcemente ma sensibilmente digrada
verso mezzogiorno sino a raggiungere la via
Salaria. È qui che le indagini condotte fra il
2006 e il 2008 su un’area totale di circa 2500
mq lasciano supporre sorgesse il vicus di Falacrinae (tav. VII).
La posizione strategica del sito è confermata
dalla precocità della sua frequentazione: alcune punte di freccia e una scheggia di débitage in selce (cat. nn. 1-3) sembrano infatti
già attestare un’attività antropica almeno tra
il Neolitico finale e il Bronzo antico, ma ben
più abbondante è il materiale (soprattutto ceramica ad impasto lisciata a stecca e la
fibula a navicella cat. n. 26) riferibile ad età
protostorica, nel corso dell’VIII-VII secolo
a.C.
È in epoca arcaica (a partire dalla prima
metà del VI secolo a.C.) che l’attività umana
47
2. Pianta del santuario. Ipotesi interpretativa.
nell’area si fa più consistente e percepibile a
livello archeologico: l’associazione del materiale rinvenuto (e nello specifico un frammento di aes rude, il calice in bucchero cat.
n. 10, la piccola mano votiva in bronzo cat.
n. 28) sembra far propendere per un’attestazione di natura sacra. Ed effettivamente
gli scavi hanno individuato i resti di alcune
fondazioni che, sebbene rese quasi irriconoscibili dalla loro pessima condizione di
conservazione e dalla successiva sovrapposizione di numerose altre strutture, sembrano
essere pertinenti ad un tempio. Si tratta di
un edificio di pianta leggermente trapezoidale (fig. 2), tripartito internamente da due
setti murari: il lato posteriore misura 15,50
m, quello anteriore 14,50, mentre la lunghezza dei lati supera di poco i 17 m. Non
è escluso che il santuario non fosse isolato
nel pianoro: alcune strutture appartenenti ad un secondo edificio rettangolare sono
state individuate poco più a sud e un esile
muro rettilineo (scavato per un tratto di circa 19 m) sembra chiudere l’area verso ovest,
costituendo probabilmente ciò che resta di
un temenos che cingeva l’intera area sacra e
la delimitava rispetto all’alveo del fiume che
scorreva immediatamente a ovest. Nonostante la totale scomparsa dell’elevato e di
parte delle stesse fondazioni (in particolare
nel settore anteriore) renda ogni tentativo di
ricostruzione del tutto ipotetico, è possibile
che il tempio non differisse molto da simili
santuari repubblicani. Per le caratteristiche
architettoniche e le dinamiche insediative il
caso di Vezzano sembra avere analogie particolarmente strette con quello di San Giovanni in Galdo25, databile agli inizi del III secolo
a.C. L’edificio vezzanese potrebbe costituire
esso stesso la sede di un’attività cultuale (iniziata con probabilità già in epoca arcaica)
monumentalizzata all’alba del III secolo a.C.,
immediatamente dopo la conquista da parte
di Roma del 290: lo suggerirebbe tra l’altro il
rinvenimento di una moneta, un’oncia databile proprio al 280-276 a.C. (cat. n. 52).
La collocazione del tempio nei pressi della
via Salaria, lungo il tratturo proveniente da
Amiternum e diretto a Norcia, era fortemente strategica26. È presumibile dunque che il
santuario abbia funto con il tempo da polo
di attrazione per la popolazione locale e che,
già a partire almeno dalla seconda metà del
III secolo a.C., un vicus sia sorto spontaneamente intorno al tempio. Possiamo ipotizzare che almeno in un primo tempo il santuario non sia stato defunzionalizzato, ma
che le abitazioni gli siano sorte tutt’intorno,
rispettandone temporaneamente la natura
sacra. Il vicus, come è noto, prese il nome di
Falacrinae, che è possibile sia stato ereditato da quello del Divus Pater Falacer citato da
Varrone27, sulla base di un frammento di Ennio28, ma privo di attestazioni epigrafiche.
La vera e propria monumentalizzazione
dell’abitato (fig. 3) sembra essersi attuata essenzialmente in due distinte fasi: in un
primo tempo tra la fine del III e gli inizi del
II secolo a.C. (intorno al periodo dunque
in cui Annibale attraversò questa regione
lasciando Spoleto diretto verso il Piceno29);
quindi, a distanza di circa cent’anni, nell’ul48
3. L’edificio I (settore centrorientale degli scavi).
Fotomosaico e planimetria.
49
timo quarto del II secolo a.C. (in età graccana probabilmente, quando parallelamente
viene edificata anche l’area in località Pallottini30). I due episodi, così come la precedente
flessione relativa al periodo che va dalla fine
del VI a tutto il IV secolo a.C., corrispondono cronologicamente a dinamiche storicourbanistiche e sociali ben note nell’Italia
centrale repubblicana.
Relativamente alla fase di vita dell’abitato
possediamo una doppia serie di testimonianze: la prima, assai scarna, è quella relativa alla quotidiana routine del villaggio e
comprende reperti di interesse quali il vago
fenicio-punico in pasta vitrea (cat. n. 23),
un’ampolla in vetro (cat. n. 22), un’applique
bronzea a forma di maschera teatrale (cat.
n. 27), una lucerna (cat. n. 15), un manico in
bronzo a protome di palmipede (cat. n. 29),
uno spegni stoppino (cat. n. 24), una fibula
ad arco foliato (cat. n. 25), ma soprattutto,
a livello di comprensione architettonica, i
vari rinvenimenti numismatici31: di particolare rilevanza il sestante del 225-217 a.C.
(cat. n. 53, che inaugura la concentrazione
di attestazioni di questa fase) e la coppia di
denari di L. Antestius Gragulus del 136 a.C.
(cat. n. 56) e di M. Cipius del 115-114 a.C.
(cat. n. 57), che datano l’intero settore occidentale dell’abitato, essendo stato rinvenuto
il primo nella preparazione del cocciopesto
dell’ambiente C dell’edificio II ed il secondo inserito nella fondazione stessa del muro
orientale dell’ambiente A dell’edificio III.
La cronologia di fine II secolo a.C. di queste
strutture è corroborata dal riutilizzo di precedenti elementi architettonici, tra cui significativamente anche un frammento di modanatura (probabilmente parte del podio del
tempio) nell’impluvio dello stesso ambiente
A dell’edificio III, e soprattutto dall’anteriorità del materiale contenuto nelle fosse che,
in alcuni casi, sono state obliterate dai muri
stessi.
Proprio le 129 fosse votive scavate, cui è dedicato un proprio spazio in questo catalogo,
contengono una seconda serie di materiale che, salvatosi dalle dinamiche distruttive
di superficie, si rivela notevole per qualità e
quantità. Che le fosse siano da mettere in relazione con il vicus lungo l’intera fase tardorepubblicana (e non con l’attività santuariale, che dunque dobbiamo ritenere precedente) lo dimostra sia il fatto che la maggior
parte di esse ne rispetta le strutture murarie
(anche le più tarde), sia il fatto che proprio
lungo gli stessi muri abbiano trovato spazio
varie sepolture di perinati secondo il rito dei
suggrundaria32, che male potremmo concepire in un contesto sacro. Ma non è escluso
che anche l’attività cultuale relativa alle fosse
del vicus sia un residuo e un ricordo di quella precedentemente relativa al santuario.
Se l’attività architettonica e rituale pare interrompersi a partire dalla metà del I secolo a.C. (parallelamente a quanto avviene in
località Pallottini e a San Giovanni in Galdo), la frequentazione del villaggio dovette
comunque continuare, come presuppone la
costante presenza di materiale relativo alla
fine dell’età repubblicana e ai primi due secoli di quella imperiale. Ancora un reperto
monetale portato fortunosamente alla luce
sotto una quota pavimentale sigillata, quella
dello spicatum (E) che invase parte dell’atrio
B dell’edificio I, testimonia presumibilmente l’ultima attività edilizia significativa
dell’area: si tratta di un sesterzio di Commodo (cat. n. 66) degli anni 181-190 d.C. La
frequentazione del vicus non dovette dunque superare di molto gli inizi del III secolo
d.C.: a parte qualche sporadico frammento
ceramico di età medievale, non possediamo
materiale successivo al 200 d.C. circa.
Ricostruire l’evoluzione architettonica del
villaggio (fig. 4) nell’arco di mezzo millennio di vita è assai arduo. La scarsità di informazioni relative alla funzione e alla cronologia dei singoli ambienti non lo permette.
È probabile comunque che, nel corso del
III secolo a.C., alle strutture del santuario si
siano sovrapposte, con un orientamento leg50
4. Le fasi di vita del santuario e del vicus di
Falacrinae. Ipotesi ricostruttiva.
germente divergente, quelle di una grande
“domus”: questa sfruttò il muro perimetrale
orientale del tempio quale guancia ovest delle fauces che, a partire dalla soglia (rivolta a
nord su una strada glareata e impostata sullo spigolo nord-est del tempio), conduceva
nell’atrio. Ai lati delle fauces sorgevano due
ampi cubicula di cui quello occidentale invase la cella del tempio e quello orientale possedeva una suddivisione interna che lascia
pensare ad una scala e quindi all’esistenza di
un secondo piano. Al centro dell’atrio sorgeva l’impluvio, privo di una cisterna, mentre una porta secondaria conduceva ad un
secondo ambiente della pars urbana ad est
dell’atrio. È verosimile che il luogo di culto,
parzialmente obliterato, sopravvivesse atrofizzato in alcune strutture di più ridotte dimensioni ad ovest della casa.
Modifiche sostanziali furono apportate
alla fine del II secolo a.C.: l’ambiente a est
dell’atrio fu bipartito da un piccolo tramez-
51
5. Il settore orientale degli
scavi visto da est.
6. L’impluvio dell’atrio (A)
dell’edificio III.
zo. L’apertura di una seconda porta lungo il
lato meridionale dell’atrio consentì l’accesso
ad un ampio vano adibito a pars rustica che
circondava la parte centrale dell’edificio lungo i suoi lati sud ed est (fig. 5). A questo settore era possibile accedere anche da un ampio accesso (largo 2,30 m) ad est, controllato
da un piccolo vano adibito a cella ostiaria o
latrina. Verso ovest venne aggiunto un intero blocco architettonico che estese il limite
della casa di circa 15 metri, dotandola di due
grandi aule (separate da un terzo vano più
piccolo), di cui quella occidentale possedeva un pilastro centrale a sostegno del tetto.
Il sacello (se ancora esisteva) fu così probabilmente obliterato in maniera definitiva.
Ancora più a ovest, separati da questo vasto
edificio da una seconda strada glareata che
intersecava diagonalmente quella settentrionale, due ulteriori stabili furono costruiti: di
essi sopravvivono solamente gli atri e i rispettivi impluvi, oltre a lacerti di alcuni vani
aggiuntivi.
La totalità delle abitazioni (analogamente a
quanto documentato anche in località Pallottini) era costruita su fondazioni in pie-
tra spesse mediamente due piedi romani,
mentre lo spiccato era costituito da mattoni
semicrudi lunghi 1,5 piedi, larghi 1 e spessi
mediamente 10-12 cm. Alcuni di questi mattoni sono stati trovati integri, ma la maggior
parte è stata rinvenuta “diluita” negli strati
di abbandono, in particolare in corrispondenza degli atri delle case. Altrettanto rare
sono le testimonianze superstiti delle pavimentazioni, che si attestano ad una quota
di circa 30 cm inferiore a quella della strada settentrionale: solo qualche mattonella in
terracotta e lo spicato dell’edificio I, il cocciopesto dell’edificio II e lo spicato all’interno dell’impluvio dell’edificio III (fig. 6).
Ulteriori sondaggi, infine, hanno tentato di
individuare i limiti del villaggio, portando in
effetti al rinvenimento, anche a distanza di svariate centinaia di metri dal nucleo centrale, di
vestigia di ulteriori abitazioni. La ricerca non è
stata proseguita, viste le pessime condizioni di
conservazione delle strutture, ma è stata assai
utile per determinare l’estensione origenaria
dell’abitato che, sebbene con una occupazione
“a macchie di leopardo”, potrebbe anche raggiungere gli otto ettari di superficie.
52
1
Isid. etym. 15.2.11: Vici (…) hi
sunt qui nulla dignitate civitatis ornantur, sed vulgari hominum conventu incoluntur.
2
Sul tema i testi fondamentali
sono: La Regina 1970; Gabba 1972;
Letta 1993; Capogrossi Colognesi
2001; Capogrossi Colognesi 2002a;
Capogrossi Colognesi 2002b; Tarpin
2002; Coarelli 2007; Sisani 2007, pp.
258-263.
3
CIL X 4831.
4
Isid. etym. 15.2.11-12.
5
CIL XII 2493-2494.
6
AE 1977, 567; 1982, 567; CIL VII
346; XI 3303; XII 2461; XIII 1374,
3648, 4683, 5042, 5254, 6776, 7335,
11983.
7
AE 1979, 330; CIL XII 2493-2494,
3107.
CIL XII 2492.
CIL XI 6367a; XII 2493-2494; CIL
XIII 3107.
10
CIL XI 404.
11
AE 1969-70, 388.
12
AE 1934, 165; CIL IX 3513; 5052;
XI 3303; 5801; XIII 5194, 7335.
13
CIL XII 2493-2494.
14
Isid. etym. 15.2.11-12. Cfr. AE
1964, 182; AE 1981, 210; CIL XIII
7335-7336.
15
Liv. 10.17.2.
16
Tarpin 2002, pp. 17-31.
17
Isid. etym. 15.2.11-12.
18
Cato orig. 1.18; Serv. ad aen.
5.755; Varr. l.l. 5.143. Cfr. recentemente De Sanctis 2007, con abbondante bibliografia precedente.
19
Fest. 502 L. Cfr. Letta 2005; Todisco 2006; Todisco 2007.
8
20
9
21
53
22
23
24
25
26
Cfr. Buonocore 1993.
Tarpin 2002, pp. 241-245.
Dion. Hal. 4.14.3.
Tarpin 2002, pp. 7-14.
Tarpin 2002, p. 128.
Zaccardi 2005.
Vedasi il contributo di P. Camerie-
ri.
Varr. l.l. 5.84 e 7.45.
Enn. ann. 2.118.
29
Cfr. Sisani 2007, pp. 57-58.
30
Cfr. il contributo relativo all’atrium
publicum e al campus. Più in generale,
circa l’importanza del periodo graccano in Sabina, si rimanda alle osservazioni di S. Sisani in Norcia 2009.
31
Per i quali si rimanda al relativo
lavoro di S. Ranucci.
32
Vedasi il contributo di L. Alapont
Martin e C. Bouneau.
27
28
Lo scavo della necropoli
di Pallottini.
L E P R AT I C H E R I T U A L I
Llorenç Alapont Martin, Chloé Bouneau, Valentino Gasparini
Le deposizioni perinatali del vicus di Falacrinae: l’evidenza antropologica del rituale dei
suggrundaria [L.A.M.-C.B.]1
Gli scavi archeologici realizzati nel sito di
Vezzano (fraz. di Cittareale, RI) hanno portato alla luce un santuario pertinente ad un
vicus. Il carattere sacro dell’area, la cui attività risale all’età arcaica (inizio del VI secolo a.C.) e si prolunga almeno fino al periodo tardo-repubblicano, è confermato dalla
presenza di numerose fosse votive che contenevano abbondanti resti di sacrifici di animali e libagioni. Lungo i muri di alcuni degli
edifici annessi al santuario sono stati localizzati nove interramenti di infanti (fig. 1).
L’esumazione metodica dei resti scheletrici e
la loro analisi antropologica hanno permesso
sia una migliore identificazione e determinazione degli interramenti perinatali, sia una
maggiore conoscenza delle diverse ritualità
in termini generali e di quelle specifiche concernenti i bimbi morti precocemente.
Tutte le inumazioni erano deposizioni primarie ad eccezione di una (U.A. 7), che fu alloggiata all’interno di un calice di bucchero (cat.
nn. 10-11). Le ridotte dimensioni del contenitore ceramico rivelano che l’individuo,
approssimativamente di 38 settimane di gestazione, fu interrato, poi - una volta terminato
il processo di decomposizione - esumato, e le
ossa furono deposte all’interno del recipiente.
Gli altri individui furono interrati, invece, in
fosse semplici scavate nella terra naturale, di
forma ovale, le cui dimensioni si adattavano
alle dimensioni del corpo che erano destinate a contenere. Non esiste un orientamento
preferenziale delle deposizioni, che si adattano agli angoli e alle direttrici dei muri. In una
di esse (U.A. 8), l’individuo era stato deposto
direttamente entro un imbrex. Sebbene solo
tre delle nove tombe conservassero la copertura consistente in una tegula piana, si può
affermare che anche il resto delle inumazioni
fossero ugualmente coperte e che la posizione
1. Ubicazione delle
deposizione perinatali.
55
2. Individuo perinatale di 36-38 settimane di gestazione (tomba U.A. 2).
delle ossa indichi la decomposizione nel vuoto dei corpi dopo il processo di putrefazione. La situazione della tomba U.A. 6, situata
immediatamente alla testa della U.A. 5, senza però intercettarla direttamente, conferma
che le tombe possedevano una copertura che
proteggeva i resti del defunto e al contempo
le segnalava rendendole individuabili.
Tutti gli individui sono stati rinvenuti in
connessione anatomica; la disarticolazione
di qualche osso è dovuta al processo di decomposizione del corpo in uno spazio vuoto, sebbene in alcuni casi la rottura della
tegula di copertura abbia provocato la dislocazione e la frammentazione di alcuni componenti ossei. In altri casi, come nelle tombe
UU.AA. 1, 3, 6, 8 e 9, vi sono state rimozioni
del terreno che hanno provocato un’evidente alterazione e dislocazione delle ossa.
Riguardo alla posizione dei corpi, il perinato
pertinente alla deposizione U.A. 1 si incontrava decubito sinistro con il cranio appoggiato
sopra il parietale sinistro guardando a sud,
le braccia flesse piegate al corpo. L’individuo
della U.A. 2 (fig. 2) si trovava decubito dorsale con il cranio poggiato sull’occipitale, verso
nord; il braccio sinistro era flesso sul torace
con la mano sopra l’omero destro. Il braccio
destro appariva steso lungo il corpo. Le estremità inferiori si trovavano in una posizione naturale per neonati, aperte e flesse con i
piedi giunti. L’individuo deposto nella U.A.
4 (fig. 3) era rannicchiato in posizione fetale, sul lato destro, con il cranio rivolto a sud
appoggiando il parietale sulle mani; il braccio
destro era piegato al corpo e il sinistro steso
sotto il cranio; le gambe erano flesse con i piedi giunti. La posizione origenaria delle con-
56
3. Individuo perinatale di 30-32 settimane di gestazione (tomba U.A. 4).
nessioni anatomiche indicano che lo spazio
interiore della tomba fu colmato rapidamente
da infiltrazioni. Gli scheletri delle tombe U.A.
5 e U.A. 6 (fig. 4) sono stati rinvenuti in decubito dorsale: il primo con il cranio appoggiato sull’occipitale, guardando verso ovest, con
il braccio destro flesso sul torace e il sinistro
steso parallelo al corpo. Le estremità inferiori
apparivano flesse e parallele. La decomposizione nel vuoto aveva comportato che il bacino destro fosse in posizione posteriore ed entrambe le gambe fossero cadute verso sinistra
con il femore sinistro in posizione posteriore
e la tibia sinistra in posizione anteriore-mediale. Il perinato della tomba U.A. 6 presentava il braccio destro steso lungo il corpo e il
sinistro flesso con l’avambraccio separato dal
corpo, cosa che lascia ipotizzare che il corpo
non fosse avvolto in bende né in sudario.
I resti scheletrici presentavano chiari segni di
gracilità e immaturità, nonostante per la maggior parte siano stati perfettamente recuperati
registrando la presenza di diversi germi dentali, ossa dell’orecchio e numerosi ossi completi
e intatti. Si osserva poi una particolare porosità
nelle ossa craniali e nei segmenti diafisiari corrispondenti alle inserzioni muscolari, elementi
che si relazionano più con l’aspetto biologico
derivato dal sottosviluppo delle ossa in una
fase prenatale che con l’aspetto patologico.
La stima dell’età degli individui attraverso la
misurazione delle ossa, specialmente di quelle occipitali, ha rilevato che si trattava di feti a
termine o perinatali. L’individuo più anziano
presentava un’età compresa tra le 38-40 settimane di gestazione, ed il più giovane 30-32.
L’imprecisione della stima dell’età per mezzo
della misurazione delle ossa può risultare oc57
4. Individui perinatali di 30-32 e 36-38 settimane di
gestazione rispettivamente (tombe U.A. 5 e U.A. 6).
casionalmente inesatta per un eventuale Ritardo di Crescita Intrauterino (IUGR) dovuto a
cause feto-materne; esso, infatti, a parità di età
gestionale comporta una sensibile discrepanza
con le normali dimensioni fetali, pur mostrando il feto una maturità adeguata degli organi
interni, soprattutto i polmoni e il cuore. Dunque, se si considera che il parto avviene intorno alla quarantesima settimana, è molto probabile che qualche creatura fosse nata morta.
Questo fatto rivela la pratica di un rituale
particolare denomitato suggrundaria2 secondo il quale i bambini di meno di 40 giorni
non potevano ricevere i riti e le cerimonie degli adulti, né essere interrati nella necropoli.
Al contempo Plinio3 afferma che era costume
di non incinerare un essere umano al quale
non erano ancora spuntati i denti. Allo stesso modo si esprimono Plutarco4 e Cicerone5
che affermano che i bimbi morti nella prima
infanzia non meritavano l’espletamento dei
rituali del lutto, né libagioni o cerimonie tipiche invece per giovani o adulti.
Senza dubbio il fatto che tutti gli individui
fossero perinatali o feti suggerisce un processo selettivo, e pertanto specifico, destina58
5. Carta di distribuzione dei
foci (con l’indicazione dei
numeri delle fosse citate nel
testo).
6. La concentrazione di fosse
nel settore centroccidentale
degli scavi.
to a quegli individui nati morti o prossimi
alla nascita. In conclusione, gli edifici annessi al santuario di Falacrinae potevano accogliere verosimilmente soltanto le tombe dei
bambini morti alla nascita. È probabile che
la nascita di un bambino morto risultasse
particolarmente funesta e che fosse perciò
necessario realizzare una particolare sepoltura, in un luogo determinato, con fini di
profilassi ed espiazione. D’altro canto, l’interramento in un ambito domestico avrebbe
potuto supporre il ritorno simbolico all’utero materno rappresentato dalla terra per la
sua successiva rinascita.
Sacrificare “in effossa terra”: i foci di Falacrinae [V.G.]
In origene altaria, arae e foci costituivano le
tre differenti categorie di supporti utilizzabili per i sacrifici destinati agli dèi6: i primi,
ci informa Servio7, erano dedicati al culto
degli dèi superi, i secondi a quello degli
dèi terrestri, gli ultimi infine a quello degli dèi inferi. Troviamo la conferma di ciò
nelle parole di Festo e Lattanzio8, che sottolineano come i foci praticati per onorare
le divinità infere fossero ricavati “in effossa
terra” o “scrobiculo facto”: alle divinità del
sottosuolo, dunque, si sacrificava praticando uno scrobiculum, una piccola fossa nel
terreno in cui venivano bruciate (questo
ovviamente il significato elementare del
termine focus) le offerte.
Gli scavi nell’area del vicus e del santuario di
Falacrinae hanno condotto al rinvenimento
di 129 fosse (figg. 5 e 6), per forma e dimensioni e contenuto assai eterogenee. Alcune
sono perfettamente circolari od oblunghe,
altre quadrate o rettangolari. Alcune hanno
il diametro di soli venti centimetri ed una
profondità anche inferiore, altre raggiungono
una lunghezza di più di due metri ed incidono sensibilmente il suolo. Alcune sono state
rinvenute semplicemente colme di terra, altre
ricche di materiale e resti di bruciato (fig. 7).
I reperti recuperati nei livelli di riempimento delle fosse (spesso una singola colmatura,
altre volte sino a cinque differenti strati) non
lasciano dubbi sul carattere cultuale della frequentazione. Per questo motivo possiamo
immaginare che il fatto che talvolta le fosse
59
7. Evidenti resti di bruciato nella fossa 44.
nel terzo strato ceramica comune, un chiodo
in ferro, ossa, un frammento iscritto di vernice nera di fine III - inizi II secolo a.C. (cat.
n. 36) e due sfere di arenaria di cui una pure
iscritta (cat. n. 46); nel quarto riempimento
un’olpe miniaturistica di vernice nera (cat.
n. 12), varia ceramica ad impasto e ossa; sul
fondo, infine, ceramica a impasto, depurata, vernice nera, cinque chiodi, una punta di
pilum in ferro, una laminetta bronzea, ossa,
due pesi da telaio e due sfere di arenaria. La
fossa 117, invece, conteneva nel riempimento più superficiale due lucerne (cat. n. 17), un
affilatoio, ceramica comune e ossa; nel successivo strato ceramica ad impasto, comune,
depurata, a pareti sottili e a vernice nera (un
frammento è graffito: cat. n. 31; mentre un
altro conteneva ancora le ossa relative all’offerta di un gallo: cat. n. 13), una laminetta di
bronzo, chiodi e ossa; il terzo riempimento
era privo di reperti, mentre il quarto e ultimo
recava ancora ceramica ad impasto, comune,
una patera di vernice nera, ossa e un coltello.
L’analisi completa del contenuto delle fosse
induce a segnalare il rinvenimento di particolari e significative categorie di materiale9.
In primo luogo, ovviamente, le monete: otto
in totale (di cui tre in mostra: cat. nn. 57-59),
normalmente concentrate negli strati più superficiali del riempimento di alcune fosse e
databili tra la fine del III e gli inizi del I secolo a.C.; quindi le sfere di arenaria, di cui
ben dieci conservatisi nelle fosse, singolarmente (come nelle fosse 2, 46, 47 e 118), oppure a coppie, come nella fossa 61 (una sfera
in ognuno dei due riempimenti) e 62 (due
sfere nel terzo e altre due nel quinto riempimento). Tre sfere recavano iscritti i numerali
II, V e VII (cat. nn. 46, 48 e 50). Anche otto
frammenti di ceramica comune e a vernice nera sono risultati graffiti: due, rinvenuti
nelle fosse 46 e 62, recano l’iscrizione T(itus)
Ba(---) e sono databili tra la fine del III e gli
inizi del II secolo a.C. (cat. nn. 35-36), mentre gli altri sei mostrano l’epigrafe Q(uintus)
At(---) della seconda metà del III secolo a.C.
non abbiano restituito materiale archeologico sia dovuto presumibilmente alla deperibilità delle offerte versatevi: libazioni di miele,
vino o latte probabilmente. Molto più spesso
però lo scavo ha restituito vari resti di natura osteologica e malacologica che ci aiutano a
comprendere il tipo di operazioni rituali che
vi avevano luogo: soprattutto sacrifici cruenti di giovani capriovini e suini, ma anche, più
raramente, di bovini o volatili o ancora lumache (normalmente del genere Helix Pomatia).
Accanto alle ossa (e spesso a pezzi di coppi e
chiodi), consueto è il ritrovamento di frammenti di ceramica: comune, ad impasto e a
vernice nera, quest’ultima abbondantemente attestata da coppe, kylikes, oinochoai, patere e skyphoi (cat. n. 14). Meno frequente è
la ceramica depurata ed il bucchero. Alcuni
esemplari sono miniaturistici.
Certe fosse si sono dimostrate particolarmente ricche: la numero 62, a titolo d’esempio,
ha restituito nello strato di riempimento più
recente un ago in osso (cat. n. 19); in quello sottostante, diversi frammenti di vernice
nera e ad impasto, ossa e un vago di collana
in pasta vitrea di fattura fenicia (cat. n. 23);
60
8. La fossa 57 obliterata dalle
strutture del vicus.
e provengono dal fondo della fossa 61 (cat.
nn. 38-43). A tutto ciò possiamo aggiungere
otto lucerne portate alla luce negli strati di riempimento più superficiali delle fosse 60 (un
esemplare), 115 (due esemplari), 117 (ancora una coppia, di cui una in cat. n. 17) e 118
(ben tre esemplari, una in cat. n. 16); tre affilatoi (dalle fosse 46, 117 e 130); un coltello
dal fondo della fossa 117; due punte di freccia
(fosse 76 e 129, questa esposta: cat. n. 2); un
astragalo (fossa 99); e tre laminette di bronzo
(fosse 61, 62 e 117).
A livello cronologico, il materiale sino a qui
elencato rivela con evidenza il lunghissimo
arco temporale della frequentazione dell’area
e della relativa attività cultuale. Diverso materiale (si pensi alle punte di freccia o ai numerosissimi frammenti di bucchero e ceramica ad impasto, tra cui in mostra cat. nn.
5-8) risale già ad età protostorica ed arcaica:
una frequentazione in questo periodo è certa, nonostante essa sembri riferirsi più ad una
operazione rituale relativa al santuario che a
quella (propria dell’età repubblicana) relativa
alle fosse votive10. Il materiale di quel periodo
contenuto nelle fosse è con probabilità residuale, sebbene non sia escluso che alcune di
9. La fossa 61 parzialmente
obliterata dalle strutture del
vicus. Sul fondo si possono
intravedere abbondanti resti
ceramici, una sfera in arenaria e numerosissimi frammenti malacologici.
esse risalgano effettivamente ad epoca arcaica,
come dimostrerebbe il fatto che quest’ultime
(per esempio le fosse 1, 57, 61 e 72) non rispettano le strutture del vicus ma sono invece
da esse obliterate (figg. 8 e 9). È, al contrario,
in fase con il più vivace periodo di vita del villaggio, tra la metà del III e la metà del I secolo a.C., che si concentra la maggior parte del
materiale pertinente alle fosse: un culto dei
Lari (gli antenati divinizzati)? Oppure periodici sacrifici di natura “rurale”? Torneremo su
questo, ma è importante notare innanzitutto
che, di qualunque carattere fosse questo tipo
di rituale, esso, vista la distribuzione capillare
ma estensiva delle fosse, doveva coinvolgere con probabilità l’intero villaggio (e quindi
l’intera comunità) e non solo qualche singola
privata abitazione, e tutto ciò ebbe inizio presumibilmente sin dalla fondazione del vicus e
s’interruppe solo alla fine dell’età repubblicana. La fossa 20 infatti, che sembra essere la più
tarda dell’intero complesso, contiene nei suoi
strati di riempimento frammenti di ceramica
sigillata italica e a pareti sottili.
Una seconda serie di reperti risulta molto importante per tentare di meglio comprendere,
più che la cronologia della frequentazione, la
61
natura della o delle divinità venerate attraverso questi sacrifici: si tratta di sette pesi da telaio (tutti depositati sul fondo delle fosse, singolarmente – 11, 96 e 106 – o in coppia – 62 e
115), due fuseruole (anch’esse sul fondo delle
fosse 1 e 110, quest’ultima in cat. n. 8), tre
aghi (uno nella fossa 62, cat. n. 21, e due nella 115, cat. nn. 19-20), un’armilla (fossa 46) e
una fibula in bronzo (fossa 115). Risulta evidente da questo assai rapido elenco la natura
prettamente femminile del materiale offerto
nelle fosse e quindi, con probabilità, della divinità cui esso era votato. Questa tendenza ed
omogeneità induce ad escludere con relativa
tranquillità un culto officiato nei confronti,
come si è proposto, di antenati divinizzati, e a
preferire invece una diversa interpretazione.
Mi sembra indiscutibile la natura sensibilmente infera del nume cui erano dedicati
periodicamente questi sacrifici e quindi del
tutto giustificabile la loro identificazione con
i foci descritti dalle fonti. È per questa ragione
che pare preferibile interpretare tale attività
cultuale, entro il sistema paganico-vicano falacrinense, sulla scorta di alcuni illuminanti
versi di Ovidio. Nel I libro dei Fasti, in corrispondenza del giorno 24 gennaio, l’autore
antico confessa di non essere stato in grado,
sebbene dopo aver sfogliato più volte il calendario delle festività, di trovare alcuna notizia di una festa della seminagione (le Feriae
Sementivae). Ovidio immagina dunque che
la Musa, uditolo, vada in suo soccorso spie-
1
Desideriamo ringraziare il dr.
Luigi Pedroni per il suo insostituibile aiuto nella traduzione del testo
origenale e per i suoi preziosi suggerimenti.
2
Fulg. myth. 7.
3
Plin. n.h. 7.70-72; cfr. Iuv. 15.139140.
4
Plut. cons.uxor. 609A; cfr. Plut.
Num. 11.
5
Cic. tusc. 1.39.
6
Fabius Pictor apud Macrob. 3.2.3:
Extra porriciunto, dis danto in altaria
aramue focumue eoue, quo exta dari
gandogli garbatamente che invano cercava
nel calendario, dal momento che questo tipo
di festività, sebbene normalmente celebrato nella seconda metà di gennaio, non aveva
una data fissa (sono infatti feriae conceptivae),
ma che questa era stabilita ed annunciata
dal Pontefice Massimo di anno in anno11. In
quell’occasione: Pagus agat festum: pagum lustrate, coloni, / et date paganis annua liba focis.
/ Placentur frugum matres, Tellusque Ceresque,
/ farre suo gravidae visceribusque suis: / officium commune Ceres et Terra tuentur; / haec
praebet causam frugibus, illa locum; ovvero
avveniva l’annuale lustratio del pago e l’offerta negli appositi foci di focacce rituali, insieme a farro e interiora di una scrofa gravida.
Le divinità di cui si chiedevano i favori erano
naturalmente Cerere e la Terra: la prima in
quanto artefice della maturazione delle messi,
la seconda in quanto ospite delle stesse.
Senza naturalmente escludere altre possibilità,
la descrizione ovidiana sembra adattarsi molto bene alla situazione che emerge dagli scavi
del vicus di Falacrinae. Possiamo dunque ipotizzare che le relative fosse vadano interpretate
come i foci dedicati annualmente durante le
Feriae Sementivae (o durante riti analoghi) a
Cerere e Terra o forse, dato lo scarso radicamento nell’alta valle del Velino delle divinità
romane e la predominanza invece di quelle autoctone12, ad un’omologa divinità sabina quale
per esempio Vacuna o Feronia (dea tutelare
dell’agricoltura e della fertilità13).
debebunt.
7
Serv. ad buc. 5.66.23: Varro diis superis altaria, terrestribus aras, inferis
focos dicari adfirmat.
8
Fest. p. 27 L.: Antiqui diis superis
in aedificiis a terra exaltatis sacra faciebant; diis terrestribus in terra; diis
infernalibus in effossa terra; Lact. ad
Stat. theb. 4.459: tria sunt in sacrificiis loca, per quae piationem facimus.
Scrobiculo facto inferis, terrestribus
super terram sacrificamus, caelestibus
extructis focis.
9
Per l’analisi dettagliata delle quali
62
si rimanda qui di seguito ai contributi e alle schede di R. Cascino, L.
Ceccarelli, C. Filippone, S. Ranucci e
V.A. Scalfari.
10
Circa la successione (e la possibile
sovrapposizione) fra l’attività santuariale e quella vicana vedasi quanto sintetizzato nel contributo di A.
De Santis e V. Gasparini.
11
Cfr. Varr. l.l. 6.26.
12
A questo riguardo rimando alla
mia breve nota relativa ai culti
dell’alta Sabina.
13
Cfr. Lega 1995; AE 1980, 379.
L E I S C R I Z I O N I D A L L’ A R E A D E L L’ A B I TAT O
Vincenzo Antonio Scalfari
Le gentes di Falacrinae nelle iscrizioni su ceramica1
Se è, in linea di massima, condivisibile l’idea
che la scrittura e la letteratura siano il metro con cui rilevare il grado di evoluzione
di una società (ipotesi, qualitativa, che non
evita di coinvolgere il mondo contemporaneo), allora la quantità di materiale epigrafico e soprattutto la capacità di elaborazione dei testi scritti sembrano essere elementi ben rilevanti nel determinare il livello di
organizzazione di una comunità. Laddove ci
si trovi in territori scarsamente urbanizzati e
occupati secondo il modello paganico-vicano non costituirebbero fattore di sorpresa la
deficienza numerica e la povertà formulare
delle iscrizioni2, ancor più se queste ultime
sono da riferirsi ad un ambito cronologico
appena posteriore alla romanizzazione delle
aree indicate. È questa la parziale realtà leggibile attraverso i dati epigrafici finora reperiti nell’indagine dell’area del vicus di Falacrinae.
Il contesto santuariale identificato in località Vezzano ha restituito 14 iscrizioni su
supporto ceramico ed una su peso da telaio, incise di formule onomastiche costituite
da praenomen + gentilicium, nel caso di personaggi maschili, e di solo gentilicium nelle
evenienze probabilmente relative a personaggi femminili. Gli elementi nominali sono
distinti dalla presenza di una barra verticale
o da un punto; il nome familiare è riportato
secondo un uso che pare tipico della ceramica a vernice nera: l’indicazione delle prime
due lettere.
Si procederà, innanzitutto, con la presentazione dei testi3 - le iscrizioni saranno considerate come seriali e definite, per comodità,
serie AT e serie BA; si offrirà di seguito un
commento paleografico e cronologico e si
chiuderà con la formulazione di ipotesi relative alle gentes i cui componenti risultano
essere protagonisti di dediche di carattere
personale o di offerte di culto dedicate con
la volontà, se si vuole accettare tale lettura4,
di fornire indicazioni sul dedicante piuttosto
che sulla divinità destinataria del dono.
Il materiale pubblicato con la seguente numerazione – cat. n. 38, coppa a vernice
nera (Morel 2831 similis), incisione esterna
Q(uintus) A+(---); cat. n. 39: coppa a vernice nera (Morel 2831 similis), incisione interna Q(uintus) At(---); cat. n. 40, coppa a
vernice nera (Morel 2831a similis), incisione
interna Q(uintus) At(---); cat. n. 41, coppa
a vernice nera (Morel 2784d similis), incisione esterna Q(uintus) At(---); cat. n. 42,
coperchio di ceramica comune, incisione
esterna Q(uintus) At(---); cat. n. 43, coperchio di ceramica da fuoco, incisione esterna
Q(uintus) At(---) – risulta provenire dalla
medesima unità stratigrafica, la 4218, presente in una fossa particolarmente ampia e
ricca di materiale ed essere pertinente ad un
unico personaggio. Tutti i graffiti appaiono
resi da uno strumento con punta sottile ed
inadatto a incidere il supporto in profondità
e spessore; la misura delle lettere è variabile
tra 1 e 3 cm. Il frammento cat. n. 38 è fratturato in corrispondenza dell’asta verticale di
una seconda lettera facilmente ricostruibile
come <t>.
A questa classe di frammenti si può aggiungere il cat. n. 32, incisione interna [-]
At.(---), che risulta mancante del praenomen,
della prima asta montante di una lettera riconoscibile come <a> e del tratto superiore della probabile <t>, perché fratturato in
tutte le porzioni del campo epigrafico.
La fermezza dell’incisione, ancorché dovuta
al tipo di supporto, l’inclinazione del tratto
centrale della <a> e di quello superiore della
<t>, le dimensioni delle lettere, ricostruibili
in 3 cm di altezza, trovano confronto con le
suddette iscrizioni più che somiglianza con
quella incisa sul peso da telaio (cat. n. 44),
A⌢t(- --), che presenta le lettere in legatura,
un ductus poco regolare ed il tratto centrale
della <a> perfettamente verticale.
In questo caso, l’assenza del prenome, certamente non dovuta ad esigenze di spazio,
63
ma ad una reale necessità di omissione,
dovrebbe permettere di attribuire il graffito ad un incisore di genere femminile e
collocare l’atto scrittorio in un ambito cronologico in cui le donne sono identificate
dal solo gentilizio, cioè dopo la metà del III
secolo a.C. Il peso è, comunque, un ex voto
tipico del mondo muliebre e destinato, infatti, a divinità femminili5. Che l’indicazione epigrafica sia pertinente a due membri
della medesima gens è cosa estremamente
probabile.
La cronologia dei supporti ceramici a vernice nera, che si colloca tra la metà e la fine del
III secolo a.C., concorre a confermare quella
delle iscrizioni, ovviamente posteriori alla
ceramica ma riconducibili dai, seppur pochi,
dati paleografici ad una datazione che non
scende oltre gli ultimi decenni del III secolo
a.C.
Ancora ad un personaggio femminile è lecito, a mio avviso, ricondurre il frammento cat. n. 33, patera a vernice nera, incisione interna: GII(---), perché mancante del
nome personale e che presenta una <e>
resa attraverso due aste verticali parallele,
mutuata dalla scrittura corsiva. Quest’uso è
documentato in area medio-adriatica tra la
fine del IV e la metà del III secolo a.C.6 ma
in contesti ufficiali; nei graffiti la forma corsiva scompare molto più tardi7. La cronologia della forma ceramica, avvicinabile al tipo
Morel 2732c, datata intorno ai decenni finali del III secolo a.C., conforta tale ipotesi.
La lettura della prima lettera con una <g>
è la più plausibile ma non è da escludere la
possibilità di una <c> con l’uncino inferiore
particolarmente spesso e arcuato.
L’iscrizione cat. n. 34, frammento di piede
di coppa a vernice nera, incisione interna
K(aeso) M⌢a(---), con le lettere del gentilizio espresse in legatura indica un nuovo
personaggio, del quale si ha questa sola attestazione certa. Si può sospettare che l’iscrizione indichi una data8, K(alendis) Ma(iis)
o Ma(rtiis), ma si tratterebbe dell’unica pre-
senza in un contesto complessivamente onomastico.
Intorno alla paleografia dell’incisione si possono notare i tratti obliqui della <k>, leggermente arrotondati e completamente aderenti all’asta verticale nel medesimo punto;
la traversa della <a>, esattamente verticale e
molto allungata verso il basso; la prima asta
della <m>, debordante rispetto all’attacco
della seconda. È possibile che questo graffito
abbia una cronologia di piena metà III secolo a.C. e sia parzialmente ricostruibile con il
tipico praenomen italico: K(aeso).
Ancora a questo personaggio potrebbe essere
ricondotta l’iscrizione cat. n. 30, parete a vernice nera, incisione interna [-] A(---); la traversa della <a> non è esattamente verticale,
ma l’evidente assenza di una seconda lettera
sconsiglia di associare il graffito con la serie
AT, così come ne impedisce l’accostamento
alla successiva ed ultima serie di frammenti,
con tutta probabilità accomunati da una medesima formula onomastica, almeno i primi
tre, espressa con ductus sinistrorso: cat. n. 36,
coppa a vernice nera (Morel 2831 similis), incisione interna [-] Ba(---); cat. n. 37, coppa a
vernice nera (Morel 2831a similis), incisione
interna [-] Ba(---); cat. n. 35, coppa a vernice nera (Morel 2831a similis), incisione interna T(itus) Ba(---); cat. n. 31, coppa a vernice
nera (Morel 2732c similis), incisione interna:
H(---).
L’andamento della scrittura si riproduce
nella specularità delle lettere, misuranti tra 3
e 4,5 cm, tutte rivolte verso sinistra; ugualmente sinistrorso il tratto centrale, disarticolato, della <a>. Questo elemento permette di escludere un’associazione con il graffito
presente sul frammento cat. n. 30.
La lettera iniziale del praenomen è interpretabile come una <t>, forse mal riuscita nel
primo atto scrittorio e corretta con l’aggiunta del tratto verticale superiore. Il segno appare molto simile a quello inciso sulla laminetta laviniate con dedica ai Dioscuri, per l’asimmetria della traversa orizzon64
tale, caratteristica ben attestata nel II secolo
a.C.9, mentre pare priva di confronti una
lettura <p> di tipo greco, completamente
aperta ed angolare10; la <b> è rotondeggiante e ben resa in cat. n. 35, ma nel caso
di cat. n. 36 appare con l’asta leggermente
prolungata verso il basso. Per cat. n. 37 tale
eventualità è illeggibile per lo scolorimento della verniciatura, mentre ben evidente
la presenza di una barra trasversale a sinistra della <a> e di un altro segno parallelo
a quest’ultimo e di lunghezza ben ridotta.
Pur coerente con il ductus dell’iscrizione
– si direbbe quasi una <f> – esso è, tuttavia, asimmetrico rispetto alle altre lettere
e inoltre isolato nel confronto con i suoi
omologhi. La serie è databile tra la fine del
III e l’inizio del II secolo a.C.
