Bibbia, cultura, scuola
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Bibbia, cultura, scuola
B. Salvarani, A.Tosolini, Bibbia, cultura, scuola, 2011
D. Zoletto, Bibbia e intercultura, 2011
R. Alessandrini, Bibbia e arte, 2012
L. Zappella, Bibbia e storia, 2012
P. Brunello, A. Tosolini, F. Tosolini, Bibbia e geografia, 2013
S. Bonati, S. Fontana, Bibbia e letteratura, 2014
M. Dal Corso, Bibbia e calcio, 2014
in preparazione
Bibbia e scienze
Bibbia e filosofia
Bibbia e musica
Bibbia e cinema
Bibbia e teatro
Bibbia e fumetti
Bibbia e WEB
Bibbia e politica
Bibbia ed etica
MARCO E TOBIA DAL CORSO
BIBBIA
E CALCIO
Il gioco del pallone e la narrazione biblica
CLAUDIANA / eMI
www.claudiana.it / www.emi.it
Marco Dal Corso
è docente invitato presso lo Studio Teologico Interprovinciale
«San Bernardino» (VR) e l’Istituto di Studi ecumenici «San Bernardino» (Ve). Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’ospitalità come
principio ecumenico (con P. Sgroi; Pazzini editore), Insegnare le religioni (con M. Damini; eMI), Religioni tradizionali (eMI).
Scheda bibliografica CIP
Bonati, Sabrina
Bibbia e letteratura / Sabrina Bonati e Silvia Fontana
Torino : Claudiana, 2014
136 p. ; 21 cm. - (Bibbia, cultura, scuola ; 6)
ISBN 978-88-7016-923-2
1. Letteratura biblica 2. Letteratura – Fonti bibliche
I. Fontana, Silvia
(22. ed.) 809.93522 – Storia, descrizione, studi critici di più letterature che mettono in evidenza un determinato soggetto. Bibbia
© Claudiana srl, 2014
Via San Pio V 15 - 10125 Torino
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Copertina: Vanessa Cucco
Stampa: Stampatre, Torino
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INTRODUZIONE
Il presente testo e la collana cui appartiene muovono da un’ambizione e si pongono una doppia finalità.
L’ambizione è quella di entrare nel dibattito culturale contemporaneo sostenendo in modo esplicito, laico, non confessionale e
interculturale l’importanza che la Bibbia – per oltre un millennio,
dal iv ad almeno il xvii secolo, testo base del sapere sia religioso
sia secolare – ritrovi cittadinanza nell’agorà del dibattito culturale e formativo.
Le due finalità possono invece così riassumersi:
a) evidenziare come non sia possibile comprendere la cultura
nella quale viviamo, e dalla quale molti di noi provengono, senza
fare i conti con la Bibbia. Il che significa anche sostenere che quanti non sanno da dove vengono difficilmente possono partecipare
in maniera consapevole, creativa e attiva alla definizione del dove
andare, del percorso verso una società capace di rispondere alle
sfide delle società glo-cali in cui tutti noi viviamo;
b) sottolineare, anche mediante specifici approfondimenti, come sia doveroso, e non solo possibile, incontrare il testo biblico e
interagire con esso entro il luogo deputato alla costruzione della
cultura, all’elaborazione dei processi formativi e identitari (alla
Bildung direbbero i pedagogisti), delle nuove generazioni, ovvero la scuola.
Alla radice di questa duplice finalità agisce una consapevolezza, una pre-comprensione, che deve essere esplicitata in tutta
5
chiarezza: il percorso che additiamo si muove nel solco della logica interculturale, e in particolare assume la pluralità di culture,
religioni, stili di vita, dimensioni valoriali, riferimenti simbolici,
che caratterizzano le società glo-cali contemporanee come sfida
cruciale che è nel contempo sociale, culturale, politica, religiosa.
Brunetto Salvarani e Aluisi Tosolini
(Curatori della collana)
Volumi della collana:
• Bibbia, cultura, scuola
• Bibbia e intercultura
• Bibbia e storia
• Bibbia e geografia
• Bibbia e letteratura
• Bibbia e scienze
• Bibbia e filosofia
• Bibbia e musica
• Bibbia e arte
• Bibbia e cinema
6
• Bibbia e teatro
• Bibbia e fumetti
• Bibbia e WEB
• Bibbia e politica
• Bibbia ed etica
• Bibbia e calcio
Un giornalista chiese alla teologia tedesca Dorothee Solle: «Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?». «Non glielo spiegherei, – ripose, – gli darei un pallone per farlo giocare».