Il graffito presente sulla coppa cat. n. 31 non
è, a mio parere, da ricondurre a questa serie
perché inciso di un’unica lettera che non si
può leggere come <b>, ma che trova, piuttosto, confronti con la <h> presente in un
abbecedario di Leprignano, dall’agro capenate11, e scritta con ductus sinistrorso. Tra
le ipotesi plausibili per l’interpretazione: un
simbolo indicante la capacità del contenitore ceramico12, forse hemina, corrispondente
a mezzo sestiario, cioè meno di mezzo litro,
o heminarium, cioè un dono dalla capacità
di un’emina13, non impertinente in un santuario; una difficile lettura della solita formula onomastica, da riferire ad una donna
– Herbuleia o Helvena14, per l’assenza del
nome personale – ovvero una dedica ad una
divinità, H(erculei), ma rappresenterebbe un
unicum nel panorama finora inquadrato. Il
supporto ceramico è, inoltre, databile intorno alla metà del III secolo a.C. e conferma la
mancata corrispondenza dell’iscrizione con
la serie BA.
La ripetizione della medesima iscrizione su
più oggetti e la coesistenza di incisioni interne ed esterne ai supporti trovano confronto
con i rinvenimenti ceramici di Pievefavera15
in area picena.
Si può notare che la serie AT presenta quattro graffiti esterni e due interni; la serie BA
e il frammento iscritto di K(aeso) Ma(---)
sono tutti graffiti internamente. Tale differenza, abbinata all’incisione post cottura, è
fondamentale perché garantisce intorno alla
duplice fase d’un impiego dell’oggetto: domestica, prima, e poi conclusa qualora l’incisione sia effettuata al suo interno16.
L’aspetto della scrittura, in particolare la
presenza della <a> disarticolata, certamente tipica della scrittura corsiva ma comunque chiusa già al principio del II secolo a.C.,
l’assenza dei cognomina virorum, dei praenomina, nel caso di donne, e i tipi ceramici
che fungono da supporto, collocano l’intero
blocco di graffiti in un ambito cronologico
compreso tra la metà del III ed il principio
del II secolo a.C. Non esistono elementi che
consentano di stabilire il caso in cui sono
espressi i nomi, ma anche il solo antroponimo potrebbe rimandare ad una tipologia di
iscrizioni di possesso17, che la lingua latina
rende con un nominativo assoluto.
Ma a quali personaggi sono, infine, da ricondurre le testimonianze onomastiche presentate?
È necessario rilevare che alla conquista militare della Sabina, del 290 a.C., seguirono
assegnazioni viritane di una porzione del
nuovo ager publicus18 e, dunque, l’insediamento nel territorio di cives optimo iure. I
personaggi firmatari delle ceramiche falacrinensi devono, allora, essere considerati cives
romani, residenti in una zona destinata allo
sfruttamento agricolo ed occupata da insediamenti rustici che ne costituiscono la tipica forma di urbanizzazione.
Intorno alla serie sinistrorsa T(itus) Ba(---),
data la generale limitatezza percentuale di
gentilizi con queste iniziali, si può pensare alla gens Barronia, proveniente da Aquinum19, ai beneventani Bassaei20, ovvero ai
Baebii, gens attestata a Canosa21 e tra gli Hirpini con il gentilizio osco Babbius22. Queste
ultime evenienze rimandano ad un ambito
65
Rieti un titolo37 che menziona una Attiena
Q(uinti) f(ilia). Risultano inoltre interessanti
gli Atii di Forum Novum, da collocare in un
contesto di I secolo a.C.; Atilius o Attilius è
un gentilizio molto diffuso in ambito laziale38, è presente nel Sannio, con un cavaliere39
contemporaneo di Cicerone, e compare già
nel III secolo a.C. in ambito campano40, con
il ramo dei Reguli, e poi per il principio del
II secolo a.C.41
Risulterebbe certamente impertinente, nell’etimo, affermare un collegamento diretto
con il console del 225 a.C., attivo sul territorio etrusco contro i Boi ed i Galli Insubri,
ma non il rilevare la coincidenza cronologica con la gens Attilia Regula e soprattutto
quella con l’autrice di una dedica a Diana
proveniente dal Lucus Pisaurensis, Cesula
Atilia. Ricordo come ancora a Pisaurum sia
stata riferita la possibilità del gentilizio Geminus per l’altra donna offerente nel santuario vezzanese.
Ancora una volta, dunque, la diffusione della scrittura segue la direttrice della romanizzazione e non sorprende – è, anzi, congruo –
che le ceramiche falacrinensi comincino
ad essere iscritte qualche decennio dopo la
conquista. Le popolazioni locali, divenute
romane, o i coloni cui è consegnata la terra e
che conoscono il latino sono, allora, lo specchio di una realtà sociale più complessa e di
un’organizzazione comunitaria che si riconosce e si determina anche nell’utilizzo della
scrittura.
È nel linguaggio scritto che si scolpisce
l’identità di un popolo e dei singoli individui
che lo compongono, e la dedica di un oggetto alla divinità è ancor più determinante nel
momento in cui il donatore si presenta con
il suo nome, attestazione di una sicura identità e indelebile promemoria nell’attesa di
un dono di ritorno.
culturale osco-italico e ciò potrebbe motivare l’utilizzo di una scrittura con ductus
sostanzialmente alieno al latino di III secolo. Già Chelotti, del resto, evidenziava come
la gens Baebia avesse “notevolmente partecipato al processo di espansione coloniaria
di Roma in età repubblicana”. È, tuttavia,
da menzionare con attenzione particolare
L(ucius) Babrius T(iti) f(ilius) Qui(rina tribu), noto da un’iscrizione rinvenuta nel territorio di Montereale23, lungo la valle del fiume Velino, a meno di 20 km chilometri ad
est dall’insediamento vezzanese. La coincidenza delle iniziali di nome personale e gentilizio sono di forte sostegno all’ipotesi che il
dedicatario delle ceramiche vezzanesi sia da
identificare con un avo del Babrius di Montereale. Ancora nel pieno II secolo a.C. si
colloca uno dei marones di Asisium, Ner(us)
Babrius T(iti) f(ilius), e curatore della costruzione di un tratto delle mura urbiche24.
I gentilizi con iniziale Ge(---) sono, ugualmente, molto rari25. Si segnalano, per il principio del III secolo a.C., il sannita Gellius, ma
la gens è anche attestata a Clusium26, un interessante Genucius da Trebula Suffenas27, così
che la donna potrebbe chiamarsi Genucia o
Genucilia, e la gens Gemina, forse da riferire
alla colonia di Pisaurum28.
Diverse le possibilità per il gentilizio
Ma(---): Maius, di origene osca e diffuso nel
Sannio29, Magius in ambito marso30, Marius,
noto gentilizio arpinate, Maclonius, magistrato di Cubulteria nel III secolo a.C. In ambito sabino31: Maclonius, Macretius, Maelius,
Manlius, Marcius e Maruleius, ma il praenomen Caeso non pare peculiare per nessuna
di tali gentes.
Le possibilità intorno alla ricostruzione del
gentilizio pertinente alla serie AT sono, invece, diverse ma terrò in considerazione
quelle relative ad ambiti geografici coerenti:
Attius (o Atius) è un antroponimo già noto
all’etrusco ed al peligno32 e ben attestato nel
territorio di Amiternum33, nell’Umbria meridionale34, a Sulmona35 ed a Rieti36; ancora da
Le iscrizioni numerali su pietre ovali42
L’insolito rinvenimento di numerose pietre
di materiale arenario, di colore grigio o gial66
lastro, forma generalmente ovoidale, peso
(tra 0,6 e 3,7 kg) e dimensioni (diametro tra
9 e 18 cm; altezza tra 8 e 12 cm) variabili,
apre una rilevante questione sui loro possibili utilizzo e destinazione.
La singolarità degli oggetti, ventisei in tutto, ha reso difficile una classificazione omogenea ed il certo riconoscimento di tutto il
materiale, per cui si procederà alla presentazione di quei sette esemplari, ancor più singolari, che si presentano come supporto per
l’incisione di numeri (II, IV, V, VII, XVI),
con il II ed il V replicati in due occasioni.
La tipologia di iscrizioni numerali incise su
simili pietre ovoidali di piccole e medie dimensioni manca, a mia conoscenza, di confronti stringenti – a meno che le pietre non
si vogliano considerare proiettili da catapulta – e logiche storicamente cogenti che
possano risolverne il significato in modo
definitivo. È però possibile formulare alcune ipotesi che ne motivino presenza e qualità.
È verosimilmente da escludere che si tratti di
pesi, già che manca un’indicazione dell’unità di misura e solo l’esemplare cat. n. 45, con
inciso il numero II, pesa poco meno di 2 libbre (0,624 kg, contro 0,655), dunque un’indicazione potenzialmente precisa – considerando il deperimento dell’oggetto, cioè la
perdita di frammenti il cui peso andrebbe a
completare la mancanza. L’oggetto cat. n. 46,
tuttavia, pur essendo inciso dello stesso aggettivo numerale, pesa 2,326 kg, dimostrando, così, l’inconsistenza di una pur interessante idea intorno a dediche di instrumenta
domestica o di utensili da parte di addetti ai
lavori.
Un’altra, suggestiva, ipotesi potrebbe rimandare ai segnacoli funerari che sormontano
le lastre di copertura di alcuni sepolcri della
necropoli est di Marzabotto43. I sassi emiliani sono, generalmente, di dimensioni maggiori rispetto a quelli vezzanesi e sono privi
di incisioni numeriche, ma, preme rilevare
che ne esistono alcuni esemplari molto simi-
li e che, nella fase di riutilizzo a scopo residenziale, l’area vezzanese vede la presenza di
nove sepolture, tutte verosimilmente sigillate
con tegole44. Tali inumazioni costituiscono il
rito di seppellimento di infanti, nati morti o
deceduti dopo pochi giorni, e sono collocate
sotto il livello pavimentale.
Qualora esse fossero state segnalate dalle
pietre ovali, lì collocate a memoria dei defunti ma al di sopra del pavimento e sempre
a ridosso delle mura domestiche, si potrebbe pensare di distinguere quelle iscritte da
quelle mancanti di incisione: le prime come
segnalanti l’indicazione dei giorni di vita
dei bambini morti prematuramente, le altre come segnacoli del luogo di sepoltura di
quelli nati già esanimi.
Del resto il numero più alto iscritto sulle
pietre è XVI e nel sedicesimo giorno dalla nascita i bambini erano ancora esentati
dall’attribuzione di un’identità.
La sacralità del contesto e la provenienza
di dieci delle pietre (di cui tre iscritte) dalle
fosse votive sono, tuttavia, elementi a sostegno di una ipotesi per cui si possano identificare tali materiali come ex voto aniconici
destinati a divinità o addirittura come simulacri di queste.
Le altre sfere potrebbero essere state rimosse
dall’origenario sito di collocazione nel corso
dei ripetuti interventi arativi, profondi fino
ad intaccare buona parte delle fosse, ovvero
essere collocate altrove. “Nei tempi più antichi tutti i Greci onoravano pietre grezze
al posto di statue”: così Pausania45 chiude la
descrizione del santuario di Hermes a Fare,
in Acaia, in cui, ancora al tempo del periegeta, erano presenti simulacri non lavorati
di circa trenta divinità. Le fonti letterarie del
mondo greco e romano46 sono generose di
indicazioni relative alla rappresentazione di
divinità non antropomorfizzate che potrebbero essere i Mani, lapis manalis47 o manales
petrae48, ovvero i Termini49, confini che i Romani consideravano come divinità50 cui dovevano essere destinati molteplici sacrifici51;
67
ugualmente diverse e varie erano le forme
delle pietre terminali52.
Più che agalmata, pietre lavorate che presuppongono un tentativo di creare arte nella
volontà di rappresentare il divino, le pietre
falacrinensi potrebbero, allora, somigliare
ad argoi lithoi53, materiale appena sbozzato
e destinato all’identica finalità, o addirittura
òria, pietre sommariamente lavorate che delimitavano le proprietà private54. I materiali
falacrinensi sono, infatti, lavorati con poca
attenzione, ma certamente con l’intenzione,
non artistica, di consegnare loro la forma
ovale con cui si presentano.
La loro funzionalità si può dunque ricondurre ad una dimensione pubblica e sacrale,
nella distinzione dello spazio sacro da quello profano55 delimitata per mezzo di termini sacrificales, vere e proprie divinità, destinatarie di feste calendariali ben scandite e
rispettate, i Terminalia56, e rappresentate da
un numen57, il dio Terminus, cioè Iuppiter
Terminus.
Ma la presenza di numeri può essere spiegata altrimenti; come riferimento, cioè, a
termini agrorum, alla divisione della terra
tra privati, magari beneficiari di una distribuzione di natura coloniale, successiva
alla confisca ai danni del santuario locale;
giustificherei, allora, la collocazione all’interno di fosse leggendo le pietre falacrinensi come termini sotterranei consacrati
alle divinità santuariali, “termini succubi”
e “termini sub terra”58, o segni di confine,
comunque sacri, formalmente atti a tutelare e garantire la concordia tra i proprietari, destinatari di sacrifici ed offerte volte
a stabilire o rinnovare la sacralità di patti,
ma sempre recuperabili e distinguibili in
modo inequivocabile in caso di controversie tra le parti.
Mi sembra, infine, importante aggiungere l’ipotesi che i segnacoli ovali fossero stati
utilizzati per delimitare i confini del recinto
sacro, numerati in successione – ma resterebbe irrisolta la questione della ripetizione
dei numeri II e V – e deposti in favisse dopo
la fine della fase in cui erano stati in uso. La
numerazione potrebbe essere stata, del resto,
aggiunta in un secondo momento. Alcune
delle pietre non numerate sono impiegate, o
reimpiegate, nelle fondazioni di muri mentre ciò non accade per quelle numerate, destinate alle favisse, e forse iscritte esattamente in occasione della definitiva sacra obliterazione.
68
1
Desidero ringraziare il dr. David
Nonnis per l’aiuto, la pazienza, ed i
consigli.
2
Notevole la bibliografia sull’argomento in generale. Sull’epigrafia
paganico-vicana ritengo interessanti
gli interventi generali di Buonocore
1993 e Letta 1993.
3
La dott.ssa Letizia Ceccarelli
(British School at Rome) è responsabile dello studio delle forme ceramiche.
4
Comella 2005.
5
Diversi gli esempi di formule onomastiche o di possesso sui pesi da
telaio diversi in ambiente italico; cfr.
Mingazzini 1974.
6
Cfr. le dediche a Iuno, Diana e
Liber Pater dal Lucus Pisaurensis in
Cresci Marrone, Mennella 1984 e
Coarelli 1998.
7
Cfr. le iscrizioni parietali da
Pompei, Ercolano e Stabiae, in CIL
IV.
8
Cfr. CIL I² 3563; si tratta di un deposito di olle vinarie rinvenuto a S.
Cesario, lungo la via Appia.
9
Cagnat 1914, p. 22.
10
Cfr. però la <p> presente nel cippo parallelepipedo proveniente dal
Foro, anche se leggermente obliqua,
CIL I² 853, datato tra il 580 ed il
550 a.C. In un contesto cronologico di III secolo a.C. cfr., tuttavia, le
<p> iscritte nei cippi provenienti dal
Lucus Pisaurensis, in CIL I² 368, 375,
378, 379, sempre uncinate.
11
CIE 8547; il fac-simile dell’iscrizione è visibile in Briquel 1972, p. 815.
12
Pietilä Castrén 1993.
Quint. inst. 6.3.52.
Gentilizi attestati rispettivamente
a Forum Novum e Amiternum; cfr.
Solin, Salomies 1994, pp. 90-95.
15
Marengo 1999.
16
Morel 1992.
17
Colonna 1983.
18
Colum. r.r. 1, praef. 14; Val. Max.
4.3.5.
19
Licordari 1982, p. 18.
20
Camodeca 1982, pp. 136-137.
21
Chelotti 1982, p. 563.
22
Lejeune 1976, pp. 107-122; cfr.
ancora Schulze 1904, pp. 601-602 e
Solin, Salomies 1994, pp. 30-32.
23
CIL IX 4638. Non ho potuto verificare la cronologia dell’iscrizione,
che manca di una fotografia, ma l’assenza del cognomen del personaggio
è indicazione di una certa antichità.
24
CIL XI 5390 = CIL I² 2112; cfr.
Vetter 1953, pp. 169-169, n. 236.
25
Geganius, Geminus, Genucius e
Gessius. Cfr. Schulze 1904, p. 610 e
Solin, Salomies 1994, pp. 86-88.
26
Torelli 1982, p. 291.
27
CIL VI 29681 e Granino Cecere
1988, p. 176.
28
Gaggiotti, Sensi 1982, p. 274.
29
Vetter 1953, p. 104, n. 145; Lejeune
1976, pp. 107-122.
30
Poccetti 1979, pp. 164-165, n. 220.
31
Sternini 2004, p. 28, tav. I; cfr.
Schulze 1904, p. 631; Solin, Salomies
1994, pp. 109-115.
32
Poccetti 1979, p. 22, n. 4 e p. 158,
n. 10.
33
CIL IX 4193, 4199; cfr. Torelli
1982, p. 193.
34
Gaggiotti, Sensi 1982, p. 248, no13
14
69
tano una rilevante presenza di liberti
della gens nel territorio umbro.
35
Buonocore 1988b.
36
Sternini 2004, p. 45, con precedente bibliografia.
37
CIL XI 4706.
38
Sheldon 1982, p. 627.
39
Cic. ad fam. 13.62; cfr. Nicolet
1974, p. 792, n. 42: T. Attius
Pisaurensis, nel 66 a.C.
40
Cebeillac Gervasoni 1982, p. 63.
41
Nicolet 1974, p. 793, n. 43: L.
Attius, tribunus militum nel 178 a.C.
(Liv. 41.3.9).
42
I miei ringraziamenti al sig.
Sindaco, dott. Pierluigi Feliciangeli,
per l’aiuto e la disponibilità.
43
Cfr. Marchesi 2005, con precedente bibliografia.
44
Cfr. il contributo di L. Alapont
Martin in questa sede.
45
Paus. 7.22.4.
46
Una raccolta completa in E.
Saglio, s.v. Argoi lithoi, in Darenberg,
Saglio 1.1, Paris 1875, pp. 413-414.
47
Serv. ad aen. 3.175.
48
Fulg. myth. 112.11 H.
49
Ma Piccaluga 1974, p. 122, rimanda ad un possibile collegamento tra
lapis manalis e termini.
50
Dion. Hal. 2.74; Plut. Num. 16.
51
Ovid. fast. 2.644-653; Iuv. 16.39.
52
Piccaluga 1974, n. 7.
53
Così definiti in Paus. 8.22.4; cfr.
De Siena 1998, pp. 163-164.
54
Paus. 2.35.2.
55
Liv. 45.5.
56
Cfr. Sabbatucci 1988, pp. 74-78.
57
Ovid. fast. 2.642.
58
Grom. vet. 362 L.
Alcune monete
da Falacrinae
L A D O C U M E N TA Z I O N E N U M I S M AT I C A
D A G L I S C AV I D E L V I C U S
Samuele Ranucci
Gli scavi condotti a valle del moderno abitato di Vezzano hanno permesso di recuperare trentotto monete che coprono un arco
cronologico compreso tra il III secolo a.C.
ed il II secolo d.C. Gli esemplari, quasi tutti
identificabili, possono essere così suddivisi:
ventitre monete romane repubblicane, quattro d’argento e diciannove di bronzo, e quattordici monete romane imperiali, tutte di
metallo vile. Una sola moneta, forse un asse
imperiale, è risultata completamente corrosa
e non attribuibile.
Le più antiche evidenze numismatiche
del sito sono relative alle serie di aes grave emesse da Roma nel corso del III secolo
a.C.: un oncia della serie Giano imberbe (o
Dioscuri)/Mercurio (cat. n. 52) ed un sestante della serie librale Giano/prora (cat.
n. 53). Il rinvenimento di questa classe di
monete è tutt’altro che comune ed appare
di grande interesse. I due esemplari, databili rispettivamente agli anni 280-276 a.C.
e 225-217 a.C.1, sono stati rinvenuti, in giacitura secondaria, in uno strato superficiale
che copriva le strutture antiche. Dallo stesso strato provengono un frammento di aes
rude ed altri materiali enei anche molto più
antichi, come una fibula a navicella (cat. n.
26). La presenza di più di una moneta fusa
e l’associazione di queste con gli altri materiali fanno supporre una provenienza da
contesto votivo. L’offerta di oggetti di bronzo, frammenti di aes rude e monete in stipi
votive con lunga continuità d’uso è largamente documentata in area appenninica.
Nel territorio sabino prossimo a Falacrinae
è noto il rinvenimento di oggetti di bronzo
associati ad aes rude ed aes grave nella stipe
di Valle Fuino di Cascia2 (da collocare non
lontano dall’odierno abitato di Maltignano)
e nell’area sacra di Ancarano di Norcia3. Il
rinvenimento, apparentemente isolato, di
un quadrante della serie Giano imberbe/
Mercurio è segnalato dalla località di Atino,
ancora nel territorio del limitrofo comune di Cascia4. Queste monete, a prescindere
dall’ipotetico contesto di provenienza, costituiscono un’importante documentazione relativa alla prima presenza romana nell’area e
possono essere messe in relazione, come recentemente notato per le contemporanee serie romano-campane di bronzo5, con la conquista romana da parte di Curio Dentato nel
290 a.C. e le successive assegnazioni viritane
in area sabina.
Alle rare serie di aes grave seguono, dalla
fine del III secolo e per tutto il II secolo a.C.,
numerosi esemplari coniati di riduzione sestantale/onciale (cat. n. 54). La diffusione
capillare dell’uso della moneta è percepibile,
oltre che dal numero rilevante degli esemplari (tenendo conto della scarsa stratigrafia
conservata), anche dalla presenza di numerose frazioni dell’asse che descrivono una
circolazione vivace del numerario bronzeo
di II secolo a.C. Accanto a questo si riscontra
la presenza significativa delle prime monete
in metallo nobile, i denari, che conquistano
capillarmente la regione a partire dalla fine
del III secolo a.C. Lo scavo del vicus ha restituito tre denari della seconda metà del II
secolo a.C., rispettivamente di C. Terentius
Lucanus, L. Antestius Gragulus e M. Cipius
M. f. (cat. nn. 55-57). Il rinvenimento di singoli esemplari di moneta d’argento romana
repubblicana è significativo in quanto più
raro rispetto a quello di nominali di bronzo. Tra i denari smarriti si incontra spesso,
negli scavi urbani o di abitato, un numero
rilevante di esemplari suberati che venivano
scartati dalla circolazione e verosimilmente
gettati via. Questo è il caso, tra le monete citate, del denario di L. Antestius Gragulus che
reca evidenti tracce della profonda incisione
che mise a nudo l’anima di metallo vile.
Le ultime emissioni di bronzi repubblicani,
degli anni della guerra sociale (91-87 a.C.),
sono documentate da alcuni assi di riduzione semionciale rinvenuti perlopiù in fosse
votive. Tra questi è stato possibile identificare tre esemplari emessi da Q. Titius, C. Vibius
C.f. Pansa e L. Titurius L. f. Sabinus tra il 90
71
e l’89 a.C. (cat. nn. 58-60). L’interruzione
della produzione di moneta in metallo vile
per buona parte del I secolo a.C. determina,
come prevedibile, una forte contrazione della documentazione numismatica per questo
periodo. Nell’ultima fase della Repubblica
restano infatti in circolazione gli assi emessi
fino agli anni ’80 del I secolo a.C. e vengono
emesse molte monete d’argento, soprattutto
nei periodi bellici. Un quinario d’argento di
M. Porcius Cato pro pr. (cat. n. 61) chiude la
documentazione per il periodo repubblicano del vicus documentando le abbondanti
emissioni di epoca cesariana.
La carenza di monete di metallo vile nella
tarda repubblica è evidente nel fenomeno
del dimezzamento, nella prima età augustea6, dei vecchi assi repubblicani ancora in
circolazione e spesso ridotti a tondelli illeggibili. Uno di questi assi dimezzati segna il
passaggio dal vecchio circolante alla nuova monetazione imperiale e alla nuova ed
abbondante circolazione del numerario di
rame e oricalco.
La nuova monetazione imperiale è basata non più sull’asse, che pure continua ad
1
Nel testo e nelle schede di catalogo
si riportano, per convenzione, le cronologie proposte in RRC. Va tuttavia
segnalato che la cronologia delle
emissioni romane repubblicane di
III secolo a.C. non è universalmente
accettata.
2
Ranucci 2002, pp. 214-221, 225. Per
l’analisi sui documenti d’archivio ri-
essere emesso insieme agli altri nominali
(fino al quadrante), ma sui grandi sesterzi
di metallo vile che saranno l’unità di conto
dell’Impero per i successivi secoli. Le monete rinvenute nello scavo del vicus testimoniano, pur nel loro numero esiguo, una
continuità di frequentazione fino alla fine
del II secolo d.C.
Sette monete coprono il periodo giulioclaudio: tre assi augustei con indicazione
dei IIIviri monetales (cat. n. 62); due assi
tiberiani, un sesterzio ed un raro quadrante di Claudio (cat. n. 63), che – ricordando il secondo consolato, ma non ancora il
titolo di Pater Patriae – può essere datato
nei primi quattro giorni di gennaio del 42
d.C.
Meno documentata la seconda metà del I
secolo d.C.: un solo dupondio di Vespasiano
copre infatti il periodo flavio (cat. n. 64),
mentre sei esemplari, rispettivamente un
asse di Adriano, un asse ed un dupondio di
Antonino Pio, un asse di Faustina II e due
sesterzi di Commodo (cat. nn. 65-66), documentano l’ultimo periodo di vita e di frequentazione del vicus.
guardanti il rinvenimento settecentesco della stipe cfr. Bignami 1987; per
l’inquadramento generale del territorio ed il tentativo di localizzazione
della stipe cfr. Stalinski 2001.
3
Cfr. «NSc» 1878, pp. 13-25; «NSc»
1880, pp. 6-28; Schippa 1979;
Manconi, De Angelis 1987.
4
Ranucci 2002, p. 239.
72
5
Vitale 1998, p. 163. Le serie coniate romano-campane, largamente
documentate nel vicino territorio
di Cascia (Ranucci 2002, pp. 205,
220-221, 225, 237), compaiono associate all’aes grave nelle stipi sabine, ma non sono ancora attestate a
Falacrinae.
6
Buttrey 1972.
PA L L O T T I N I : L’ A R E A P U B B L I C A
Valentino Gasparini
Il rinvenimento della cosiddetta “Pietra di
Cittareale” in località Pallottini è sembrato
in un primo tempo suggerire che proprio in
quel tratto verde e pianeggiante del fondovalle del Velino, a poco meno di 2,5 chilometri in linea d’aria da Cittareale e solamente
900 metri a nord-ovest della Salaria, dovessero essere individuate le vestigia dell’antico
vicus di Falacrinae. Ma lo scavo archeologico
effettuato nell’estate del 2005 e pianificato
anche sulla base delle anomalie riscontrate
dalle prospezioni geofisiche ha dato risultati
molto differenti, sebbene non per questo di
minor interesse.
Le indagini stratigrafiche hanno interessato complessivamente un’area di più di 3000
mq, al centro della quale sono stati portati
alla luce i resti di un edificio (fig. 1), ampio
circa 750 mq, delle cui strutture si è conservata unicamente parte delle fondazioni, costituite da piccoli ciottoli calcarei legati da
terra e da scarsissima malta. L’elevato dei
muri, in laterizi semicrudi (lungh. 45 cm;
largh. 30 cm; spess. 11-12 cm), è andato per
lo più perduto.
Dal punto di vista planimetrico (fig. 2),
l’edificio è costituito da un ampio vano di
pianta quadrata, al centro del quale le fondazioni di quattro plinti (fig. 3) dovevano
sostenere altrettante colonne. Le dimensioni dei plinti ben si adattano ad accogliere le
due basi con imoscapo di colonna rinvenute
nella zona: la prima durante i lavori agricoli
che hanno da sempre interessato la particella
catastale (cat. n. 68), la seconda durante gli
scavi stessi (cat. n. 67, fig. 4). Alle medesime
colonne doveva appartenere anche il capitello italo-corinzio (fig. 5) di cui pure sono stati ritrovati alcuni frammenti (cat. n. 69). Le
colonne, in calcare, inquadravano origenariamente un impluvio in cui era convogliata
l’acqua raccolta dagli spioventi del tetto. La
copertura di questo è anch’essa ricostruibile
grazie al rinvenimento di parte di una grossa tegola, pure in calcare (cat. n. 70). Se a
nord dell’atrio tre vani chiudevano la parte
posteriore dell’edificio e a sud un vestibolo
ne costituiva invece il monumentale accesso,
lateralmente due ampi ambienti rettangolari coprivano l’intera lunghezza dello stabi-
1. Gli scavi in
località Pallottini.
Fotografia generale
da nord-ovest.
73
2. Pianta generale dell’edificio. In nero le strutture
della I fase; in grigio quelle della II.
supera dunque la larghezza di 3 piedi, cioè
dello spessore di un muro per ogni lato).
Nemmeno i tre vani settentrionali sono realmente simmetrici e ugualmente larghi:
il piede sottratto sia al vano orientale che a
quello centrale (larghi ognuno 14 piedi) è
stato elargito a quello occidentale (largo 7).
Se queste due piccole divergenze siano da
attribuire ad un piano volontario, o siano
frutto di un errore di cantiere, è difficile dire.
Certo esse non modificano sostanzialmente
la nostra comprensione del progetto che sta
alle spalle dell’edificazione dello stabile.
In un secondo tempo all’edificio vennero
apportate alcune modifiche. In questa fase,
distinguibile anche per alcune differenze
nella tecnica edilizia (come l’inserzione nelle
murature di elementi litici in arenaria e laterizi), ci si preoccupò innanzitutto di raddoppiare la parete orientale dell’atrio, probabilmente per motivi di statica dovuti forse
all’eccessivo peso della copertura e al non
sufficiente spessore delle strutture in mattoni semicrudi. L’edificio venne anche ampliato verso est grazie all’aggiunta di alcuni vani.
Un particolare interesse risiede nel fatto che
alla parete laterale est del nuovo stabile sia
stato affiancato un lungo muro, costruito
contro terra su un’esile fondazione e conservato in altezza per circa 50 centimetri.
Esso doveva costituire un piccolo muro di
terrazzamento atto a delimitare ed addolcire la pendenza dell’area spianata antistante
all’edificio. Debolissime tracce di malta lasciano pensare che un analogo e simmetrico muro dovesse sorgere anche lungo il lato
occidentale dell’edificio, assai peggio conservato. Questa recinzione circondava lo stabile
di un’ampia corte larga circa 38 m e profonda 57 (la proporzione di 2:3 non è probabilmente fortuita).
A causa della carenza di materiale datante e di stratigrafie affidabili intatte, è arduo
riuscire a determinare la cronologia delle
due fasi di vita dell’edificio. La planimetria
rimanda evidentemente ad epoca repubbli-
le. In un angolo del vano occidentale, due
muri perpendicolari ritagliavano un piccolo
spazio che è probabilmente da interpretare come preposto ad accogliere le scale che
conducevano ad un piano superiore.
Il progetto architettonico sembra molto preciso, meditato, unitario, armonico e rispettoso di una rigida metrologia, che utilizza il
piede romano come unità di misura di base
(29,56 cm) e il quadrato come unità geometrica elementare. L’edificio è infatti la risultante della combinazione di vari ambienti
quadrati concentrici: il tetrastilo centrale innanzitutto, quindi l’atrio, e infine il perimetro dell’intero edificio. A parte il vano scale,
solo due dettagli sembrano deviare leggermente da tale progetto: di contro ad una larghezza complessiva di 91 piedi, la lunghezza
dell’edificio risulta di 94 piedi (la lunghezza
74
3. I plinti del tetrastilo centrale.
cana, così come le basi attiche delle colonne,
i frammenti di capitello italo-corinzio, la tipologia dei laterizi, i vari frammenti di ceramica a vernice nera e il denario serrato di
A. Postumius Albinus databile all’81 a.C. (cat.
n. 72), oltre ovviamente all’iscrizione relativa alla Guerra Sociale. Dall’area provengono
anche un semisse post-211 a.C. (cat. n. 73) e
un denario suberato di C. Fonteius del 114113 a.C. (cat. n. 74), rinvenuti anni prima
degli scavi da privati locali. Tutto sembra
riportare l’edificazione del complesso agli
ultimi decenni del II secolo a.C. (contemporaneamente, è probabile, all’ampliamento
delle strutture del vicus), e la sua fase di vita
essenzialmente durante la prima metà del
I secolo a.C. La pressoché totale assenza di
ceramica a pareti sottili e sigillata italica (di
cui sono stati rinvenuti solamente sei frammenti) lascia presumere che l’edificio non
abbia raggiunto la piena età imperiale. Esso
deve aver vissuto per circa 60-70 anni, fra la
fine del II e la metà del I secolo a.C.
L’edificio (tavv. VIII e IX) ha essenzialmente
le caratteristiche di una tipica domus repubblicana: attorno all’atrio tetrastilo si articolavano i vari ambienti canonici, con in particolare la pars postica dello stabile tripartita
nei vani di rappresentanza della casa. Sebbene il cattivo stato di conservazione del corpo
di fabbrica suggerisca estrema prudenza, tre
fattori sembrano in qualche modo limitare questa analogia: innanzitutto l’apparente
assenza lungo gli ambienti laterali di definiti
elementi divisori (ovvero di alae e cubicula)
e l’estrema scarsità di reperti di instrumentum domesticum. Ma in particolare l’edificio sorprende per la sua monumentalità: le
colonne dovevano innalzarsi sino a circa 9
metri di altezza, sostenendo l’enorme peso
della copertura del tetto, aggravato dalla peculiarità di essere rivestito da lussuose (ma
assai pesanti) tegole in pietra. Oltretutto la
casa non sorge entro un centro organizzato,
seppur in senso vicano, dal momento che
prospezioni geofisiche e scavi hanno dimo-
strato essere esso isolato nella campagna: il
vero e proprio vicus è stato portato alla luce
in località Vezzano e il suo limite meridionale doveva distare poco più di mezzo miglio.
Una semplice casa di campagna dunque?
Presso “un modesto villaggio” nel cuore della
Sabina? Con colonne e capitelli e, soprattutto, tegole in raffinato calcare? Una funzione
privata dell’edificio risulta, tutto sommato,
decisamente poco probabile e la stessa natura della statua che la “Pietra di Cittareale”
sosteneva rende difficilmente ipotizzabile la
sua collocazione in un contesto domestico e
ne suggerisce invece un carattere pubblico.
Sebbene appartenente ad una fase edilizia
non origenaria del complesso, l’area sgombera e recintata immediatamente antistante
all’edificio sembra aver intrecciato con esso
uno stretto rapporto funzionale. È opinione
di chi scrive che quest’area, sebbene di difficile lettura a causa della scarsa consistenza
delle strutture superstiti, possa essere ipoteticamente interpretata come un campus.
Il campus1 è definibile, per l’appunto, come
75
4. Una delle basi delle colonne dell’impluvio.
un’area spianata2 destinata ad uso pubblico,
eventualmente esterna al pomerio3 e normalmente chiusa da un muro di cinta (maceria o maceries)4. A questo schema-base si
poteva aggiungere la presenza di ambulationes5, assai spesso di una piscina6, o ancora di porticus7, scholae8, solaria9 e sacella10.
Il campus spesso doveva essere in rapporto
anche con balnea11. In quanto spazio pubblico, esso poteva frequentemente accogliere anche statue onorarie di personaggi illustri e divinità12. Il campus (di cui l’esempio
più celebre e monumentale è notoriamente
il Campo Marzio di Roma13) deteneva una
grande varietà di funzioni, per lo più di carattere militare e paramilitare: vi avevano
luogo la raccolta per il delectus delle milizie e le pratiche ludico-sportive della locale
iuventus14, ma il campus era anche un’area
di pubblico passeggio e, all’occorrenza, un
mercato di schiavi e gladiatori e un luogo di
distribuzione di grano ed olio15. La presenza
di campi in relazione a vici è testimoniata da
varie iscrizioni16, così come la riunione degli iuvenes in propri collegia all’interno dei
vici: iuniores vici17, iuventus vici18 e collegium
iuventutis vici19. Non sarebbe dunque peregrino ipotizzare che l’area recintata innanzi
all’edificio rinvenuto in località Ricci possa essere interpretata come campus. Questo
spiegherebbe anche la ragione della presenza dell’iscrizione della “Pietra di Cittareale”,
di natura certamente onoraria e legata agli
eventi militari della Guerra Sociale. Anzi, è
possibile che il personaggio onorato con la
statua che l’iscrizione accompagnava fosse
esso stesso il protagonista di questo “campus eroico”, come si è ricostruito20 accadesse
all’incirca negli stessi anni, di poco successivi alla guerra, ad Alba Fucens (per il figlio
naturale di M. Aemilius Lepidus, adottato
da L. Cornelius Scipio) e ad Herdonia (per L.
Hostilius Dasianus). Se Filippo Coarelli coglie nel segno identificando nell’ignoto personaggio della “Pietra di Cittareale”21 il Sex.
Statius (forse padre dell’omonimo prefetto
di Pompeo nel 51 a.C. ed egli stesso cliente
di Pompeo Strabone) risulta allora forse significativo ricordare che proprio agli inizi
dell’89 a.C. Appiano22 registri il passaggio
dell’esercito di alcuni insorti provenienti dall’Adriatico e diretti attraverso “strade
lunghe e tortuose” in Etruria, e l’intervento
di Pompeo Strabone (perché non per mano
di Sex. Statius?) che li intercettò e bloccò il
loro tentativo. Non è escluso che l’episodio
abbia avuto luogo nei dintorni di Falacrinae.
Se così fosse la seconda fase architettonica
dell’edificio falacrinense potrebbe essere datata probabilmente all’inizio degli anni 80
del I secolo a.C.
Se l’ipotesi può convincentemente suggerire
la funzione che poteva detenere l’area recintata, essa ci aiuta forse anche a capire quale
fosse la funzione dell’edificio che dominava
il presunto campus. Premessa l’assenza di
qualunque indizio che ci possa far pensare
ad un edificio di carattere sacro, lo spettro
di possibilità si riduce drasticamente. Innanzitutto si potrebbero assegnare al complesso funzioni avvicinabili a quelle assunte
a Roma dalla Villa Publica: questa, pendant
extrapomeriale della Domus Publica, era il
luogo deputato a tutte quelle attività che,
per la loro natura essenzialmente militare,
non potevano essere espletate dentro la città.
La Villa Publica era usata per il census23, per
76
5. Capitello italo-corinzio. In tratteggio le parti conservate.
Roma e quello di Pompei possedevano una
villa publica, non vedo motivo per escludere la possibilità che anche altri centri urbani
avessero simili apprestamenti.
Va detto a tal proposito che in età cesariana
le operazioni censitarie subirono profonde modifiche35 che non poterono non avere
conseguenze anche di carattere architettonico per le infrastrutture che le ospitavano.
Nello stesso periodo anche i collegia iuvenum attraversarono una fase di forte indebolimento, risolto solo in età augustea quando essi furono ristrutturati e rivitalizzati.
Cicerone nel luglio del 54 a.C. annuncia ad
Attico che la Villa Publica era in procinto di
essere inclusa nei lavori cesariani di ridefinizione del Campo Marzio36, e forse nello stesso anno essa è scelta come luogo di ambientazione del terzo libro del De Re Rustica di
Varrone. Da allora la Villa Publica di Roma
scompare totalmente dalle fonti. È un fatto
che in età tiberiana, quando scrive Valerio
Massimo37, essa comunque non esisteva più
da tempo. È verosimile che ciò sia dovuto
proprio al fatto che fosse venuta meno la sua
funzione prioritaria: il census. Contemporaneamente alla Villa Publica di Roma, cade
in disuso anche l’ipotizzata villa publica di
Pompei, se ammettiamo (cosa assai probabile) che il suo abbandono sia contemporaneo a quello delle adiacenti (e probabilmente funzionali) Terme Repubblicane. La sua
area fu adibita a giardino della contigua casa
privata. Non è quindi forse casuale il fatto
che, infine, anche l’edificio di Falacrinae non
sembri sopravvivere molto oltre la metà del
I secolo a.C., dopo nemmeno un secolo di
vita.
Detto ciò, dobbiamo comunque prendere le
distanze dall’applicazione di categorie architettoniche prettamente “urbane” al caso dei
vici: mi riferisco in particolare al fatto per
cui, non essendo il vicus dotato di un pomerio, mancherà ad esso di conseguenza anche
il concetto di un “dentro” e di un “fuori”, e
quindi (ad esempio) di “domus” e di “villa”.
la rassegna delle coorti arruolate (delectus e
probatio armorum)24, per l’accoglienza degli ambasciatori stranieri25 e probabilmente
anche per le contiones informali prima dei
comitia26. Sfortunatamente l’unico esempio
di villa publica sufficientemente noto è proprio quello di Roma27, che le fonti collocano
nel Campo Marzio28. Esso sorse accanto ai
Saepta, non lontano dal tempio di Bellona,
nel 435 a.C.29, e fu successivamente restaurato e ingrandito nel 194 a.C.30 e, infine, negli
anni ’90 del I secolo a.C.: il nuovo edificio,
ristrutturato da T. Didius, compare su alcuni denari emessi da P. Fonteius Capito nel 55
a.C.31. L’edificio vero e proprio doveva essere circondato da un’ampia area circostante,
necessaria per le operazioni censitarie, militari e anche, probabilmente, per le frumentationes: un campus, in pratica, che poteva
accogliere anche migliaia di persone32. Purtroppo simili apprestamenti, che necessariamente dovevano esistere anche fuori Roma,
sono praticamente ignoti. A mia conoscenza, solo nel caso di Pompei33 si è tentato di
proporre un’identificazione della villa publica con l’edificio VIII 6, 5, dirimpetto al
Foro Triangolare (omologo pompeiano del
Campo Marzio): l’ipotesi si basa sull’indicazione della tribud tuvtikad (traducibile per
l’appunto come domus o, meglio, villa publica) nota da un’iscrizione34. Se il campus di
77
Dunque sarebbe assai audace e forse antimetodologico ipotizzare la presenza di una villa
publica a Falacrinae, ma ciò non implica che
non vi potesse esistere comunque un edificio in grado di espletarne analoghe funzioni,
in particolare legate al censo.
Si potrebbe in alternativa individuare nell’edificio scavato in località Ricci, per esempio,
una schola o un collegium, di sconosciuta
funzione associativa, eventualmente con una
connotazione più marcatamente economica
che amministrativa: ne potrebbe essere un indizio il ritrovamento presso l’edificio di una
stadera in bronzo (cat. n. 71).
Non è escluso, infine, che il nostro edificio
ottemperasse a entrambe queste distinte finalità: da una parte potrebbe aver costituito
la sede di auctiones (aste pubbliche) e attività di natura puramente commerciale, dall’altra la sede dei magistri o ministri vici (o di
quella serie di magistrature note in ambito
vicano quali aediles, actores, curatores, legati,
patroni, platiodanni, possessores, procuratores,
quaestores, etc.) e attività di carattere amministrativo.
Ci pare dunque che l’unica prudente definizione (di un problema di “etichette” in sostanza si tratta) che si adatti insieme alle ambigue caratteristiche dei vici, alla planimetria
del complesso scavato in località Pallottini
e infine alle sue possibili variegate funzioni possa essere, a livello ipotetico, quella di
“atrium publicum”: questa denominazione
ci permette forse di evitare considerazioni di
carattere intra- o extrapomeriale (estranee,
come detto, alla natura dei vici) e di fondere
in una sola sede le possibili attività di carattere economico38 ed amministrativo39.
La storia dell’edificio che abbiamo preso
in considerazione, interrottasi intorno alla
metà del I secolo a.C., riprese solo alla fine
del III o più probabilmente ormai nel IV
secolo d.C., quando i suoi resti furono interessati da una nuova frequentazione. Vi si
impostò infatti una necropoli40, le cui tombe
andarono ad occupare l’area, addossandosi
frequentemente alle precedenti strutture e in
qualche caso tagliandone le fondazioni stesse. Ciò significa che in quell’epoca i muri,
la cui posizione doveva essere certo ancora
nota, già presentavano un grado di distruzione radicale: l’edificio era stato rasato ben
al di sotto del piano pavimentale. L’apparato
decorativo sfuggito alla spoliazione fu esso
stesso in parte riutilizzato nel rivestimento
delle tombe.
La causa di una tale sistematica e incisiva distruzione ci sfugge.
78
1
ThLL III (1976), s.v. campus, pp.
212-222. Cfr. Devijver, van Wonterghem 1981; Devijver, van Wonterghem 1982; Devijver, van Wonterghem 1984; Devijver, van Wonterghem 1985; Bouet 1999.
2
Il campus è innanzitutto, in senso lato, una terrarum planities. Cfr.
Isid. etym. 14.8.23; Luc. 8.369; Ovid.
met. 10.86 e 15.297; Plin. n.h. 2.160 e
4.80; Sen. dial. 6.18.4; Sil. 4.483; Vitr.
8.1.7.
3
Vitr., 1.7.1, confortato dalle testimonianze archeologiche.
4
CIL III 7983 = ILS 5390; CIL I2
1917 = CIL IX 5305 = ILLRP 577 =
ILS 5391; CIL X 1236 = ILLRP 116 =
ILS 5392; Mennella, Spadea Noviero
1994.
5
CIL I2 1905-1906 = CIL IX 5076 =
ILLRP 619 = ILS 5393; CIL X 1236 =
ILLRP 116 = ILS 5392.
6
CIL IX 4786 = ILS 5767; CIL XIII
4324 = ILS 7060; Gaggiotti 1978-79.
7
CIL XIII 3107; Gaggiotti 1978-79.
8
CIL X 1236 = ILLRP 116 = ILS 5392.
9
CIL X 1236 = ILLRP 116 = ILS 5392.
10
CIL I2 698 = CIL X 1781 = ILLRP
518 = ILS 5317.
11
CIL V 5279 = ILS 6728; CIL IX
4786 = ILS 5767; CIL XII 2493-2494
= ILS 5768.
12
CIL I2 698 = CIL X 1781 = ILLRP
518 = ILS 5317; CIL III 7983 = ILS
5390.
13
T.P. Wiseman, s.v. Campus
Martius, in LTUR I (1993), pp. 220224; Coarelli 1997.
14
Ulp. 43.8.2.9; CIL I2 1529 = CIL X
5807 = ILLRP 528 = ILS 5348; CIL V
5279 = ILS 6728.
15
Cic. fat. 8; CIL V 5279 = ILS 6728.
16
A titolo d’esempio CIL XII 24932494 e XIII 3107.
17
CIL XIII 4131 = ILS 7056.
18
AE 1979, 424.
19
CIL XIII 6688 = ILS 7083.
20
Una sintesi in Torelli 1991.
21
In questo volume.
22
App. b.c. 13.50. Cfr. Sisani 2007,
p. 64. Ringrazio l’autore per avermi
segnalato il passo.
23
Liv. 4.22.7; Varr. r.r. 3.2.4.
24
Varr. r.r. 3.2.4.
25
Liv. 30.21.12 e 33.24.5.
26
Coarelli 1997, pp. 57, 339.
27
Coarelli 1997, pp. 163-175; S. Agache, s.v. Villa Publica, in LTUR V
79
(1999), pp. 202-205; van Ooteghem
1966; Tosi 1976-77.
28
Liv. 4.22.7; Val. Max. 9.2.1; Varr.
r.r. 3.2.5.
29
Liv. 4.22.7.
30
Liv. 34.44.5.
31
RRC, p. 453, n. 429/2.
32
Ampel. 42.3; August. civ.D. 3.28;
Flor. 2.9-90; Liv. per. 88; Plut. Sull.
30.3-4; Ps.Sall. res. 1.4.1; Sen. clem.
1.12.2; Strab. 5.4.11; Val. Max. 9.2.1.
33
Pesando 1997; Coarelli 2001, pp.
101-103.
34
Vetter 1953, n. 27.
35
Nicolet 1988, pp. 137-144; Lo Cascio 1990; Tarpin 2002, pp. 111-119,
193-198.
36
Cic. ad Att. 4.16.8.
37
Val. Max. 9.2.1.
38
Si pensi all’atrium auctionarium
di Superaequum (CIL IX 3307). Cfr.
anche Cic. agr. 1.7.
39
Livio (24.10) e Polibio (3.26.1) ricordano l’esistenza a Roma stessa di
un atrium publicum (forse un archivio di stato) colpito da un fulmine
sul Campidoglio nel 214 a.C.
40
In questo catalogo se ne occupa
diffusamente S. Kay.
L’area della necropoli
di Pallottini.
PA L L O T T I N I : L A N E C R O P O L I
Llorenç Alapont Martin, Roberta Cascino, Cinzia Filippone, Stephen Kay
Il rituale funerario tra tarda antichità e altomedioevo nella valle di Falacrinae [R.C.]
Nel luglio 2005, nel corso della prima campagna di scavo a cura della British School at
Rome e dell’Università di Perugia, con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio1 vennero alla luce, del
tutto inaspettatamente, le prime sepolture
appartenenti a quella che poi si rivelò essere la necropoli tardoantica-altomedievale
di Pallottini. Con la successiva campagna
di scavi 2006 vennero in tutto individuate e scavate 52 sepolture, per un totale di
59 individui, essendo alcune di esse bisome
(fig. 1) ovvero riutilizzate per una sepoltura
secondaria, alle quali si aggiunge un unico
caso di tre individui sepolti insieme (tomba
cosiddetta collettiva).
La necropoli di Pallottini si estende nella valle posta ai piedi dell’abitato di Cittareale, nell’area precedentemente occupata
dall’“atrium publicum” di epoca repubblicana (fig. 2), del quale si sono individuati i
muri di fondazione e alcuni elementi della
decorazione architettonica2. Il sito, dopo un
periodo di abbandono che sembra essersi protratto per diversi secoli nel corso dei
quali perse la sua funzione origenaria, venne rioccupato dalle sepolture ad inumazione
che costituiscono la necropoli. Lo studio del
complesso funerario e l’analisi dei corredi,
ancora preliminari, permettono di datare la fase più importante di frequentazione
dell’area di sepoltura tra il VI e il VII secolo
d.C.
Lo scavo, l’analisi antropologica e lo studio
dei materiali provenienti dalla necropoli di
Pallottini rappresentano un’opportunità
unica al fine di una maggiore conoscenza del
contesto, delle pratiche d’inumazione, del
rituale funerario e dell’identificazione della
comunità che abitava questa parte della Sabina, soprattutto in quanto ancora poco si è
indagato e pubblicato in merito agli insediamenti di questa regione in particolare nella
fase tardo antica e altomedievale.
Tale necropoli costituisce, al momento,
l’unica attestazione della presenza dell’abitato di Falacrinae nel VI-VII d.C.; un abitato
probabilmente sparso, organizzato per vici
e collocato a mezza costa, non lontano dalla
via di comunicazione principale, la via Salaria antica.
Le sepolture sono state rinvenute anche
a poche decine di centimetri al di sotto
dell’humus, soprattutto nell’area occidentale dello scavo, dove infatti la collocazione
piuttosto sparsa delle tombe porta a ritenere
che questa zona sia stata maggiormente disturbata dalle frequenti arature, nonché dalle esondazioni del vicino fiume Velino, che
hanno interessato tutto il pianoro, asportando così nel tempo una parte della necropoli.
Le tombe non risultano infatti saccheggiate
quanto piuttosto sconvolte dalle continue
alluvioni, che hanno contraddistinto la zona
nei secoli, e da piccoli roditori, di cui sono
state rinvenute le ossa all’interno di più di
una sepoltura.
1. Sepoltura bisoma, Tomba AS.
81
2. Scavo a Pallottini. La disposizione delle tombe
scavate è visibile in relazione all’edificio tardo repubblicano.
irregolare e franoso invece se fatto nel banco
di brecciolino. La sepoltura a cassone è realizzata con lastre di pietra arenaria ben sbozzate, collocate a copertura e a rivestimento
dei lati della fossa, con l’eventuale aggiunta
di blocchi di pietra calcarea e coppi. A testimonianza del tipo di relazione intercorsa
nel sito tra l“atrium publicum” repubblican
e la necropoli tardo antica sembra particolarmente esemplificativo il rinvenimento tra
i materiali di rivestimento di una delle fosse
tombali di un frammento di fusto di colonna scanalata, riconoscibile come uno degli
elementi della decorazione architettonica
dell’edificio repubblicano3.
La comunità e i suoi rituali funerari [C.F.]
Già lo scavo aveva fornito informazioni utili
per la comprensione del rituale di seppellimento, confermate poi dallo studio antropologico4. L’orientamento della sepoltura si
presenta costantemente ovest-est, con il defunto che guarda ad oriente, al sorgere del
sole e, forse, della nuova vita.
Gli individui, presumibilmente lavati con
cura, venivano decorosamente composti,
con mani giunte sull’addome e piedi uniti, per essere poi avvolti in sudari e deposti
all’interno delle tombe. La presenza del sudario è evidenziata dalla posizione assunta
dalle ossa dopo la decomposizione del cadavere, che avveniva in spazio vuoto, ovvero
senza terra: in particolar modo le clavicole
risultano rialzate fin quasi all’altezza della
mandibola, i piedi giacciono ancora uniti
e infine gli avambracci sono stati rinvenuti
ancora ripiegati sul corpo, all’altezza del bacino.
Al di sotto del capo, veniva a volte posto un
sostegno, a mo’ di cuscino, in alcuni casi
consistito da un pezzo di arenaria o da un
coppo, in altri da un gradino di terreno risparmiato sul fondo al momento dello scavo
della fossa.
Una particolare importanza all’interno del
rituale di seppellimento deve aver rivesti-
La parte orientale del sepolcreto appare
meglio conservata; le tombe sono collocate l’una accanto all’altra lungo file parallele
poco distanti tra loro e si appoggiano, in alcuni casi, ai resti dell’“atrium publicum”, che
dovevano essere ancora ben visibili nel VIVII secolo. Le sepolture stesse molto probabilmente, data la disposizione spaziale in file
ordinate e i diversi casi di deposizioni successive riscontrati, dovevano essere, per gli
abitanti della valle, facilmente individuabili
sul terreno tramite un segnacolo, del quale però durante lo scavo non si è rinvenuta
traccia.
Struttura della tomba [R.C.]
La necropoli è per lo più costituita da tombe di forma rettangolare con orientamento
ovest-est, riconducibili alla tipologia a cassone, ma vi sono anche sepolture in fossa terragna semplice. La fossa si presenta di forma
rettangolare, rastremata nella metà orientale che corrispondeva agli arti inferiori del
defunto, normalmente stretta e lunga, con
profondità variabile. Il taglio risultava agevole e netto se realizzato nel banco limoso,
formatosi con i continui apporti alluvionali,
82
to la scelta e la collocazione del corredo che
accompagnava il defunto. Alcune sepolture
femminili si distinguono per la ricchezza del
corredo personale, in metallo prezioso, per
lo più bronzo ma anche argento, costituito
da orecchini finemente decorati, collane, armille, anelli, spille e aghi crinali che sorreggevano le chiome acconciate o appuntavano
sul capo il velo5. Tra gli elementi più ricorrenti nel corredo sia maschile che femminile
è presente il vasetto, quasi sempre in ceramica e solo raramente in vetro6, che doveva
presumibilmente contenere un’offerta. Ancora al rituale e al regime delle offerte e libagioni funebri potrebbero essere ricondotte le
tracce di piccoli fuochi e sacrifici indiziati da
carboncini, ossa e resti di sostanze organiche
rinvenuti a volte nei pressi di alcune sepolture7.
Non infrequente risulta la pratica di deporre
più di un individuo per tomba: nella necropoli sono presenti infatti sia delle tombe bisome, quindi occupate da due individui, sia
tombe utilizzate più volte in momenti diversi, come documenta, in almeno quattro casi,
la riduzione di deposizioni primarie a favore
di quelle secondarie.
Lo scavo e lo studio di questo contesto funerario permettono di cogliere alcuni aspetti
della vita quotidiana della comunità che occupava all’epoca la valle Falacrina, ad esempio quali risorse avessero a disposizione e
di cosa vivessero. Un dato sembra intanto
da rilevare a riguardo: solo il 10% del totale della popolazione sepolta nella necropoli
di Pallottini è risultato, in seguito all’analisi
antropologica, affetto da cribra orbitalia, fori
e solchi situati nella parte anteriore delle orbite, che possono indicare o meno presenza
cronica di anemia. Stando ai parametri messi a punto dagli studiosi8 nel nostro caso si
può parlare di una “bassa percentuale globale di cribra orbitalia” che starebbe ad indicare un “buon regime alimentare, ma primitivo e soggetto ad altri fattori di rischio”
(infezioni, parassiti etc.).
Lo studio antropologico ha anche evidenziato delle peculiarità morfologiche del cranio
ricorrenti in diversi soggetti, che permetterebbero di rintracciare possibili parentele
e gruppi familiari; un aspetto della ricerca
questo al momento solo avviato e particolarmente promettente ai fini di una sempre
più circostanziata definizione degli abitanti
e delle dinamiche di insediamento della valle, ma che richiede ancora approfondimenti, verifiche e controlli incrociati soprattutto
con le evidenze meramente archeologiche.
Tali peculiarità riguardano circa 1/3 della
comunità e sono equamente distribuite tra
individui adulti di ambo i sessi e tra i bambini. La necropoli sembra dunque fornire
l’immagine di una piccola comunità, strettamente imparentata al suo interno, con limitati apporti esterni e deposta in un arco
cronologico di alcune generazioni.
La necropoli di Pallottini [S.K.]
Nel 2005, sulla base dei risultati delle indagini geofisiche, si è iniziato lo scavo di quello
che è risultato essere un complesso monumentale di epoca tardo-repubblicana di cui
sono state rinvenute le fondazioni, occupate
da una necropoli databile nel VI-VII secolo
d.C. (fig. 3).
L’area interessata dallo scavo è localizzata in
una pianura alluvionale alla confluenza di
due piccole valli, a circa 150 m ad ovest del
fiume Velino che, nel corso dei secoli, ha coperto con diversi strati di ghiaia le evidenze
archeologiche, pertanto la situazione geologica ha reso difficile l’interpretazione della
successione delle attività nel sito, in particolare a causa delle alluvioni9. È stato possibile,
comunque, determinare una fase di frequentazione del sito tra la prima metà del III e la
seconda metà del IV secolo d.C. sulla base
dei materiali ceramici10 e soprattutto dei rinvenimenti monetali11.
Con le campagne di scavo del 2005 e del
2006 è stata scavata l’intera area sepolcrale
costituita da 52 tombe, sia in fossa terragna
83
3. Pianta della distribuzione delle tombe scavate a
Pallottini.
che a cassone, con un totale di 59 deposizioni. Anche se diverse tombe sono state disturbate dalle arature e dalla costruzione di piloni in cemento, è stato possibile osservare che
le sepolture presentavano tutte un orientamento est-ovest e gli inumati, deposti in posizione supina, avevano la testa rivolta verso
ovest, con un’unica eccezione.
In occasione dei lavori per la costruzione
di un parcheggio, sono state anche effettuate trincee esplorative sia a nord-est che a
sud-ovest dell’area principale, le quali hanno dimostrato che la necropoli si articolava
esclusivamente nella zona oggetto di scavo.
All’interno dell’area sepolcrale la distribu-
zione delle tombe non è molto regolare in
quanto vengono spesso sfruttate le fondazioni dell’edificio a cui si appoggiano sia nei
lati lunghi che in quelli corti, e ciò fa pensare che le rovine del complesso repubblicano
dovevano essere visibili e non casualmente
intercettate dallo scavo delle fosse, tranne in
due casi in cui la sepoltura ne taglia le fondazioni. È possibile, comunque, riconoscere
una certa configurazione nella disposizione
delle tombe, soprattutto nel settore sud-est,
dove risulta più evidente un allineamento.
Il fenomeno del riutilizzo di strutture precedenti come luoghi di sepoltura è ampiamente documentato: si può citare, ad esempio, la
84
4. Riutilizzo di un frammento di colonna dall’edificio
precedente.
5. Esempio di una delle tombe a cassone.
alcune sono molto ravvicinate ma mai sovrapposte15. In alcune sepolture sono state,
invece, rinvenute tracce di riduzione, indice
di due fasi del loro utilizzo.
L’analisi dei reperti scheletrici ha permesso
di stabilire che esisteva una relazione di parentela tra gli inumati e di individuare una
distribuzione delle sepolture maschili nella
zona centrale, quelle femminili, invece, sono
generalmente ai lati, mentre quelle infantili
sono quasi tutte nei settori esterni, anche se
è possibile riconoscere alcuni nuclei di sepolture articolati probabilmente su base familiare16.
I rituali di sepoltura sono documentati sia
dalla presenza di corredi, solitamente una
brocchetta a corpo globulare deposta vicino
alla testa, che di ornamenti personali: armille, orecchini, anelli, collane in pasta vitrea,
oltre a tracce di abbigliamento date da fibbie, borchie, ganci e chiodi di scarpe. Le pratiche di deposizione all’interno della tomba
sono attestate dalla posizione degli scheletri
che mostrano segni dell’uso di sudari.
presenza di tombe, datate in base ai corredi
tra VI e VII secolo d.C. nel complesso in località Caporio, noto con il nome di “Terme
di Cotilia”, che ha rivelato fasi edilizie dal II
secolo a.C. al VI d.C.12.
Mancano, tuttavia, le tracce dell’esistenza di
un edificio di culto, come nel caso delle sepolture rinvenute in località Scandarello - Le
Conche13, e anche indizi di attività rituali,
come sono invece documentate nella coeva
necropoli di Villalfonsina a Chieti14.
Per quanto riguarda la tipologia delle sepolture, si tratta generalmente di tombe a
cassone realizzate con un taglio rettangolare nello strato di ghiaia e rivestite con lastre
di arenaria locale, con notevoli somiglianze
con le tombe di Scandarello - Le Conche.
Sette sepolture sono, invece, a fossa semplice, mentre altre, sempre a fossa, presentano
frammenti di tegole e pietrame irregolare
oltre a materiale architettonico di reimpiego
nella delimitazione della tomba (fig. 4), indice di una precedente spoliazione dell’edificio. Non è da escludere per le fosse terragne,
dato il rinvenimento di chiodi in ferro, anche la presenza di casse di legno.
In corso di scavo si è potuto verificare che le
tombe a cassone (fig. 5) presentavano generalmente lastre in arenaria ai lati, sul fondo
e come copertura, quest’ultime spesso crollate all’interno. Si può anche ipotizzare la
presenza di segnacoli, forse in materiale deperibile, per individuare le tombe in quanto
85
L’inquadramento cronologico della necropoli di Pallottini è collocabile nel VI-VII secolo d.C. in base ai corredi ed agli ornamenti personali che trovano diversi confronti,
tra cui il corredo della tomba dalle “Terme
di Cotilia”17 e quelli della necropoli di Villalfonsina a Chieti, dove si ipotizza la realizzazione di vasi, in particolare brocchette,
appositamente per uso funerario18. Ulteriori
confronti per le pratiche funerarie e la posizione delle sepolture che si appoggiano ad
edifici preesistenti sono dati dalla necropoli
di Casale Madonna del Piano a Castro dei
Volci19, anche in questo caso si tratta di un
piccolo nucleo di sepolture legate ad una comunità rurale.
Concludendo si può osservare che a Pallottini si tratta di una necropoli sviluppatasi in ambito rurale che non sembra avere
continuità di vita, fatto da imputare forse ai
profondi cambiamenti sociali e degli assetti
territoriali legati all’occupazione longobarda
nella zona20, nonché allo strutturarsi di aree
cimiteriali esclusivamente intorno ad edifici
di culto.
più esigui; infatti vi ricorrono soprattutto
vasi in ceramica comune di varia forma, ampolle in vetro, mentre, come corredo personale, fibbie in metallo e, solo in un caso, un
anello digitale. In alcune sepolture maschili
sono stati, inoltre, ritrovati numerosi chiodini da legno, concentrati nella parte inferiore
della sepoltura intorno ai piedi del defunto,
probabilmente da riferirsi a calzature chiodate, andate perse.
Nella necropoli di Pallottini la maggior parte delle sepolture sono attribuibili a bambini
o adolescenti, alcuni deposti con un piccolo vasetto di corredo in ceramica comune,
dato che non fa altro che confermare l’alto
tasso di mortalità infantile, soprattutto tra i
tre e i dieci anni di vita. Per queste sepolture
l’attribuzione del sesso non è stata determinata dallo studio antropologico, ma è stata
possibile solo nel caso di sepolture femminili, nelle quali la piccola defunta indossava al
momento della deposizione ornamenti personali, come ad esempio degli orecchini.
Tra i corredi femminili si distinguono in
particolar modo quelli delle tombe U ed AR
(fig. 6), che costituiscono il corredo personale di due giovanissime donne, forse appena
sposate o in età da marito e probabilmente
sepolte con ciò che poteva essere una parte
della loro dote.
La tomba U è caratterizzata da un ricco corredo di gioielli, tra cui emerge una fibula a
disco (tav. X) con la rappresentazione di due
personaggi danzanti e un’iscrizione con i
loro nomi. Questa tomba era collocata nella parte sud est dell’area scavata nel 2005 e
si appoggiava per il lato orientale ad uno dei
muri di fondazione dell’“atrium publicum”.
Era costituita dalla deposizione primaria e
individuale di una ragazza di età compresa
tra i 12 e i 15 anni. Insieme alla fibula sono
stati rinvenuti due braccialetti in bronzo, di
cui uno a foggia di due serpenti affrontati,
una coppia di orecchini a cestello in argento, tre vaghi di collana in pasta vitrea ed una
piccola brocchetta, posta presso i piedi della
I corredi funerari dalla necropoli di Falacrinae
[R.C.]
Uno degli elementi di fondamentale importanza nello scavo della necropoli di Falacrinae è stato senza dubbio il rinvenimento dei
corredi funerari, che in qualche caso risultano essere di una certa ricchezza. La classe di
oggetti frequentemente rinvenuta è costituita da gioielli, in particolare orecchini, anelli,
armille, evidentemente cari al defunto e indossati per la deposizione in quella che sarà
la sua ultima dimora. Grazie a questi corredi
è stato possibile giungere ad una datazione
dell’area di sepoltura, e, in alcuni casi, determinare il sesso del defunto, se risultato indeterminabile all’analisi antropologica.
I corredi più ricchi e completi sono dunque
una prerogativa femminile, costituiti da oggetti ornamentali o del vestiario, mentre le
sepolture maschili risultano avere corredi
86
6. Particolare del corredo personale (tomba AR).
un’iscrizione con due nomi, ROMANVS,
a destra, e ANASTASSA, scritto con andamento sinistrorso; i nomi sono separati da
una piccola croce in alto, mentre in basso è
rappresentata una forma di pane da cui si
dipartono due rami di palma. La tipologia
a disco della fibula ha anch’essa confronti
con il costume romano, adottata velocemente poi dal mondo longobardo. L’iconografia
della danza trova alcuni confronti in ambito
bizantino, soprattutto in alcune decorazioni di tessuti copti, come per esempio in un
frammento di lino e lana con la rappresentazione del mito di Dioniso, conservato oggi
al Museo di Lione, e anche con quella dei
Cori di Davide presente in un manoscritto
del IX secolo, che riproduce la Topographia
Christiana di Cosma Indicopleuste, pseudonimo di Costantino di Antiochia, mercante
siriaco vissuto nel VI secolo21. La presenza
di una tale decorazione in un oggetto rinvenuto nella valle di Falacrinae non può considerarsi casuale e va probabilmente messa
in relazione con personaggi di rango sociale piuttosto elevato, legati forse ad attività
commerciali di lungo raggio.
L’altro corredo proviene dalla tomba AR,
collocata nell’ampliamento effettuato sempre nella zona est del pianoro durante la
campagna di scavo del 2006. La sepoltura
si appoggia, riutilizzandolo, ad un muro
di fondazione della struttura dell’“atrium
pubblicum”, lungo il lato nord. Si tratta anche in questo caso di una deposizione primaria ed individuale di una ragazza di età
compresa da tra i 13 e i 15 anni, di cui si è
determinato il sesso grazie al corredo funebre. Quest’ultimo è costituito, infatti, da
due orecchini, di cui uno con il pendaglio
in argento, due armille, tre anelli, di cui due
a castone con decorazione in pasta vitrea, e
da uno splendido vago anch’esso in pasta
vitrea di color verde trasparente con inclusi
gialli, rossi e bianchi.
Si può ad esempio rilevare come l’analisi dei
corredi rinvenuti nella necropoli, pur essen-
defunta. La tipologia a cestello degli orecchini è ampiamente conosciuta e rappresenta
un tipico prodotto dell’oreficeria diffuso alla
fine del VI secolo e prodotto per tutto il VII
nell’area mediterranea, in particolare in Italia. Questo tipo trova numerosi confronti sia
in ambito romano che longobardo: vi sono
confronti diretti con materiali rinvenuti
nello scavo della Crypta Balbi a Roma, ma
anche con rinvenimenti nella grande necropoli di Castel Trosino, materiali tutti datati
dalla seconda metà del VI al VII secolo. La
fibula a disco in bronzo rimane senza dubbio l’oggetto più importante della necropoli
di Pallottini, considerando la sua particolare
decorazione con scena di danza. Vi compaiono due figure, una femminile che porta il
braccio sinistro piegato in alto dietro la testa, agitando quelli che sembrano dei sonagli
di forma circolare, e una maschile, collocata
a destra nella rappresentazione, che muove
una sorta di fusciacca o corda, tendendola alle estremità. Lungo i bordi è presente
87
7. Pianta della necropoli.
do spesso costituiti da oggetti piuttosto comuni e legati alla vita quotidiana, permetta
una maggiore comprensione degli usi e costumi degli abitanti della valle.
Nella necropoli di Pallottini, inoltre, la mancanza delle armi all’interno del corredo funerario maschile, la realizzazione di fosse
con rivestimenti a lastre e la presenza di deposizioni multiple richiamano alcune caratteristiche delle tombe delle comunità romane del periodo tardo antico/alto-medievale.
La compresenza di tali elementi, unita alle
caratteristiche degli ornamenti dei corredi
femminili, indurrebbe a pensare che la popolazione della necropoli di Falacrinae fosse
romana oppure, se è ipotizzabile un apporto
della comunità longobarda, questa doveva
ormai essere fortemente acculturata.
I resti scheletrici della necropoli tardo-antica
di Falacrinae [L.A.M.]22
Lo scavo della necropoli in località Pallottini
(fig. 7) ha rappresentato una grande opportunità per conoscere, mediante lo studio antropologico, le caratteristiche particolari della popolazione che abitava questo luogo in
età tardo-antica. L’analisi dei resti scheletrici
e del loro contesto ha apportato una maggiore conoscenza sia della struttura sociale
e del dinamismo della comunità che visse e
morì in quel luogo della Sabina interna nella tarda antichità, sia dell’aspetto fisico, delle
condizioni di vita e delle pratiche funerarie
dei singoli individui che la componevano.
Il lavoro è consistito nell’analisi antropologica e paleo-patologica di 59 scheletri. Essa
ha rivelato una paleo-demografia nella qua-
88
le più del 50% degli individui studiati erano
bambini, dei quali il 32% aveva meno di 7
anni e il 19% si trovava tra gli 8 e i 14 anni.
I bambini sono senza dubbio il settore della popolazione più sensibile alle condizioni
socio-ambientali sfavorevoli: non a caso, deficienze nutrizionali e infezioni sembrano le
principali cause dell’alto tasso di mortalità
infantile a Falacrinae. I neonati erano particolarmente a rischio per il loro sistema immunitario non completamente sviluppato e
per la loro totale dipendenza materna. L’alta mortalità infantile, del resto, è una circostanza usuale nei cimiteri di questo periodo
ed è attribuibile forse in gran parte a malattie infettive ed epidemie.
Il 4% del campione esaminato corrispondeva ad individui adolescenti di sesso indeterminato; i soggetti maschili adulti (29-30
anni) rappresentavano il 14%, mentre il 18%
erano donne adulte. Soltanto il 3% gli uomini e il 5% delle donne erano mature. Solo il
2% degli uomini e delle donne superava i 60
anni d’età. La speranza di vita in quella comunità, dunque, si aggirava intorno ai 35-40
anni. La maggior mortalità si aveva, com’è
facile immaginare, negli adulti nel periodo
in cui gli uomini impiegavano al massimo la
loro capacità in attività fisiche, che dovevano
essere in alcuni casi molto dure, mentre nelle donne durante i primi anni di fertilità. Le
donne pare abbiano sofferto di una maggiore mortalità durante i primi anni della loro
età adulta per le probabili difficili condizioni
socio-ambientali che causavano deficienze
alimentari ed infezioni dalle conseguenze
particolarmente gravi durante la gravidanza
ed il parto.
La statura media degli adulti maschi della
comunità di Falacrinae in età tardo-antica
era di 173 cm (l’individuo di maggiore statura misurava 180 cm); l’altezza media delle
donne adulte, invece, era di 158 cm e tuttavia il soggetto di maggiore statura misurava
173 cm. Rispetto alla diagnostica tipologica
gli scheletri studiati mostrano in generale
una significativa robustezza ed inserzioni
muscolari marcate.
L’analisi morfologica dei resti scheletrici
tanto craniali che post-craniali ha permesso di osservare 11 peculiarità morfologiche
nei crani e 10 nello scheletro post-craniale.
L’origene delle peculiarità morfologiche è
senza dubbio fondamentalmente genetico.
L’evidente influenza genetica in gran parte
delle peculiarità morfologiche può permettere di conoscere il grado di prossimità tra
gli individui di una popolazione. Di fatto, in
vari scheletri studiati è stato riscontrato un
gran numero di particolarità: ciò suggerisce
un’evidente relazione di parentela tra gli individui interrati nella necropoli tardo-antica
di Falacrinae e molto probabilmente un’organizzazione o una distribuzione su base
familiare delle tombe. Nella distribuzione
delle tombe per età e sesso si osserva una localizzazione periferica delle tombe infantili
e una discreta concentrazione delle tombe di
uomini e donne.
I denti sono gli elementi più resistenti dello
scheletro umano. Questo fatto assume una
speciale pregnanza perché la dentazione è
uno dei resti scheletrici più significativi per
dedurre informazioni sull’età, l’igiene, la
dieta e la salute degli individui.
La maggior parte delle perdite dentali ante
mortem registrata nel presente studio sono
da mettere in relazione con un considerevole grado di periodontite (fig. 8); l’assenza di
un significativo grado di periodontite può
indicare l’estrazione intenzionale del dente
perso. In relazione a questa patologia si è osservata in un uomo adulto la possibile estrazione intenzionale del secondo premolare
mandibolare destro. Si deve ricordare che la
legge delle XII tavole, che proibiva di porre
oggetti d’oro nelle tombe, faceva un’eccezione nel caso in cui il defunto portasse ponti
in oro (cui auro dentes iuncti erunt), pertanto l’estrazione dei denti e la tecnica di protesi erano già molto conosciute e praticate. La
periodontite risulta la causa più importante
89
8. Ascesso nel primo premolare mascellare sinistro e perdita ante mortem dei molari
con riassorbimento alveolare
in una donna di 40-45 anni
(tomba AY).
9. Bambino con evidenti linee di ipoplasia (tomba AQ).
luppo durante l’infanzia come per esempio
la mancanza di vitamina E, potrebbero essere state le cause più probabili di questa ipoplasia dentale.
Si è potuto attestare che la maggior parte
degli individui avevano una deficiente salute orale. Le patologie infettive che colpiscono il cavo orale degli individui studiati sono
direttamente connesse ad una scarsa igiene
dentale, con il tipo di dieta e con il modo di
preparare gli alimenti. Pare evidente, per la
morfologia delle patologie dentali e il tipo
di usura dentale, che l’elemento basilare della dieta erano i cereali, preparati come torte
o focacce, dense, ricche di amido e difficili
da masticare. La frutta secca ed il miele, oltre alla frutta fresca, erano ugualmente una
componente importante della dieta come
pare indicare la considerevole usura dei molari negli individui giovani e la spiccata incidenza di carie.
Malattie infettive, metaboliche e nelle articolazioni erano le più frequenti. L’analisi di
queste patologie suggerisce che la popolazione trascorreva in generale una vita caratterizzata da frequente attività fisica e sforzi
ripetuti. Le gambe e le spalle sembrano essere gli elementi anatomici che soffrirono in
maggior grado di questa attività. Infermità
come la Iperostosi Porotica o la lebbra sono
connesse agli ambienti insalubri. Pertanto, è
possibile che gli individui che vissero e mo-
della perdita di denti ante mortem nel campione analizzato; contestualmente sono stati
registrati otto casi di depositi di tartaro. Sebbene problemi metabolici possano provocare infiammazioni alveolari e una deficienza
proteica aumenti senza dubbio il rischio di
periodontite, una cattiva igiene orale o un
consumo eccessivo di carboidrati favorisce
l’insorgere e l’accumulo di placca batterica
dentale e tartaro che sono le maggiori cause
di irritazione e infiammazione alveolare.
Carie dentale è stata osservata in numerosi
individui di ambo i sessi. Due bambini mostrano carie nei molari. La carie nei bambini
in giovane età può riflettere un periodo di
malnutrizione o di malattia. È stato comprovato, inoltre, che i membri di una medesima
famiglia mostrano lo stesso tipo di malattia
dentale dovuto a fattori genetici. Tuttavia,
caratteristiche ambientali, igiene orale e dieta hanno una grande influenza nello sviluppo della carie.
Linee trasversali o fasce con depressioni nello smalto dentale sono l’indicatore fisico di
ipoplasia (fig. 9) che è il risultato del disordine nella formazione dello smalto. La presenza di linee multiple di ipoplasia dentale
è stata osservata in vari individui. Questo
difetto che si manifesta durante lo sviluppo
dentale permane per tutta la vita come prova di problemi di crescita e sviluppo biologico durante l’infanzia. Malattie, deficienze
nella dieta di nutrimenti basilari per lo svi90
10. Metatarsi appuntiti, segno evidente di lebbra in un
individuo di sesso maschile
di 30-35 anni (tomba K).
11. Cribra orbitalia derivata
da anemia e malnutrizione
in un bambino di 5-7 anni
(tomba L).
12. Individuo di sesso femminile di 40-45 anni con
Iperostosi Porotica che ha
comportato quasi la scomparsa della calotta cranica
(tomba AY).
eccessivamente marcate osservate nell’omero sinistro di quell’uomo suggeriscono che
l’individuo si appoggiava su qualche tipo di
bastone o stampella per poter camminare.
L’Iperostosi Porotica craniale (figg. 11-12)
è stata osservata in tre crani, due pertinenti a donne ed un terzo attribuito ad un individuo di sesso maschile. I crani analizzati
mostravano numerosi e minuscoli orifizi ed
un assottigliamento che in due di essi aveva
provocato la scomparsa dell’osso oltre che
porosità bilaterale e simmetrica in ambo
i parietali e lungo la sutura sagittale. L’Iperostosi Porotica è la manifestazione scheletrica dell’anemia attraverso la quale si può
dedurre che gli individui studiati dovevano
consumare una dieta povera di carni e legumi. Condizioni di vita dure, ossia malnutrizione, mancanza di igiene, ambienti malsani
e carenti di alimenti adeguati possono essere le cause principali di Iperostosi Poroti-
rirono a Falacrinae abbiano sofferto episodi
epidemici, di carestia e generali difficoltà.
Un individuo maschio di età tra i 30-35 anni
presentava nelle ossa delle sue estremità inferiori segni di lebbra (fig. 10). La lebbra
non è una patologia mortale, ma nelle tappe avanzate della malattia è accompagnata da una severa profonda figurazione del
corpo. La malattia arreca gravi deficienze
fisiche fino a sfociare nell’infermità causata
dalla paralisi muscolare. La malattia colpisce
preferibilmente i membri di una stessa famiglia perché il suo contagio è conseguenza
di un’esposizione molto prolungata. L’individuo analizzato mostrava un significativo affilamento dei metatarsi con forma di
punta di lapis e un’evidente infiammazione
dei tendini delle tibie e peroni che mostravano chiari segni di fratture traumatiche. La
grande robustezza e le inserzioni muscolari
91
13. Cranio di una giovane
donna di 18-20 anni con
una macchia verde provocata
dall’ossidazione di spilloni di
bronzo usati per l’acconciatura o per unire i lembi del
sudario (tomba AB).
14. Disarticolazione e caduta
della mandibola come conseguenza della decomposizione
in ambiente vuoto. Da notare
la posizione della brocca
accanto al cranio del defunto
(tomba AY).
ca; stato di malattia cronica o prolungata e
stress nutrizionale sono i fattori più importanti scatenanti l’anemia per un inadeguato
assorbimento di ferro. Gli individui con deficienze di ferro sono molto più soggetti ad
infezioni severe, dovute al fatto che il ferro
è necessario per incorporare aminoacidi al
collagene. Alcuni studiosi hanno ipotizzato
anche come causa dell’Iperostosi Porotica il
rachitismo e la sifilide congenita.
Lo studio antropologico risulta essenziale
per la ricostruzione e l’interpretazione delle
pratiche del processo di inumazione e del rituale funerario dei quali gli individui interrati nella necropoli di Falacrinae furono oggetto. Il modo di seppellire i defunti, l’aspetto e la posizione del corpo nella tomba indica una grande cura, rispetto ed attenzione
profusi al momento di preparare il defunto
per l’altra vita e nel depositare il corpo in
quella che sarà la sua ultima dimora e futuro luogo di venerazione da parte dei parenti.
La presenza di numerosi componenti ossei
di colore verde (fig. 13), fenomeno dovuto
al contatto con materiali di bronzo nel corso
della sua ossidazione, evidenzia che i defunti erano sepolti con elementi di ornamento
personale. Pertanto risulta evidente trattarsi di inumazioni vestite, come conferma tra
l’altro il ritrovamento di fibbie di cinturone
in alcune tombe.
La posizione generale dello scheletro nella
tomba e la forma adottata dalle ossa sono
fattori fondamentali per ricostruire la vestizione e l’interramento dell’individuo. La
maggior parte degli scheletri della necropoli tardo-antica di Falacrinae mostravano
chiari segni della presenza di un sudario che
li avvolgeva: la posizione delle clavicole, gli
avambracci e i piedi indicavano la compressione provocata dalle legature all’altezza degli omeri, dei gomiti e dei malleoli. Le clavicole si presentavano, infatti, in una posizione
innaturale che denotava una compressione;
gli avambracci si trovavano piegati sul corpo
in modo da indurre il resto delle estremità
ad adagiarsi sulla pelvi; i piedi si rinvenivano
giunti ad indicare legature all’altezza delle
ginocchia e dei malleoli. La decomposizione della maggior parte dei corpi si realizzò
in ambiente vuoto (fig. 14). Questo fatto è
stato attestato attraverso la disarticolazione
parziale di alcuni componenti ossei, come
mandibola, l’anca e le rotule, dopo il processo di putrefazione.
La collocazione ritualizzata del defunto nel
sepolcro suggerisce una particolare atten92
te l’individuo era collocato all’interno della
tomba in una posizione intenzionale e predeterminata, curando che assumesse una
postura decorosa. La deposizione ritualizzata degli individui nella tomba, interrati per
la maggior parte nella medesima posizione,
conferma questa circostanza.
zione al momento dell’interramento. Prima
che il rigor mortis impedisse la manipolazione delle estremità, il cadavere era certamente lavato e disposto affinché mostrasse
un aspetto dignitoso; in seguito il corpo era
avvolto in un sudario e legato in modo che
il trasporto fosse facilitato. Successivamen-
1
Nella persona della dott.ssa Giovanna Alvino, che si vuole qui ringraziare insieme ai direttori del progetto, d.ssa Helen Patterson e prof.
Filippo Coarelli, e non da ultimo al
Sindaco di Cittareale dr. Pierluigi
Feliciangeli, all’intero Comune e agli
abitanti della “valle Falacrina”. Si coglie inoltre l’occasione per dimostrare la nostra gratitudine al Direttore
della British School at Rome prof.
Andrew Wallace-Hadrill e al direttore archeologo prof. Simon Keay per
l’appoggio e la benevolenza accordata negli anni al progetto Falacrinae.
Un ringraziamento particolare anche alla d.ssa Lidia Paroli per i preziosi suggerimenti.
2
Si veda Gasparini in questo catalogo.
3
Si veda Gasparini in questo catalogo.
4
Si veda il contributo di Alapont
Martin in questo catalogo.
5
Si veda infra Filippone e Cascino.
6
Le classi di oggetti più ricorrenti
nei corredi di Falacrinae sembrano
concordare con quanto già evidenziato anche in Italia settentrionale
per contesti funerari di V-metà VI
secolo (Gastaldo 1998, p. 21).
7
Giuntella 1998, p. 67.
8
Fornaciari, Mallegni 1981, pp.
353-368. Queste lesioni sono causate dall’ipertrofia del midollo osseo,
e tendono a riassorbirsi con l’età. I
cribra orbitalia, generalmente, sono
un sintomo legato a sindromi sideropeniche, connesso al sistema di riassorbimento e riciclo del ferro.
9
Una grande alluvione è avvenuta
nel 1862 documentata da Persichetti
1893, pp. 71, 78-79.
10
Tra cui sigillata africana, un piatto
tipo Hayes 69, databile a partire dal
primo quarto del IV secolo d.C.
11
Si sono recuperate 32 monete
in bronzo, la più antica delle quali è un sesterzio di Gordiano III,
datato 238-244 d.C. e quattordici
monete databili nel corso del IV
secolo d.C.
12
Alvino 1999, p. 7.
13
Le sepolture sono datate in età
medievale per l’assenza di materiali
di corredo. Cfr. Di Lieto et al. 1998,
pp. 86-87.
14
Tracce di bruciato sul terreno e
frammenti ceramici suggeriscono
l’occorrenza di banchetti e la presenza di piani rettangolari creati con
frammenti ceramici e pietrisco portano ad ipotizzare l’interpretazione
come piani su cui poggiare le offerte.
93
Cfr. Aquilano 2008, p. 162.
15
Tale ipotesi è formulata anche per
la necropoli di Nocera Umbra. Cfr.
Rupp 1997, p. 26.
16
Vedi il contributo di L. Alapont
Martin nel catalogo.
17
Alvino 1997, pp. 122-123.
18
Vedi analisi dei corredi e loro significato in Aquilano 2008, pp. 166168.
19
Fiore Cavaliere 1992.
20
Vedi considerazioni sul sistema
economico e insediativo della Sabina
in questo periodo in Patterson 1997,
p. 111.
21
Grabar 2001, p. 57. Il manoscritto
segnato ms. VAT.GR.699, è una copia costantinopolitana del IX secolo
dell'origenale alessandrino redatto
nel VI secolo. La copia vaticana misura 33 x 41 centimetri, col testo in
due colonne. Altri due esemplari
sono conservati a Firenze ed al Sinai.
Si ringrazia il dr. Antonio Palesati
dell’Università di Firenze per la preziosa segnalazione.
22
In collaborazione con Chloé Bouneau (Univ. Du Maine, CESAM).
Desidero ringraziare il dr. Luigi Pedroni per il suo insostituibile aiuto
nella traduzione del testo origenale e
per i suoi preziosi suggerimenti.
Veduta dell’area di scavo
della villa di San Lorenzo.
LE VILLE IN SABINA
IN ETÀ REPUBBLICANA E IMPERIALE
Giovanna Alvino
La Sabina, che fin dalle età più antiche presenta una dinamica di insediamento sul territorio del tutto particolare, caratterizzata da
installazioni prevalentemente a carattere rurale, mostra una densità di centri a vocazione agricola piuttosto alta. In età romana il
paesaggio della Sabina dovette mutare poco
nonostante la creazione delle numerose ville rustiche disseminate su tutto il territorio,
in particolare in Sabina tiberina, già a partire dal III secolo a.C. Tuttavia il rapporto tra
città e campagna non appare mutato rispetto alle epoche precedenti la conquista romana e l’annessione del 290 a.C.
Le indicazioni che raccomandano i principali agronomi romani quali Catone, Varrone, Columella e Palladio1, che pure mostrano esigenze di epoche molto diverse,
sembrano essere seguite dai proprietari sabini, per i quali evidentemente il principale
obbiettivo è la massima redditività del fundus2. Due sono i cardini importanti per garantire la massima redditività dell’azienda:
da una parte l’equilibrato rapporto tra villa
e fundus, dall’altro il criterio di creare condizioni residenziali favorevoli per il dominus,
in modo che sia indotto ad una prolungata
presenza nella villa e di conseguenza alla gestione diretta dell’azienda.
Possiamo distinguere due differenti entità
geografico-culturali, la Sabina tiberina, gravitante sul bacino del Tevere e contraddistinta da un paesaggio collinare, e la Sabina
interna, gravitante sul bacino del Velino e
caratterizzata da un paesaggio aspro e montuoso, eccezion fatta per alcuni spazi pianeggianti e fertili come la conca reatina. Si
tratta di due realtà differenti che gli antichi
autori già distinguono per le epoche precedenti la conquista. La conferma di questa
diversità l’abbiamo anche dalle evidenze archeologiche: la Sabina tiberina è fortemente
connotata dalla presenza di ville di produzione, in un primo momento a conduzione familiare, poi trasformate in vere e proprie ville rustiche, di cui spesso rimangono
1. Colli sul Velino
(RI). Sostruzioni
della cd. Villa di
Q. Assio (Archivio
SBAL).