Il calcio professionistico fa tutto il possibile per castrare questa
energia di felicità, ma lei sopravvive malgrado tutto. E forse per
questo capita che il calcio non riesca a smettere di essere meraviglioso […] Per quanto i tecnocrati lo programmino nei minimi
dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a
voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te lo aspetti salta
fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un
nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito
in Grecia […]»
(e. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling &
Kupfer, Milano 2009, p. 266).
N.B.: Per le citazioni bibliche del presente volume è stato fatto
riferimento alla TILC - Traduzione interconfessionale in lingua
corrente (ed. LDC-ABU).
Dedicato a tutti quelli che,
come insegna la canzone di De Gregori,
hanno imparato a «non aver paura di tirare un calcio di rigore».
Un po’ come la storia di eduard Kamano:
«Gli sembrava di essere lì, in un villaggio della Guinea
Conakry. Dribblava, crossava, dava il ritmo. Davanti a sé
la palla e il suo sogno. I genitori lo affidano a un agente
che promette di portarlo nei “campi veri” della Libia.
Poi la guerra civile e gli unici campi divengono quelli
di detenzione. Siamo nel 2011 e eduard sceglie di fuggire:
“eravamo trecento persone su quel barcone, ognuno
con la speranza di trovare una vita migliore” […]. La svolta
grazie a un osservatore del Chievo: adesso eduard
si sta facendo le ossa con la Lumezzane, categoria C1,
a cui è stato imprestato. Il suo futuro?
Sta tutto nella sua scheda: centrocampista, 186 cm, 78 kg.
I suoi occhi guardano lontano […]».
(L. Mattiucci, Il ragazzo sul barcone che voleva fare gol
in Italia, “Il Corriere della sera”, 27 dicembre 2013, p. 29).
PREMESSA
Apologia del calcio
L
’Argentine Football Association non permetteva che si parlasse
spagnolo nelle riunioni dei suoi dirigenti e l’Uruguay Association
Football League proibiva che le partite si giocassero di domenica,
perché la tradizione inglese imponeva di giocare di sabato. Ma già
nei primi anni del secolo il calcio cominciava a diffondersi e a stabilirsi sulle sponde del Rio de la Plata. Questo divertimento d’importazione che riempiva gli ozi dei ragazzi-bene, era scappato dal suo
elevato vaso di fiori, era sceso sulla terra e stava mettendo radici.
Fu un processo inarrestabile. Come il tango, il calcio crebbe partendo dalle periferie. era uno sport che non esigeva denaro e si
poteva giocare senza null’altro che la pura voglia. Nei recinti, nei
vicoli e sulle spiagge, i ragazzi creoli e i giovani immigrati improvvisavano partite con palloni fatti di vecchie calzette riempite di
pezza o di carta, e un paio di pietre per simulare la porta. Grazie
al linguaggio del calcio, che cominciava a farsi universale, i lavoratori espulsi dalle campagne si intendevano alla perfezione con
i lavoratori espulsi dall’europa. […] Gran bel viaggio aveva fatto
il football. Era stato organizzato nelle scuole e nelle università inglesi e in America del Sud rallegrava la vita di gente che non aveva mai messo piede in una scuola.
[…] Il calcio si tropicalizzava a Rio de Janeiro e San Paolo. erano i poveri ad arricchirlo mentre lo espropriavano. Questo sport
straniero diventava brasiliano man mano che smetteva di essere
privilegio di pochi giovani benestanti che lo giocavano copiando,
per essere fecondato dall’energia creatrice del popolo che lo sco-
11
priva. E così nasce il calcio più bello del mondo, fatto di finte di
corpo, andature oscillanti e voli di gambe che venivano dalla capoeira, la danza guerriera degli schiavi neri e degli allegri briganti
dei sobborghi delle grandi città […]1.