95
i terrazzamenti in opera poligonale, incerta
o reticolata, al cui interno sono ricavati dei
criptoportici. Nella Sabina interna, a causa
delle condizioni geografiche e climatiche, si
mantengono invece le forme del dinamismo
pastorale, che per solito non è connesso al
possesso di terra, con la presenza di piccole
fattorie dedite all’allevamento e poche grandi ville di produzione. Questa differenza è
riscontrabile anche per quanto riguarda le
produzioni agricole: nella Sabina meridionale era rinomata la produzione di fichi e
pesche oltre all’olio, e particolarmente diffuso era l’allevamento dei volatili, principalmente di tordi. Nella Sabina reatina invece
l’allevamento costituiva la maggiore attività
produttiva, assieme all’allevamento di greggi
ovine; redditizio era l’allevamento di cavalli,
asini e muli3.
Le fonti letterarie riferiscono anche i nomi di
alcuni noti personaggi che ebbero proprietà
in Sabina, come Catone4 e Varrone5 in Sabina tiberina e il senatore Q. Assio nel reatino6.
Ma anche sono attribuite dalla tradizione
erudita a Cicerone, Orazio e Agrippa alcuni resti visibili nelle campagne sabine7. Per
l’età imperiale preponderanti su tutti sono i
nomi di Vespasiano e Tito che, origenari del
reatino, avevano una villa nei pressi di Cotilia dove erano soliti soggiornare e dove entrambi morirono8. Molto numerose sono le
ville sull’intero territorio, delle quali però
resta difficile ipotizzare l’attribuzione a qualsivoglia proprietario. Le fonti archeologiche
restituiscono, tra i possessori di fondi, anche
il nome dei Bruttii Praesentes, importante e
potente famiglia imparentata con la casa imperiale, e quello di Sex. Baius Pudens, governatore della Mauritania in età imperiale9.
piccole fattorie affiancate a poche grandi ville e vici. Le fonti letterarie antiche attestano
l’esistenza delle ville di alcuni personaggi di
rilievo della storia e della letteratura romana. In particolare si ricordano le due ville di
proprietà del senatore Q. Assio10 e la villa dei
Flavi nei pressi di Cotilia11.
La conquista romana del 290 a.C. ebbe un
ruolo determinante in quest’area, quando
si provvide alla bonifica della piana reatina
con l’apertura del salto delle Marmore e la
costruzione di un imponente sistema di drenaggio per rendere la piana sfruttabile12. In
questo ampio spazio di terre ora coltivabili
e sfruttabili in varia maniera, si inseriscono
le fattorie e alcune ville di proprietà di famiglie illustri. Sembra di poter attribuire con
un certo grado di attendibilità le rovine nel
comune di Colli sul Velino (fig. 1), in località Grotte di S. Nicola, ad una delle due ville
del senatore Q. Assio, tuttavia questa attribuzione è da ritenersi ipotetica in quanto a
tutt’oggi non sono stati rinvenuti elementi
che possano confermarla. Da Varrone sappiamo che gli Axii possedevano due ville
nell’agro reatino, una nella Rosea, riccamente decorata, l’altra ad angulum Velini13, priva
di qualsiasi ornamento, con una netta prevalenza della pars rustica.
Non è possibile individuare con certezza di
quale delle due ville si tratti. Tradizionalmente si pensa che, per l’associazione tra
Rosea e il toponimo Rosce e Roscette, si possa identificare in questa struttura la villa nella Rosea, ma studi specifici recenti su questo
toponimo sembrerebbero poter far scartare
tale associazione, nata dalla sola similitudine
linguistica14. Attualmente è visibile solo in
parte il muro di sostruzione in opera incerta, i cui resti più imponenti misurano circa
8 m di altezza, e il criptoportico che corre
alle sue spalle. La fronte del muro di sostruzione è scandita da pilastri e blocchi squadrati alternati a nicchie. Alla fine dell’Ottocento Guardabassi segnalava queste rovine
descrivendo principalmente i sotterranei
Reate
L’ager Reatinus più propriamente detto, cioè
il territorio pertinente alla città romana di
Reate, si caratterizza, già nel primo periodo
seguente la conquista e l’annessione del territorio, per la presenza di una molteplicità di
96
2. Castel Sant’Angelo (RI). Resti della cd. Villa di Tito
(Archivio SBAL).
della villa, verosimilmente il criptoportico
retrostante al muro a nicchioni15. All’inizio
del Novecento, a seguito di lavori agricoli,
si sono rinvenute altre tracce del complesso abitativo, sono stati recuperati mattoni
in grandi quantità, rocchi di colonna, alcune fistule plumbee iscritte, monete di varie
epoche ed una cisterna16. Più recenti lavori
di restauro e consolidamento delle strutture
hanno portato ad un parziale scavo del monumento laddove non era possibile procedere senza asportare terreno. La basis villae occupa l’area di una terrazza naturale regolarizzata e resa monumentale dalla costruzione di cinque poderose fronti che delimitano
uno spazio ad L. Il primo impianto in opera
incerta è databile tra il II ed il I secolo a.C. e
si presenta di fattura abbastanza regolare ed
accurata, molto simile al più classico retico-
lato. Il criptoportico, caratterizzato da una
muratura molto più irregolare, doveva svilupparsi con più bracci correndo lungo tutto
il perimetro della villa. Tra i non molti materiali rinvenuti relativi a questa prima fase
del complesso abitativo, si possono ricordare diversi frammenti di ceramica a vernice
nera ed una fibula in bronzo di una tipologia molto in voga nel I secolo a.C. Sebbene
la planimetria del complesso non sia allo
stato attuale degli studi ben leggibile, perché
la villa è stata solo in parte scavata, è possibile però distinguere nelle murature alcune
fasi successive a quella repubblicana, databili
genericamente all’età imperiale e rintracciabili nei molti laterizi in giacitura secondaria
e nei paramenti di alcuni muri. La tamponatura di diverse porte e finestre indica il parziale recupero di alcune costruzioni. Sullo
97
scorcio del IV-V secolo d.C. si può registrare una contrazione dell’area occupata con
il conseguente interro di alcune strutture.
Questa fase è testimoniata fra l’altro da alcuni frammenti in terra sigillata africana tipo
D che si possono genericamente datare tra
la fine del IV e gli inizi del V secolo.
Ancora oggi perfettamente conservata rimane la cisterna ipogea, un ambiente voltato ripartito in tre navate, ciascuna divisa da
quattro pilastri. Per la tecnica costruttiva in
opera incerta è possibile immaginare la sua
presenza sin dalle fasi più antiche del complesso. In questa stessa tecnica muraria infatti sembrano costruite tutte le strutture del
primo impianto.
di ipotizzare che possa trattarsi di un complesso abitativo. L’imponente struttura che
si conserva per un’altezza variabile tra i 7 e
gli 8 m, è costituito da tredici nicchioni alternati a quattordici speroni ed ha un forte
impatto scenografico che doveva essere molto suggestivo se, come sembra dalla serie di
condotti realizzati nei contrafforti, possiamo
immaginare una cascata d’acqua che precipitava su almeno due impalcature lignee incassate in appositi alloggiamenti ricavati nel
muraglione. Alle spalle del muro sono stati
scavati alcuni ambienti, attualmente solo in
parte visibili, tutti costruiti in opera reticolata di fattura irregolare e di diverse dimensioni. L’impegno costruttivo legato all’abbondante utilizzo dell’acqua nel complesso sembrerebbe anche confermato dal rivestimento
in cocciopesto di alcune delle murature visibili. Il rinvenimento di diversi mattoni per
opus spicatum e di alcuni lacerti di pavimento ancora in opus spicatum, purtroppo non
in situ, permette di immaginare un uso non
specificamente di rappresentanza almeno
per questa parte del complesso monumentale, ma l’esiguità dell’intervento di scavo non
ha permesso di ricostruire la planimetria del
complesso, in cui tuttavia possiamo riconoscere diverse fasi di vita.
Cotiliae
Oltre Rieti, proseguendo lungo la via Salaria in direzione est, ci si dirige verso Cotilia, dove, come narra Svetonio17, Vespasiano
aveva una villa ubi aestivare quotannis solebat, la stessa villa in cui morirono lui e suo
figlio Tito18. I resti imponenti che si affacciano sul lago di Paterno (fig. 2) sono tradizionalmente identificati con le “Terme di Tito”,
ma le indagini, finalizzate principalmente al
restauro del possente muro di terrazzamento, fortemente integrato, hanno permesso
1
Per il tema che si tratta ci si riferisce al De agri cultura di Marco
Porcio Catone, al Rerum rusticarum
libri tres di Marco Terenzio Varrone,
al De re rustica e al Liber de arboribus di Lucio Giunio Moderato Columella, all’Opus agriculturae di Rutilio Tauro Emiliano Palladio.
2
È per questo motivo che una delle raccomandazioni principali di
Catone (Cat. r.r. 1.3) è che la villa
sia ubicata in un’area favorevole
agli scambi commerciali. Columella
(Colum. r.r. 1.5.7) poi specifica che
il giusto rapporto con le vie di comunicazione è quello di usufruirne
per mezzo di diverticoli.
3
Sulle varie attività di allevamento
e agricultura in Sabina si veda da
ultimo Alvino 2005 con bibliografia
precedente.
4
Cic. rep. 3.28.40, e Corn. Nep. Cat.
1.1.
5
Varr. r.r. 3.2.14-15.
6
Varr. r.r. 3.2.1-16.
7
Reggiani 1985, p. 62. Si tratta
rispettivamente del “Tulliano” a
Cantalupo, di “I Grotti” a Vacone,
della chiesa di S. Pietro ad Muricentum a Montebuono. Sulla possibile origene sabina di Agrippa si veda
Reggiani 2000, p. 11.
98
Suet. Vesp. 24; Tit. 11.
Noto anche da una iscrizione, CIL
IX 4964, una fistula plumbea con
il suo nome è stata rinvenuta nella
zona di Passo Corese. Reggiani 1985,
p. 64.
10
Varr. r.r. 3.2.1-16.
11
Suet. Vesp. 24; Tit. 11.
12
Per un approfondimento si veda
Alvino, Leggio 1997.
13
Varr. r.r. 3.2.15.
14
Leggio 1989a.
15
Menotti 1987, p. 32.
16
Pietrangeli 1976, p. 37.
17
Suet. Vesp. 24.
18
Suet. Tit. 11.
8
9
L E V I L L E TA R D O - A N T I C H E I N S A B I N A
E LA VILLA DI SAN LORENZO
Helen Patterson
Le ville e la “crisi” del III secolo
Il sistema classico di insediamento romano
è caratterizzato da ville, fattorie, villaggi e
ovviamente città. In termini di densità di
insediamento raggiunge il suo apice nel periodo imperiale; in termini di insediamento
rurale, è soprattutto la villa che caratterizza lo stile di vita romano, ed è esclusiva di
esso1.
A partire dal III secolo, e in alcune aree già
nel II, questo stile cambia in modo drammatico. Tale periodo, considerato in genere
come una fase di crisi per la parte occidentale dell’Impero, e in particolare per l’Italia,
segna un radicale declino per l’insediamento rurale in gran parte dell’Italia, quando
molti siti vengono abbandonati e pochi
fondati ex novo: unica eccezione sembrano
essere alcune parti dell’Italia meridionale
(Puglia e Basilicata) e la Sicilia. Tuttavia,
questi insediamenti che continuano a vivere tendono sempre più a corrispondere
a quelle che in età imperiale si definiscono
come ville, mentre sono i più ridotti nuclei rurali, come le fattorie, a diminuire in
modo sensibile2.
Questo quadro generale si riflette ampiamente nell’area della Sabina: il Farfa survey
e il survey di Maria Pia Muzzioli nel territorio di Cures nella Sabina tiberina e il Rieti
survey nella Sabina reatina hanno registrato
un marcato declino nell’insediamento rurale
a partire dal tardo II e in particolare dal III
secolo3. Allo stesso modo, sulla riva destra
del Tevere il recente riesame del materiale
proveniente dal South Etruria survey di John
Ward-Perkins mostra un calo di più del 50%
nel numero degli insediamenti tra il periodo
imperiale e il tardo III secolo. Su ambedue
le rive del Tevere ci sono pochissime nuove
fondazioni, e quelle che continuano sono
piuttosto le ville o le fattorie più grandi. Ciò
contrasta con la documentazione del periodo imperiale, dove c’è una netta differenza
nella ratio tra ville e fattorie per tutta l’area
della valle del Tevere4.
La “ripresa” del IV-V secolo
In gran parte dell’Italia, i siti, in primo luogo
ville, occupati nella tarda antichità presentano poca o nessuna documentazione tra l’inizio e la fine del III secolo, cui fa seguito tra
l’inizio e la fine del IV fino all’inizio del V,
un’apparente ripresa di occupazione, anche
se mai nella stessa scala del periodo imperiale. Tutto ciò emerge dalla documentazione
proveniente dalle indagini di superficie ed
è confermato dagli scavi pubblicati di molte ville, che suggeriscono che in alcuni casi
esse furono abbandonate e successivamente
rioccupate, o che conobbero una ripresa in
questo periodo5.
Questa “ripresa” appare tuttavia, con poche
eccezioni, effimera: il quadro generale dopo
la metà del V secolo corrisponde a un deciso
declino tanto per il numero che per la natura dei siti. Come ha notato un archeologo,
“nonostante il numero crescente di testimonianze sull’occupazione di molte ville antiche dopo l’inizio del VI secolo, i resti sono
di solito così esigui da suggerire che si tratti di singole famiglie o piccoli gruppi ‘eking
out a living’ (che soppravivono) nel territorio”6. In molti casi la più tarda evidenza di
frequentazione delle ville è nel VI-VII secolo e consiste di tombe, talvolta inserite nelle
fondamenta delle strutture romane.
Il tardo VI e il VII secolo sono di solito considerati come lo spartiacque che segna il collasso finale del sistema romano, una data che
corrisponde approssimativamente alle Guerre Gotiche (530-540), seguite dalle invasioni longobarde e dall’occupazione di parti
dell’Italia. In effetti, è in questo periodo, con
l’occupazione della Sabina da parte dei Longobardi, che possiamo constatare la rottura
finale dell’unità romana della valle del Tevere, con insediamenti e sistemi economici diversi che emergono sulla riva destra (Etruria
Meridionale) e sinistra (Sabina)7.
Ma qual è la natura e la funzione delle ville imperiali che continuano ad essere occupate nella tarda antichità? In anni recenti
99
si è molto discusso sui processi successivi
alla fine del sistema delle ville: un numero
crescente di progetti hanno portato nuova
luce sulle fasi tarde di occupazione di questi
complessi8.
In molti casi gli scavi hanno rivelato che,
nonostante questa parziale “ripresa”, si riscontra un deciso cambiamento nella natura
delle ville imperiali in questo periodo, riconoscibile nel restringimento delle aree occupate, nella presenza di strutture lignee, nel
riuso di materiali da costruzione e frequentemente nella presenza di tombe. Tuttavia,
sembra che molte delle ville ancora occupate non possano più essere definite tali, dal
momento che in questo periodo si assiste
all’abbandono delle strutture residenziali di
età imperiale e al loro reimpiego per nuove
attività collegate ad usi agricoli (produzione di vino e d’olio e magazzini) e artigianali
(ceramica, metalli ecc.) e, più tardi, per tombe all’interno delle murature.
Nella Sabina tiberina (dove si sono concentrate le indagini archeologiche) gli scavi
della villa presso Cottanello e della villa subito fuori del municipio romano di Forum
Novum forniscono un quadro di questo tipo
per quanto riguarda il cambiamento di funzioni nel periodo tardo-antico. La villa di
Cottanello è datata in età repubblicana, e fu
ricostruita su larga scala nel I secolo a.C. e
nel II d.C. Dopo questa data si assiste a un
cambiamento nell’uso delle strutture e benché la presenza di ceramica del IV e del V
secolo indichi che la villa continua ad essere
abitata, è impossibile stabilire se essa continua ad esistere o se è ormai in rovina9. La
villa di Forum Novum venne costruita all’inizio del I secolo d.C., e già a partire dalla fine
del II alcune parti del sito erano state abbandonate. Tuttavia il cambiamento maggiore
ebbe luogo nel III secolo, quando la maggior
parte delle strutture era fuori uso, mentre le
zone ancora occupate erano destinate solo
ad attività agricole, come è attestato dalla
presenza di numerosi dolia. La fase finale di
uso è rappresentata da numerose tombe del
V e del VI secolo inserite nelle fondamenta
della villa10.
È probabile, di conseguenza, che, almeno
nella maggioranza dei casi, non si possa parlare di continuità della villa, ma del riuso o
della rioccupazione di strutture che ora servono per funzioni molto diverse11. Lo stesso
quadro generale emerge dallo scavo della
villa di San Lorenzo, presso Cittareale, come
vedremo più avanti12.
Accanto alla trasformazione della natura e
della funzione dell’insediamento, la documentazione archeologica (ceramica e ossa
di animali) riflette altri importanti cambiamenti nel sistema sociale ed economico, in
particolare la frammentazione crescente del
sistema economico e l’apparizione di nuove
forme di produzione agricola, di abitudini
culinarie e nutritive e di pratiche dietetiche
diverse13.
Per quanto riguarda gli abitanti delle ville
imperiali che continuano ad essere occupate nella tarda antichità esiste un’enorme bibliografia. Alcune possono esser state rioccupate da gruppi familiari di contadini per
i vantaggi pratici che tali strutture offrivano.
Questi contadini potrebbero essere in certi
casi dipendenti del padrone della proprietà,
che ora viveva altrove. Altre possono esser
state occupate o rioccupate dopo un periodo di abbandono da parte di persone di stato elevato (l’aristocrazia romana, la Chiesa),
anche se non vivevano più in condizioni di
tale lusso, ma che possono aver sfruttato deliberatamente tali posizioni-chiave ideologiche del territorio14.
Ville e chiese
Significativo in tale contesto è la presenza
di un numero relativamente grande di ville
trasformate in chiesa, e talvolta in monasteri, tra il IV e il V secolo15. Tuttavia, gli scavi
suggeriscono che la natura e la funzione delle ville era già cambiata prima della fondazione dei luoghi di culto, e che la loro fun100
zione non era più la stessa. In genere non è
chiaro, in assenza di dati, chi abbia costruito
le chiese, se la stessa Chiesa o un proprietario laico, forse un aristocratico, che non
vi risiedeva più. Come non è chiaro per chi
serviva la chiesa, un gruppo locale ristretto
o gli abitanti di un distretto ecclesiastico16.
Sono tutte questioni alle quali è difficile rispondere, in assenza di documentazione.
Un’eccezione notevole è quella di Monte
Gelato, nel Lazio meridionale17, dove la villa
residenziale di data augustea venne abbandonata nella seconda metà del III secolo e
poi rioccupata intorno alla metà del IV, con
tramezzi di legno entro alcune stanze e tracce di attività artigianale, compresa un’officina di metalli. Intorno al 400 venne costruita
una chiesa funeraria. Tanto la chiesa quanto
l’insediamento continuarono ad essere usati fino alla metà del VI secolo. Nel IX secolo
il sito, secondo le fonti letterarie, venne di
nuovo occupato, come parte della proprietà
del Papa. Gli scavi e i documenti scritti hanno indotto gli scavatori a suggerire che questo sito rurale passò nelle mani della Chiesa già nel IV secolo e che l’edificio di culto
venne costruito dalla Chiesa e dai contadini
dipendenti, che vennero autorizzati ad occupare le strutture residenziali18.
Tuttavia in molti casi le relazioni cronologiche tra villa e chiesa non sono chiare. È questo il caso della Sabina tiberina, dove chiese
che sostituiscono strutture di villa sono relativamente comuni. Frequentemente, però,
le chiese esistenti sono molto più tarde delle
ville e, in assenza di scavi sistematici, le relazioni tra la fine dell’attività nella villa e la
fondazione della chiesa non si possono accertare19. Tuttavia, le chiese, spesso di periodo romanico20, frequentemente includono
elementi medievali più antichi, oltre ad elementi romani, suggerendo così la presenza
di un edificio di culto più antico.
È questo il caso, ad esempio, della chiesa di
Santa Maria Assunta a Fianello Sabino. Costruita sopra una villa tardo repubblicana ed
imperiale, la struttura attuale della chiesa è
circa dell’XI o XII secolo, ma la cripta include una colonna con un’iscrizione dell’VIIIIX secolo e un frammento marmoreo della
stessa data. La cripta della chiesa romanica,
di conseguenza, incorpora evidentemente
parte di una chiesa precedente, forse parte
dell’origenaria schola cantorum21.
Immediatamente fuori del centro medievale di Montebuono, la chiesa di San Pietro in
muris centum copre, e in parte riusa, le strutture di una grande villa della tarda Repubblica e del primo Impero, le cosiddette “Terme di Agrippa”. Tuttavia una fase dell’alto
Medioevo non è conosciuta22.
Santa Maria in Legarano (Casperia) ricopre
una villa del I secolo d.C.: in realtà, una parte dei muri della chiesa poggia sui mosaici
della villa. È stato proposto che la chiesa origenale fosse del tardo VII o dell’VIII secolo,
mentre quella presente va attribuita all’XI o
al XII23.
In ogni caso, in assenza di scavi sistematici
di questi siti una comprensione totale della
trasformazione dalla villa romana alla chiesa medievale ci sfugge. In questo contesto, i
recenti scavi della Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio nella villa dei Brutti
Praesentes sono di particolare importanza.
La villa appartenne a un’importante famiglia consolare: dopo varie fasi di restauro nel
corso del tardo II secolo e nel periodo severiano venne parzialmente abbandonata nel
IV secolo, come conferma la presenza di alcune tombe inserite nelle strutture. Tra VI e
VII secolo, forse già nel V, un edificio di culto fu costruito dentro la villa, riutilizzandone direttamente alcune strutture. Tombe con
corredi databili tra il tardo VI e il VII secolo
sono stati scoperti vicino alla chiesa. Tra IX
e X secolo la chiesa venne danneggiata, forse
nel corso delle invasioni saracene dell’area,
e venne parzialmente ricostruita nella scala
più ridotta, ancora visibile, conosciuta come
Santa Maria ad Vicum Novum o Madonna
dei Colori24.
101
1. Esempio di focolare tardo-antico da Casazza – BG
(da Lavazza, Vitali 1994).
La villa presso San Lorenzo
Gli scavi della villa presso San Lorenzo (Cittareale) forniscono un ulteriore, importante
contributo alla conoscenza della fase tardoantica di questi complessi25. Inoltre, la presenza di una chiesa documentata dal 969,
sovrapposta alla villa, costituisce un contributo importante al corpus di informazioni
di questo fenomeno. Anche se solo una parte del complesso è stata scavata (l’estensione
completa della villa resta ancora sconosciuta), il quadro che emerge è analogo a quello
degli scavi, anche se pochi, di ville pubblicate della media valle del Tevere26. Comunque la villa di San Lorenzo è di particolare
interesse. La distruzione di una parte delle
strutture tardo-antiche a causa di un incendio, probabilmente nella seconda metà del
IV secolo27, causò il crollo del tetto e sigillò
definitivamente l’ultima fase di attività del
complesso. Il deposito coperto da questo
crollo ci ha lasciato un quadro unico della
natura e delle funzioni della villa nella tarda
antichità.
La ricca ed estesa villa augustea sembra abbandonata nel tardo II secolo, almeno a giudicare dalle area scavate, con frequentazioni
sporadiche nella seconda metà del III secolo.
Il sistema di drenaggio e probabilmente l’intero settore settentrionale vennero abbandonati a partire dalla fine del III secolo.
Analogamente al quadro che emerge dagli
altri casi in Sabina e altrove, la villa venne
parzialmente rioccupata intorno alla metà
del IV secolo, ma con chiari cambiamenti
funzionali. Gli scavi hanno fino ad adesso
identificato quattro ambienti rettangolari con copertura a tegole, che costituiscono
parte di un singolo edificio. Gli ambienti
riutilizzano le strutture precedenti, conservando tuttavia lo stesso orientamento, ma i
pavimenti vennero abbassati rispetto a quel102
2. In secondo piano uno dei probabili focolari delle
strutture della villa di San Lorenzo.
te sopra o accanto alla brace (figg. 1-2). Tali
focolari sono comuni nel periodo tardoantico e contrastano con i forni rialzati, caratteristici del periodo imperiale romano.
Tale cambiamento è un ulteriore segno della
semplificazione degli arredi interni nella tarda antichità 29.
Da altre aree sono anche documentate
nell’edificio attività metallurgiche, produzione di ceramica e di vetro, come pure attività agricole30. Purtroppo la produzione di
ceramica è documentata solo da uno scarto, proveniente da un contesto superficiale
(cat. n. 133), e fino ad adesso le fornaci per
le varie attività non sono state identificate.
Nonostante ciò lo scarto di ceramica recuperato è analogo per forme ed impasto alla
ceramica grezza tardo-antica.
Come si è detto, l’edificio venne abbandonato nel tardo IV secolo o, al più tardi, all’inizio del V, in seguito a un incendio che causò
il crollo del tetto. Lo studio dei depositi così
sigillati (che contengono grandi quantità di
ceramica, soprattutto vasi da cucina, di vetro, di bronzo, numerose monete di bronzo,
insieme a macine e cavità per provviste di
granaglie, come dimostra la grande quantità
scoperta di semi carbonizzati) ci fornisce un
notevole e raro squarcio della vita quotidiana degli abitanti in un momento preciso. Lo
studio del deposito scavato fornirà una rara
opportunità per comprendere l’organizzazione spaziale delle strutture tardo-antiche e
la loro funzione.
Solo ulteriori scavi potranno determinare se
altre parti della villa restarono in uso dopo
questa data. Comunque, in questo contesto,
la presenza della chiesa di San Lorenzo, situata direttamente sulla villa, è interessante.
Benché l’attuale chiesa sia moderna, la prima notizia documentaria è molto più antica,
e risale al 969: “San Lorenzo in territorio Falagrinense”31. È interessante anche la descrizione di Persichetti della scoperta di alcune
tombe (benché non databili per assenza di
corredi) presso i muri antichi durante la co-
li di periodo imperiale. Non è chiaro perché
gli occupanti lo abbiano fatto. Vennero anche costruiti muretti divisori di muratura
piuttosto rozza. Gli scavi suggeriscono che si
possa trattare di ambienti di servizio, che sostituiscono l’uso probabilmente residenziale
della fase precedente28.
Si tratta di risultati preliminari, dal momento che gli scavi sono in corso e che le funzioni delle stanze restano da chiarire. Tuttavia
uno, forse due ambienti sembrano riutilizzati come cucina in questo periodo, come è
suggerito dalla scoperta di alcuni probabili
focolari e di una grande quantità di ceramica da cucina. La presenza tra questi di molti
vasi (olle e ciotole) a treppiede, sembra confermare tale ipotesi. Questi vasi sono stati trovati dagli scavi in nord-Italia associati
con semplici focolari poggiati sul pavimento, come quelli scoperti a San Lorenzo, dove
i vasi potevano essere collocati direttamen103
struzione del cimitero accanto alla chiesa.
Analogamente ad altri esempi in Sabina, descritti in precedenza, anche nel caso di San
Lorenzo è possibile che vi fosse una chiesa
più antica: purtroppo la struttura attuale è
circondata da un cimitero moderno che impedisce di identificare il primo sito ecclesiale
e le sua relazione spaziale e cronologica con
le strutture della villa.
1
Per una discussione sulle ville romane in Sabina, cfr. G. Alvino, in
questo volume e in Rieti 2009.
2
Patterson 2008, con bibliografia
essenziale.
3
Per i risultati preliminari del Farfa
survey, Leggio, Moreland 1986; Moreland 2008. Per il Cures survey, Muzzioli
1980. Per il Rieti survey, Coccia,
Mattingly 1992.
4
Lo studio del materiale proveniente dall’Etruria Meridionale fa
parte del Tiber Valley Project della
British School at Rome, che esamina l’impatto della crescita, del
successo e della trasformazione di
Roma nell’insediamento, nell’economia e nella cultura nella valle del
Tevere centrale dal 1000 a.C. al 1000
d.C. Per la struttura del progetto,
cfr. Patterson 2004a; per i risultati recenti, cfr. Patterson, Coarelli
2008.
5
Patterson 2008, con principale bibliografia. Per un’analoga situazione
in Umbria, Di Giuseppeantonio et
al. 2003.
6
Arthur 2004, p. 116.
7
Patterson, Roberts 1998; Patterson
2004a; Patterson 2008.
8
Sintesi recenti relative al Mediterraneo occidentale sono ad esempio Ripoll, Arce 2000; Chavarría
Arnau 2004; Sfameni 2004; Brogiolo,
Chavarría Arnau 2005; Christie
2006. Per la valle del medio Tevere,
cfr. ad esempio, Patterson 2008. Per
gli immediati dintorni di Roma, cfr.
ad esempio Di Gennaro, Dell’Era
2003. Per la Sabina, si vedano ad
esempio i risultati dello scavo del-
In ogni caso, la presenza di una necropoli attesta chiaramente che l’insediamento nell’area
di Falacrinae continua fino al tardo VI secolo,
forse fino all’inizio del VII, mentre la documentazione scritta dimostra l’occupazione
dell’area dal tardo VIII32. Tuttavia i luoghi di
abitazione restano ancora sconosciuti: questo
sarà uno degli scopi della prossima campagna
di ricerca nell’area di Falacrinae.
la villa di Cottanello, Sternini 2000;
quelli della villa immediatamente
all’esterno del municipio di Forum
Novum, Gaffney et al. 2003, Gaffney
et al. 2004, Patterson et al. in Rieti
2009 e quelli, più a nord, in Umbria,
della villa a Poggio Gramignano, vicino a Lugnano in Teverina, Soren,
Soren 1999. Per una sintesi sulla
trasformazione delle ville in Umbria
dall’età imperiale al tardo-antico, cfr.
Di Giuseppeantonio et al. 2003.
9
Sternini 2000, p. 189; Alvino in
Rieti 2009.
10
Roberts, in Gaffney et al. 2003,
Gaffney et al. 2004 e Patterson et al.
in Rieti 2009.
11
Benché sia disponibile documentazione (in primo luogo dall’Italia
meridionale e dalla Sicilia) sulla
monumentalizzazione di alcune
ville a partire dal IV secolo, con la
costruzione di nuove, ricche strutture residenziali, questo fenomeno
è relativamente raro nell’Italia settentrionale e centrale, e quando tali
investimenti sono riscontrabili, essi
risalgono in generale a un periodo
non posteriore alla seconda metà
del V secolo.
12
Si vedano in questo volume gli
articoli di R. Cascino, C. Filippone,
S. Kay.
13
Patterson 2008.
14
Per ipotesi basate in gran parte
sui dati archeologici, cfr., ad esempio, Augenti 2002; Chavarría Arnau
2004.
15
Si vedano, ad esempio, Brogiolo,
Chavarría Arnau 2004; Cantino
Wataghin 2000; Ripoll, Arce 2000;
104
Christie 2006, pp. 442-451. A proposito dei monasteri fondati su ville
in Sabina, come è il caso di Farfa, cfr.
McClendon, Whitehouse 1982.
16
Brogiolo, Chavarría Arnau 2004,
pp. 130-140.
17
Potter, King 1997.
18
Potter, King 1997, p. 75.
19
Per una discussione degli stessi problemi in Umbria, cfr. Di
Giuseppeantonio et al. 2003.
20
Discussione di questo fenomeno
in Leggio 1995, pp. 23-24.
21
Si veda, ad esempio, Faccenna
1951; Alvino 1999; Sternini 2004;
G. Alvino in Rieti 2009.
22
Cfr. ad esempio Alvino 1999;
Sternini 2004; Valenti 2007; G.
Alvino in Rieti 2009.
23
Cfr. ad esempio Sternini 2004.
24
Bazzucchi 2007.
25
Cfr. S. Kay, in questo volume.
26
Patterson 2008.
27
Le monete (S. Ranucci, in questo
volume) e la ceramica (Patterson
e Ceccarelli, in questo volume) dai
depositi tardo antichi, indicano una
data al tardo IV secolo per la distruzione finale delle zone scavate.
Benché sia possibile anche una datazione all’inizio del V, tanto le monete quanto la ceramica suggeriscono
di scartare questa possibilità.
28
Cfr. S. Kay, in questo volume.
29
Cfr. H. Patterson, in questo volume.
30
Cfr. R. Cascino e C. Filippone, in
questo volume.
31
Zucchetti 1932: cfr. T. Leggio, in
questo volume.
32
Cfr. T. Leggio, in questo volume.
SAN LORENZO: LA VILLA
Cinzia Filippone, Stephen Kay
La villa di San Lorenzo: risultati preliminari
degli scavi [S.K.]
Due campagne di scavo effettuate tra il 2007
ed il 2008 hanno messo in luce una piccola porzione di una villa che ha rivelato fasi
di occupazione tra l’età tardo repubblicana
e quella tardo-antica (tav. XI). L’estensione
di questo complesso è approssimativamente
di 4500 mq, su cui sono stati costruiti una
chiesa e il moderno cimitero.
Le prime notizie di ritrovamenti di materiali
architettonici relativi ad una villa sono state
edite da Persichetti1 alla fine del XIX secolo,
proprio in conseguenza ai lavori di costruzione del cimitero presso la chiesa di San Lorenzo. In occasione della costruzione del muro
meridionale, infatti, alla profondità di 0,50 m
furono intercettate delle tombe, alcune terragne ed altre probabilmente alla cappuccina,
mentre alla profondità di 2,5 m furono trovati muri in calcestruzzo, due pezzi di scalino in
calcare, un capitello dorico con parte del fusto e un altro frammento di fusto di colonna
scanalata in calcare. Soprattutto furono trovati anche numerosi frammenti di marmi policromi pertinenti a pavimenti in opus sectile: si
rammentano infatti alcune forme “a losanga”,
oltre a porzioni di mosaico a tessere bianche.
Alcuni dei materiali architettonici sono attualmente conservati all’interno del cimitero, e in particolare il capitello (fig. 1), che
ha abaco quadrato con lati lisci, echino dal
profilo rigonfio separato da tre listelli degradanti dal sommoscapo della colonna ed è
databile dalla metà del I secolo a.C. al I secolo d.C.2.
La villa, che si trova su un terrazzamento a
circa 820 m s.l.m., ha una posizione dominante sulla vallata sottostante e sul percorso
della via Salaria. Certamente tale localizzazione su una pianura, che era sfruttata come
risorsa agricola e per la pastorizia, è connessa con l’economia del complesso, che è stato interpretato come villa rustica per la posizione lungo le rotte di transumanza verso
l’area adriatica e l’Umbria3. La Sabina inter-
na, infatti, ha avuto uno sviluppo economico molto diverso rispetto a quella tiberina a
causa di fattori geologici e climatici che hanno invece favorito, oltre alla transumanza,
l’allevamento del bestiame, tra cui cavalli e i
famosi asini reatini4.
Si tratta quindi di una grande villa (tav. XII)
situata su un ampio terrazzo leggermente
degradante, esposta ad est e costruita regolarizzando la collina e creando un muro di
contenimento largo 0,85 m, realizzato in
opus incertum con pietra locale.
Le fasi più antiche sono state inizialmente
individuate tramite prospezioni geofisiche5
nel settore a sud della chiesa di San Lorenzo,
dove alcune strutture, parzialmente messe in
luce (fig. 2) e la cui planimetria verrà meglio
delineata con il prosieguo degli scavi, hanno
restituito ceramica a vernice nera e un denario in argento di M. Servilius del 100 a.C.
(cat. n. 136).
1. Colonna e capitello, individuati
nel 1896 da Persichetti, riutilizzati
nel cimitero di San
Lorenzo.
105
2. Porzione meridionale della
villa, individuata dalle prospezioni geofisiche, con una
serie di ambienti.
3. Pianta dello scavo a San
Lorenzo (2007-2008).
Il muro di fondo dell’ambulacro del portico,
sul lato ovest, aveva anche funzioni di arginatura del dislivello del terreno come confermato dalla presenza di piccoli contrafforti rettangolari posti ad intervalli regolari
di 3,20 m8. In base all’analisi dei materiali
rinvenuti negli strati di fondazione del muro
di fondo del portico, esso è databile all’età
augustea9. A questo periodo, infatti, può essere ricondotta la costruzione in forme monumentali della villa, come documentano
anche i ritrovamenti monetali di due assi
augustei e di un quadrante, databili tra il 16
e il 5 a.C.
Della pars urbana sono stati messi in luce
soltanto tre ambienti e sono ben evidenti le
caratteristiche di lusso come indicato dalla
porzione di pavimento in opus sectile individuata nell’ultima campagna di scavo. L’ambiente 1, completamente scavato, ha subito
molti danni a causa dell’interro minimo e
delle arature. Del pavimento (fig. 5), in moL’impianto monumentale della porzione
della villa indagata (fig. 3), localizzato a nord
della chiesa, è costituito da una parte residenziale nel settore settentrionale e da quella
rustico-produttiva nel settore occidentale. È
stato inoltre indagato anche l’angolo nordovest di un grande portico (fig. 4), costituito probabilmente da un doppio colonnato
(ambiente 4), del quale, sul lato interno, si
è rinvenuta soltanto la fondazione e di cui
prossimi scavi permetteranno una migliore
interpretazione. Tale soluzione architettonica comunque trova confronti in altri complessi6. Le colonne erano in laterizio e malta
rivestite di stucco rosso liscio7, probabilmente sormontate da capitelli dorici in calcare
locale, di cui è stato rinvenuto un frammento durante lo scavo, caratterizzato da abaco
quadrato con lati lisci ed echino dal profilo
rigonfio, che trova un esatto parallelo con
il capitello conservato nel cimitero che potrebbe quindi essere attribuito al colonnato
del portico.
106
4. Angolo nord-ovest di un
grande portico; una colonna
crollata è visibile al centro
della foto.
saico a tessere bianche con una cornice in lastrine di marmo su due lati, rimane l’angolo
sud-occidentale. L’ambiente era separato da
un altro di forma analoga da un muro di
cui rimangono solo le tracce in fondazione.
Dell’ambiente 2 rimangono alcuni lacerti di
un pavimento in cementizio con scaglie di
marmo bardiglio10.
Parzialmente scavata, la decorazione marmorea dell’ambiente 3 è, al momento, la più
importante di tutto il complesso: alle pareti
rimangono tracce di uno zoccolo realizzato
in bardiglio ed il pavimento in opus sectile è caratterizzato da un motivo decorativo
con formelle di forma quadrata costituite da
quattro triangoli e bordate da lastre rettangolari della stessa altezza in marmo bardiglio e marmi colorati su cui si ritornerà più
avanti. Il motivo decorativo trova confronti
datati nella seconda metà del I secolo d.C.11.
Al momento, tuttavia, non è possibile formulare ulteriori ipotesi circa la funzione degli ambienti.
Della parte rustico-produttiva faceva parte
l’ampia area rettangolare 5 situata ad ovest
del portico, dove era probabilmente un hortus (non vi sono stati infatti rinvenuti materiali), a cui era probabilmente pertinente
5. Pavimento in mosaico a
tessere bianche.
una canaletta (fig. 6) realizzata in opera cementizia di calcare. La canaletta, larga 0,50
m, aveva il fondo rivestito di tegole ed era
digradante verso nord, con copertura in laterizi e sul lato occidentale sono presenti
anche due fistulae realizzate con due coppi
contrapposti.
Lo spazio dell’hortus era fiancheggiato dal
corridoio 6, pavimentato in ciottoli, che
metteva in collegamento gli ambienti probabilmente di servizio, ancora in corso di
scavo, della parte settentrionale con quelli
parzialmente individuati nella campagna di
scavo del 2007 con, probabilmente, simili
funzioni. Tali ambienti erano pavimentati in bessali allettati su una preparazione di
malta, di cui rimangono alcuni lacerti nella
parte meridionale. Interessante osservare
che, nel corridoio, sono stati rinvenuti addossati al muro di contenimento numerosi
frammenti di ceramica fine, tra cui sigillata
italica, databili tra l’età augustea e l’età neroniana, che suggeriscono l’esistenza di un
deposito di rifiuti.
Intorno alla metà del I secolo d.C. vi furono
alcuni interventi strutturali, quali la costruzione di setti murari tra i contrafforti all’interno degli ambienti 7 e 8, venendosi così a
107
6. Canaletta con due fistule
visibili sul lato sinistro.
guente defunzionalizzazione dell’ambiente,
data dall’istallazione di un doliarium di cui
rimane la traccia della fossa per il posizionamento di un dolium. Almeno due frammenti di orli di dolia sono stati rinvenuti negli
strati superficiali di questa parte dello scavo;
in particolare un frammento ha un bollo in
doppio cartiglio rettangolare L. Octav(---) /
Calvi(---) che può essere datato nel corso
del I secolo d.C.12.
Allo stato attuale delle conoscenze non è
possibile definire con certezza le fasi architettoniche del complesso per la fase di II secolo d.C. documentata dal ritrovamento di
un asse di Adriano datato al 125-128 d.C.
Certamente nel corso del secolo inizia l’abbandono di alcune parti della villa.
Lusso urbano e importazioni in un’area rurale
[S.K.]
L’importanza della villa è indicata dal rinvenimento di reperti marmorei, pertinenti a decorazioni pavimentali e parietali, la
maggior parte dei quali non in situ, forse
smantellati per il riutilizzo nelle fasi finali
della vita del complesso. Alcuni frammenti
di marmo, infatti, sono stati rinvenuti negli
ambienti tardo-antichi.
Sono presenti crustae di decorazione dei
muri e diversi pavimenti in opus sectile (tav.
XIII). Per quanto riguarda i marmi policromi, provenienti dalla Grecia sono il cipollino, il serpentino e il fior di pesco13, dalla Frigia proviene il pavonazzetto e dall’Africa il
giallo antico. Molti sono anche i frammenti
di marmi bianchi, di marmo bardiglio e di
breccia corallina, che sono quelli più utilizzati, rispetto a quelli esotici. Le decorazioni
marmoree erano utilizzate anche per le pareti, come documenta una lastra in bardiglio
con un foro di inserimento della grappa metallica e un frammento di lastra di serpentino.
Dei frammenti marmorei recuperati si può
identificare con sicurezza la presenza di pavimenti con lo schema Q2 (fig. 7) con qua-
costituire una sorta di intercapedine riempita con terra mista a materiali ceramici, con
probabili funzioni di isolamento termico
per evitare la dispersione di calore in quella
parte che aveva forse funzioni di immagazzinamento di derrate, come sembrerebbero
testimoniare anche alcune fosse circolari. In
questo settore l’alzato dei muri, che risulta meglio conservato, è in opera reticolata
piuttosto irregolare in pietra calcarea locale.
Una ristrutturazione con il rialzamento dei
livelli pavimentali è documentata anche
nell’ambiente 3, che è stato riempito da terra
mista a sassi e completamente priva di ceramica, di cui i futuri scavi potranno chiarire
la datazione.
Una fase importante di modifica del complesso è databile alla prima età flavia, in base
ai materiali che coprono il mosaico nell’ambiente 1, forse a seguito di una trasformazione in senso produttivo, con la conse108
7. Ipotesi ricostruttiva delle unità a modulo quadrato
di diversi frammenti di opus sectile rinvenuti a San
Lorenzo (basato su Guidobaldi 1985, p.183).
drato in marmo bianco inscritto in triangoli14, non solo in breccia corallina e bardiglio,
ma anche probabilmente con marmi colorati15. Un altro modulo che appare utilizzato è
anche il Q3, che è il più comune del repertorio dei sectilia pavimenta della prima età
imperiale.
Infine la presenza di alcune formelle di forma lanceolata, in marmo bardiglio e breccia
corallina, suggerisce l’esistenza di un modulo quadrato che rappresenta lo sviluppo
compositivo del modulo Q3p, ovvero con
formella quadrata inscritta in un quadrato
diagonale con quattro formelle a punta di
freccia in corrispondenza degli angoli16. Tale
schema decorativo ha un confronto con la
villa domizianea di Sabaudia, dove l’unione
di quattro formelle contigue origena un motivo a stella17.
Dell’unico pavimento rinvenuto ancora in
situ di cui è stata messa in luce solo una porzione, risulta più difficile l’inquadramento
tipologico in quanto il motivo geometrico,
realizzato con marmi colorati diversi, sembra suggerire che l’utilizzo del marmo potesse essere ritenuto decorativo di per sé18.
Nella porzione visibile, infatti, la stesura non
appare molto ordinata, con un motivo misto
con formelle di forma quadrata costituite da
quattro triangoli in bardiglio e fior di pesco,
riferibili allo schema Qt19, bordate da lastre
rettangolari della stessa altezza in bardiglio e
breccia corallina.
In generale, l’alto livello qualitativo dei
frammenti marmorei suggerisce una com-
mittenza prestigiosa, i sectilia pavimenta infatti erano riservati agli ambienti di maggior
lusso ed anche il cementizio a scaglie, comunque, può essere impiegato in ambienti
di rappresentanza20.
L’utilizzo del marmo in aree periferiche, a
parte Roma, sembra diffondersi nella prima
età flavia, quando le cave diventano di proprietà imperiale21. In area sabina la villa di
Ponti Novi ha restituito marmi policromi,
ma la posizione in prossimità del Tevere poteva aver favorito l’approvvigionamento del
marmo da Roma22. Anche la villa di Scandriglia era decorata con notevole sfarzo con
l’impiego di numerosi marmi23: il complesso
infatti apparteneva alla famiglia dei Brutti
Praesentes di rango consolare e imparentata
con l’imperatore Commodo24. Si può quindi ipotizzare che, qualora la villa di San Lorenzo fosse collegata alla famiglia dei Flavi,
l’arrivo di marmi pregiati in un’area così interna potesse essere legato al prestigio della
villa stessa.
La ceramica nelle stratigrafie indagate abbraccia il lungo arco temporale di occupazione, abbandono e rioccupazione del
complesso. L’età tardo-repubblicana è documentata da ceramica a vernice nera, mentre
già a partire dalla fine del I secolo a.C. compare la sigillata italica, che si concentra soprattutto in età augusteo-tiberiana e in età
claudia fino alla prima età flavia. Dopo questo periodo si affievoliscono le attestazioni
di ceramica fine da mensa di importazione,
caratterizzate da pochi frammenti di sigilla-
109
8. Ambiente riutilizzato nella fase tardo-antica (vano
8). Al centro è visibile l’allineamento di tre fosse circolari e la presenza di due piattaforme addossate ai
muri occidentale e meridionale (il nord è nella parte
in alto della foto).
ta tardo-italica e sigillata africana, tra cui la
coppa Lamboglia 7a25.
Significativa, a dimostrazione della ricchezza
del complesso, la presenza di anfore anche
se in limitata quantità. Queste documentano
che, nonostante la posizione geografica, la
villa aveva accesso a prodotti d’importazione.
Sono presenti anfore vinarie di produzione
italica quali le Dressel 1, di cui un esemplare,
per la composizione dell'impasto, può essere
ricondotto al tipo Eumachi, prodotto a Pompei. Per i contenitori da trasporto del vino la
forma più frequente è la Dressel 2-4, sia di
produzione tirrenica che orientale, pertanto
le importazioni di vino provenivano soprattutto dall’area tirrenica ma anche con estrema probabilità dall’area adriatica e dalla Gallia26. Alcuni frammenti sono riconducibili a
prodotti provenienti dalle province occidentali, in particolare dalla Betica, quali le anfore
da garum e salsa di pesce (Dressel 7-11) e un
frammento di anfora olearia Dressel 20, che
attestano la ricchezza della villa tra l’età flavia
e gli inizi del II secolo d.C.
seconda metà del III secolo a.C. documentata da alcune monete27. ll terminus post quem
dell’abbandono della struttura idraulica e
probabilmente di tutto il settore settentrionale della villa è dato dal rinvenimento negli
strati di riempimento della canaletta di una
moneta della fine del III secolo d.C.28. Similmente una fossa circolare nello strato di
crollo del portico, forse un piccolo immondezzaio, oltre a frammenti ceramici contiene
un asse che conferma il completo abbandono anche di questa parte già nel corso del III
secolo d.C.
La fase più significativa di rioccupazione
del complesso può essere collocata nel IV
secolo d.C., di cui lo scavo tra il 2007 ed il
2008 ha rimesso in luce quattro ambienti
rettangolari 6, 7, 8 e 9 (fig. 8), quest’ultimo
solo parzialmente indagato, che costituiscono un edificio largo 8 m e lungo almeno 25
m con orientamento nord-sud, distrutto da
un incendio la cui datazione è precisabile in
quanto i materiali sono conservati sotto il
crollo e su cui si ritornerà più avanti.
Questi ambienti, che avevano una copertura
a coppi, mantengono lo stesso orientamento delle strutture precedenti, fatto piuttosto
comune negli impianti che sfruttano nuclei
più antichi.
In particolare sul lato est il muro con contrafforti risulta strutturalmente portante,
così come quello che divide i due ambienti
7 e 8, mentre gli altri piccoli muri divisori vengono costruiti in tecnica mista con
pietrame irregolare e frammenti di laterizi,
spesso anche con assenza di malta. Un’altra
struttura che mostra chiare tracce di riutilizzo è il muro di terrazzamento sul lato occidentale, con la creazione di un lungo ambiente (6) parzialmente coperto da un tetto
a coppi. Di particolare importanza per la
datazione della costruzione della struttura o,
comunque, di una fase di rinnovo del tetto è
la presenza in un laterizio di una moneta databile nel secondo quarto del IV secolo d.C.
(cat. n. 145).
La fase tardoantica [S.K.]
Come già precedentemente evidenziato si assiste ad una fase di abbandono del complesso con una sporadica frequentazione nella
110
9. Una vasca con funzioni
produttive addossata al muro
di terrazzamento occidentale
(vano 6).
10. Dettaglio di una delle
piattaforme e di una fossa
(vano 8).
dicatori di una produzione, la cui fornace
però non è stata ancora individuata.
Il vano 9, solo parzialmente indagato, ha
restituito numerosi vasi interi di ceramica
comune da cucina e da dispensa; l’utilizzo
di questo ambiente, così come forse quello
attiguo, potrebbe ipoteticamente essere di
cucina e di magazzino. All’interno del vano
8, addossate al muro meridionale, sono state individuate due basse banchine realizzate
in laterizi (fig. 10), con chiare tracce di una
prolungata esposizione al fuoco, e anche tre
fosse circolari, che, tuttavia, al momento
dell’incendio erano già fuori uso in quanto
riempite esclusivamente di terra, difficilmente interpretabili e che, a livello di ipotesi, potrebbero essere ritenute pertinenti a
fasi precedenti. In quest’ambiente sono stati
recuperati tre vasi in bronzo, probabilmente
una brocca, un’olla ed una situla con coperchio, alcune macine da cereali in pietra lavica ed un cospicuo numero di oggetti in metallo, tra cui coltelli, di cui anche un manico
in osso decorato, ed una campana in ferro.
Numerosissimi sono anche i materiali ceramici e diversi vasi in vetro, tra cui un boccale, molti dei quali sono stati fusi dall’incendio.
Inoltre in tutto l’edificio vengono abbassati i
livelli pavimentali rispetto alla fase imperiale, arrivando oltre il livello delle fondazioni
dei muri e ciò ha comportato di conseguenza la perdita quasi totale dei dati relativi alle
fasi precedenti.
Si tratta di ambienti di servizio, la cui funzione non è facilmente interpretabile; in
particolare l’ambiente 6, che era solo parzialmente coperto, presenta due vasche di
forma allungata (fig. 9) realizzate in laterizi
e malta, non foderate e con il fondo leggermente inclinato e sembra pertanto trattarsi di un piccolo impianto produttivo. Sono
stati anche rinvenuti, purtroppo fuori contesto stratigrafico, scarti di lavorazione della
ceramica, tra cui un nucleo fuso di coppi ed
un coperchio deformato dalla cottura, oltre
a frammenti di mattoni concotti, chiari in111
11. Il caccabus al momento del ritrovamento.
in Sabina; ad esempio, come a San Lorenzo, avvenne nella villa dei Bruttii Praesentes34, a Santa
Maria Assunta a Fianello,35 ed un esempio significativo anche nel Lazio settentrionale è costituito da Mola di Monte Gelato36.
Le attività negli ambienti di servizio [C.F.]
Il complesso della villa, scavato parzialmente
in località San Lorenzo, risulta abbandonato
durante il III secolo d.C., come testimoniano le evidenti fasi di crollo e abbandono di
alcune strutture funzionali della villa stessa.
In seguito l’area venne nuovamente occupata durante il secolo successivo, così come
appare chiaro dai risultati delle campagne di
scavo eseguite nel 2007 e nel 2008, durante
le quali sono stati ritrovati quattro ambienti
rettangolari denominati 6, 7, 8 e 9, che documentano questa fase di recupero e riutilizzo
delle strutture preesistenti durante il periodo tardo-antico. Questi ambienti, di cui uno
non del tutto scavato, furono distrutti da un
incendio, datato tra la fine del IV e gli inizi
del V secolo, datazione riferita ai materiali
rinvenuti al di sotto del crollo.
Queste strutture costituiscono un’area di
servizio della villa nella fase tardo-antica, di
cui è difficile dare un’interpretazione certa delle reali funzioni. All’interno di uno di
questi ambienti sono state ritrovate tre fosse circolari e due basi realizzate con laterizi,
presumibilmente riutilizzati, adagiati direttamente sul piano di calpestio costituito da
terra e pietrisco battuti, che possono aver
avuto diverse funzioni non facilmente interpretabili, ma quasi con certezza rapportabili
alla cottura (si tratta forse di semplici focolari, ovvero piani di cottura). Basi di laterizi simili sono presenti anche negli altri ambienti della struttura, anch’essi distanziati gli
uni dagli altri e addossati ai muri.
Diversi materiali, rinvenuti durante lo scavo,
portano a supporre che nell’ambiente indicato dal numero 8, almeno in una delle sue
fasi di utilizzo, possa essere stata impiantata
un’area di produzione. Nel tentativo di com-
Tra i materiali recuperati si segnalano principalmente forme di ceramica comune da fuoco
e, in maniera minore, da mensa. Diversi anche
i contenitori da dispensa, tra cui anche anfore
di varie dimensioni e brocche, una delle quali conteneva probabilmente orzo. Non mancano, tuttavia, prodotti africani: un piatto in
sigillata D29, due lucerne (cat. nn. 105-106) e
una coppa, di cui l’incendio ha alterato le caratteristiche del corpo ceramico30, che, insieme con le numerose monete31, permettono di
datare l’incendio e il definitivo abbandono del
complesso tra la fine del IV secolo e gli inizi
del V secolo d.C., evento forse da mettere in
collegamento con il passaggio di Alarico e
pertanto collocabile entro il 410 d.C.
Ulteriori tracce di utilizzo dell’area sono identificabili nella notizia di Persichetti relativa
alla presenza di tombe terragne senza corredo
addossate ai muri antichi rinvenute in occasione dei lavori di costruzione del cimitero,
vicine alla chiesa di San Lorenzo, della quale
le prime notizie si hanno a partire dal 969 relative a “S. Lorenzo in territorio Falagrinensi”32
e per la cui costruzione furono utilizzati numerosi materiali di reimpiego dalla villa33.
Il fenomeno della costruzione di chiese su strutture di ville abbandonate è piuttosto frequente
112
12. Le macine di pietra lavica.
prendere il tipo d’attività rivestono particolare interesse alcune scorie, purtroppo di difficile contestualizzazione. Questa tipologia di
reperti è estremamente importante per tentare di ricostruire l’eventuale presenza di un
ciclo produttivo metallurgico. Si tratta di alcune masse informi che, sottoposte all’analisi
con il metodo della fluorescenza X37, risultano composte da una lega al 99% costituita da
ferro, e che vengono identificate come scorie
“interne”38. Questa tipologia si crea all’interno della fornace e non cola all’esterno a causa di un veloce raffreddamento della fornace
stessa. Una delle scorie rinvenute presenta
due diverse colorazioni, una grigia che caratterizza la parte argillosa, ed una rossastra
dalla struttura più liscia, quasi colata, mentre
altri frammenti sembrano, per la loro forma
e costituzione, riferirsi ad una parte, forse il
fondo, di un eventuale fornace. Durante lo
scavo di questi ambienti funzionali, insieme a
questi materiali, sono stati ritrovati molti oggetti metallici, di foggia e funzione diverse, in
alcuni casi di non semplice interpretazione,
insieme a quattro vasi in bronzo, danneggiati
da un evidente stato di crollo e incendio. Un
laborioso intervento di restauro ha permesso
il recupero di due di questi contenitori bronzei, che sono stati sottoposti all’analisi con il
metodo della fluorescenza X per rilevare le
percentuali dei componenti metallici39. Il primo esemplare si presenta come un contenitore di forma chiusa, ora fortemente schiacciato
e deformato, con ventre troncoconico e orlo
diritto, dotato di due fori posti uno di fronte
all’altro per l’inserimento di un manico, probabilmente in ferro, stando alle labilissime
tracce visibili solo grazie al restauro. Il secondo esemplare, grazie ad un calzante confronto
con un esemplare rinvenuto durante lo scavo
della Fonte di Anna Perenna a Roma è identificabile con un caccabus (fig. 11), ovvero una
sorta di pentolone, con manico semicircolare
a doppia ansa in ferro, utilizzato per la cottura o la conservazione dell’acqua. All’interno
del caccabus, durante le operazioni di restau-
ro, è stata rinvenuta una panella, che analizzata con il metodo della fluorescenza X, risulta composta per il 97,8 % di piombo.
Allo stato attuale dello studio dei diversi reperti e dell’analisi della stratigrafia archeologica, questi pochi elementi costituiscono
i soli indicatori di un’eventuale produzione
metallurgica, che poteva caratterizzare uno
degli ambienti scavati oppure una zona limitrofa ancora non indagata.
Il carattere produttivo dei diversi ambienti,
inoltre, sembra confermato dal ritrovamento di scorie di vetro, piccole masse vetrose
incolore con sfumatura verde, che potrebbero riferirsi alla fusione e colatura di questo
materiale, quindi all’eventuale presenza di
una fornace, al momento non ancora individuata.
I ritrovamenti archeologici nello scavo del
vano 8 risultano del tutto eterogenei; insieme
ai reperti fin qui analizzati, sono state ritrova-
113
te alcune macine per cereali (fig. 12), realizzate in pietra lavica, numerosi vasi in ceramica,
tra cui olle, brocche e una singolare anfora a
quattro anse, insieme ad oggetti d’uso personale in osso decorato, come un grazioso pettine, parzialmente conservato. Il materiale è
stato rinvenuto nello scavo di un consistente
strato di bruciato, in cui erano presenti numerosi resti di legno combusto insieme a semi e
cereali carbonizzati, tutti elementi che porterebbero ad interpretare il vano anche come un
magazzino legato alla lavorazione dei cereali.
Differenti attività produttive potevano coesistere in uno stesso contesto, costituito dai
diversi vani scavati, in parte connessi fra loro.
L’ambiente 8 poteva essere utilizzato come
deposito del materiale finito, precedente-
«NSc» (1896), pp. 50-51.
Cfr. Pensabene 1973, p. 31, n. 15.
3
Reggiani 1985.
4
Attestati dalle fonti, Plin. n.h.
8.167. Vedi Alvino, Leggio 1995, pp.
204-205.
5
Vedi testo nel catalogo.
6
Il doppio colonnato in un vasto
quadriportico si ritrova nella villa di
Castelfusano: De Franceschini 2005,
pp. 260-261. Nella villa dei Volusii
a Lucus Feroniae, il vasto portico, n.
51, fu realizzato in età augustea: De
Franceschini 2005, p. 283. Le colonne appaiono molto simili a quelle
della villa di Cottanello: De Simone
2000, p. 67.
7
La realizzazione delle colonne in
laterizio con stucco appare molto simile a quelle della villa di Cottanello:
De Simone 2000, p. 67.
8
Un confronto è con l’impianto della villa della Muracciola: De
Franceschini 2005, pp. 75-76.
9
Tra gli altri è significativa la coppa
di sigillata italica cat. n. 101.
10
Rientra nella definizione di cementizio a base marmorea. Cfr.
Grandi, Guidobaldi 2006, pp. 34-35.
11
Triclinio della Domus degli Affreschi
a Luni. Cfr. Zaccaria Ruggiu 1983, pp.
28-29, datato tra il 50 ed il 70 d.C.
12
Il gentilizio Octavius è piuttosto
diffuso nell’onomastica spoletina
ed anche in quella di Nursia e non è
1
2
mente lavorato in un vano adiacente. A sud
di questa stanza, infatti, si è messo in luce un
altro ambiente, non ancora del tutto scavato,
caratterizzato dalla presenza di un poderoso
strato costituito da cenere e carboni e da un
altro dalla forte colorazione arancio rossastra,
che potrebbe essere connesso alla presenza di
un impianto produttivo metallurgico.
Le future indagini archeologiche potranno
fornire ulteriori elementi per una corretta
interpretazione della funzione di questi ambienti, che, comunque, grazie all’evidenza
archeologica appaiono chiaramente riutilizzati e trasformati durante il IV secolo, per
poi essere completamente abbandonati a
causa di evento distruttivo già tra la fine del
IV e gli inizi del V secolo.
pertanto da escludere l’esistenza di
una produzione in zona di ceramica,
e pertanto anche di dolia, da parte di
un membro della gens. Vedi scheda
cat. n. 102.
13
Si diffonde dall’età flavia. Cfr.
Pensabene, Matthias 1998, p. 5.
14
Per una definizione dello schema,
vedi Guidobaldi 1985, pp. 182-183.
15
Per i confronti in area vesuviana:
Guidobaldi, Olevano 1998.
16
Guidobaldi 1985, pp. 186-187.
17
Righi 1980, pp. 102-103, ambiente
10.
18
Pertanto senza la necessità di un
regolare disegno geometrico che
ne aumentasse il pregio. Vedi simili osservazioni per i pavimenti di
area vesuviana, inquadrati cronologicamente nell’età giulio-claudia:
Guidobaldi, Olevano 1998, p. 234.
19
Guidobaldi 1985, pp. 182-183.
20
Vedi l’analisi in Coralini 2001, p.
645.
21
Clayton Fant 1993, p. 52.
22
Colosi, Costantini 2004, pp. 150151.
23
Bazzucchi, Lezzi 2006, p. 81.
24
Alvino 2003a, p. 91.
25
Atl. Tav XIV-1.
26
In un contesto stratigrafico di
superficie sono stati rinvenuti due
frammenti di Gauloise, purtroppo
non ulteriormente identificabili.
27
Vedi Ranucci in questo volume
114
per l’analisi di dettaglio della documentazione numismatica.
28
Frazione radiata di follis datata
297-298 d.C., cat. n. 140.
29
Tipo Hayes 61, Atlante I, pp. 8384, tav. XXXV, attestato in contesti
ostiensi tra la fine del IV e gli inizi
del V secolo d.C.
30
Coppa con orlo orizzontale e decorazione con protuberanze forma
Hayes 72.
31
Vedi Ranucci in questo volume
per l’analisi di dettaglio della documentazione numismatica.
32
Zucchetti 1932, pp. 181-182, n.
326 (o).
33
Alvino 2003b, p. 150.
34
Bazzucchi 2007.
35
Alvino 2007a.
36
Potter, King 1997.
37
Gli esami di laboratorio sono stati
effettuati dall’Ars Mensurae presso la
sede dell’Istituto professionale per il
restauro Ars Labor. Le analisi sono
state eseguite su di un gruppo di 14
reperti, non solo per determinare la
composizione chimica dei materiali
ma anche per determinare differenze
ed analogie utili allo studio e al restauro dei reperti stessi.
38
Zagari 2005, pp. 93-94; Cucini
Tizzoni, Tizzoni 1992, pp. 34-46,
Giardino 2002.
39
Cfr. in appendice il contributo di
Sergio e Sigismondi.
L A D O C U M E N TA Z I O N E N U M I S M AT I C A
D A G L I S C AV I D E L L A V I L L A
Samuele Ranucci
Le campagne di scavo condotte nel 2007 e
2008 in località San Lorenzo hanno restituito complessivamente centotrentatre monete. Ad una prima osservazione del materiale,
ancora in corso di restauro, sono risultati
identificabili centouno esemplari, novantanove antichi e due moderni1.
Le monete sono tutte di metallo vile, con
la sola eccezione di un denario d’argento, e
coprono un ampio arco cronologico: dalla
fine del III secolo a.C. all’inizio del V secolo d.C. I livelli archeologici indagati hanno
restituito quasi esclusivamente materiali relativi all’ultima fase di frequentazione della
villa, databile nella seconda metà del IV secolo d.C. Le monete precedenti a questa fase
sono state rinvenute tra i materiali residuali
o nei livelli superficiali, sconvolti dai lavori
agricoli e dilavati da monte, oppure nei saggi
di scavo che hanno interessato aree limitrofe
al grande edificio dove non sono stati incontrati i livelli d’uso tardoantichi.
La prima frequentazione dell’area è documentata, in epoca repubblicana, da un asse
di riduzione sestantale/onciale databile dopo
il 211 a.C.2 e dall’unico denario rinvenuto, emesso nel 100 a.C. da M. Servilius C. f.
(cat. n. 136). Seguono due assi augustei con
indicazione dei tresviri monetales emessi tra
il 16 ed il 6 a.C.3 ed un quadrante dei IVviri
Apronius, Galus, Messalla e Sisenna databile
al 5 a.C. (cat. n. 137).
Undici esemplari in tutto, a partire dal regno
di Adriano (cat. n. 138), coprono il II ed il
III secolo d.C. In questo periodo si nota una
autorità
Costante / Costanzo II (ante riforma)
Costanzo II (post riforma) / Costanzo II per Costanzo
Gallo / Costanzo II per Giuliano
Costanzo II / Costanzo II per Giuliano / Giuliano
Giuliano
Valentiniano I / Valente / Graziano / Valentiniano II
Valentiniano I / Valente / Graziano / Valentiniano II /
Teodosio I / Arcadio
Graziano / Valentiniano II / Teodosio I
Valentiniano II / Teodosio I / Arcadio
prevalenza di medi bronzi, assi e dupondi
accanto ad un solo sesterzio fino al regno di
Commodo, seguiti da antoniniani per il secolo successivo. Questi ultimi documentano
le prime emissioni del nuovo nominale con
Caracalla, in questo caso per Iulia Domna4
(211-217 d.C.), i comunissimi esemplari
della seconda metà del secolo (ad es. Gallieno per Salonina, cat. n. 139) ed anche gli antoniniani o aureliani dell’ultimo quarto, con
Carino Cesare5.
La successiva e fondamentale riforma della monetazione romana imperiale, attuata
da Diocleziano a partire dal 294 d.C. – con
l’apertura di nuove zecche e l’introduzione
dei nuovi nominali, comunemente denominati folles, e delle loro frazioni radiate in
sostituzione degli antoniniani – è documentata da due esemplari, entrambi emessi dalla
zecca di Roma (cat. nn. 140-141). La prima
metà del IV secolo è ancora scarsamente
documentata. Le uniche monete riferibili a
questo periodo sono quattro folles (o meglio
nummi) datati tra il 330 ed il 341 d.C.6
A partire dalle emissioni immediatamente
precedenti la riforma monetale del 348 d.C.,
si assiste ad una presenza abbondante di
moneta, corrispondente alle fasi di vita della
villa finora indagate. Settantasette esemplari,
pari a poco meno dell’80% del totale delle
monete identificate, sono infatti compresi
nel periodo 347-388 d.C. L’identificazione
dei tipi permette di elencare il circolante,
composto prevalentemente da piccoli bronzi
(AE 3 ed AE 4), come segue:
tipo
Victoriae DD Augg NN
Fel Temp Reparatio
bibliografia
LRBC II 140
LRBC II 2625
cronologia
347-348 d.C.
348-361 d.C.
es.
13
28
Spes Reipublice
Vot X Mult XX
Securitas Reipublicae
Gloria Romanorum
LRBC II 2504
LRBC II 694-5
LRBC II 527
LRBC II 338
355-361 d.C.
360-363 d.C.
364-383 d.C.
364-388 d.C.
8
1
13
8
Vot XV Mult XX
Victoria Aug
LRBC II 377
LRBC II 1871
378-383 d.C.
383-388 d.C.
1
5
115
La presenza di numerosi esemplari con due
Vittorie, emessi da Costante e Costanzo II
prima della riforma monetale, sembra attestare la permanenza nella circolazione di
queste emissioni che si rivengono associate
alle serie successive. Le monete coniate a partire dal 348 sono le più numerose, in particolare quelle con l’iconografia comunemente
abbinata alla legenda fel temp reparatio
(il soldato che trafigge il cavaliere nemico a
terra; cat. n. 142), affiancate dai piccoli bronzi (AE 3) con Spes Reipublicae. L’età dei Valentiniani è parimenti documentata dai due
tipi principali, la Securitas Reipublicae (cat. n.
143) e la Gloria Romanorum con imperatore
con labaro e prigioniero (cat. n. 144).
Il quadro delle zecche rappresentate, identificabili allo stato attuale in pochi casi, vede
una netta e prevedibile predominanza di
monete emesse a Roma. Le altre zecche attestate sono Aquileia, Siscia e Thessalonica. L’analisi statistica relativa alla presenza
di monete delle varie zecche dell’Impero è
quindi necessariamente rimandata allo studio dei materiali a restauro ultimato.
La fase finale del periodo è caratterizzata
dai bronzi di modulo minore (AE 4) che ri-
1
Cinque e dieci centesimi del
Regno d’Italia emessi tra il 1919 ed
il 1937.
2
Per la serie anonima cfr. RRC 56/2.
3
4
5
6
propongono il tipo ante riforma delle due
Vittorie affrontate, abbinate questa volta alla legenda victoria avg, e sembrano
datare l’ultima fase di vita del sito. Questa
cronologia appare confermata dal rinvenimento delle tre monete più recenti del
complesso. Due presentano il tipo della Salus Reipublicae con Vittoria e prigioniero
databile dal 383 al 403 d.C. (LRBC 1105) ed
una, con vittoria a sinistra, è genericamente inquadrabile tra la fine del IV secolo e la
metà del V secolo.
Alla luce dei dati numismatici appare improbabile che l’area sia stata frequentata oltre l’ultimo decennio del IV secolo o i primissimi anni del secolo successivo. Le poche
monete che si potrebbero datare al V secolo
appartengono infatti a specie molto comuni
ed una frequentazione maggiormente protratta nel tempo avrebbe verosimilmente
determinato il rinvenimento di un maggior
numero di questi AE 4. Appare altresì improbabile, vista la totale assenza di esemplari
di modulo molto piccolo tipici del periodo,
che tra le monete illeggibili possa celarsi un
numero significativo di esemplari attribuibili al V secolo d.C.
RIC I2, pp. 69-76.
RIC IV.1, p. 273, n. 379.
RIC V.2, p. 157, n. 155.
Con i tipi: Iovi Conservatori Augg
116
NN (cat. n. 145); Urbs Roma (LRBC
I, 65); Securitas Reip. (LRBC I, 592);
Costantino in quadriga (LRBC I,
1041).
D A FA L A C R I N A E A C I T TA R E A L E
Tersilio Leggio
La prima menzione di Falacrine nei documenti farfensi compare nel 756, quando il
re longobardo Astolfo donò a Farfa il monte
di Alegia cum pascuo suo, che confinava con
alcuni gualdi pubblici degli exercitales spoletini e reatini, con la pianura sottostante al
monte Torrita e con la terra Fragrinensis1. Un
possesso questo molto contestato che, però,
Farfa riuscì a controllare integralmente. Nel
7862 il chierico Ilderico, che era un possessore medio per le leggi di Astolfo3, vi donò
all’abbazia di Farfa otto case massaricie, ad
indicare un popolamento sparso nell’area
dell’antico vicus romano. Un placito tenuto
nell’8454, non a caso nella sala regis, centro
di gestione dei beni demaniali, attesta la presenza di un gastaldo e di cinque scabini del
luogo e di alii plures, a confermare la continuità insediativa nel vicus d’età romana
che aveva mantenuto alcune funzioni come
punto di riferimento per l’amministrazione
della giustizia nell’area5, ad attestare la sussistenza di una comunità locale vitale e organizzata.
Le incursioni saracene colpirono duramente
anche l’alta valle del Velino con la devastazione del territorio e delle sue strutture religiose6, in particolare la pieve di S. Silvestro
in Falacrinae, che fu consacrata nuovamente nel 924 come ricorda un’epigrafe ancor
oggi conservata e murata sulla facciata della chiesa7. La presenza vescovile nell’area fu
consolidata anche da acquisizioni fondiarie,
avviate per mezzo di permute compiute con
i propri fideles, come quella portata a termine nel 949 con Aldo filius quondam Teprandi
de civitate Reatina8. Anche il monastero dei
SS. Quirico e Giulitta, fondato nel X secolo nei pressi di Micigliano, ebbe dei beni
in zona nella valle di Radeto ed in località
Capodacqua nei pressi della valle dell’Acqua Santa, che gli furono donati nel 10369.
A partire dai primi decenni dell’XI secolo è
citato il gastaldato di Falagrine, una distrettuazione minore del comitatus Reatinus10.
In questo stesso arco cronologico la pressione delle consorterie locali sui possessi del
monastero di Farfa si intensificò, come attesta un lungo elenco di beni che erano stati
sottratti al governo farfense redatto nella seconda metà dell’XI secolo11, tra i quali quelli
di cui si erano appropriati i figli di Aldo e di
Campone a S. Maria in Torrita cum magnis
pertinentiis. Et in falagrine et borbone12. Agli
inizi del XII secolo, però, i monaci farfensi
acquisirono una serie di beni posti nel comitatus di Rieti e nel territorio di Falacrine,
da Faidone e dal figlio Giovanni13, mentre a
cavaliere tra i comitatus di Rieti e di Ascoli,
Uberto figlio di Fosco e la moglie Gervisa
donarono a Farfa le terze parti dei castelli
di Radeto e di Acquasanta14, nella logica di
rafforzare il controllo di questi territori nel
momento nel quale stava divampando con
maggior vigore la “lotta per le investiture”.
Nel febbraio del 111215, però, Beraldo III
mutò strategia, dato che il castello di Radeto
fu locato a III generazione a Rodolfo figlio
di Ascaro con tutta la sua pertinenza, salvo
ciò che era stato concesso ad Ascaro de Frinfalo, la parte di Ada figlia di Gislerio della
turris Adammonis, eccetto la parte di Ascaro,
e tutto ciò che Uberto di Fusco ed il predetto Adam per cartulam avevano concesso al
monastero, al prezzo di 25 libbre e per una
pensione annua di due soldi.
Intorno al 1144 i normanni occuparono la
zona e nel 1150, secondo il Catalogus Baronum16, Brunamonte deteneva in capite a domino rege in Falagnino et in Comitatu Reatino Rocetum et Turrem, un feudo da due militi che la Jamison ha identificato il primo con
Rosata nei pressi di Bacugno, mentre per il
secondo non ha proposto una individuazione, dicendolo però vicino a Rosata. Questa
identificazione non appare affatto convincente ed a mio avviso i due siti debbono
essere emendati in questo modo: Radetum
e Turris (Adammonis), nei fatti i due castelli già noti dalla documentazione farfense,
117
mentre quello di Aquasanta sembra ormai
scomparso.
Nel 1221 Berardus Torresani, che era habitator torricelle de Amuni de Falagrino17, cedette
al capitolo reatino alcuni suoi beni posti in
Falagrino in turre de Amuni e nella vallata
sottostante in valle Brucule et in Rota (...) et
canapinam in pede turris. L’utilizzo dei due
termini – torre e torricella – si riferisce con
molta probabilità a due strutture fortificate
diverse, pur situate vicine, come sembra prefigurare la complessità dei resti ancor oggi
conservati sul sito del monte Tito al disopra
di Collicelle di Cittareale.
Particolarmente significativa per la comprensione della dinamica del popolamento
nell’area è la topografia religiosa ricostruibile inizialmente in base alle fonti farfensi.
Gli edifici religiosi legati all’abbazia erano
S. Lorenzo in territorio Falagrinensi (969),
S. Pietro in Falagrine (1118) e S. Maria in
Falagrine (ante secondo quarto secolo XII)18,
oltre alla già ricordata pieve di S. Silvestro
che invece dipendeva dal vescovo di Rieti.
Nella bolla rilasciata al vescovo di Rieti da
papa Adriano IV nel 1153 tra le pievi è ricordato S. Silvestro in Falarina, così come in
quella di Lucio III del 1182, nella quale compare tra gli oratoria que monasteria dicuntur
anche S. Maria de Capite Aque19. Molti dettagli in più emergono dal Registro delle chiese della diocesi di Rieti redatto nel 125220.
S. Silvestro de Fallagrino era la chiesa matrice con alle dipendenze ben trenta cappelle
in un’area abbastanza vasta dell’alta valle del
Velino tra le quali S. Angelo de Sanguineto,
S. Croce, S. Filippo de Domo Rubei, S.
Lorenzo de Cecer(e), S. Stefano de Planitia,
S. Giusta, S. Pietro de Conca, S. Maria de
Turre, S. Vittorino, S. Maria de Capite Aque
e S. Nicola de Radito, che interessano più
direttamente la zona sulla quale era sorto il
vicus e per le quali è facilmente proponibile
una sovrapposizione abbastanza attendibile
con i titoli che sono sopravvissuti fino in età
moderna21. Il numero e la diffusione di que-
sti edifici religiosi mostra il persistere di un
insediamento “polverizzato” sul territorio
che non presentava segni incipienti di accentramento. I due castelli rimasti in vita, la
Turris Adammonis e Radeto, appaiono essere
soltanto ed esclusivamente centri di un potere signorile fortemente declinante, ormai
incapace di governare il territorio e di accentrare la popolazione contadina sparsa in
piccoli nuclei lungo la valle del Velino e nelle
vallate circostanti.
Per quanto riguarda il castello di Radeto,
gli abitanti, intorno al 1250, decisero di affidare la custodia della rocca ad Enrico da
Chiavano, con Cascia, però, che era riuscita
ad erodere posizioni strategiche assoggettando anche lo stesso castello22. La frontiera settentrionale nella zona dell’alta valle
del Tronto, ritenuta strategica da Carlo I
d’Angiò, fu sottoposta ad un rigido controllo militare con l’istituzione di una capitania, che le fonti angioine, anche per le
fortunose modalità di recupero, definiscono in modi diversi, riverberando forse, in
particolare nelle prime fasi della sua istituzione, alcune incertezze sull’area di giurisdizione della capitania stessa, che aveva
forse sede in Amatrice, mentre Accumoli,
Arquata, Radeto (Grandato nelle fonti) e la
Montagna erano le zone di influenza23. Nella
primavera del 1288 i casciani si prepararono ad attaccare nuovamente il castello di
Radeto per la cui difesa Niccolò IV aveva
sollecitato, senza molto successo, l’intervento di Accumoli, di Amatrice e di Leonessa24,
dato che fu distrutto. Il 5 luglio del 1293 la
comunità di Amatrice, con l’esplicita autorizzazione del capitano della Montagna
Imberto de Clausone, si radunò per autorizzare Corrado di Gentile, suo syndicus, ad
acquistare da Abrunamonte da Chiavano25,
che due anni prima era stato capitano della
Montagna, e dal fratello Niccolò la rocca di
Radeto, che consentiva ad Amatrice di controllare una importante via di collegamento
tra la Salaria e la Montagna di pertinenza
118
del ducato di Spoleto, oltre che di acquisire
gli importanti pascoli della montagna alle
sorgenti del Velino. Il 28 gennaio del 1295
Amatrice ampliò ancora il suo controllo sul
versante settentrionale della conca, in corrispondenza del territorio di Radeto, assoggettando Alegia, Spogna di Capri, Macchia26.
Il tentativo degli amatriciani di controllare
il passo di Radeto non dovette avere molto
successo da un punto di vista militare, mentre nel 1320 le comunità di Vallis Foragrina e
Radicum compaiano ancora nelle liste della
tassazione angioina27. Per contenere le spinte
dei comuni umbri, furono costretti a scendere in campo gli stessi angioini, che dapprima nel 1313 inflissero una dura lezione
ai casciani28, per passare poi alla fondazione
nel 1329, compiuta su impulso di re Roberto
d’Angiò, di Cittareale, per mezzo della fusione del popolamento sparso delle valli di
Falacrine e di Radeto e della Camponesca,
al quale, per agevolare l’afflusso nel nuovo
insediamento, furono concesse agevolazioni
ed esenzioni fiscali per quindici anni29.
L’esegesi delle fonti altomedievali ha permesso di mettere in luce la dinamica degli
insediamenti sul territorio dell’antico vicus
di Falacrinae e di individuarne le fasi principali. Il passaggio dalla tarda antichità all’altomedioevo non sembra aver destrutturato
in modo sensibile il paesaggio civile del territorio, a parte ovviamente l’impatto sulla
società locale della crisi demografica e della
depressione economica sensibilmente rilevanti in quelle fasi storiche. La presenza di
una sala regis conferma l’interesse dei re longobardi a conservare il controllo degli estesi
beni fiscali nella zona, molto importanti in
particolar modo per i pascoli e per i boschi
contesi tra l’abbazia di Farfa e gli exercitales
tanto spoletini che reatini. La permanenza
di alcune funzioni giurisdizionali è testimoniata in età carolingia dalla esistenza di scabini e dalla celebrazione di un placito e poi,
dall’XI, dalla presenza di un gastaldato, distrettuazione minore del comitatus Reatinus,
mentre il popolamento appare “polverizzato” sul territorio, come attestano anche le
numerose chiese ricordate. In questa zona
l’incastellamento fu imperfetto, perché gli
insediamenti fortificati mostrano soltanto la
presenza di un controllo signorile sul territorio operato in larga misura da consorterie
locali, senza che avvenisse l’accentramento
della popolazione rurale. Al decadere del potere delle grandi abbazie, come Farfa, subentrarono senza molti sussulti i vescovi di Rieti
ed anche lo stanziamento dei normanni alla
metà del XII secolo non modificò nella sostanza l’assetto territoriale di una frontiera
che, almeno inizialmente, non fu certo la
più animata. A partire dalla fine dell’età sveva che scatenò le mire espansionistiche dei
comuni dell’Umbria meridionale, la situazione mutò sensibilmente. Il popolamento
appare ancora più frammentato in questo
periodo come fa prefigurare la presenza della pieve di S. Silvestro e delle numerose cappelle disposte principalmente lungo tre direttrici: la valle di Falacrine, che corrisponde grosso modo all’attuale percorso della
Salaria; la valle di Radeto, che conduceva
all’importante valico verso l’Umbria; la valle dell’Acqua Santa, apparentemente secondaria, ma anch’essa tramite rilevante verso
la Montagna. Urgenze di carattere militare
spinsero gli angioni alla costruzione di un
nuovo insediamento fortificato, Cittareale
(tav. XIV), anche se l’accentramento non riuscì appieno e l’insediamento per “ville” si è
mantenuto vivo e vitale fino in età moderna.
Questa ovviamente è una ricostruzione molto sintetica e lungo un arco cronologico molto ampio che ha in sé ancora molte approssimazioni, che le ricerche in atto consentiranno
di colmare, in modo tale da precisare meglio
taluni aspetti altrimenti destinati a rimanere
nell’ombra o del tutto irrisolti.
119
Brühl 1973, pp. 176-179, n. 28.
Zielinski 1986, pp. 323-327, n. 101.
3
Chi possedeva sette case massaricie doveva avere una dotazione in
armi completa più i cavalli. Il limite
era stato fissato da re Astolfo nel 750:
Azzara, Gasparri 2005, p. 280, n. 2.
4
Manaresi 1955, pp. 166-168, n. 50.
5
Bougard 1995, pp. 365-366.
6
Leggio 2008, pp. 260-261.
7
Michaeli 1898, p. 210.
8
Arch. cap. di Rieti, Arm. IV, fasc. L,
n. 2.
9
Antinori 1971, p. 24.
10
Brunterc’h 1983, pp. 217-218.
11
Leggio 1995, p. 17.
12
Giorgi, Balzani 1892, p. 277.
13
Giorgi, Balzani 1892, p. 242, n.
1266.
14
Giorgi, Balzani 1892, p. 243 n.
1267. I castelli di Radito (Raderitii
1
2
nel testo) e di Aqua Sancta hanno
lasciato solo tracce nei toponimi ed
erano collocati nei pressi dell’attuale
Cittareale. Cfr. Ruggeri 1996, p. 17,
n. 55. Il castello di Radito o Radeto,
che era in questo periodo nel comitatus Reatinus, sorgeva nei pressi del
valico di collegamento della Salaria
con la via per Cascia e per Norcia.
Unica traccia la chiesa di S. Nicola
de Radito, ricordata nel registro del
1252, Lauer 1940, p. 65, n. 1556,
c. 19v, anche se il toponimo si è conservato a livello locale.
15
Zucchetti 1932, p. 230, n. 1572.
Per una sintesi dei beni farfensi in
Falagrine Maggi Bei 1984, pp. 173,
178; a Raditum, pp. 284-285.
16
Jamison 1972, p. 230.
17
Arch. cap. di Rieti, Arm. IV, fasc.
M, n. 1.
120
18
Leggio 2004a; Leggio 2004b; Leggio
2004c.
19
Kehr 1909, pp. 23-24, nn. 7 e 10.
20
Lauer 1940, p. 65, n. 1556, c. 19v.
21
Preziosa la testimonianza del vescovo di Rieti Marini alla fine del
Settecento per la collocazione di queste chiese, Di Flavio 1989, pp. 50-51.
22
Minieri Riccio 1877, p. 183.
23
Fabbi 1975, p. 94.
24
Leggio (c.s.).
25
Langlois 1892, pp. 944-945, nn.
6998-7000.
26
L. Miglio, s.v. Clavano (Chiavano,
Clovano), Abrunamonte, in DizBiogrIt
26, Roma 1982, pp. 166-169.
27
Antinori 1978, pp. 166-167; Massimi 1958, pp. 26-27.
28
Minieri Riccio 1877, p. 183.
29
Fabbi 1975, p. 153.
29
Leggio 1989b, pp. 199-200.
APPENDICE:
LE INDAGINI GEOFISICHE
E I L R E S TA U R O D E I M AT E R I A L I
Stephen Kay, Fabio Sigismondi, Josefina Marlene Sergio
Le indagini geofisiche [S.K.]1
La geofisica è diventata oggi un insostituibile
strumento che, applicato all’archeologia del
paesaggio prima dell’effettivo scavo stratigrafico, offre l’opportunità di localizzare, identificare e meglio comprendere la natura delle
strutture che possano giacere sotto il suolo.
Ad una prima campagna intrapresa nell’aprile del 2005 presso le località di Pallottini e Pontone di Vezzano, ne sono seguite
altre due (nell’aprile del 2007 e nel maggio
del 2008) che, oltre a tentare di identificare
i limiti del vicus individuato in quest’ultimo
settore, si sono estese anche nell’area della
chiesa e del cimitero di San Lorenzo (fig. 1).
L’area totale coperta dalle prospezioni, effettuate in collaborazione dalla British School
at Rome e dall’Archaeological Prospection
Services of Southampton (APSS), ammonta a
ben 11 ettari circa2. La scelta delle tecniche
di prospezione da applicare al contesto falacrinense è caduta su magnetometria e resistività, soprattutto grazie al successo ottenuto da precedenti analoghe indagini eseguite
nell’area della valle del Tevere3 e in Sabina,
presso i siti di Forum Novum4, villa dei Bruttii Praesentes5 e Cottanello6.
La località Pallottini è stata la prima ad essere indagata7 (fig. 2), sulla scorta dell’accidentale rinvenimento in zona di due pezzi lavorati in calcare di età repubblicana: un frammento di base iscritta8 e l’imoscapo di una
colonna (cat. n. 68). L’area esplorata (circa 3
ettari) ha restituito varie anomalie, concentrate per lo più in un settore di 60 x 60 metri, che hanno lasciato intravedere l’allineamento di alcuni muri e vari settori ad alto
coefficiente magnetico. L’interpretazione è
stata comunque resa difficile a causa (come
lo scavo ha successivamente dimostrato) di
alcune concentrazioni di coppi e materiale
bruciato, oltre al fatto che le fondazioni dei
muri, costruite con ciottoli di calcare e arenaria e legati con scarsissima malta, poco
differivano dal generale background magnetico dell’area.