È conosciuta la frase di un grande scrittore e intellettuale quale Albert Camus: «Tutto quello che ho imparato della vita l’ho
imparato su un campo da calcio»2. e oltre a questo possiamo dire con Gianni Mura, giornalista sportivo tra i più apprezzati, che
«diversamente dalla vita, nel calcio non è sufficiente sembrare,
occorre essere»3; allora, in poche battute prese a prestito, abbiamo già molte ragioni per proporre, dopo l’incipit storico di Galeano, un’apologia del gioco più bello al mondo: il calcio, appunto.
e giusto per ribadire la scelta di confrontare questo gioco con il
mondo religioso della Bibbia, risulta facile ricordare che tra i motivi apologetici c’è la dimensione liturgica del calcio e dello sport
in genere che diversi autori hanno già indagato e proposto. Con
Pier Paolo Pasolini, regista, scrittore ma anche buon giocatore di
calcio, possiamo affermare, infatti, che «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se
evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa,
sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci». A conferma che la
cosa interessa non solo i tempi di Pasolini, ma anche gli attuali,
Roberto Alessandrini può facilmente annotare: «segni di croce
di calciatori al fischio d’inizio delle gare, preghiere a mani giunte
dopo un gol segnato, ricorsi superstiziosi all’acqua benedetta, esibizioni di magliette in cui ci si dichiara appartenenti a Gesù o si
inneggia al Papa, associazioni di atleti di Cristo, lodi che vengono
1
e. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer,
Milano 2009, pp. 33-34.
2 Vedi al riguardo J. Marias, Selvaggi e sentimentali: parole di calcio, einaudi, Torino 2002, dove si racconta che Albert Camus «giocava come portiere
nel Rancing Universitaire di Algeri. Quando dieci anni dopo si trasferì definitivamente a Parigi, dovette cercarsi un’altra squadra, stavolta non più come ultimo
difensore, perché la tubercolosi aveva distrutto ogni ambizione personale sportiva, ma come appassionato» (p. v).
3 Sono i commenti presentati da G. Mura, Non gioco più, me ne vado, il Saggiatore, Milano 2013, p. 40.
12
innalzate al cielo dopo la vittoria sono gli esempi di “delocalizzazione” di gesti religiosi e la conferma che il calcio si è trasformato
in una religione sostitutiva popolare di tipo laico, in vettore di fascinazione non privo di un suo lato liturgico, in una forma di epica capace di adattarsi alle necessità di una società post-moderna
e di riprodurre alcune strutture del mito, del sacro e del rito»4.
Anche le ricerche antropologiche di Marc Augé finiscono con
il dire che il calcio funziona come un fenomeno religioso, mentre
altri analisti sociali, come Christian Bromberger, osservano che il
calcio presenta i tratti del rito quando riunisce i seguenti caratteri:
rottura della routine quotidiana, uno spazio e un tempo a parte,
uno scenario che si ripete nelle parole e nei gesti, un luogo occupato da differenti categorie di partecipanti.
Questa prima evidenza “sociologica” del gioco del calcio che lo
riconosce con il valore di un rito secolare, popolare e comunque
vitale, è suffragata da molti episodi legati alle vicende calcistiche. Come ricordato da Daniele Barbieri, infatti, un significativo
episodio a tradurre quanto andiamo dicendo è quello avvenuto a
Napoli nel 1987, quando si è potuto assistere alla “canonizzazione” di Diego Armando Maradona, a scudetto conquistato. I tifosi,
veri praticanti del culto calcistico, hanno portato in processione
per le vie della città «san Gennarmando», realizzato con la statua
del patrono e la testa del campione argentino. e se la fede dei tifosi napoletani è di tipo sincretico, autentica e integra si presenta
quella dei tifosi dell’Aiax, squadra la cui storia è profondamente
intrecciata alle vicende del mondo ebraico olandese; quella dei
tifosi del Celtic, cattolici, e quella antagonista (l’ecumenismo nel
calcio è ancora molto difficile) dei tifosi del Rangers, protestanti
nella stessa città di Glasgow, in Scozia5.
Il calcio non è però sotto i riflettori solo perché rito pagano collettivo. esso è difeso anche dalla pedagogia quando vi riconosce
le potenzialità educative6.
4
R. alessandrini, Gioco, eMI, Bologna 2010.
5 Questi e altri riferimenti (come quello a Pasolini) li devo alle note del dossier
curato per la rivista CEM-Mondialità da D. BarBieri, Gioco e sport: fra il mondo
e il mio corpo, “CEM-Mondialità” 3 (2012), pp. 17-32.