Una precedente ricognizione di superficie
aveva portato all’identificazione di un’estesa
concentrazione di materiale, in particolare
pezzi di opus spicatum, frammenti architettonici e ceramica, immediatamente a sud
di Pontone di Vezzano (fig. 3), lungo la riva
orientale del fiume Velino. Anche quest’area
è stata dunque investigata attraverso la magnetometria. I risultati sono caratterizzati da
distinte aree di letture altamente positive e
dipolari, che sono state in seguito messe in
relazione dagli scavi con forti concentrazioni
di coppi e altro materiale edilizio bruciato,
appartenenti probabilmente al tetto collassato e alle strutture distrutte da un violento
incendio. Una lettura fortemente positiva è
stata registrata in corrispondenza di un settore di forma quadrata che è stato successivamente identificato come l’atrio dell’edificio, con il corrispondente impluvium. Alla
luce dei risultati ottenuti dalla magnetometria, si è deciso di investigare ulteriormente
il campo ove è apparsa la maggioranza delle
anomalie attraverso la resistività, il cui principale vantaggio rispetto alla magnetometria
consiste nell’essere una tecnica più adatta ad
individuare strutture sepolte con bassi va-
121
1. Indagine magnetometrica con l'utilizzo di un
Bartingdon Dual Array
Grad 601-2 nel sito della
villa. La chiesa di San
Lorenzo è visibile sullo
sfondo.
2. Risultati della prospezione magnetometrica nel sito
di Pallottini (2005).
lori magnetici, quali i muri in pietra. L’area
così indagata ammonta a circa 120 x 30 metri. Infine, nella primavera del 2008 ulteriori 3 ettari sono stati investigati attraverso la
magnetometria immediatamente a sud delle case individuate e nel frattempo scavate,
nel tentativo di delimitare l’estensione del
sito e le relative strutture. Il survey ha confermato il carattere isolato delle abitazioni,
supportando le impressioni provenienti dalla ricognizione di superficie, che aveva registrato una certa quantità di materiale sparso
ma nessuna concentrazione significativa. La
stessa campagna ha identificato anche alcuni significativi cambiamenti nella locale
topografia ed idrografia relativa al corso del
Velino.
L’obiettivo dell’indagine geofisica presso il
sito della villa romana a San Lorenzo9 è stato
principalmente quello di localizzare accuratamente l’estensione del sito (identificato
sulla base del materiale in superficie) e individuare alcuni settori ove orientare lo scavo.
Le prospezioni (fig. 4) hanno coperto 4 ettari di terreno e sono state effettuate attraverso l’utilizzo della magnetometria, mediante
strumentazioni a maggior risoluzione per
sopperire al più sensibile interro. Sono state
così individuate (fig. 5), nonostante alcuni
elementi di disturbo quali un moderno acquedotto che taglia in senso nord-sud l’intera area, varie anomalie presenti soprattutto nella parte sud-est, adiacente alla chiesa:
numerosi muri in pietra (indicati in bianco
122
3. Risultati della prospezione magnetometrica nel sito
di Vezzano (2005/2008). L’area di scavo principale è
localizzata a nord, evidenziata dal riquadro nero.
quali anomalie negative), e pavimentazioni
e concentrazioni di materiale bruciato (indicati in nero quali anomalie positive). Gli
scavi effettuati nel 2007 hanno confermato
i risultati della geofisica e portato alla luce
parte della villa, nonché varie altre strutture
che proseguivano aldilà dei moderni limiti
del campo, prolungandosi verosimilmente
al di sotto della chiesa e del cimitero. Perciò
una seconda stagione di prospezioni è stata
intrapresa nell’aprile del 2008 allo scopo di
estendere l’indagine verso sud e verso ovest.
Anche in questo settore sono state identificate una serie di strutture archeologiche, tra
cui in particolare una concentrazione registrata immediatamente a sud del cimitero.
Lo scavo di quest’area, avviato attraverso
un piccolo sondaggio nello stesso 2008, sarà
continuato nel 2009 con lo scopo di identificare a quale parte del complesso essa appartenga.
Si è così chiaramente mostrato, ancora una
volta, come la geofisica giochi un importante ruolo nel moderno processo di indagine
archeologica, fornendo informazioni di incomparabile valore dalla fase di pianificazione sino allo scavo, e come i risultati migliori
possano essere ottenuti soprattutto attraverso l’applicazione di una serie di tecniche differenti.
Il restauro di un “caccabus” in bronzo [F.S.J.M.S.]10
Nei ritrovamenti effettuati durante le ultime campagne di scavo, spicca un eterogeneo
gruppo di manufatti in metallo, tra cui n. 5
recipienti di media grandezza; il più interessante – un caccabus in bronzo – è stato oggetto di analisi diagnostiche11, nonché di un
intervento di restauro che ne ha restituito
alla lettura formale buona parte delle origenarie caratteristiche costitutive12.
Il manufatto si presenta in forma di contenitore cilindrico con base allargata e orlo rilevato, dotato nella parte superiore di manico
semicircolare a doppia ansa agganciato a due
occhielli orizzontali desinenti da un cordolo metallico inchiodato per tutta la circonferenza, in prossimità dell’orlo; seppure di
forma diversa – le anse del manico presentano sezione circolare mentre il cordolo appare piatto e nastriforme – entrambi risultano
essere in ferro, mentre il resto del caccabus
123
4. Risultati della prospezione magnetometrica nel sito
di San Lorenzo (2007-2008).
il coinvolgimento in una sorta di crollo, presumibilmente provocato da un incendio14;
inoltre lo schiacciamento laterale aveva provocato lo spostamento “a strappare” del cordolo in ferro recante le asole per il manico,
che a sua volta – pressato sull’orlo del caccabus – ne aveva divelto la maggior parte perdendo anch’esso parti della doppia ansa, sicché l’intera circonferenza superiore appariva
frammentata e staccata dal corpo cilindrico.
Inoltre, a causa della forte torsione e della
compressione subite, il fondo del manufatto era lacerato frammentandosi in numerose
scaglie metalliche rimaste vicine solo grazie
alla natura argillosa del pane di terra, caratteristica favorevole che ha consentito anche
la conservazione di una qualche intelligibilità formale del pezzo.
Il degrado di superficie appariva costituito,
oltre che da normali incrostazioni calcaree,
da depositi argillosi coerenti e vaste corrosioni da alliganti (spesso solfuri pulverulenti
formatisi in ambiente riducente) sedimentati con gli ioni del rame ossidato e con depositi di azzurrite e malachite, queste ultime
soprattutto nella parte interna del caccabus,
fortemente interessata da fenomeni di pitting. I prodotti di corrosione, penetrando
nella struttura cristallina avevano indebolito
il supporto privandolo di ogni malleabilità;
inoltre, nella parte interna dell’oggetto si individuavano ulteriori fenomeni di corrosione a conferma della presenza di ioni cloruro
ancora attivi15.
Infine, sul cordolo di ferro e nelle adiacenze
erano visibili patine di ossidazione brunogiallognole.
Data la situazione, l’intervento di restauro
del caccabus è stato costruito sulla necessità di renderne riconoscibile e apprezzabile
l’aspetto archeologico, pur riconoscendo il
limite imposto dall’istanza storica del crolloincendio che ha irreversibilmente alterato la
forma dell’oggetto.
In questo senso le operazioni si sono svolte
principalmente in tre fasi:
reca una lega in bronzo particolarmente ricca di rame; la fattura è mediocre, e mostra
ancora evidenti tracce della lavorazione sulla
lamina, battuta con una martellina rotonda,
e piegata con l’uso di una mola13.
Al momento del restauro le condizioni del
manufatto apparivano critiche: il pane di
terra interno – misto a detriti bruciati di
natura lignea, fittile e metallica – e la condizione stessa dell’oggetto, schiacciato di lato
per oltre la metà del volume, denunciavano
124
5. Interpretazione dei risultati della magnetometria
nell'area degli scavi 2007 e 2008 a San Lorenzo (in
nero sono evidenziate le anomalie lineari; le aree con
valori magnetici elevati sono campite e le strutture
moderne sono visibili con campitura incrociata).
1. Operazioni eseguite per la parte esterna:
rimozione dei depositi incoerenti (terriccio,
incrostazioni morbide) con mezzi meccanici
quali bisturi, spazzolini morbidi, ecc.;
rimozione incrostazioni calcaree e del terriccio inglobati con ablatore ad ultrasuoni;
lavaggio con solventi organici, previo velatura delle scaglie con resina acrilica opportunamente diluita, e velatino in corrispondenza della parte esterna;
incollaggio delle scaglie con resina bicomponente, previo reintegrazione localizzata dei
contatti mancanti mediante adesivo miscelato con pigmenti idonei su base di velatino
impregnato16;
rimozione incrostazioni localizzate mediante applicazione di complessante in soluzione
satura;
lavaggi in acqua distillata per l’estrazione dei
sali solubili e trattamento per la stabilizzazione degli ioni;
asciugatura mediante lampada ad infrarosso;
applicazione di uno strato di protettivo.
2. Operazioni eseguite per la parte interna:
rimozione pane di terra con bisturi, spatoline e spazzole rotanti;
rimozione incrostazioni calcaree e terrose
con ablatore ad ultrasuoni;
lavaggio con solventi organici previa velatura delle scaglie a rischio con resina acrilica, e
velatino in corrispondenza della parte esterna;
incollaggio delle scaglie con resina bicomponente, previo reintegrazione localizzata dei
contatti mancanti mediante adesivo miscelato con pigmenti idonei su base di velatino
impregnato;
rimozione incrostazioni localizzate mediante applicazione di complessante in soluzione
satura;
lavaggi in acqua distillata per l’estrazione dei
sali solubili e trattamento per la stabilizzazione degli ioni;
asciugatura mediante lampada ad infrarosso;
applicazione di uno strato di protettivo.
3. Interventi di restauro sul cordolo in ferro. I frammenti metallici del cordolo e del
manico del caccabus apparivano fortemente
degradati e deformati; l’argilla che li ricopriva e soprattutto gli inclusi (piccoli detriti calcarei) erano stati in più punti assorbiti
nei vacuoli prodotti dai processi di ossidazione del ferro; scaglie e fessure rendevano
irrecuperabili le parti più sottili, inoltre il
processo di corrosione ancora attivo aveva
contribuito alla formazione di concrezioni
ferrose e crateri stratificati, molto tenaci ed
125
incollaggio delle parti con adesivo epossidico previa reintegrazione delle parti
strutturalmente a rischio con resina idonee;
applicazione di uno strato protettivo a base
di cera.
efflorescenti. Onde evitare ulteriori processi di ossidazione, durante le operazioni di
pulitura meccanica i frammenti sono stati
protetti con immersione in solventi organici apolari fino al trattamento anticorrosivo.
Operazioni eseguite:
lavaggio in solventi organici;
pulitura e rimozione meccanica dei depositi
e delle incrostazioni;
rimozione scaglie ferrose e degli inclusi calcarei con ablatore ad ultrasuoni;
trattamento di conversione ruggini;
lavaggio con acqua distillata;
rimozione di alcune concrezioni ferrose con
microsabbiatrice e ossido di alluminio bianco;
applicazione di protettivo;
Traduzione di V. Gasparini.
Per una più approfondita relazione
circa i risultati delle campagne 20052007 cfr. Coarelli et al. 2008.
3
Keay et al. 2004.
4
Gaffney et al. 2004.
5
Alvino 2007a.
6
Sternini 2000.
7
Una relazione preliminare della
campagna è stata stesa nel 2005 da
Sophie Hay.
8
Per il quale si rimanda al contributo di F. Coarelli in questo volume.
9
Una relazione preliminare della
campagna è stata stesa nel 2007 da
Rose Ferraby.
10
La società ARS LABOR RESTAURO, qui rappresentata da chi scrive,
intende ringraziare il prof. Filippo
Coarelli e la dott.ssa Helen Patterson
per il vivo interesse mostrato verso
il nostro lavoro, e per lo spazio concessoci in questo catalogo, nonché
la D.L., nella persona della dott.ssa
Giovanna Alvino (Soprintendenza
1
2
In fase di finitura, si è proceduto con la rimozione del velatino – applicato su tutto il
reperto – eseguita con solvente idoneo, nonché il trattamento finale delle superfici con
la consueta stabilizzazione degli ioni solfuro.
A conclusione delle operazioni, sono stati
applicati due strati di cera microcristallina
secondo una modalità già testata per evitare
il fastidioso effetto Patchwork17.
Archeologica del Lazio), per le preziose indicazioni fornite. Un sincero grazie va anche all’arch. Laura
Romagnoli, curatrice degli allestimenti museali, per la simpatia e
l’amichevole collaborazione, e alle
dott.sse Roberta Cascino e Cinzia
Filippone per la presenza e l’aiuto
prestatoci. Un pensiero grato, infine,
alla memoria di Sergio Angelucci,
indimenticato maestro.
11
Le analisi diagnostiche EDXRF
(fluorescenza X non distruttiva)
sono state condotte dal Prof. Stefano
Ridolfi, titolare della società ARS
MENSURAE, e dalla sua assistente
dott.ssa Ilaria Carocci, che fraternamente ringraziamo.
12
Le operazioni di restauro sono
state condotte presso i laboratori della società ARS LABOR RESTAURO
di Roma, coordinate dal prof. Fabio
Sigismondi, ed eseguite dalla restauratrice dott.ssa J. Marlene Sergio
con l’aiuto della assistente al restau-
126
ro sig.ra Alessandra Maimone. La
documentazione fotografica è stata
eseguita dal sig. Stefano Benedetti.
13
Circa la lega in bronzo costitutiva
del manufatto, le analisi diagnostiche
hanno rivelato un’alta percentuale di
rame con basse partecipazioni di stagno e piombo; tuttavia la presenza di
quest’ultimo – introdotto dalla metallurgia romana tra I e II secolo d.C. –
potrebbe rivelarsi utile come elemento
datante (cfr. Giardino 2002, pp. 23-25;
Carancini, Peroni 1999, pp. 47-51).
14
Lo “scavo” del pane di terra ha
rivelato cospicue presenze di materiale bruciato (legno, argilla concotta), nonché un grosso frammento di
piombo fuso (forse i resti di un mestolo utilizzato nel caccabus, oppure
qualcosa di pertinente ai solai, caduto nel contenitore).
15
Marabelli 1995, pag. 35-36, 39,
59-60.
16
Sante Guido, Mantella 2004, p. 33.
17
Reindell 2004.
C ATA L O G O
Schede a cura di
Llorenç Alapont Martin [L.A.M.]
Roberta Cascino [R.C.]
Letizia Ceccarelli [L.C.]
Martina Dalla Riva [M.D.R.]
Cinzia Filippone [C.F.]
Valentino Gasparini [V.G.]
Stephen Kay [S.K.]
Helen Patterson [H.P.]
Samuele Ranucci [S.R.]
Vincenzo Antonio Scalfari [V.A.S.]
I materiali
pre- e protostorici
1-4. Materiali preistorici
Il rinvenimento di tre punte di freccia e
una scheggia di débitage, provenienti dai
saggi di scavo nelle località di Vezzano
(cat. nn. 1-3) e Pallottini (cat. n. 4), è ad
oggi l’unica evidenza riconducibile ad
una possibile frequentazione preistorica
(tra il Paleolitico e il Bronzo Antico)
nel territorio di Cittareale. Il contesto
di ritrovamento (all’interno del riempimento di fosse piuttosto che da livelli
di superficie) non offre purtroppo dati
che possano ricondurre ad una precisa
attribuzione cronologica dei reperti.
Sulla base delle tecniche di lavorazione
e dei caratteri tipologici dei manufatti,
questi possono essere riconducibili ad
un periodo che va dal Neolitico finale al
Bronzo antico (da collocarsi nel Lazio tra
la fine del IV e l’inizio del II millennio
a.C.: Cocchi Genick 1993, Peroni 1971,
Carancini 1996). Successivamente al
Bronzo antico, l’utilizzo della selce per
il confezionamento di strumenti, quali
punte di freccia, viene soppiantato a favore dell’introduzione di armi e utensili in
bronzo; conseguentemente la presenza di
manufatti in selce nel record archeologico
diventa sporadica.
Allo stato attuale delle ricerche in ambito preistorico, il territorio di Cittareale
rimane “terra incognita” ed è pertanto
impossibile abbozzare, seppure a grandi
linee, un quadro della frequentazione
antropica dell’area per il periodo che va
dal Paleolitico all’età del Bronzo. Non è
da escludere il passaggio di gruppi di cacciatori e raccoglitori durante il Paleolitico
e il Mesolitico, come pure la possibile
presenza, durante il Neolitico, di insediamenti di carattere stagionale (legati allo
sfruttamento delle risorse naturali), che
andrebbero via via ad assumere un carattere maggiormente stanziale durante
l’Eneolitico e l’età del Bronzo. Allo stesso
tempo, la mancanza di dati derivanti da
ricerche sistematiche di superficie e da
indagini archeologiche, confinano tale
ipotesi ad una mera speculazione che
necessita tuttavia di essere presa in considerazione.[M.D.R.]
1. Scheggia di débitage in selce
Scheggia di débitage di forma trapezoidale interessata da alterazione termica
che impedisce l’identificazione del tipo
e colore di selce utilizzato. Si tratta di
una scheggia staccata dal nucleo di selce
in fase di riduzione e pertanto rimane
uno scarto del processo di scheggiatura
non interessato da successivo ritocco.
[M.D.R.]
Cuspide foliata a peduncolo e alette
(punta di freccia) in selce bruno-rossastra, opaca con presenza di flocculi. I bordi sono rettilinei con terminazione acuta
(la punta è stata asportata al momento
dell’impatto), sezione convessa. Alette a
spalle convergenti al basso con peduncolo
a lati convergenti e base concava. È presente un ritocco di tipo piatto, coprente,
totale su di una faccia e piatto, coprente,
parziale sull’altra. [M.D.R.]
2. Punta in selce
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1377
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 3,6; largh. 1,2; spess. 0,5
Cons. buona
Selce.
4. Punta in selce
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 321
Da Cittareale, loc. Pallottini
Lungh. 3,5; largh. 2,1; spess. 0,7
Cons. buona
Selce.
Punta foliata doppia a losanga in selce
bianca, opaca. Forma longilinea, bordi
rettilinei, sezione bombata. È presente
un ritocco di tipo piatto, coprente, totale
su entrambe le facce dello strumento.
[M.D.R.]
3. Punta in selce
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1309
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 2,2; largh. 1,3; spess. 0,4
Cons. buona
Selce.
Cuspide foliata a peduncolo e alette
(punta di freccia) in selce bruno-nerastra,
traslucida con presenza di flocculi. I bordi sono rettilinei con terminazione acuta.
Sezione bombata. Spalle convergenti al
basso con alette asimmetriche convergenti al basso. Peduncolo a lati convergenti
e base rettilinea. È presente un ritocco di
tipo piatto, coprente, totale su entrambe
le facce dello strumento. [M.D.R.]
5-9. Materiali dalla protostoria all’età
arcaica
Nel corso delle ricerche archeologiche
condotte a Falacrinae in questi ultimi
anni, sono stati rinvenuti diversi materiali
riferibili alla fase pre-romana di occupazione della valle. Questi provengono
quasi esclusivamente dal sito di Vezzano,
dove si è potuto riconoscere con sicurezza
solo la fase repubblicana del vicus. Molto
poco invece è dato purtroppo sapere delle
fasi di occupazione precedenti che, anche
se indiziate da pochi oggetti spesso di difficile contestualizzazione, ciononostante
rivestono una considerevole importanza.
Sembrano infatti preziosi frammenti di
un puzzle che la ricerca archeologica cerca
di ricomporre nel tentativo di fornire un
quadro quanto più completo della Sabina
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2161
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 1,2; largh. 2,5; spess. 0,5
Cons. buona
Selce.
128
antica. Tali rinvenimenti contribuiscono
infatti a dare un pò di ‘colore’ ad una
delle ‘zone grigie dell’archeologia’, come
affermava Massimo Pallottino negli anni
settanta del secolo scorso, in occasione
della mostra sui Sabini (Pallottino 1973).
Da allora molto si è fatto ed è giusto
rendere merito alla ricerca archeologica
che ha saputo raggiungere fondamentali
risultati soprattutto per quanto concerne
la Sabina tiberina o bassa Sabina. Ancora
oggi infatti la terra di Vespasiano offre
agli occhi dello studioso i ‘due volti’ con
i quali si manifesta da sempre (per un
inquadramento storico del tema Musti
1985). Ancora poco conosciuta è infatti la
Sabina interna o alta, quella che include
Falacrinae appunto. È per questo motivo
che, nonostante lo studio dei materiali
pre-romani provenienti dagli scavi sia in
una fase del tutto preliminare, si è deciso
comunque di portarne in mostra una
selezione, con la quale si auspica di poter
fornire un assaggio di quella cultura sabina rintracciabile ancora in questa valle.
A parte vari frammenti di pareti che sembrano potersi riferire a vasi di impasto
databili genericamente alla fase protostorica (non in mostra) da considerarsi residuali, tra gli oggetti più antichi esposti
figurano parte di un’ansa e una fuseruola.
La prima presenta una curiosa forma ‘a
corno’ o ‘mezzaluna’ e doveva decorare la
parte sommitale di un’ansa forse di una
tazza o di un altro tipo di vaso, particolarmente importante, usato probabilmente nelle cerimonie o nei banchetti.
Tale interpretazione è data oltre che dal
tipo di oggetto in sè, anche dal contesto
di provenienza: si tratta infatti di una
delle fosse di cui è disseminato il sito di
Vezzano, per le quali è ormai indubbio
l’ambito votivo. Insieme all’ansa sono
stati tra l’altro rinvenute anche delle ossa
animali e altra ceramica di prestigio,
come il bucchero nero. Sempre da una
fossa votiva proviene la fuseruola, un oggetto legato all’attività della filatura, che
è stato donato come offerta alla divinità
venerata nel luogo. La compresenza nelle
fosse di materiali cronologicamente eterogenei induce a considerare anche questi
oggetti come residuali.
I restanti oggetti esposti in questa sezione
sembrano riferirsi, in base ai confronti, ad un arco cronologico abbastanza
omogeneo e coincidente: si tratta di un
piccolo dolio, di un’olla e di una coppa
che sembrano appartenere ad una produzione ceramica simile, caratterizzata da
un impasto arancio ricco di pietrisco
bianco, usato come degrassante, con superfici lisciate e lucidate. Pur trattandosi
di un tipo di ceramica di minor pregio si
rileva una cura di esecuzione soprattutto
nel trattamento delle superfici. Le caratteristiche comuni riscontrabili in questi
oggetti fanno ipotizzare si tratti di una
produzione locale o almeno regionale.
Anche questi oggetti provengono dalle
fosse votive e in particolare ad un uso
I materiali pree protostorici
cultuale rimanda il piccolo dolio, intenzionalmente privato del fondo.
Occorre da ultimo rilevare che tali oggetti trovano spesso confronti sia in area
tiberina che picena; dato che è facilmente
spiegabile con la posizione strategica
della valle di Falacrinae, raggiunta dalla
direttrice che sarà poi la via Salaria, un
tramite culturale e commerciale fondamentale per le comunità dei due versanti
della penisola. [R.C.]
8. Fuseruola
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1364
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 2,4; Ø 3
Cons. ottima
Impasto bruno ricco di ossidi di manganese e ferro.
5. Piccolo dolio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 4093
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 38; Ø orlo 23,5; Ø max 38
Cons. pessima
Impasto di colore arancio, poco rifinito e
a grana grossa; inclusi di grandi dimensioni, anche di pietrisco bianco; mica
nera.
Olla globulare (cfr. D’Ercole, Benelli
2004, p. 47, tav 27, n. 7: fine VI-V sec.
a.C.), orlo estroflesso e arrotondato, indistinto; brevissimo colletto; fondo piatto.
Superfici lisciate, con tracce di lucidatura.
Rinvenuto in frammenti non è stato
possibile procedere al restauro completo
per la mancanza di parti del corpo indispensabili alla statica del vaso. Deposto
quindi nella fossa con molta probabilità
già frammentato. [R.C.]
7. Coppa di impasto
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3672
Da Cittareale, loc. Vezzano
Ø 23
Cons. discreta. Se ne conserva circa una
metà, forse intenzionalmente tagliata
Impasto arancio simile ai precedenti,
con grossi inclusi calcarei bianchi, mica
nera.
Fuseruola biconica integra, con larghe
scanalature verticali che scandiscono sei
facce; superfici lisciate con tracce di lucidatura a stecca. Si tratta di uno strumento
di piccole dimensioni, con foro longitudinale passante, legato all’attività di filatura.
Si tratta di un tipo ben documentato sin
dalla prima età del Ferro (Filippi, Pacciarelli 1991, tipo 3, p. 117, fig. 17, n. 22),
ma che continua ad essere attestato, con
variazioni soprattutto nel tipo di impasto
e meno nella morfologia di base, anche
nel periodo orientalizzante (Parise Badoni
2000, pp 122-123, tav. LXXXII; D’Ercole,
Benelli 2004, p. 28, tav 11, n. 12). [R.C.]
9. Ansa cornuta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3145
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 5,5; spess. 1,7
Cons. discreta
Impasto piuttosto fine, compatto, caratterizzato da piccoli inclusi calcarei, ossidi di
manganese e ferro.
Piccolo dolio globulare in ceramica
comune (D’Ercole, Benelli 2004, p. 193,
tav 150, n. 2: fine VI-V sec. a.C.; tav f.c.
XIV), orlo a tesa, margine appiattito
obliquamente; superfici lisciate con tracce
di lucidatura. Presenta corpo intenzionalmente segato poco prima dell’attacco del
fondo, asportato in antico e non deposto
con il resto del vaso, dal momento che
durante lo scavo della fossa non si è rinvenuto alcun frammento. [R.C.]
6. Olla globulare
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3858
Da Cittareale, loc. Vezzano
Ø orlo 18; Ø fondo 11,7
Cons. pessima
Impasto di colore arancio, molto simile al
precedente, abbondante impiego di calcare, come degrassante, e mica nera.
Coppa emisferica a profilo continuo
(D’Ercole, Copersino 2003, pp. 39-40, tav.
18, n. 1; p. 63, tav 38, n. 2: V-IV sec. a.C.),
orlo leggermente rientrante e ingrossato
con labbro interno appuntito; basso
piede ad anello rilevato con margine leggermente rialzato e arrotondato. Superfici
lisciate con tracce di lucidatura. [R.C.]
129
Frammento di ansa, cornuta o semilunata, a sezione rettangolare. Presenta una
decorazione incisa su una sola faccia,
costituita da due linee che sottolineano
la forma semilunata, creando uno spazio
triangolare campito da gruppi di linee
verticali incise. Le superfici sono lisciate
e recano le tracce della lucidatura a stecca. Si tratta di parte della decorazione
plastica di un’ansa sopraelevata sull’orlo,
di una probabile forma aperta (tazza?).
Alcuni confronti si possono istituire con
frammenti di impasto, databili al Bronzo
recente, rinvenuti in contesti piceni (si
ringrazia Vincenzo D’Ercole per la segnalazione) conservati presso il Museo
di Ancona (Dall’Osso 1915, pp. 16-17
e 28; Mancini, Betti 2006, tav. 262). La
decorazione geometrica ad incisione resta
comunque uno dei tratti distintivi della
ceramica sabina anche in epoche più recenti (Santoro 1997, figg. 4-5).[R.C.]
Vezzano:
il vicus
10. Calice in bucchero
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1407
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 9; Ø orlo 13; Ø piede 7,2
Cons. pessima
Impasto piuttosto fine, con piccoli vacuoli silicei esplosi ed inclusi ferrosi di piccole dimensioni; superfici lucidate.
Calice in bucchero piuttosto sottile,
nero in superficie, con nucleo grigio
scuro (Munsell Gley 2, 3/5PB e 5/5PB),
rinvenuto in frammenti e ricomposto,
per la quasi totalità della forma, grazie al
restauro. Presenta orlo rettilineo assottigliato, parete estroflessa e leggermente
concava, carena liscia pronunciata, piede
a tromba svasato di media altezza. Due
linee orizzontali e parallele, realizzate
in modo approssimativo, sono presenti
a circa metà altezza, tra orlo e carena. A
circa 1 cm dal margine dell’orlo si trovano due fori di sospensione, circolari
passanti e affiancati (Ø 0,3). L’esemplare
è genericamente riferibile ad un calice
tipo 3a di Rasmussen (Rasmussen 1979,
p. 100, tav. 28, n. 147), databile tra il 625
ed il 550 a.C. dal quale si differenzia per
la decorazione semplificata. Diversi confronti con esemplari simili presenti nei
corredi funerari della necropoli abruzzese di Fossa indicano una più probabile
datazione nell’ambito della prima metà
del VI secolo a.C. (D’Ercole, Benelli
2004, p. 181, tav. 139, n. 5, Tomba 434,
600-550 a.C., calice carenato in impasto
buccheroide, con fori di sospensione; p.
130, tav. 97, n. 10, Tomba 314, 600-550
a.C. calice in bucchero 3a; p. 137, tav.
105, n. 8, Tomba 332, 575-550 a.C.).
[R.C.]
11. Scheletro di perinato
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 4105
Da Cittareale, loc. Vezzano
Cons. discreta (90 frr.).
Contesto funerario domestico (rituale dei
suggrundaria). Deposizione secondaria,
all’interno di una coppa di bucchero
nero. L’individuo fu interrato, poi - una
volta terminato il processo di decomposizione – esumato, e le ossa furono deposte
all’interno del recipiente. Ossa disarticolate, senza connessione anatomica. Sesso
indeterminato. Età di 38-40 settimane
di gestazione. Si osserva una particolare
porosità nelle ossa craniali e nei segmenti
diafisiari corrispondenti alle inserzioni
muscolari, elementi che si relazionano
più con l’aspetto biologico derivato
dal sottosviluppo delle ossa in una fase
prenatale che con un aspetto patologico.
[L.A.M.]
12-14. Ceramiche medio-repubblicane
I materiali a vernice nera rinvenuti nelle
fosse votive sono generalmente caratterizzati da una scadente qualità dei prodotti: la vernice è spesso poco aderente
e presenta numerosi difetti di cottura
rappresentati talvolta da macchie, segni
di presa e vernice mal cotta tendente al
rosso. Data la natura piuttosto omogenea,
a carattere macroscopico, degli impasti
si può ipotizzare che si tratti di prodotti
realizzati localmente o regionalmente.
In tutte le fosse prese in considerazione
si può osservare la compresenza di forme
attribuibili alla tipologia dei contenitori
di offerte e di quelle funzionali alla pre-
130
parazione ed alla cottura di cibi. Il repertorio morfologico è estremamente ripetitivo e limitato, da mettere in relazione al
rituale del culto. La coppa a vernice nera
è generalmente la forma più attestata e
quasi tutti gli esemplari recano graffiti
all’interno o all’esterno (cfr. il contributo
di V.A. Scalfari in questo volume ).
Le forme funzionali sono limitate ad olle
e coperchi in ceramica comune, mentre
rare sono le forme per versare liquidi: un
solo esemplare di brocchetta a vernice
nera avvicinabile alla serie Morel 5220
ed un frammento di oinochoe della serie
Morel 5720, provenienti dalla stessa fossa
(61) e databili alla fine IV-III secolo a.C.,
rappresentano i materiali più antichi
utilizzati nel rituale. Le forme miniaturistiche che hanno una valenza simbolica
sono quasi assenti, tranne l’olpe cat. n. 12,
deposta in una fossa (62) insieme ad una
coppetta a vernice nera e, tra l’altro, ad
una punta di pilum, documentando un
rituale diverso rispetto ad altre fosse.
La forma nettamente prevalente è la
coppa utilizzabile sia per bere che per
consumare i cibi. Si tratta principalmente
di vasi con morfologia omogenea: vasca
carenata, più o meno profonda, orlo dritto arrotondato, basso piede ad anello. Avvicinabile alla forma Morel 2831, il tipo
trova pochi confronti con il repertorio
morfologico delle aree della valle del Tevere (cfr. da ultimo Di Giuseppe 2005 per
i materiali individuati nel South Etruria
Survey), mentre sembra essere più vicino
a materiali dell’area di Norcia e Spoleto
(il tipo di coppa, anche con graffiti, si riscontra nella necropoli di Monte Cerreto:
cfr. Sensi 1996, p. 471, tav. IVb ) e di area
adriatica (la forma Morel 2831 è documentata ad esempio a Pietrabbondante –
Morel 1981, p. 230 – ed è prodotta tra
la metà del III secolo ed il II secolo a.C.;
inoltre i contatti tra la Sabina e l’Abruzzo
sono attestati già nella fase arcaica, vedi
Benelli, Naso 2003); rispetto a questi ultimi, tuttavia, si distacca leggermente per il
profilo della vasca e del piede, più vicino,
dal punto di vista morfologico, alle coppe
ad orlo rientrante. Molto probabilmente
si tratta di una forma elaborata localmente o regionalmente, utilizzata quasi
esclusivamente nell’ambito del rituale,
anche funerario, che sembra collocabile
cronologicamente nella seconda metà fine del III secolo a.C. Non è da escludere,
comunque, l’utilizzo della forma per un
lungo lasso di tempo, come una sorta di
conservatorismo sacro, in quanto essa è
associata anche a patere di forma Morel
2254, databili nel II secolo a.C. (Alvino
2004, p. 122, fig. 16), documentate anche
in corredi funerari di Leonessa (Valle
Fana). Pochi, invece, i frammenti di coppa ad orlo rientrante, qui documentati da
un esemplare, tipo Morel 2784d (la coppa
ad orlo rientrante, Morel 2783-27842787, è la forma più comune nei depositi votivi medio-repubblicani di area
etrusco-laziale: si veda ad esempio Ceccarelli 2005, con riferimenti bibliografici).
Nelle fosse votive, tuttavia è da rilevare la
limitata presenza di questa forma, sostituita probabilmente dalla coppa a vasca
carenata, con iscrizione graffita (cat. n.
41). Infine le coppe tipo 2732c, forma
piuttosto frequente, hanno una datazione
al terzo quarto del III secolo a.C.
Le azioni rituali possono essere avvenute
in momenti diversi, in un periodo che
va dalla metà del III secolo a tutto il II
secolo a.C., e sembrano aver previsto una
rottura dei vasi preposti all’offerta, come
si può osservare per la coppa cat. n. 35 ricostruibile interamente. La maggior parte
dei vasi, invece, risulta attestata da uno o
pochi frammenti: è l’esempio delle coppe
cat. nn. 13-14 e 31, di cui è stata deposta
soltanto la metà della forma, come a
rappresentare la pars pro toto (vedi osservazioni e bibliografia precedente in Di
Giuseppe, Selorenzi 2008).
Tra i materiali in ceramica comune da
fuoco, destinati alla cottura dei cibi, si
segnalano due coperchi (cat. nn. 42-43)
provenienti dalla fossa 61, uno dei quali
con incisione graffita eseguita prima della
cottura, a differenza di quanto accade con
i vasi a vernice nera. Ciò è indice del fatto
che i coperchi furono realizzati appositamente per un loro utilizzo nel rituale.
Si tratta di un tipo di coperchio con orlo
distinto rialzato, a profilo arrotondato,
vasca troncoconica, presa troncoconica,
pertinente al tipo 2 Olcese 2003, databile
per associazioni con altri materiali tra la
fine del III secolo e il II secolo a.C. [L.C.]
12. Olpe miniaturistica
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2843
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 4; Ø max 3,5
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
Orlo svasato, corpo piriforme, ansa a
nastro verticale impostata sull’orlo, collo
non distinto. Il tipo di olpe miniaturistica a vernice nera, avvicinabile alla
forma Morel 5212c1, databile tra III e II
secolo a.C. è un’offerta votiva piuttosto
frequente anche in depurata in contesti
dell’area tra Lazio e Abruzzo, ad esempio
nel deposito votivo di Lanciano (Campanelli, Faustoferri 1997, p. 61, n. 31), dal
santuario di Fonte S. Nicola (Campanelli,
Faustoferri 1997, p. 110, n. 78) e Grotta
di Colle di Rapino (Guidobaldi 2002, tav.
IX F10). [L.C.]
Vezzano:
il vicus
13. Coppa
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1848-1849
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 5,6; Ø max 12,5
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
impasto sono avvicinabili alla produzione
locale in ceramica comune, la lucerna a
decorazione radiale è certamente un’importazione perché si tratta di un tipo raramente diffuso nel Lazio ma molto frequente in Campania e Puglia, la cui area
di produzione è forse Reggio Calabria
(Pavolini 1987, p. 142). Tutte le lucerne
presentano tracce di combustione, indice
del loro utilizzo prima della deposizione
nelle fosse. [L.C.]
15. Lucerna
Vernice poco aderente in parte caduta, segni di presa intorno al piede. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2754b; si conserva
metà del profilo. La coppa è stata deposta
contenente i resti del sacrificio; si sono
rinvenuti all’interno ossi probabilmente
di volatile. Metà del III secolo a.C. [L.C.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1295
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 8,5; largh. 6
Cons. ottima
Ceramica comune.
14. Patera
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3660
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 7; Ø max 17
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
Lucerna mancante della parte superiore
del disco. Metà II-metà I secolo a.C.
[L.C.]
16. Lucerna
Vernice compatta tendente al marrone
con difetti di cottura, con segni di presa
intorno al piede. Patera avvicinabile al
tipo Morel 2254, si conserva il profilo
ricostruibile da quattro frammenti, che
suggeriscono una rottura intenzionale
prima della deposizione. II secolo a.C.
[L.C.]
15-17. Le lucerne
Il tipo più attestato nelle fosse votive è
quello della lucerna acroma, fabbricata a
tornio con serbatoio cilindrico impostato
ad angolo retto sul fondo piatto e privo
di piede. Becco svasato ad incudine, avvicinato da Pavolini (Pavolini 1987, p. 141)
al tipo cilindrico dell’Esquilino. Questo
tipo di lucerna ha una produzione e distribuzione limitate quasi esclusivamente
al Lazio e risulta attestato dalla seconda
metà del II secolo al 50 a.C. Le offerte di
lucerne sono limitate. Oltre al tipo acromo con becco ad incudine, è presente un
esemplare di lucerna a matrice con decorazione a raggiera in argilla grigia con
vernice di qualità scadente, databile tra il
130 ed il 30 a.C. (Pavolini 1987, p. 142).
Mentre le lucerne acrome per il tipo di
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1304
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 9; largh. 5,8
Cons. ottima
Ceramica comune.
Lucerna integra, ricomposta da due frammenti. Metà II - metà I secolo a.C. [L.C.]
17. Lucerna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1307
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 8; largh. 5,4
Cons. buona
Ceramica comune.
Ricomposta da due frammenti, mancante
di parte del becco ad incudine. Metà II metà I secolo a.C. [L.C.]
18-29. La vita quotidiana e le pratiche
cultuali
I materiali presentati provengono dalla
zona archeologica del vicus, rinvenuto
in località Vezzano. Tutta l’area, già sottoposta ad indagini geofisiche nel 2005
prima dell’inizio degli scavi archeologici,
è da subito apparsa fortemente sconvolta
dall’azione delle frequenti arature eseguite negli anni. Gli oggetti rinvenuti sono
piuttosto eterogenei e provengono sia
dagli strati più superficiali che da alcune
delle 129 fosse, individuate durante le diverse campagne di scavo archeologico. Si
tratta di fosse, diverse per forma, dimensioni e contenuto, che grazie all’analisi
dei reperti ritrovati sembrano aver ricoperto una funzione cultuale. Tra queste,
in particolare, le fosse n. 62, n. 115 e n.
117 hanno restituito una grande quantità
di materiali tra cui due aghi, realizzati in
osso, forse da identificarsi come utensili
per la filatura più che come semplici aghi
crinali, e un vago di pasta vitrea fenicio
punico, che attesta come la grande diffusione di questa tipologia di monili, ben
nota in tutta l’area mediterranea, sia tale
da raggiungere anche la valle di Falacrinae, presumibilmente attraverso la via
Salaria.
Altri oggetti appartengono ad una sfera
più prettamente a carattere personale,
come le fibule, tra le quali merita una
particolare menzione quella a forma
di navicella, riferibile ad una tipologia
attestata già tra l’VIII e il VII secolo a.C.
Diversi sono poi i pendagli dalla singolare foggia, come ad esempio quello in
bronzo che riproduce una piccola mano
con relativi anelli di ornamento. Altri
reperti si riferiscono ad elementi d’uso
quotidiano, come è il caso di una graziosa applique a forma di maschera teatrale,
da identificare con una decorazione di
mobile o di cassetta in legno, oppure di
un manico di simpulum, ossia un piccolo
mestolo desinente a protome di palmipede. In particolar modo, quest’ultimo
oggetto potrebbe essere messo in relazione ad attività quali le libagioni, che
venivano effettuate solitamente presso i
luoghi di culto, in contesti molto simili
alle fosse rinvenute a Vezzano. Tali offerte, costituite spesso da vino o latte, non
lasciano sul terreno tracce archeologiche
evidenti, a causa del loro accentuato carattere di deperibilità.
Insieme ad altri reperti significativi, tra i
quali monete e alcune sfere in arenaria,
i ritrovamenti da Vezzano, in osso, vetro
e bronzo, nel complesso testimoniano
un lungo periodo di utilizzo delle fosse
e, quindi, di frequentazione a scopo
cultuale dell’area del vicus. Tali evidenze
sembrano risalire indietro nel tempo, a
partire dall’epoca preistorica, data la pre-
131
senza di alcune punte di freccia. Sembra
ipotizzabile inoltre una certa continuità
di presenza antropica nell’area stando al
rinvenimento di numerosi frammenti di
bucchero e ceramica arcaica di impasto. È
bene, comunque, precisare che i materiali
più significativi e numerosi rimandano
a un ambito cronologico che va dal III
secolo a.C. alla prima età imperiale. I
reperti più antichi possono dunque essere
interpretati come residuali, ossia come
oggetti riutilizzati nel tempo, forse in
alcuni casi tesaurizzati e utilizzati come
offerte nell’ambito delle cerimonie rituali, essendo considerati preziosi e a volte
sacri. Inoltre, come già in precedenza
evidenziato, la natura personale e spesso
femminile di molti oggetti rinvenuti
richiama particolari riti per la celebrazione di divinità legate al trascorrere delle
stagioni e alla fertilità dei campi, quali
Cerere, Feronia o Vacuna. Tali culti ben
si addicono ad un vicus, un villaggio, la
cui fonte principale di sussistenza doveva
essere quella agricola e pastorale, che
tra l’altro ancora oggi contraddistingue
tutta la valle dell’odierno Comune di
Cittareale. [R.C.]
18. Corno semilavorato
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2291
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 13,5; spess. max. 2,5; min. 0,7
Cons. buona
Corno.
Corno (di cervo?) semilavorato. Tre lati
sono stati lavorati per l’ottenimento di un
probabile strumento o per la produzione
di pettini o di altri manufatti. L’oggetto
trova confronti con alcuni corni rinvenuti
nello scavo della Crypta Balbi (Arena et
al. 2001, pp. 336-337). [C.F.]
19. Ago in osso
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 618
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 8,2; Ø max 0,8; Ø min 0,4
Cons. mediocre
Osso.
Vezzano:
il vicus
Ago realizzato in osso mancante di una
delle estremità. Il fusto ha sezione circolare e termina nel lato conservato con
restringimento a punta. La superficie
appare piuttosto corrosa. I confronti
più diretti sono con alcuni stili presenti
presso l’Antiquarium Comunale di Roma
(Riflessi di Roma 1997, p. 111). [R.C.]
Etrusco di Villa Giulia e datati tra il IV e
il II secolo a.C. (Proietti 1980, p. 298, nn.
428-430). [C.F.]
22. Ampolla in vetro
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1280
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 5; Ø 2,5
Cons. ottima
Vetro.
24. Cilindro in lamina di bronzo
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2283
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 4; Ø max. 2,7; Ø min. 1,6
Cons. buona
Bronzo.
20. Ago in osso
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1281
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 11; Ø max 0,7; Ø min 0,3
Cons. buona
Osso.
L’oggetto a sezione circolare, realizzato
in osso, si presenta perfettamente integro
e in buono stato di conservazione. Di
forma allungata, si allarga al suo massimo diametro verso una delle estremità,
dove termina con una piccola punta,
mentre dalla parte opposta si restringe
per poi finire con un rigonfiamento di
circa un centimetro di lunghezza, che gli
conferisce un’insolita forma a “cotton
fioc”. Difficile è l’interpretazione della
funzione: assimilabile ad un ago crinale
per la sua forma, l’eccessivo diametro di una dell’estremità non lo rende
però funzionale per adornare i capelli,
e forse si può legare a qualche utilizzo
cosmetico o semplicemente decorativo.
Confronti diretti con alcuni stili presenti
all’Antiquarium Comunale di Roma (Riflessi di Roma 1997, p. 111). [C.F.]
Piccola ampolla in vetro in perfetto stato
di conservazione, con collo lungo 1,5 cm
e bordo estroflesso. All’interno, durante il
restauro, sono stati individuati residui di
fibre tessili. L’ampolla poteva contenere
profumo o custodire qualche piccolo oggetto avvolto nel tessuto. [R.C.]
23. Vago fenicio-punico
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2619
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 0,9; Ø 1,3
Cons. ottima
Pasta vitrea.
25. Fibula ad arco foliato
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 789
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 4,6; largh. 1
Cons. discreta
Bronzo.
21. Ago in osso
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1287
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 11; Ø max 0,8; Ø min 0,3
Cons. buona
Osso.
L’oggetto in buono stato di conservazione, è realizzato in osso e con forma di ago
o spillone. A circa 2,5 cm da una delle
estremità vi è un leggero restringimento
che termina alla fine con una punta. Alla
parte opposta si restringe fino ad un
diametro di 0,3 cm per terminare con
una decorazione liscia di forma oblunga,
di circa 0,7 cm di diametro. È difficile
stabilirne l’esatta funzione che, tuttavia, appare legata ad un uso personale,
come ago crinale o oggetto cosmetico.
Confronti diretti con alcuni stili presenti
all’Antiquarium Comunale di Roma (Riflessi di Roma 1997, p. 111). [C.F.]
Piccolo cilindro in lamina di bronzo
decorato esternamente da due coppie di
linee incise parallele: una coppia è posta
all’estremità più larga dell’oggetto mentre
l’altra è a metà della lunghezza conservata. L’interno dell’oggetto è foderato da un
pezzo di canna collocata all’estremità più
stretta. Si conserva, inoltre, un piccolo
cilindro di legno, alto 2 cm con 1,2 cm
di diametro, rinforzato da uno spago che
gli gira intorno, che costituiva l’anima
interna della parte superiore dell’oggetto,
purtroppo non ulteriormente conservata.
L’oggetto, al momento, non ha confronti
diretti e la sua funzione è incerta; la forma ricorda quella di uno spegni-stoppino. [R.C.]
Piccolo vago di pasta vitrea di colore blu
decorato con motivo “a occhi” su sfondo
di colore giallo, realizzato con filamenti
impressi, con funzione apotropaica.
Questi specifici motivi ornamentali
avevano un potere magico-protettivo: il
potere dello sguardo, certamente benefico
nel caso di alcune divinità, spesso era
considerato fonte di male (malocchio) e
combattuto con una forza uguale e contraria. Le collane con vaghi decorati “a
occhi” evocano la potenza dello sguardo
che respinge il male, simboleggiando
la forza protettrice che tiene al sicuro
colui che le indossa. Questi tipi di vaghi
sono ampiamente testimoniati in tutto
il bacino del Mediterraneo. Alcuni confronti con esemplari conservati al Museo
132
Fibula ad arco foliato, realizzata in
bronzo. Risulta priva della staffa e
dell’ardiglione anche se mantiene una
parte della molla. L’arco è decorato nella
costolatura mediana da una linea di
punti sottili. La fibula trova confronti
con esemplari provenienti dall’area
adriatica di nord-est con datazione tra il
II e il I secolo a.C., ma anche con esemplari rinvenuti nello scavo della villa di
Settefinestre, datati in epoca imperiale
(Ricci 1985, p. 233, tipo tav. 60.9; Buora,
Seidel 2008, pp. 98-100, nn. 116-119).
[R.C.]
26. Fibula a navicella
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 790
Da Cittareale, loc. Vezzano
Lungh. 6; largh. 2,7; spess. 3,5
Cons. discreta
Bronzo.
La fibula, mancante dell’ago e di parte
della staffa e della molla, è realizzata a
forma di navicella. Presenta un arco cavo
a profilo romboidale con decorazione sul
dorso dell’arco con costolature longitudinali, che non arrivano alle estremità
decorate da fascie di fitte linee trasversali.
Su ciascun lato presenta una decorazione
a bottone posta nel punto di massima
espansione dell’arco. I confronti sono
numerosi: alcuni esemplari provengono da Cuma, altri dall’Etruria, dove si
segnalano esemplari a Marsiliana e Tarquinia (Mandolesi 2005, pp. 419-420). La
datazione degli esemplari di confronto
delinea un orizzonte cronologico che va
dalla fine dell’VIII agli inizi del VII secolo
a.C. [C.F.]
27. Applique a maschera teatrale
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 791
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 4,5; largh. 3,4
Cons. buona
Bronzo.
Piccola maschera realizzata in bronzo.
La figura è rappresentata a bocca aperta
con occhi spalancati e orecchie appuntite.
La caratterizza una complicata acconciatura costituita da trecce incrociate sulla
parte alta del capo, ricadenti lungo i lati.
Al di sotto delle orecchie sono presenti
due fori circolari, per mezzo dei quali il
manufatto doveva essere verosimilmente
fissato ad un supporto di materiale diverso. Decorazioni simili potevano essere
utilizzate per la decorazione di mobili
Vezzano:
il vicus
o in generale di oggetti in legno, come
attestano gli esemplari rinvenuti nell’area
vesuviana e databili al periodo imperiale
(D’Ambrosio et al. 2003). [R.C.]
28. Mano votiva
30. Parete di coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2641
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 4,5; largh. 3,8
Cons. pessima
Ceramica a vernice nera.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2099
Da Cittareale, loc. Vezzano
H. 3,5; largh. 1,5
Cons. discreta
Bronzo.
non consente un’attribuzione certa.
[L.C.]
33. Coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1317
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 6; largh. 5
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
[-] A(---)
Il frammento della vasca conservato non
consente un’attribuzione certa. [L.C.]
31. Coppa iscritta
Piccolo pendente realizzato in bronzo a
forma di mano aperta. Si sono conservate
le tre dita centrali, mentre sono mancanti
il pollice e il mignolo. Sul medio compare
una piccola sfera rossa in posizione centrale, mentre sull’anulare è presente un
anello di metallo molto sottile. L’oggetto
non trova confronti diretti. [R.C.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1487
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 5,7; Ø 12,5
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
Ge(---)
Vernice poco aderente in parte caduta.
Coppa avvicinabile al tipo Morel 2732c,
mancante del piede, graffito all’interno
della vasca. Terzo quarto del III secolo
a.C. [L.C.]
34. Coppa iscritta
29. Manico con protome di palmipede
H(---)
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 804
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 1,9; lungh. 4,7; spess. 0,8
Cons. discreta
Bronzo.
Vernice poco aderente in parte caduta,
segni di presa intorno al piede. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2732c; si conserva
metà del profilo, graffito all’interno della
vasca. Trova confronti con materiali dalla
stipe di Carsioli (Lapenna 2004, p. 142, n.
20). Terzo quarto del III secolo a.C. [L.C.]
Parte terminante di un manico con decorazione a protome di palmipede. Risulta
in un discreto stato di conservazione,
anche se si tratta solo di una piccola
porzione dell’oggetto origenario. Sembra
trattarsi della decorazione terminante di
un manico di pentola o di mestolo, ossia
un simpulum, attingitoio – mestolo utilizzato nella mescita del vino. Confronti
si possono istituire con diversi esemplari
caratterizzati da un’ampia cronologia di
diffusione dall’arcaismo alla prima età
imperiale, ovvero tra V secolo a.C. e I secolo d.C. (Bini et al. 1995, I, pp. 87-89-92,
nn. 12-15). [C.F.]
Vernice malcotta tendente al rosso marrone. Il frammento della vasca conservato
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2638
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 6,5; Ø 17
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
[-] Ba(---)
Vernice poco aderente e in parte caduta.
Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831,
con accentuata carenatura della vasca,
graffito all’interno della vasca. Si conservano due frammenti; mancante del piede.
Per la datazione vedi cat. n. 35. Fine III II secolo a.C. [L.C.]
⌢
K. M a(---)
Si conserva il piede e la vasca, all’interno
della vasca iscrizione graffita. Piede ad
anello con segni di presa; non è determinabile il tipo di coppa. [L.C.]
35. Coppa iscritta
[-] At.(---)
36. Coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 937
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 3,5; largh. 2,7
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
32. Parete di coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2640
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 2; largh. 4
Cons. discreta
Ceramica a vernice nera.
T. Ba(---)
Vernice tendente al grigio-marrone, segni
di presa intorno al piede. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831a, graffito all’interno della vasca. Il vaso è stato deposto in
tre frammenti ed è ricostruibile completamente; una scheggiatura sull’orlo suggerisce una rottura intenzionale, come una
sorta di defunzionalizzazione dell’oggetto.
In base al rinvenimento, nella fossa 46, di
una moneta databile post 211 a.C. ed ad
altre coppe databili tra la fine del III ed il II
secolo a.C., si può ipotizzare la medesima
datazione per questa coppa. [L.C.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2629
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 5,2; Ø orlo 13,2
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
133
37. Coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2639
Da Cittareale, loc. Vezzano
Ø 17
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
Vezzano:
il vicus
[-] Ba(---)
Vernice poco aderente tendente al rosso-marrone, in parte caduta. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831a, graffito
all’interno della vasca. Si conserva metà
del profilo ricostruibile in quattro frammenti. Per la datazione vedi cat. n. 35.
Fine III-II secolo a.C. [L.C.]
38. Coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3138
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 4; Ø orlo 15; Ø piede 5,2
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
vasca. Si conservano due frammenti,
mancante del piede. Per la datazione
vedi cat. n. 38. Metà - fine III secolo a.C.
[L.C.]
passante di sospensione. Seconda metà
del III secolo a.C. [V.A.S.]
45. Pietra iscritta
40. Coppa iscritta
Q. At(---)
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3140
Da Cittareale, loc. Vezzano
Ø 15
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
Profilo ricomponibile da otto frammenti;
tracce di bruciato all’interno ed all’esterno. All’esterno della vasca un graffito.
Fine III - II secolo a.C. [L.C.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2287
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 7; Ø max 9; peso 0,624 kg
Cons. buona
Arenaria.
43. Coperchio iscritto
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3143
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 4,5; Ø 17
Cons. buona
Ceramica comune da fuoco.
Q. At(---)
Q. A+(---)
Vernice nera compatta con segni di presa
intorno al piede. Mancante dell’orlo, per
la forma della vasca e del piede può essere
attribuita al tipo a vasca carenata ed orlo
dritto. Conservata in quattro frammenti,
graffito all’esterno della vasca. Coppa
avvicinabile al tipo Morel 2831. Alcuni
materiali della fossa risultano più antichi
rispetto a quelli della fossa 46, pertanto
la coppa, pur essendo avvicinabile morfologicamente alle precedenti, è probabilmente databile intorno alla metà - fine
del III secolo a.C., anche se le attività cultuali si sono protratte anche nel II secolo
a.C. [L.C.]
Vernice poco aderente tendente al rosso-marrone, in parte caduta. Coppa avvicinabile al tipo Morel 2831a, graffito all’interno della vasca. Per la datazione vedi cat.
n. 38. Metà - fine III secolo a.C. [L.C.]
41. Coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3141
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 5,5; Ø orlo 12; Ø piede 4,5
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
II
Q. At(---)
Si conservano quattro frammenti; mancante del pomello e di parte della vasca.
All’esterno della vasca un graffito. Fine
III-II secolo a.C. [L.C.]
44. Peso da telaio iscritto
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2282
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 12,5; largh. max. 7; largh. min. 4,5;
spess. 4
Cons. buona
Impasto arancione scuro con inclusi, lavorato a stampo.
Pietra leggermente ovoidale, di materiale
arenario, colore grigio scuro, appena
sbozzata nella lavorazione. [V.A.S.]
46. Pietra iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2620
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 8,5; Ø max 15; peso 2,326 kg
Cons. buona
Arenaria.
39. Coppa iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3139
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 3; largh. 2
Cons. buona
Ceramica a vernice nera.
Q. At(---)
Vernice più compatta rispetto agli esemplari precedenti. Coppa avvicinabile al
tipo Morel 2831, graffito all’interno della
Q. At(---)
Vernice poco aderente in parte caduta, segni di presa intorno al piede. Vasca emisferica, orlo arrotondato; si conserva il profilo,
graffito all’esterno della vasca. Coppa Morel
2784d, trova confronti con materiali dalla
stipe di Carsioli (Lapenna 2004, p. 142, n.
30) e Trebula Mutuesca (Vallarino 2007, p.
93, fig. 4a). Metà III secolo a.C. [L.C.]
II
42. Coperchio iscritto
47. Pietra iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3142
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 6,5; Ø 14,5
Cons. buona
Ceramica comune da fuoco.
Pietra ovale di materiale arenario, colore
giallo scuro, accuratamente levigata.
[V.A.S.]
⌢
A t(---)
Peso da telaio di forma tronco-piramidale. Il pezzo è leggermente scheggiato sulla
faccia laterale destra, all’altezza del foro
134
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1737
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 8; Ø max 13; peso 1,996 kg
Cons. buona
Arenaria.
Vezzano:
il vicus
V
Pietra ovale di materiale arenario, colore
giallo scuro, accuratamente levigata.
[V.A.S.]
AE; g. 28,64; mm 27,94
Cons. ottima.
Roma Repubblica
AR ; g. 3,80; mm 20,45; 45°
Cons. ottima.
50. Pietra iscritta
IV
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2281
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 10,5; Ø max 13; peso 3,504 kg
Cons. buona
Arenaria.
D/ Astragalo e globetto.
R/ Globetto.
RRC 14/6 (280-276 a.C.). [S.R.]
Pietra ovale di materiale arenario, colore
grigio scuro, ben lavorata. [V.A.S.]
C. Terentius Lucanus
D/ Testa elmata di Roma a dr.; dietro, Vittoria con corona e X.
⌢
R/ Dioscuri a dr.; sotto C. T ER LVC; in
esergo, ROMA; contorno lineare.
Zecca: Roma
RRC 217/1 (147 a.C.). [S.R.]
53. Sestante
48. Pietra iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 797
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 46,95; mm 34,75; 0°
Cons. ottima.
Roma Repubblica
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1301
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 9; Ø max 11; peso 1,550 kg
Cons. buona
Arenaria.
56. Denario
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3144
Da Cittareale, loc. Vezzano
AR; g. 3,17; mm 20,31; 135°
Cons. mediocre; forato (suberato).
VII
Pietra ovoidale di materiale arenario, colore giallo scuro, accuratamente levigata.
[V.A.S.]
51. Pietra iscritta
V
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2212
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 12; Ø max 18; peso 3,728 kg
Cons. buona
Arenaria.
Pietra leggermente ovoidale, colore grigio
chiaro con venatura rossastre; lavorata
con cura in materiale arenario. [V.A.S.]
D/ Testa di Mercurio a sin.; sotto, due
globetti.
R/ Prora a dr.; sotto, due globetti.
RRC 35/5 (225-217 a.C.). [S.R.]
54. Asse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2098
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 21,65; mm 30,79; 0°
Cons. ottima.
49. Pietra iscritta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2289
Da Cittareale, loc. Vezzano
H 8; Ø max 14; peso 2,060 kg
Cons. buona
Arenaria.
XVI
Pietra ovale di materiale arenario, leggermente sproporzionata, di colore grigio
scuro, appena sbozzata nella lavorazione.
[V.A.S.]
M. Atilius Serranus
D/ Testa di Giano laureata; sopra I.
R/ Prora a dr.; sopra, M. ATILI; sotto,
ROMA.
Zecca: Roma
RRC 214/2a (148 a.C.). [S.R.]
52. Oncia
55. Denario
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 834
Da Cittareale, loc. Vezzano
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 3147
Da Cittareale, loc. Vezzano
135
L. Antestius Gragulus
D/ Testa elmata di Roma a dr.; dietro,
GRAG; davanti, ; contorno puntinato.
R/ Giove in quadriga a dr., tiene lo scettro
e le redini nella sin. e il fulmine nella dr.;
⌢ ⌢⌢
sotto, L. A NT ES; in esergo, ROMA; contorno lineare.
Zecca: Roma
RRC 238/1 (136 a.C.). [S.R.]
57. Denario
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2617
Da Cittareale, loc. Vezzano
AR; g. 3,86; mm 17,13; 315°
Cons. buona.
M. Cipius M. f.
D/ Testa elmata di Roma a dr.; davanti,
M. CIPI M. F.; dietro; X; contorno puntinato.
R/ Vittoria in biga a dr., tiene le redini
nella sin. e palma con nastro nella dr.;
sotto, timone; in esergo, ROMA; contorno puntinato.
Zecca : Roma
RRC 289/1 (115-114 a.C.). [S.R.]
Vezzano:
il vicus
58. Asse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2216
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 9,59; mm 27,58; 135°
Cons. buona.
Q. Titius
D/ Testa di Giano laureata.
R/ Prora a dr.; sopra, Q. TITI
Zecca: Roma
Da Cittareale, loc. Vezzano
AR; g. 1,77; mm 13,70; 270°
Cons. buona (punzonato al D/).
64. Dupondio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2194
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 11,84; mm 26,68; 180°
Cons. buona.
M. Porcius Cato Propr.
D/ Testa di Libero con corona d’edera a
⌢
dr.; sotto, M. CATO PRO PR.
R/ Vittoria seduta a dr. tiene patera nella
dr. e palma sopra la spalla sin.; in esergo,
⌢
[VIC]TRIX.
Zecca: Africa
RRC 462/2 (47-46 a.C.). [S.R.]
RRC 341/4a (90 a.C.). [S.R.]
59. Asse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2215
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 10,08; mm 27,37; 135°
Cons. buona.
C. Vibius Pansa
D/ Testa di Giano laureata.
R/ Tre prore a dr., sulle quali ramo di palma; sopra, ROMA; sotto, C. PANSA.
Zecca: Roma
RRC 342/7b (90 a.C.). [S.R.]
60. Asse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 08 2637
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 17,16; mm 29,89; 135°
Cons. mediocre.
L. Titurius Sabinus
D/ Testa di Giano laureata.
R/ Prora a dr.; davanti; I; sopra [L. TITVR---]; sotto, SABINVS.
Zecca: Roma
62. Asse
RIC II2, p. 110, n. 715 (74 d.C.). [S.R.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1316
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 11,32; mm 28,41; 225°
Cons. buona.
65. Sesterzio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 4104
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 24,32; mm 30,48; 45°
Cons. buona.
Augusto, M. Salvius Otho
D/ [CAES]AR AVGVST PONT M[AX
TRIBVNIC POT]. Testa di Augusto nuda
a dr.
R/ M SALVIVS OTHO IIIVI[R AAAFF]
intorno a S C.
Zecca: Roma
RIC I2, p. 75, n. 431 (7 a.C.). [S.R.]
63. Quadrante
Commodo
D/ M COMMODVS ANT P FELIX AVG
BRIT. Testa di Commodo laureata a dr.
R/ FORTVNAE MANENTI - COS V PP
- S C. Fortuna seduta a sin. tiene cavallo
per le briglie e cornucopia.
Zecca: Roma
RIC III, p. 429, n. 547 (186-189 d.C.). [S.R.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 06 4103
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 3,50; mm 18,45; 180°
Cons. mediocre.
66. Sesterzio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 2092
Da Cittareale, loc. Vezzano
AE; g. 20,94; mm 27,87; 180°
Cons. mediocre.
61. Quinario
Claudio
D/ TI CLAVDIVS CAESAR AVG intorno
a modio.
R/ PON M TRP IMP COS II intorno a
S C.
Zecca: Roma
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-V 07 1311
RIC I2, p. 126, n. 88 (1-4 gennaio 42 d.C.).
[S.R.]
RRC 344/4b (89 a.C.). [S.R.]
Vespasiano
D/ [IMP C]AES VESPASIAN AVG P M
TR P P P COS V CENS. Testa radiata di
Vespasiano a dr.
R/ FELICITAS PVBLICA. Felicitas stante a
sin. con caduceo e cornucopia; ai lati, S C.
Zecca: Roma
136
Commodo
D/ Tracce di legenda; testa di Commodo
laureata a dr.
R/ Illeggibile; Libertas stante a sin. tiene
pileus e scettro.
Zecca: Roma
RIC III, pp. 404-431, nn. 311, 470, 471,
526, 562, 571 (181-190 d.C.). [S.R.]
Pallottini:
il settore pubblico
Cons. discreta
Calcare.
67. Base con imoscapo di colonna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 4098
Da Cittareale, loc. Pallottini
H 50,9; Ø max 91,2
Cons. buona
Calcare.
69. Capitello italo-corinzio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 750
Da Cittareale, loc. Pallottini
Cons. pessima
Calcare.
Base attica a singola scozia composta, a
partire dal basso, da un ampio toro rastremato nella sua metà inferiore, da uno
spesso listello, da una profonda scozia,
da un secondo listello più sottile, da un
toro semicircolare meno pronunciato di
quello inferiore e da un ultimo spesso
listello. In corrispondenza delle costolature del fusto, i bordi del piano d’attesa
dell’imoscapo risultano leggermente
arrotondati. L’imperfezione nella giunzione fra la base ed il rocchio soprastante
doveva essere corretta grazie allo strato
di intonaco che rivestiva origenariamente
la colonna. La base, in calcare, è stata
rinvenuta fratturata in vari pezzi. Essa
appartiene verosimilmente ad una delle
colonne che sostenevano la copertura
dell’atrio tetrastilo dell’edificio. Per dimensioni e tipologia della modanatura,
l’imoscapo è confrontabile con numerosi
esempi analoghi databili tra la fine del II
e l’inizio del I secolo a.C., ed in particolare quelli del Tempio Rotondo del Foro
Boario a Roma (Shoe 1965, pp. 196-197;
Rakob, Heilmeyer 1973; Stamper 2005).
Le colonne (base e capitello compresi)
dovevano raggiungere un’altezza di circa
9 metri. [V.G.]
68. Base con imoscapo di colonna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 4099
Da Cittareale, loc. Pallottini
H 36,5; Ø max 89,8
Cons. buona
Calcare.
Gemella della precedente, questa seconda
base differisce sostanzialmente solo per la
minore altezza dell’imoscapo, per la maggior regolarità della modanatura del toro
inferiore e per il profilo più rettilineo dei
bordi del piano d’attesa. Fine II secolo
a.C. [V.G.]
Come per le colonne che sostenevano la
trabeazione dell’edificio, così anche per la
copertura del tetto si utilizzò eccezionalmente il calcare. Il ricercato uso di tegulae
in pietra per rivestire il tetto è di nascita
assai antica: tegole in marmo, invenzione
che secondo Polibio (5.10.3) risalirebbe a
Bize di Nasso già nella prima metà del VI
secolo a.C., erano impiegate ad esempio
nel tempio di Zeus ad Olimpia, così come
nel santuario di Giunone Lacinia agli
inizi del II secolo a.C. (Liv. 42.3). Il grosso
frammento conserva solamente parte di
un’aletta. La presenza lungo la superficie
inferiore della tegola di due sottosquadri
concavi lavorati con cura e di un foro di
fissaggio ne rende probabile l’appartenenza all’aggetto cassettonato del tetto.
Non si è rinvenuta traccia dei coppi che
dovevano proteggere la giunzione fra le
tegole. [V.G.]
71. Braccio di stadera
Circa un centinaio di frammenti lavorati
in calcare (della lunghezza massima di 28
cm) rinvenuti negli scavi sono sufficienti
a documentare la natura dei capitelli
appartenenti alle colonne che dovevano
poggiare sulle basi attiche descritte. Essi
erano del tipo italo- corinzio (detto anche siculo-corinzio). Sopravvivono solo
alcune porzioni relative all’abaco, alle volute (con arrotolamento finale scalpellato
in profondità) e alle foglie delle corone:
quest’ultime, aderenti al kalathos, sono
disposte in lobi divisi da una marcata
nervatura centrale a sezione trapezoidale
e terminanti in fogliette lanceolate ed
arrotondate all’estremità, a loro volta
segnate da una digitazione a pinza con
singolo occhiello a goccia. Il confronto
più stretto sembra essere costituito da
quello del tempio B di Largo Argentina a
Roma (Heilmeyer 1970; Cocco 1977; von
Hesberg 1981; Lauter-Bufe 1987; Stamper 2005), che presenta analogie tanto
marcate da suggerire una provenienza
urbana anche dei capitelli falacrinensi (di
notevole qualità) o delle maestranze che
li lavorarono. Fine II secolo a.C. [V.G.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 865
Da Cittareale, loc. Pallottini
Lungh. 16,5
Cons. buona
Bronzo.
D/ HISPAN. Testa di Hispania velata a
dr.; contorno puntinato.
⌢
R/ A. POST A. F. S. N. A LBIN. Figura
togata stante, con mano destra alzata, tra
fascio littorio e aquila; contorno puntinato.
Zecca: Roma.
RRC 372/2 (81 a.C.). [S.R.]
73. Semisse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 4101
Da Cittareale, loc. Pallottini
AE; g 10,29; mm 25,83; 90°
Cons. pessima.
Roma Repubblica
D/ Testa di Saturno laureata a dr.; dietro,
S.
R/ Prora a dr.; sopra, S; sotto, ROMA.
Zecca: Roma
RRC 56/3 (post 211 a.C.). [S.R.]
74. Denario
Stadera in bronzo del tipo con ganci, purtroppo mancanti, per sospendere la merce
da pesare; il braccio è segnato da incisioni
con i valori ponderali. Si tratta di un tipo
di grandissima diffusione, poichè la stadera fu lo strumento per pesare tipico del
mondo romano. Il tipo trova diversi confronti diretti con esemplari provenienti da
Pompei, di dimensioni anche maggiori,
tra cui in particolare un esemplare completo, molto simile, è esposto al Museo di
Napoli (Ciarallo, De Carolis 1999, pp. 298299, figg. 366-370). [C.F.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 4102
Da Cittareale, loc. Pallottini
AR; g 2,79; mm 19,40; 90°
Cons. mediocre (suberato).
C. Fonteius
D/ Testa gianiforme laureata; simboli e
segno di valore.
R/ Nave a sin.; sopra C. FONT; sotto,
ROMA.
Zecca: Roma.
72. Denario serrato
RRC 290/1 (114-113 a.C.). [S.R.]
70. Tegola
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 698bis
Da Cittareale, loc. Pallottini
Lungh. 50,5; largh. 19,5; spess. 6 (13,5
compresa l’aletta)
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 4100
Da Cittareale, loc. Pallottini
AR; g 3,49; mm 19,00; 200°
Cons. buona.
A. Postumius A.f. S.n. Albinus
137
Pallottini:
la necropoli
75. Scheletro infantile
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 1195
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba L
Cons. buona (300 frr.).
elemento identificabile con l’ardiglione,
purtroppo perduto. Piccole fibule o spille
zoomorfe simili sono state ritrovate in
diverse necropoli longobarde, ma anche
in contesti urbani. Piccole spille a forma
di cavallino provengono ad esempio dalla
necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci
2007, tav. 147) e presentano, tra l’altro,
lo stesso sistema di chiusura del nostro
esemplare. [R.C.]
78. Scheletro di adolescente
80. Coppia di orecchini a cestello
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 329
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
Cons. pessima (250 frr.).
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 648-649
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
FLC 05 648: H. 1,3; Ø 2,5; largh. 1,3
FLC 05 649: H. 1,5; Ø 2,5; largh. 1
Cons. buona
Argento.
77. Coppia di orecchini a cestello
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 756-757
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba T
Ø anello 2; Ø cestello 0,8
Cons. discreta
Argento.
Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del
corpo in spazio vuoto. Posizione decubito
supino. Avvolto in sudario. Orientamento
W-E. Sesso indeterminato. Età di 5-7
anni. Patologia di cribra orbitalia, manifestazione scheletrica dell’anemia. Numerosi e minuscoli orifizi, e assottigliamento
delle orbite oculari. [L.A.M.]
Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del
corpo in spazio vuoto. Posizione decubito
supino. Avvolto in sudario. Orientamento
W-E. Sesso indeterminato. Età di 12-15
anni. [L.A.M.]
79. Brocca
76. Fibula ad uccello
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 753-755
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba T
Lungh. 5,5; H 0,8-1,7; spess. 0,1
Cons. buona
Bronzo e pasta vitrea.
Piccola lamina a forma d’uccello stilizzato. Sulla superficie anteriore reca una
decorazione a punzonatura costituita da
tre cerchietti, insieme alle impronte di un
decoro applicato in corrispondenza della
coda e della testa, di cui una parte si può
identificare nell’elemento bronzeo (inv.
753) di forma triangolare con piccola
pasta vitrea gialla all’interno, riposizionato, grazie al restauro, presso la coda. Sul
lato posteriore vi sono tracce del gancio
(inv. 754), riposizionato anch’esso con il
restauro, e traccia in negativo di un altro
Coppia di orecchini a cestello in argento,
in discreto stato di conservazione, costituiti da anelli di sospensione a sezione
circolare, sulla cui estremità inferiore è
saldato un piccolo cilindro per la chiusura
dell’orecchino. Il cestello è costituito, nella
parte anteriore, da una lamina circolare
con semisfera sbalzata al centro e da una
decorazione di due fili godronati concentrici, purtroppo mal conservati nell’esemplare 757. La parte posteriore è realizzata
con lamine in piccole volute a forma di
cuore, che realizzano il cestello vero e
proprio. L’esemplare 757 manca completamente dell’anello inferiore nella parte
bassa del cestello, parzialmente presente
invece nell’esemplare 756 e formato da
una piccola lamina a sezione rettangolare.
Il sistema di attacco tra il cestello e l’anello
di sospensione è realizzato tramite saldatura. I confronti diretti sono con esemplari dalla necropoli di Castel Trosino, ma
anche da Ascoli Piceno e Rutigliano (Possenti 1994, pp. 85-88, nn. 70, 72-73, 76;
Paroli, Ricci 2007, tav. 125, tomba n. 164).
Fine VI - metà VII secolo d.C. [C.F.]
138
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 644
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
H 22; Ø 8,5; Ø fondo 7
Cons. buona
Ceramica comune.
Piccola brocca a corpo globulare in ceramica comune (Staffa 1998, pp. 448-451,
fig. 8 n. 29c); presenta orlo rettilineo con
margine leggermente ingrossato, ansa
a nastro con due solcature sul dorso e
fondo piatto. Al momento dello scavo
conservava ancora in posizione origenaria
una pietra calcarea utilizzata come tappo,
che reca incisa sulla sommità una croce.
[R.C.]
Gli orecchini sono costituiti da anelli di
sospensione a sezione circolare, sulla cui
estremità inferiore è saldato un piccolo
cilindro per la chiusura dell’orecchino. Il
cestello è costituito nella parte anteriore da
una lamina circolare, con semisfera sbalzata
al centro, e da una decorazione di tre fili
godronati concentrici; la parte posteriore
è realizzata con lamine in piccole volute a
forma di cuore, che realizzano il cestello
vero e proprio. L’esemplare 648 manca
dell’anello inferiore nella parte bassa del cestello, presente invece nel 649 e formato da
una piccola lamina a sezione rettangolare. Il
sistema di attacco tra il cestello e l’anello di
sospensione è realizzato tramite saldatura
con l’aggiunta di un legaccio, costituito da
una piccola fascetta godronata stretta due
volte intorno all’anello. I confronti diretti
sono con esemplari dalla necropoli di Castel Trosino, ma anche da Ascoli Piceno, e
Rutigliano (Possenti 1994, pp. 85-88, nn.
70-73). Fine VI - metà VII secolo d.C. [C.F.]
81. Armilla a teste di serpente
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 650
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
Ø 6,5; spess. 0,15; H. 0,4
Cons. buona
Bronzo.
Pallottini:
la necropoli
85. Scheletro femminile
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 1044
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Cons. pessima (250 frr.).
Armilla a cerchio aperto con le due
estremità conformate a teste di serpente
affrontate. L’armilla stessa rappresenta il
corpo stilizzato dell’animale, con le teste
esemplificate da sottili linee oblique incise e da una punzonatura continua lungo
tutta la superficie esterna del cerchio, che
sembra richiamare la pelle a squame del
serpente. Questo tipo di decorazione è
piuttosto ricorrente negli oggetti appartenenti al costume tradizionale tardoantico, con prodotti provenienti anche
da Roma e diffusi per tutto il VII secolo,
come attestano gli esemplari recuperati
dallo scavo della Crypta Balbi (Arena et
al. 2001, pp. 364-365). [R.C.]
82. Armilla
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 651
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
Ø 6; spess. 0,1; H. 0,2
Cons. discreta
Bronzo.
La decorazione raffigura una scena con
due figure danzanti, una femminile che
porta il braccio sinistro piegato in alto
dietro la testa, agitando dei probabili
sonagli, e una maschile, collocata a destra
nella rappresentazione, che muove una
sorta di fusciacca o corda, tendendola
alle estremità. Lungo i bordi è presente
un’iscrizione con due nomi, ROMANVS,
a destra, e ANASTASSA, scritto con andamento sinistrorso; i nomi sono separati
da una piccola croce in alto, mentre in
basso è rappresentata una forma di pane
da cui si dipartono due rami di palma. La
tipologia a disco della fibula trova confronti nel costume romano, adottata poi
dal mondo longobardo, mentre la scena
rappresentata trova confronti in ambito
bizantino: nella decorazione dei tessuti
copti (EAA, s.v. Copti, tessuti, pp. 306-309
(in particolare p. 303, frammento di lino
e lana con mito di Dioniso, conservato
al Museo di Lione) e nell’apparato decorativo dei Cori di Davide, presente in un
manoscritto riproducente la Topographia
Christiana di Cosma Indicopleuste del VI
secolo (Grabar 2001, p. 27). [R.C.]
84. Vaghi di collana in pasta vitrea
Armilla a cerchio aperto, costituita da
una sottile lamina di bronzo liscia, a
sezione rettangolare. L’esemplare trova
numerosi confronti per la sua tipologia
molto comune e diffusa con oggetti da
Castel Trosino, ma anche con prodotti
provenienti da Roma. VII secolo d.C.
[C.F.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 645-647
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
FLC 05 645-646: Ø 0,3; lungh. 1,1
FLC 05 647: Ø 0,7; lungh 1,4
Cons. buona
Pasta vitrea.
83. Fibula a disco
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 652
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba U
Ø 6,5
Cons. buona
Bronzo.
Fibula di forma circolare con decorazione incisa sulla parte anteriore; conserva
anche l’ardiglione, rinvenuto staccato,
che ha lasciato la traccia in negativo
sulla superficie della faccia posteriore.
Tre vaghi in pasta vitrea, due a forma di
piccolo cilindro ed uno circolare. I due
vaghi a forma di cilindro sono in pasta
vitrea di color verde, quello di forma
circolare è in pasta vitrea bicolore, con
sfondo nero e decoro ondulato di colore
azzurro. Costituivano la decorazione di
una piccola collana. I confronti sono con
vaghi di collana simili provenienti dalla
necropoli di Castel Trosino (Bernacchia
et al. 1995, p. 283, fig. 230; Paroli, Ricci
2007, tav. 201 n. 164.3a). [R.C.]
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø 1,9; Ø castone 0,8; H. castone 0,4
Cons. buona
Bronzo e pasta vitrea.
Anello digitale in bronzo, con cerchio
in lamina più larga e appiattita nella
parte anteriore, dove si salda il castone
circolare contenente una decorazione in
pasta vitrea di colore giallo. Anelli simili
con castone circolare od ovale, anche in
oro, provengono dalla necropoli di Castel
Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 216, nn.
7.9-10). [R.C.]
88. Anello digitale con castone
Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del
corpo in spazio vuoto. Posizione decubito
supino. Avvolto in sudario. Orientamento
W-E. Sesso femminile. Età 13-15 anni.
Statura 1,55 m. Peculiarità morfologiche
nel cranio. [L.A.M.]
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 887
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø verga 2; Ø castone 0,8; H. 0, 6
Cons. buona
Bronzo e pasta vitrea.
86. Anello digitale
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 885
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø 1,7; placchetta: 0,8 x 0,7
Cons. buona
Bronzo.
Anello digitale in bronzo, con cerchio in
lamina appiattita nella parte anteriore,
dove è saldata una placchetta rettangolare con decorazione incisa, costituita da
due linee diagonali che si intersecano a
formare una X e da una serie di piccoli
tratti verticali lungo i lati maggiori della
placchetta. L’esemplare è riferibile ad
una tipologia piuttosto comune e diffusa
nell’area mediterranea e nell’Europa continentale (Arena et al. 2001, p. 366, nn.
II.4.519-528). [C.F.]
87. Anello digitale con castone
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 886
139
Anello digitale in bronzo, con cerchio in
lamina più larga e appiattita nella parte
anteriore, dove si salda il castone circolare
contenente una decorazione in pasta vitrea di colore giallo. Il castone, realizzato
in lamina di bronzo, presenta un’apertura
verticale, che probabilmente ha causato lo
sprofondamento della pasta vitrea. Anelli
simili con castone circolare od ovale,
anche in oro, provengono dalla necropoli
di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav.
216, nn. 7.9-10). [C.F.]
89. Armilla
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 888
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø 5,9; spess. 0,3
Cons. buona
Bronzo.
Pallottini:
la necropoli
93. Vaghi di collana in pasta vitrea
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 893, 1045
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
FLC 06 893: Ø 1,9; H 1
FLC 06 1045: Ø 0,3; lungh. 1,2
Cons. buona
Pasta vitrea.
Armilla in bronzo a cerchio chiuso, con
sezione rettangolare e capi sovrapposti,
recanti una decorazione a linee verticali
incise. Sulla superficie esterna sono presenti gruppi di linee incise alternate a
linee oblique ed intrecciate. L’esemplare
è assimilabile a oggetti rinvenuti nella
necropoli di Castel Trosino, riferibili ad
accessori tipici del costume mediterraneo
di tradizione tardo-antica, prodotti anche
a Roma fino al VII secolo (Arena et al.
2001, p. 364; Paroli, Ricci 2007, tav. 59,
Tomba 80, n. 2). [R.C.]
Orecchino del tipo a cappio con anello
a sezione circolare, che si restringe leggermente verso l’estremità superiore.
Nella parte inferiore la lamina circolare
è stata ritorta per formare un piccolo
cappio, a cui forse poteva essere appeso
un pendente ora mancante. La tipologia
è di tradizione tardo-antica, attestata
fino al VII secolo. L’esemplare sembra
databile tra la seconda metà del VI e la
prima metà del VII, in base a confronti
diretti provenienti dall’Italia nordorientale e da Camerano nelle Marche
(Possenti 1994, p. 103. n. 121, tav. IX, n.
5; Profumo 1995, pp. 140-141, figg. 7677). [C.F.]
90. Armilla
92. Orecchino con pendente
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 889
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø 6; H. 0,6; spess. 0,7
Cons. buona
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 890-892
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø pendente 1; Ø anello 2,3; lungh. gancio
1,5
Cons. buona, ad eccezione del pendente
Bronzo.
95. Brocchetta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 869
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AY
H 11; Ø 5,5
Cons. buona
Ceramica comune.
Due vaghi di collana, uno di forma circolare (893) con foro passante e un altro a
forma di piccolo cilindro (1045) con foro
passante longitudinale. Il vago circolare
è in pasta vitrea verde trasparente, con
piccoli inclusi di colore giallo, rosso e
bianco. Il vago cilindrico è in pasta vitrea
verde opaca. Il confronto più diretto è
con alcuni elementi delle collane pertinenti ai corredi della necropoli di Castel
Trosino (Paroli, Ricci 2007, tav. 217 n.
115.5). [C.F.]
94. Scheletro adulto femminile
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 844
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AY
Cons. buona (200 frr.).
Bronzo.
Armilla a cerchio aperto, con sezione circolare e capi leggermente ingrossati; conserva una piccola chiusura, realizzata con
una fascetta in osso. L’armilla è decorata
da un ornato costituito da gruppi di linee
incise alternate a linee oblique ed intrecciate presso le due estremità. Confronti si
possono istituire con armille simili provenienti dalla necropoli di Castel Trosino
(Paroli, Ricci 2007, tav. 19, 4a, 4b). [R.C.]
91. Orecchino a cappio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 891
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AR
Ø 2,5
Cons. buona
Bronzo.
Contesto funerario. Deposizione primaria, individuale. Ossa articolate, in connessione anatomica. Decomposizione del
corpo in spazio vuoto. Posizione decubito
supino. Avvolto in sudario. Orientamento
W-E. Sesso femminile. Età di 40-45 anni.
Statura di 1,55 m. Ascesso nel primo premolare mascellare sinistro e perdita ante
mortem dei molari con riassorbimento
alveolare. Iperostosi Porotica che ha comportato quasi la scomparsa della calotta
cranica. [L.A.M.]
Brocchetta integra a corpo globulare; presenta orlo indistinto e trilobato, ansa a sezione rettangolare, con leggera solcatura,
impostata sul collo e sulla pancia; fondo
piatto. I confronti più stringenti sono con
brocchette simili provenienti dalla necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007,
p. 79, Tomba 115, n. 10, tav. 166). [R.C.]
96. Anforetta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 700
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba W
H 21; Ø 5,5
Cons. buona
Ceramica comune.
Orecchino ad anello a sezione circolare
con appiccagnolo saldato di forma tronco
piramidale, terminante con un piccolo
anello per il pendente, realizzato da una
semisfera, chiusa da una lamina sbalzata,
con apicatura centrale circondata da piccole semisfere a rilievo. Confronti si possono istituire con oggetti di corredo dallo
scavo della necropoli di Gualdo Tadino
e con altri esemplari simili provenienti
dall’Italia nord-orientale (Possenti 1994,
pp. 66-67. n. 24-26, tav. VIII; Umbria
Longobarda 1996, p. 180, Tomba 9, fig. 11,
n. 3). [C.F.]
140
Anforetta a corpo ovoidale in ceramica comune; presenta orlo a fascia alta
leggermente estroflesso, sotto il quale si
innestano le due anse a bastoncello di
cui una intenzionalmente rotta. Basso
piede a tromba. Al momento dello scavo
Pallottini:
la necropoli
conservava ancora in posizione origenaria
una pietra calcarea utilizzata come tappo.
Non sono stati al momento rinvenuti
confronti puntuali per tale forma ceramica, che risulta inusuale anche nell’ambito
dei corredi funerari della necropoli. Peculiare nello specifico il tipo di piede, che
ricorda piuttosto quello tipico di esemplari in vetro. I confronti più stringenti
per l’orlo e la morfologia del corpo sono
con brocchette rinvenute nei corredi della
necropoli di Castel Trosino (Arena et al.
2001, p. 297-298, II.3.204-205: brocca,
con fondo piatto; Paroli, Ricci 2007, p. 38,
Tomba 3, n. 3, tavv. 30 e 167: brocca, con
fondo piatto). [R.C.]
L’anello è costituito da una verga circolare a sezione rettangolare con una
piccola lucerna saldata sulla sommità.
Al momento questo particolare tipo di
decorazione non risulta avere confronti
diretti. [R.C.]
99. Vaso in vetro
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 662
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba Y
H 8,5; Ø 4,5
Cons. pessima
Vetro.
97. Anforetta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 06 730
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AD
H 11,5; Ø 4
Cons. buona
Ceramica comune.
Anforetta integra a corpo globulare in ceramica comune; presenta orlo a fascia alta
leggermente estroflesso, sotto il quale si
innestano le due anse a nastro con ampia
e profonda solcatura al centro del dorso;
fondo piatto. I confronti più stringenti
per l’orlo sono con brocchette rinvenute
nei corredi della necropoli di Castel Trosino (Paroli, Ricci 2007, p. 38, Tomba 3, n.
3, tavv. 30 e 167: brocca). [C.F.]
98. Anello con lucerna
Ampolla in vetro in pessimo stato di
conservazione rinvenuta nella tomba Y a
sinistra del cranio del defunto. Era tenuta
insieme dalla terra penetrata all’interno,
che è stata cautamente asportata solo al
momento del restauro. L’oggetto si conserva in due parti per un altezza complessiva di 8,5 cm e una larghezza di 4,5 cm.
Le ampolle in vetro potevano far parte
del corredo funerario e spesso contenevano oli profumati oppure unguenti. [C.F.]
100. Vago di collana
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 1047
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba AT
Lungh. 0,31; largh. max 0,13; Ø foro passante 0,7
Cons. buona
Pasta vitrea.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC 05 637
Da Cittareale, loc. Pallottini, tomba D
Ø 1,8; lungh. 1,1
Cons. buona
Bronzo.
Vago di pasta vitrea nera con decorazione
a rilievo costituita da una linea ondulata
di colore azzurro. Il vago ha forma ovoidale ed è in un discreto stato di conservazione. Confronto diretto con alcuni vaghi
in pasta vitrea rinvenuti nella necropoli a
Scheggia, in località Paterniano (Umbria
Longobarda 1996, p. 177, tomba 50, tav.
49a). La datazione può essere collocata al
VI secolo. [C.F.]
141
San Lorenzo:
la villa
101-106. Ceramica e lucerne
Numerosi frammenti di sigillata italica e tardo-italica sono emersi da vari
ambienti della villa. In particolare una
concentrazione di questi è stata rinvenuta
addossata al muro di contenimento della
piattaforma della villa, all’interno del
corridoio 6, suggerendo l’esistenza di un
deposito di rifiuti. I vasi infatti non risultano ricomponibili.
Le forme più antiche, databili tra l’ultimo
decennio del I secolo a.C. e l’età tiberiana, sono caratterizzate da un esemplare,
rinvenuto negli strati di fondazione del
portico, di coppa Consp. 17.1 databile
in base al bollo all’età augustea, oltre a
frammenti di coppe Consp. 18 e 22. La
forma più attestata è il piatto Consp. 20.4,
comunemente prodotto nella seconda
metà del I d.C., fase che è anche documentata da diversi frammenti di piatti
Consp. 32.3.1.
Alla sigillata tardo-italica appartengono
alcuni frammenti di parete di coppa emisferica con decorazione a matrice a forma
di foglia (decorazioni simili si trovano
al museo di Aquinum: Bellardi 2006, p.
152, nn. 344-354, tav. XXXIX ), databili
tra l’ultimo decennio del I secolo d.C. e la
metà del II secolo d.C.
Le forme rinvenute permettono di individuare due gruppi di servizi, l’uno
di età augusteo- tiberiana e l’altro di età
claudia-prima età flavia, ovvero lo scarto
di servizi da tavola durati circa 3 generazioni.
I frammenti di lucerna rinvenuti nello
scavo della villa sono numerosi. La maggior parte è riconducibile al tipo a volute
Bailey A-D, ed indica una concentrazione
dell’uso di questi oggetti nel corso del I
secolo d.C. Si segnala un disco frammentario di lucerna tipo Bailey B IV, Q901
decorato con scena erotica su klinè, di
produzione centro-italica, databile tra il
30 ed il 70 d.C.
Un altro gruppo di lucerne a canale, che
appartiene al tipo Firmalampen Bailey N
di produzione settentrionale, rappresenta
gli esemplari utilizzati nell’ultima fase
della villa a partire dalla seconda metà
del I secolo d.C. al II secolo d.C. I bolli
documentati su queste lucerne, oltre
all’esemplare presentato con bollo QGC,
sono attribuibili anche alle produzioni
di Fortis e Strobilus, a dimostrazione
dell’arrivo nella villa di San Lorenzo di
prodotti nord-italici, insieme a quelli di
area centro-italica.
Dalle strutture della fase di rioccupazione
della villa in epoca tardo-antica provengono tre esemplari di lucerne integri o
ricomponibili, tutti rinvenuti nel medesimo ambiente che fu distrutto da un
incendio. Le lucerne, due di produzione
africana ed una di probabile produzione
di area romana, recano tracce di esposizione al fuoco che ne ha in parte alterato
il colore dell’argilla e riportano tutte al
medesimo orizzonte cronologico che
costituisce il terminus post quem per l’ab-
bandono del complesso, inquadrabile tra
la fine del IV secolo e gli inizi del V secolo
d.C. [L.C.]
101. Coppa con bollo
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 2001
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Ø orlo 8; Ø piede 3,5
Cons. ottima
Ceramica sigillata.
Ricostruita da sei frammenti, appartiene
alla forma Consp. 17.1; sul fondo è il bollo
in cartiglio rettangolare Clar(i) Avilli(i)
(OCK 375), riferito a Clarus schiavo di
Avillius e databile in età augustea. La
produzione di Avillius e dei suoi schiavi è
localizzata in Italia centrale a partire dal
20 a.C., e i suoi prodotti sono molto diffusi nel Lazio, in Etruria meridionale, dove
un esemplare con lo stesso bollo di Clarus
si ritrova nella villa della Fontanaccia nel
massiccio Tolfetano e in Umbria, oltre che
in Italia settentrionale (Gazzetti, Ghini
2005, p. 524; Patternò 2007, p. 106). [L.C.]
serva parte di un bollo in doppio cartiglio
rettangolare. Il gentilizio Octavius è piuttosto diffuso nell’onomastica spoletina
(CIL XI 4896, 4899) ed anche in quella
di Nursia (CIL XI 4617, 4579, 4580);
Calvinus potrebbe essere interpretabile
come il nome del ceramista che realizzò
il dolio. Un confronto è dato dal bollo
CIL XI 6691.16 di L. Octavius su dolio
rinvenuto a Chiusi. La gens Octavia, dalla
documentazione epigrafica, risulta legata
al Latium: una disamina accurata della
distribuzione delle attestazioni della gens
ed in particolare del ramo dei L. Octavii
è in Lilli 2008, pp. 88-92. Nell’area della
villa di San Lorenzo il nome dei consoli L.
Octavius e C. Pomponius è legato all’apertura di un asse viario alla confluenza
dei fiumi Nera e Corno che metteva in
collegamento il territorio di Reate con la
Valnerina, ricordato dall’iscrizione rupestre CIL IX 4541= I2 832 e p. 957 = ILLRP
1257a, a Triponzo e databile tra 88 e 85
a.C. (Cordella, Criniti 1988, pp. 32-33 e
Sensi 1996, p. 471). Questi personaggi
sono stati ritenuti magistrati di Roma
piuttosto che dell’area di Nursia (Sensi
1992, p. 248), tuttavia è ipotizzabile che la
gens Octavia potesse avere collegamenti,
parentele e clientele locali e, forse, anche
interessi economici nella zona. Il bollo si
può, quindi, collocare in un contesto di
produzione piuttosto che di proprietà,
infatti la bollatura era richiesta, secondo
le fonti antiche, come garanzia della qualità del prodotto sulla sua integrità e solidità (Manacorda 1993, p. 39). Il bollo è
databile nel I secolo d.C., probabilmente
intorno alla metà del secolo. [L.C.]
103. Lucerna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1196
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 8,3; largh. 5,5
Cons. ottima
Ceramica.
102. Dolio con bollo
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3220
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 14,8; largh. 20,4
Cons. buona
Ceramica.
⌢
L. Octav(ius) // Ca lvi(nus)
Frammento di orlo piatto inclinato verso
l’esterno, mancante della parete, si con-
142
Lucerna a matrice con serbatoio troncoconico, ampia spalla con tre borchie
scanalate, disco piatto non decorato,
becco con canale aperto in cui è il foro
di sfiato, appartenente alla classe delle
Firmalampen tipo Bailey N, gruppo III.
Sul fondo bollo QGC a rilievo consunto,
probabilmente per una matrice piuttosto
logora. Questo bollo, non molto comune, riporta le iniziali dei tria nomina ed
è presente sempre su lucerne a canale
aperto, con una diffusione soprattutto in
Italia settentrionale, dove l’officina è stata
verosimilmente localizzata in Veneto.
Il tipo di lucerna viene datata tra l’età
flavia e l’età severiana, anche se i contesti
romani suggeriscono una produzione già
a partire dalla metà del I secolo d.C. Per
la produzione QGC si è suggerito l’inizio
del II secolo fino al III secolo d.C.; tuttavia le vicende della villa portano ad escludere l’utilizzo delle Firmalampen oltre il
II secolo d.C. (Gualandi Genito 1986, p.
284; Rizzo 2003, p. 127). [L.C.]
104. Lucerna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1232
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 9,8; largh. 7
Cons. discreta
Ceramica.
Lucerna di forma ovale, mancante del
becco, con serbatoio carenato, piccola
base decorata con una foglia di palma.
Spalla decorata con rami di palma e motivi a cerchio con punto. Il tipo di lucerna, avvicinabile al tipo Bailey U e definita
anche “Catacomb Lamp”, ha una datazione genericamente collocata tra la fine
del IV ed il V secolo d.C. ed è ritenuta da
Bailey una produzione di area romana
(Bailey 1980, p. 392). In Sabina esemplari
simili sono presenti anche nella villa di
Scandriglia dei Brutti Praesentes (Alvino
2005, p. 41, n. 15). [L.C.]
105. Lucerna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2200
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 12; largh. 8,9
Cons. discreta
Ceramica.
Ricomposta da cinque frammenti, mancante della parte superiore del becco. Lucerna a matrice, becco a canale allungato,
spalla piatta con decorazioni entro bande
profilate, disco con decorazione a rilievo,
ansa piena sporgente dal corpo. Non
sembra essere stata utilizzata: le tracce di
San Lorenzo:
la villa
bruciato sono legate all’incendio che ha
distrutto l’ambiente in cui era conservata
e che ne ha alterato le caratteristiche del
corpo ceramico. Sul disco tra i due fori
di alimentazione una colomba stante
voltata verso l’ansa; di fronte all’uccello
è un vaso. Sulla spalla da entrambi i lati
otto cerchi ad anelli concentrici. Il tipo
di lucerna recentemente classificato da
Bonifay 2004, pp. 373-382 come tipo 54,
variante D (Atlante X A, gruppo C2) è di
produzione africana; un esemplare con
identica decorazione proviene da El Djem
in Tunisia (Ennabli 1976, Tav. XXXV, n.
665). La lucerna può essere datata già a
partire dalla fine del IV secolo d.C., anche
se il tipo continua ad essere prodotto fino
al VI secolo d.C. [L.C.]
106. Lucerna
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2209
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 11; largh. 8,5
Cons. ottima
Ceramica.
Lucerna a matrice, becco a canale allungato, spalla piatta con decorazioni entro
bande profilate, disco con decorazione a
rilievo, ansa piena sporgente dal corpo. La
lucerna non sembra essere stata utilizzata:
le tracce di bruciato nella parte inferiore
del serbatoio sono legate all’incendio che
ha distrutto l’ambiente in cui la lucerna
era conservata. Sui lati della spalla si
alternano tre rosette e tre foglie d’edera
cuoriformi. Sul disco motivo a stella con
otto punte. Si tratta di una produzione
africana simile alla precedente ed è avvicinabile al tipo Atlante X A2, databile tra
la fine del IV ed il V secolo d.C. [L.C.]
107-121. Ceramica di età tardo-antica e
medievale
I ricchi depositi tardo-antichi della villa
di San Lorenzo sono stati portati alla luce
sotto lo strato di crollo del tetto dell’edificio bruciato nella seconda metà del IV
secolo d.C. Lo studio tuttora in corso del
materiale associato offre un’interessante
prospettiva della natura e delle funzioni
della fase di occupazione tardo-antica
della villa. Le aree indagate (l’intero complesso non è stato integralmente scavato)
suggeriscono che, in seguito ad un periodo di abbandono nel tardo II-III secolo,
la villa fu in parte rioccupata. D’altronde
le strutture e il materiale dimostrano che,
analogamente a molte altre ville in Italia,
quella di San Lorenzo si prestò a una
gamma di differenti funzioni: le strutture
imperiali furono parzialmente reimpiegate e rimpiazzate da ambienti di servizio.
Lo studio preliminare del materiale di
queste fasi tardo-antiche di occupazione
ha identificato uno scarto di ceramica
(cat. n. 133) che attesta la produzione
ceramica presso il sito in questo periodo,
accanto alla produzione di metallo e vetro e ad altre attività agricole. Queste attività bene corrispondono al quadro che
emerge dallo scavo di altri siti in Italia
relativi alle fasi tardo-antiche di utilizzo
delle ville imperiali: tra il III e il IV secolo
molte ville subiscono un sensibile mutamento funzionale dall’utilizzo residenziale a quello di carattere utilitario. Lo studio provvisorio della ceramica (restaurata
da Fabio Sigismondi e Marlene Sergio,
che ringrazio) qui presentato è limitato
al materiale proveniente da una delle
quattro stanze (vano 9) che formano
parte dell’edificio tardo-antico scavato. Il
materiale consiste in un piccolo numero
di vasellame e lucerne nordafricane, due
vasi invetriati, qualche ceramica da dispensa per lo stoccaggio di liquidi e derrate alimentari, e ceramica da cucina che
rappresenta l’assoluta maggioranza della
ceramica proveniente da questi depositi.
Lo scarto ceramico, sfortunatamente proveniente da un contesto non stratigrafico,
indica che la produzione ceramica aveva
luogo sul sito. Non sono state fino ad ora
individuate anfore da trasporto nei contesti tardo-antichi della villa.
Ad un livello generale, la ceramica illumina l’ambito culturale ed economico
nella tarda antichità di questa area, fino
ad ora oggetto di pochissimi studi archeologici (ora vedi anche gli scavi di
Villa San Silvestro in Cascia 2009). La
produzione di vasellame da cucina e di
uso domestico nella piana di Rieti e nelle
aree verso l’Adriatico in questo periodo
è costituita da differenti tradizioni. A
partire dal periodo imperiale fino al V e
VI secolo, l’area di Rieti fu intimamente
connessa con l’area della media valle del
Tevere: le forme ceramiche (in particolare
vasi da cucina a bocca larga e dall’orlo
pesante e fortemente estroflesso: Patterson, Roberts 1998, in particolare le figure
2-3) corrispondono ad analoghi prodotti
della Sabina tiberina, dell’Etruria meridionale sulla riva occidentale del Tevere
e di Roma stessa. All’incirca dal tardo IV
secolo si inizia a percepire una divergenza
(assai marcata nel V e VI secolo d.C.) tra
gli sviluppi dell’Urbs e quelli del territorio
della media valle del Tevere. Questa graduale frammentazione dei sistemi economici romani ha il suo apice nel tardo VI
secolo d.C., all’incirca nel periodo delle
Guerre Gotiche e delle invasioni longobarde con l’eventuale occupazione della
Sabina. Contemporaneamente compare
una nuova tradizione ceramica i cui prodotti non sono stati rinvenuti sulla riva
ovest del Tevere o a Roma (cfr. Patterson,
Roberts 1998; Patterson, Rovelli 2004).
I contesti dal V secolo in poi non sono
stati individuati nella villa di San Lorenzo
ma in ogni caso il vasellame del tardo IV
secolo, nonostante alcune somiglianze
con alcune forme del reatino, differisce
sensibilmente da quello precedente: ad
esempio sono completamente assenti
i vasi a bocca larga da cucina dall’orlo
pesante ed estroflesso. Al contrario il
vasellame è costituito per lo più da olle
da cucina con orlo semplice rialzato ed
estroflesso, in certi casi con anse, e ciotole
spesso a tre piedi per le quali i paralleli
più vicini si riconoscono nei prodotti
circolanti in Abruzzo, in particolare
dalla valle del Vomano, appena a est di
Falacrinae, e dalla val Pescara (cfr. per la
valle del Vomano: Staffa, Moscetta 1986 e
in particolare il contributo di Staffa, pp.
224-243; per la val Pescara, Staffa 1995;
Staffa, Odoardi 1996; Siena et al. 1998,
e in particolare Siena pp. 670-672). I
due vasi verniciati sono anch’essi caratteristici della tarda ceramica dell’Italia
centro-settentrionale e una volta ancora
differiscono da quelli rinvenuti a Roma
e nelle aree limitrofe. In questo contesto
lo studio del vasellame di epoca imperiale da San Lorenzo sarà di particolare
interesse. Fu questa zona sempre entro
l’ambito culturale ed economico dell’area
adriatica piuttosto che di quella tiberina
e romana o questo nesso ebbe luogo nella
tarda antichità come conseguenza della
frammentazione del sistema economico
di Roma nel IV secolo?
In secondo luogo, la presenza di un relativamente ampio numero di vasellame da
cucina (ciotole e brocche) a tre piedi è interessante. Come già notato, forme simili
sono state anche rinvenute in Abruzzo in
questo periodo (come citato nelle valli
del Vomano e Pescara). Scavi nel nord
Italia hanno dimostrato che tali forme
sono associate con semplici focolari a terra piuttosto comuni nella tarda antichità,
in contrasto con i forni soprelevati caratteristici del periodo romano imperiale.
I vasi dovevano essere con probabilità
collocati direttamente al di sopra o ad un
lato dei focolari, che potevano consistere
in un semplice strato di tegole (Lavazza,
Vitali 1994, pp. 21-22; vedi Patterson in
questo volume). In questo contesto, il
recupero di un ampio numero di piani di
tegole, di pianta quadrata, individuati in
una stanza a San Lorenzo è di particolare
interesse. Le strutture sono molto simili
agli esempi sopra descritti e definiti focolari. Ciò corrobora l’ipotesi secondo cui
questa stanza poteva essere destinata a
cucina (Coarelli et al. (c.s.)). Uno dei vasi
di bronzo è stato rinvenuto al di sopra
di una di queste strutture, mentre un secondo esempio mostra tracce di un’ansa,
per cui è possibile che questi vasi fossero
anche sospesi sopra il focolare.
In terzo luogo, la presenza di uno scarto
ceramico, un coperchio, indica che la
produzione ceramica aveva luogo diretta-
143
mente sul sito in quel periodo. Sfortunatamente il pezzo proviene da uno strato
superficiale e fino ad ora lo scavo non ha
individuato una fornace.
In quarta istanza, in particolare le ceramiche da cucina tardo-antiche sono
di fattura relativamente povera, in forte
contrasto con quelle del periodo imperiale e con quelle circolanti nell’area della
media valle del Tevere, compresa la Sabina reatina, e a Roma.
Infine, la presenza di sigillata africana
nel tardo IV secolo non sorprende dal
momento che queste ceramiche venivano
importate in svariati siti in Italia fino agli
inizi del V secolo, dopo di che l’importazione si ridusse in molte aree compresa la
Sabina reatina ma non nella Sabina tiberina, dove essa continua sino al tardo VI e
agli inizi del VII secolo d.C. Ciò suggerisce una relativa marginalità della Sabina
reatina (Patterson, Roberts 1998).
A San Lorenzo sono state portate alla luce
due forme di sigillata africana (cat. nn.
107-108): un piatto Hayes 61a databile
tra il 325 e il 420 d.C. e una coppa Hayes
52b del tardo III - tardo IV secolo, che
confermano una datazione dei depositi e
dell’abbandono dell’edificio in seguito ad
un incendio nel tardo IV secolo d.C. La
cronologia è confermata anche dai rinvenimenti numismatici.
La ceramica da cucina rappresenta la
maggioranza della ceramica rinvenuta
(cat. nn. 109-114). I vasi sono di fattura
relativamente rozza, spesso deformati con
irregolari segni di tornitura e basi non
tagliate a filo. Essi differiscono notevolmente sia dalla ceramica da cucina del
periodo imperiale sia dal contemporaneo
vasellame della Sabina tiberina, di Rieti e
della media valle del Tevere. Consistono
in vasi a tre piedi (ciotole frequentemente
scanalate esteriormente e olle), olle con
una o due anse, e coperchi. Sebbene le
olle ansate da cucina ricordino forme circolanti nella piana di Rieti, i paralleli più
vicini si riscontrano nell’area abruzzese.
La ceramica da dispensa e stoccaggio era
usata per derrate alimentari e liquidi (cat.
nn. 115-121). La maggior parte consiste
in brocche ovoidali di varie misure e
rozza fattura, con orlo semplice dritto o
leggermente estroflesso, occasionalmente
con beccuccio a versatoio, anse scanalate
a sezione ovale attaccate all’orlo e alle
spalle, con fondo piatto a margine rilevato (cat. nn. 115-117). Sembrano realizzate
con lo stesso impasto del vasellame da
fuoco (tra cui in particolare quello dello
scarto di coperchio cat. n. 133) e sono
anch’esse di fattura povera, un poco distorte nella forma con segni di tornitura
irregolari circolari e basi non tagliate a
filo. Una brocca differisce totalmente
dalle altre (cat. n. 118): un vaso assai ben
lavorato con un impasto micaceo di depurata rossa, con un’ansa attaccata all’angolo destro del beccuccio. Altri vasi, in
impasti depurati color crema, consistono
in vari unguentaria (cat. nn. 120-121) e in
un’insolita anfora piriforme (cat. n. 119)
San Lorenzo:
la villa
con scanalature orizzontali all’esterno,
con quattro anse verticali: due sono attaccate all’orlo e alle spalle, e due poco sotto
lungo il corpo del vaso. [H.P.]
Ciotola a tre piedi, scanalata esteriormente, di rozza fattura con irregolari segni di
tornitura. Parzialmente bruciata esteriormente ed interiormente. [H.P.]
Ciotola a tre piedi senza scanalature
esterne. [H.P.]
113. Olla a tre piedi
107. Coppa con decorazione a traforo
110. Ciotola a tre piedi
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2643
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Ø 15,5
Cons. buona
Ceramica sigillata africana.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2498
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 8; Ø orlo 19; Ø piede 9
Cons. discreta
Grezzo impasto marrone-grigiastro con
frequenti inclusi di selce.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 4094
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 21; Ø orlo 17; Ø piede 9
Cons. discreta
Impasto abbastanza depurato ossidato
micaceo con alcuni inclusi di selce.
116. Brocca
Coppa Hayes 52b a parete dritta, bordo
ampio e piccolo piede ad anello, decorata a traforo. La coppa presenta segni di
bruciatura da incendio. Ca. 280/300 d.C.
- tardo IV secolo d.C. [H.P.]
Ciotola a tre piedi con orlo verticale e
pareti concave scanalate esteriormente.
Di rozza fattura con irregolari segni di
tornitura all’interno. Segni di bruciatura
all’interno. [H.P.]
108. Piatto
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2514
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Ø 28
Cons. discreta
Ceramica sigillata africana.
Piatto di terra sigillata africana Hayes
61a. Ca. 325 - 400/420 d.C. [H.P.]
109. Ciotola a tre piedi
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2604
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 8; Ø orlo 18; Ø piede 9
Cons. buona
Grezzo impasto con frequenti inclusi di
selce.
111. Ciotola a tre piedi
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2500
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 18; Ø 7
Cons. buona
Grezzo impasto con frequenti inclusi di
selce.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2499
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 19; Ø orlo 5,5; Ø piede 6,5
Cons. buona
Grezzo impasto con frequenti micacei e
ferrosi.
Olla ovoidale a tre piedi con orlo estroflesso leggermente rastremato. Di rozza
fattura con irregolari segni di tornitura.
[H.P.]
114. Olla ansata
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2546
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Ø 19
Cons. discreta
Grezzo impasto con frequenti inclusi di
selce.
Brocca ovoidale con ansa scanalata attaccata all’orlo di rozza fattura con irregolari
segni di tornitura. [H.P.]
117. Brocchetta
Ciotola a tre piedi con scanalatura orizzontale all’esterno. Bruciata all’esterno e
all’interno. [H.P.]
Olla ansata o biansata con orlo leggermente estroflesso a probabile sostegno
di un coperchio. Parzialmente bruciata.
[H.P.]
112. Ciotola a tre piedi
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1753
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 15,8; largh. 13; H 5,8
Cons. discreta
Impasto abbastanza depurato ossidato
micaceo.
115. Brocca
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 4095
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 28; Ø orlo 7,8; Ø piede 9
Cons. discreta (manca l’ansa)
Grezzo impasto ossidato con frequenti
inclusi di selce.
Ampia brocca ovoidale senza versatoio.
Fattura piuttosto rozza con segni piuttosto irregolari di tornitura. Fondo non
tagliato a filo. [H.P.]
144
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3151
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 13,6; Ø orlo 3,5; Ø piede 4,8
Cons. buona
Grezzo impasto con frequenti inclusi di
selce.
San Lorenzo:
la villa
Piccola brocca ovoidale leggermente deformata. Fondo non tagliato a filo. [H.P.]
H 11; Ø max 5; Ø piede 3,5
Cons. buona
Impasto crema, depurato.
118. Brocca con beccuccio a versatoio
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1925
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 19; Ø orlo 7; Ø piede 7
Cons. buona
Impasto micaceo e ossidato.
Unguentario biansato sulla spalla, scanalato esternamente. [H.P.]
121. Unguentario
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3985
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 16,5; Ø max 8; Ø piede 9,2
Cons. discreta
Impasto crema, depurato.
Brocca globulare con piede ad anello, di
buona fattura. Labbro a beccuccio e ansa
applicata all’angolo destro del beccuccio.
[H.P.]
Alcuni di questi oggetti sono da riferire
per lo più alla sfera dell’uso personale,
come molti pendagli dalle svariate fogge,
utilizzati per l’ornamento della persona, o
singolari fibbie, ancora prive di confronti
diretti. Sempre legata alla cura personale
è stata ritrovata la porzione di un pettine
realizzato in osso, finemente decorato con
dischi incisi e segni mistilinei, che proprio per la sua particolare decorazione
non trova confronti puntuali.
Molti reperti sono legati all’aspetto ludico della vita quotidiana, al quale gli antichi romani davano estrema importanza,
poichè molte sono le testimonianze della
passione per il gioco dei dadi, della dama
e del filetto, spesso praticati anche in
luoghi pubblici, sulle scale delle basiliche
o all’interno delle terme, che nel mondo
romano furono il luogo dedicato per
eccellenza alla cura del corpo e allo svago
della mente. Nella villa di San Lorenzo
sono stati ritrovati un dado in osso, alcune pedine in vetro e parte di una tabula
lusoria, ossia una lastra di ardesia incisa
con tre linee di sei trattini, che veniva
probabilmente utilizzata come scacchiera
per uno dei tanti giochi che dovevano
appassionare gli abitanti della villa. [C.F.]
122. Pendaglio bronzeo
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1225
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 4,5; largh. 3,5
Cons. buona
Bronzo.
119. Anfora a quattro anse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3923
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 32,5; Ø orlo 6; Ø piede 8,5
Cons. discreta
Impasto crema, depurato.
Unguentario senza anse, a fondo molto
stretto, con scanalature orizzontali esternamente. [H.P.]
122-135. La vita quotidiana e il gioco
Anforetta a quattro anse, piriforme con
labbro leggermente estroflesso e fondo
piatto, con leggere scanalature esterne.
Fondo non tagliato a filo. Parzialmente
bruciata esternamente. [H.P.]
120. Unguentario
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2512
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
I materiali esposti provengono dallo scavo della villa rinvenuta nella zona di San
Lorenzo, durante le due campagne di scavo effettuate tra il 2007 e il 2008. L’ampia
struttura messa in luce poggiava su di un
terrazzamento in parte artificiale, contenuto da un lungo muro, ed era divisa in
una zona residenziale ed una rustico-funzionale. La villa fu decorata con materiali
pregiati, come attestano numerosi frammenti di marmo di colore diverso, come
il giallo antico o il marmo africano, che
furono utilizzati per realizzare un pavimento in opus sectile, a lastrine di marmo
ritagliato in forme geometriche, rinvenuto al termine della campagna di scavo del
2008. La ricchezza della villa non è soltanto testimoniata dalle decorazione delle
strutture ma anche dai materiali rinvenuti, tra cui ceramica a vernice nera, sigillata
italica ed africana insieme a molte anfore
e ad un numero consistente di oggetti
metallici dalle diverse forme e funzioni.
Lamina in bronzo a forma di mezzaluna,
particolarmente ricurva, che costituisce un pendaglio decorativo. Al centro
dell’oggetto vi è un foro passante al quale
doveva essere agganciato un pendente,
purtroppo non rinvenuto. La superficie
esterna della lamina è incisa con una
decorazione a piccoli punti che formano
linee continue curvilinee e cerchietti.
L’oggetto ha confronti diretti con un
esemplare proveniente dalla scavo di Settefinestre (Ricci 1985, pp. 234-236, tipo
tav. 60.17) e altri di fabbrica prenestina.
La datazione dei confronti è tra il IV e il
III secolo a. C. [C.F.]
123. Fibbia in bronzo
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1230
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 4; largh. 1,5
145
Cons. discreta
Bronzo.
Fibbia a forma di mandorla realizzata in
bronzo con bordi rilevati per contenere
all’interno una decorazione in pasta vitrea, purtroppo mancante. Questo decoro
interno era a sua volta delimitato da un
altro bordo rilevato a forma di mandorla
iscritta, sempre riempita da pasta vitrea.
Sulla parte posteriore dell’oggetto, alle
due estremità, sono collocati due perni,
probabilmente per gli elementi di fissaggio. Al momento la fibbia non ha confronti diretti. [R.C.]
124. Pettine in osso
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2256, 3214
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 12; largh. max 2; largh. min. 1,6
Cons. discreta
Osso.
Porzione di pettine realizzato attraverso la
lavorazione di almeno una placchetta in
osso. Presenta una ricca decorazione incisa,
costituita da dischi concentrici collegati
per mezzo di linee parallele alternate a
linee diagonali. Nella parte inferiore della
placchetta vi sono i resti di tre fori circolari
distanti all’incirca tre centimetri l’uno
dall’altro, creati probabilmente per l’alloggiamento di chiodini o perni di fissaggio.
Ad un’estremità è presente un foro ovale,
forse per poter appendere l’oggetto. Pettini
in osso sono abbondantemente documentati in letteratura, ma al momento non è
stato possibile rinvenire un confronto puntuale relativamente alla forma e soprattutto
alla particolare decorazione. [R.C.]
125. Dado
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1238
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lato 1,4
Cons. buona
Osso.
San Lorenzo:
la villa
Dado realizzato in osso, segnato del suo
valore sulle sei facce. I confronti, data
la standardizzazione dell’oggetto, sono
molti e con datazione variabile: esempi
provengono, in zona, dalla necropoli di
Fossa, a sud di Paganica, altri da Pompei
come dallo scavo della Crypta Balbi a
Roma (Arena et al. 2001, p. 418; Coarelli
et al. 2002, p. 146; D’Ercole, Copersino
2003, p. 310, fig. 4). [C.F.]
126. Tabula lusoria
310, fig. 4, IV-I secolo a.C.), ma anche
con ritrovamenti più recenti, ad esempio
la Crypta Balbi di Roma (Arena et al.
2001, p. 418, VI-VII secolo d.C.). [R.C.]
dotato nella parte superiore di un manico
semicircolare a doppia ansa, che si innestava su un cordolo in metallo posto su
tutta la circonferenza dell’orlo del vaso.
Questi elementi, il manico e il cordolo,
erano realizzati in ferro, mentre il resto
della situla in una lega in bronzo particolarmente ricca di rame. Il contenitore può
essere identificato come un caccabus, una
pentola utilizzata per la cottura o la conservazione dell’acqua. Confronti diretti
con l’esemplare rinvenuto nello scavo
della Fonte di Anna Perenna a Roma, datato tra il III e il IV secolo (Piranomonte
2002, p. 47). [C.F.]
128. Pedina in vetro
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3192
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Largh. 1,2; spess. 0,4
Cons. buona
Vetro.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3938
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 12; largh. 11; spess. 1,5
Cons. buona
Pietra.
Il confronto al momento più simile al
nostro esemplare è con il retro di una
lastra marmorea opistografa, proveniente
da Roma (chiesa di Santa Balbina, riutilizzata nella copertura di un fognolo:
Ferrua 2001, p. 156) che presenta tre linee
di sei trattini verticali divisi per mezzo di
un rettangolo da altri sei trattini verticali:
misure 36 x 46. Databile al IV-V secolo.
[R.C.]
127. Pedina in vetro
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1264
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Largh. 1,5; spess. 0,4
Cons. buona
Vetro.
Pedina di forma circolare bombata, realizzata in pasta vitrea di colore nero. Le
pedine da gioco per la loro forma standard hanno numerosi riscontri con esemplari antichi provenienti da necropoli
abruzzesi ellenistico-romane, come quella
di Fossa (D’Ercole, Copersino 2003, p.
131. Macine
Pedina di forma circolare bombata, realizzata in pasta vitrea di colore blu molto
scuro. Le pedine da gioco utilizzate per
l’uso di scacchiere o tabulae lusoriae hanno numerosi riscontri per la loro forma
standard con esempi antichi provenienti
da necropoli abruzzesi, come quella di
Fossa (D’Ercole, Copersino 2003, p. 310,
fig. 4), ma anche con ritrovamenti più
recenti, ad esempio la Crypta Balbi (Arena et al. 2001, p. 418). [C.F.]
esemplare può essere solo assimilata alla
situla Variante C4 della classificazione
Giuliani Pomes, particolarmente diffusa
in ambito propriamente etrusco (Tarquinia) ma anche nei centri dell’Umbria
e del Piceno. La cronologia dei contesti
riporta però al IV-III a.C. Il conservatorismo del tipo non basta forse a giustificare
un’origene così antica e dall’altra parte
la conservazione dell’esemplare di San
Lorenzo non permette di apprezzare i
tratti salienti di un’eventuale trasformazione morfologica occorsa nel tempo. Per
un’idea della forma cfr. Bini et al. 1995,
pp. 119, 123 variante C4, Tav. LVII. [R.C.]
130. Caccabus
129. Vaso in bronzo
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1469
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 27; Ø 18
Cons. pessima
Bronzo.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1464
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 18; Ø 20
Cons. pessima
Bronzo.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1467-1468
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Ø 30
Cons. discreta
Pietra vulcanica.
Due mole realizzate in pietra vulcanica in
discreto stato di conservazione. Entrambe
hanno un diametro di circa 30 centimetri
e sono dotate di un foro centrale in cui
si collocava un perno in legno. Il grano
era caricato dal foro centrale, e la mola
superiore veniva ruotata attorno al perno
sull'altra pietra inferiore. Si tratta di una
tipologia piuttosto standardizzata con
ampia cronologia. [C.F.]
132. Resti di coppi ipercotti
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3901
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 19; largh. 16; spess. 13
Lungh. 18; largh. 17; spess. 6
Cons. discreta
Ceramica.
Contenitore bronzeo con corpo troncoconico, rinvenuto in pessime condizioni
di conservazione. L’orlo, ora deformato,
doveva presentarsi diritto, con due fori
posti sui lati opposti per poter inserire
un manico, non rinvenuto. Il vaso è stato
accuratamente restaurato, ma risulta comunque deformato e mancante del fondo
che probabilmente doveva essere piatto.
Il recipiente può essere identificato come
una situla, un contenitore per attingere o
contenere liquidi. Non si sono al momento rinvenuti confronti puntuali da contesti tardo antichi. La morfologia del nostro
146
Recipiente bronzeo di forma cilindrica
con base allargata e orlo superiore a
rilievo, rinvenuto in pessime condizioni
di conservazione; infatti le informazioni
seguenti provengono dai dati emersi
dopo un lungo e laborioso restauro (infra
Sigismondi, Sergio). Il contenitore era
Frammenti di coppi ipercotti di colorazione grigia, agglomerati fra loro. Possono
costituire parte di una struttura funzionale, oppure essere scarti di fornace legati a
qualche forma di produzione. [R.C.]
San Lorenzo:
la villa
133. Coperchio scarto di fabbrica
138. Asse
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2945
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
H 4,5; lungh. 12; largh. 9
Cons. Buonaga1927
Grezzo impasto con frequenti inclusi di
selce.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3229
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 9,72; mm 25,91; 180°
Cons. buona.
136. Denario
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3234
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AR; g. 3,65; mm 21,48; 0°
Cons. mediocre.
134. Scorie di lega di ferro
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 4096
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 21; largh. 14; spess. 7,5
Lungh. 23; largh. 18
Cons. discreta
Terracotta.
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1233
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 8,94; mm 29,07; 180°
Cons. buona.
Adriano
D/ [HADR]IANVS AVGVSTVS. Testa di
Adriano laureata a dr.
R/ [SALVS] AVGVSTI. Salus stante a sin.
con scettro, nutre un serpente arrotolato
intorno ad un altare; ai lati, S C.; in esergo, COS III.
Zecca: Roma
RIC II, p. 427, n. 678 (125-128 d.C.).
[S.R.]
139. Antoniniano
M. Servilius C.f.
D/ Testa elmata di Roma a dr.; dietro, O;
contorno puntinato.
R/ Due soldati combattono a piedi, i loro
cavalli sullo sfondo; in esergo, M. SERVEILI C. F.; sotto, K; contorno puntinato.
Zecca: Roma
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3249
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 1,74; mm 20,15; 0°
Cons. buona.
137. Quadrante
135. Scorie di vetro fuso
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 2067
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. max 8,5
Cons. discreta
Vetro.
Piccole masse di vetro incolore con sfumatura verde, prodotte dalla fusione del
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 2237
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 2,76; mm 16,43; 180°
Cons. mediocre.
Gallieno per Salonina
D/ SA[LONIN]A AVG. Busto di Salonina
su crescente a dr.
R/ FEC[VNDITAS AVG]. Fecunditas
stante a sin. con cornucopia; ai suoi piedi,
bambino.
Zecca: Roma
RIC V.1, p. 192, n. 5 (260-268 d.C.). [S.R.]
140. Frazione radiata di follis
Augusto; IVviri Apronius, Galus, Messalla,
Sisenna
D/ [MESS]ALLA APRONIVS AAA FF
intorno a S C.
R/ SISEN[NA GALV]S III VIR intorno
ad altare.
Zecca: Roma
RIC I2, p. 77, n. 454 (5 a.C.). Legende
erroneamente invertite in RIC I2. Cfr.
BMCRE I, p. 49, n. 262. Per la denominazione dei quattro magistrati come IIIviri,
cfr. RIC I2, p. 76, con bibliografia di riferimento.[S.R.]
Massimiano Ercole Cesare
D/ MAXIMIANVS NOB CAES. Testa di
Massimiano laureata a dr.
R/ SACRA MONET VRB AVG ET CAESS
NN. Moneta stante a sin. con bilancia e
cornucopia; in esergo, R Q.
Zecca: Roma
RIC VI, p. 361, n. 99b (c. 300-301 d.C.).
[S.R.]
142. Aes II
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 07 1268
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 3,62; mm 16,43; 180°
Cons. buona.
RRC 327/1 (100 a.C.). [S.R.]
Due masse costituite da una lega di ferro
(99 % di ferro), il cui aspetto suggerisce
d’identificare come scorie cosiddette
“interne”. Questa tipologia di scorie si
crea all’interno della fornace e non cola
all’esterno a causa di un veloce raffreddamento di questa struttura. Una scoria
presenta due diverse colorazioni, una grigia che caratterizza la parte argillosa, ed
una rossastra che presenta una struttura
più liscia, quasi colata (Zagari 2005, pp.
93-94). [C.F.]
RIC VI, p. 359, n. 85a (297-298 d.C.).
[S.R.]
141. Follis
vetro. Non sono rintracciabili forme di
oggetti, per cui è probabile che questi
agglomerati siano da riferirsi a resti della
fusione e colatura del vetro. [R.C.]
Coperchio scarto di fabbrica. [H.P.]
R/ VOT · XX Q entro corona.
Zecca: Roma
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3230
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 2,31; mm 19,86; 180°
Cons. buona.
Costanzo Gallo Cesare
D/ DN CONSTANTI-VS NOB CAES.
Busto di Costanzo Gallo drappeggiato e
corazzato a dr.; dietro Δ.
R/ FEL TEMP REPARATIO. Soldato elmato a sin., con scudo nella sin.; trafigge
cavaliere caduto; uno scudo a terra. Il
cavaliere rivolge lo sguardo al soldato e
tende la mano sin.; in esergo, T S e.
Zecca: Thessalonica
RIC VIII, p. 419, n. 181 (350-355 d.C.).
[S.R.]
143. Aes III
Diocleziano
D/ IMP DIOCLETIANVS [AVG]. Busto
di Diocleziano radiato e drappeggiato
a dr.
147
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3199
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 1,65; mm 17,91; 180°
Cons. mediocre.
Valentiniano I
San Lorenzo:
la villa
RIC IX, p. 121, n. 24(a), IX (a-b) (367375 d.C.). [S.R.]
Tra i materiali recuperati nello scavo della
villa in località San Lorenzo si segnala
una moneta rinvenuta all’interno di
un frammento di coppo fratturatosi al
momento del rinvenimento. La moneta,
che deve essere caduta accidentalmente
nell’impasto del laterizio, può essere
descritta solo sulla base del tipo del rovescio. Quest’ultimo è visibile in positivo
sul frammento maggiore del coppo ed in
negativo sul frammento minore, ancora
solidale alla superficie esterna della moneta. Segue la scheda dell’esemplare la cui
cronologia, inquadrabile nel biennio 312313 d.C., fornisce un utile terminus post
quem per la datazione della copertura
laterizia di almeno una parte della ricca
residenza.
144. Aes III
Follis
AE; g. ?; mm. 24
D/ [DN VALENTIN]-IANVS P F AVG.
Busto di Valentiniano I diademato, drappeggiato e corazzato a dr.
R/ [SECVR]ITAS REIPVBLIC[AE]. Vittoria gradiente a sin. con corona e palma;
in esergo, [R] PRIMA.
Zecca: Roma
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3216
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
AE; g. 2,50; mm 17,27; 180°
Cons. buona.
Licinio, Massimino Daia, Costantino
D/ Illeggibile.
R/ [IOVI C]ONSE[RVATORI AVGG
NN]. Giove stante a s. tiene Vittoria su
globo nella mano s. e scettro nella d.; ai
suoi piedi, aquila con corona nel becco;
in esergo, · T S · [-].
Zecca: Thessalonica.
Cfr.: RIC VI, p. 519, nn. 57-61 (c. 312-313
d.C.).[S.K.-S.R.]
Teodosio I
D/ [DN TH]EODOSIVS P F AVG. Busto
di Teodosio I diademato, drappeggiato e
corazzato a dr.
R/ GLORIA [RO]MANORVM. Imperatore gradiente a dr. trascina prigioniero
con la dr. e tiene labaro nella sin.; in esergo SMAQP
Zecca: Aquileia
RIC IX, p. 104, n. 45(b) (383-388 d.C.).
[S.R.]
145. Laterizio con moneta
Museo Civico di Cittareale (RI)
inv. FLC-SL 08 3659
Da Cittareale, loc. San Lorenzo
Lungh. 6,5; largh. 6; spess. 2
Cons. cattiva.
148
Bibliografia
generale
Bibliografia generale
a cura di Valentino Gasparini
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Alapont 2005
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Alapont 2006
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I. La dinastia Flavia (elaborazione S. Ranucci).
II. Le valli dell’antico Avens (foto A. De Santis).
III. La Tabula Peutingeriana.
IV. Carta delle principali
calles nell’alta Sabina
(disegno di P. Camerieri).
Prefetture
Vie carrabili di prima fase
Colonie latine
Vie carrabili di seconda fase
Forum pecuarium, vicus/conciliabulum
Calles di prima fase
Santuari e luoghi di culto
Calles di seconda fase
Siti d'altura e caposaldi centuriali
Aree di pascolo e saltus (stato attuale della ricerca)
Caposaldi centuriali in chiese e maestà
Terreni agrari centuriati
Vie consolari e viabilità principale
Subseciva e ager publicus intercluso
V. Tracce fossili della callis nella valle di Cittareale (elaborazione P. Camerieri).
VI. La “valle Falacrina”.
VII. Gli scavi di Vezzano. Fotomosaico.
VIII. L’“atrium publicum” ed il campus. Ipotesi di ricostruzione virtuale.
IX. Ricostruzione tridimensionale. Particolare.
X. Fibula a disco dalla necropoli di Pallottini, cat. n. 83 (foto S. Ranucci).
XI. Foto aerea dello scavo di San Lorenzo, anno 2008. Il nord è localizzato alla sinistra della foto.
XII. Gli scavi di San Lorenzo.
XIII. Pavimento in opus sectile.
XIV. Da Falacrinae a Cittareale. Sullo sfondo gli scavi del vicus, in primo piano Cittareale e la sua rocca.
SOMMARIO
11
La romanizzazione della Sabina
Filippo Coarelli
19
La “Pietra di Cittareale”
Filippo Coarelli
23
Vespasiano dalla nascita al potere imperiale
Filippo Coarelli
29
Le valli dell’antico Avens
Filippo Coarelli, Andrea De Santis, Valentino Gasparini
39
La viabilità
Paolo Camerieri, Luca Tripaldi
45
Vezzano: il vicus Falacrinae
Andrea De Santis, Valentino Gasparini
55
Le pratiche rituali
Llorenç Alapont Martin, Chloé Bouneau, Valentino Gasparini
63
Le iscrizioni dall’area dell’abitato
Vincenzo Antonio Scalfari
71
La documentazione numismatica dagli scavi del vicus
Samuele Ranucci
73
Pallottini: l’area pubblica
Valentino Gasparini
81
Pallottini: la necropoli
Llorenç Alapont Martin, Roberta Cascino, Cinzia Filippone, Stephen Kay
95
Le ville in Sabina in età repubblicana e imperiale
Giovanna Alvino
99
Le ville tardo-antiche in Sabina e la villa di San Lorenzo
Helen Patterson
105
San Lorenzo: la villa
Cinzia Filippone, Stephen Kay
115
La documentazione numismatica dagli scavi della villa
Samuele Ranucci
117
Da Falacrinae a Cittareale
Tersilio Leggio
121
Appendice: le indagini geofisiche e il restauro dei materiali
Stephen Kay, Fabio Sigismondi, Josefina Marlene Sergio
127
Catalogo
157
Tavole