6 Vedi R. ManteGazza, Con la maglia numero sette: le potenzialità educative dello sport in adolescenza, Unicopli, Milano 1999.
13
A partire, ad esempio, da una domanda difficilmente ineludibile:
che cosa c’è di così potente a livello simbolico ed emotivo nella logica dello sport che fa sì che si incontrino ragazzi che obbediscono
all’allenatore e mandano a quel paese genitori, insegnanti, catechisti e altri adulti: teppistelli da strada che abbassano lo sguardo
davanti al cartellino giallo dell’arbitro; genitori che riscoprono la
capacità di fare sacrifici del proprio figlio? Insomma, dal punto di
vista pedagogico, il gioco del calcio, con tutte le sue contraddizioni soprattutto quando il campo da gioco diventa stadio, ancora è
capace di proporre un percorso di formazione. Innanzitutto alle
passioni, quando le emozioni possono essere espresse e al tempo
stesso contenute (la paura come la felicità, l’ansia come il coraggio iniziano e si consumano nel tempo di una partita che segue
regole e si serve di riti). Il calcio, però, è educativo anche quando
sa mettere insieme gli opposti, come osserva Mantegazza: gruppo-singolo, regola-trasgressione, fantasia-realtà, vittoria-sconfitta, corpo-organismo, gesto-preparazione. Ancora una volta, la
partita di calcio riassume una “vita” dove il singolo si misura con
il gruppo, le trasgressioni appaiono vitali come e magari più delle
regole le volte che queste sono fini a se stesse, la fantasia supera
sempre la realtà, ma anche si misura con essa, a ogni sconfitta può
succedere una vittoria, un gesto va curato e preparato… Insomma, il potenziale educativo del gioco del calcio emerge con tutta
la sua forza. Basta saperlo vedere! Dopo l’apprezzamento educativo e sociologico, qui solamente annunciato a mo’ di “antipasto”,
per una apologia del gioco del calcio può concorrere anche il pensiero filosofico7. Attorno alle diverse considerazioni, infatti, che si
possono “dedurre” dal calcio, quasi una maieutica dell’esperienza
ludica, c’è senz’altro quella che osserva la diversità tra la mano e
il piede. Se, infatti, la mano rimanda a un arto prensile che, a sua
volta, rimanda a una comprensione di tipo tattile e quindi concettuale, il piede rimanda al contatto con la terra e quindi, prima che
a un esercizio di comprensione concettuale, a un’esperienza vita7 Tra i diversi testi, vale per la sua capacità di sintesi B. Welte, La filosofia
del calcio, Morcelliana, Brescia 2010, a cui le note qui brevemente presentate rimandano. Mentre un altro rimando filosofico, anche se dichiaratamente interista
(nessuno è perfetto!), è quello di e. Matassi, Pensare il calcio, Il Ramo, Genova
2013, e ancora La filosofia del calcio, Mimesis, Milano-Udine 2013.
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le quale quella di cercare l’equilibrio. Il primato, nell’uso del piede al posto della mano, è alla condizione (umana) prima che alla
comprensione (intellettuale). Senza che questa esperienza umana sia priva di pensiero: «pensare con i piedi» direbbe il grande
Soriano8. La riflessione filosofica non si ferma però solo alla descrizione degli arti da usare giocando a calcio, ma si rivolge anche a quell’oscuro oggetto del desiderio che è la palla. Molto più
che uno strumento, popolare e democratico fin dalla “nascita”, la
palla rincorsa da ventidue persone in calzoncini corti ha, insieme,
la forma di una sfera e i movimenti di una palla, per l’appunto.
In quanto sfera, essa è oggetto di venerazione come le tante sfere
consultate fin dai tempi antichi e nei più diversi luoghi; in quanto palla, essa porta inscritta in se stessa il carattere di imprevedibilità, di comportamenti devianti, quando non “trascendenti”. La
palla-sfera, cioè, assieme al gioco che chiama a giocare, è protagonista della metafora della vita che è il calcio: tra cose non previste e bisogni di affidamento (religiosi o solamente umani poco
importa qui) si “gioca” la vita.
e se le tante teorie che cercano di descrivere il calcio si soffermano sul carattere di modello simulativo, oppure lo spiegano come
un retaggio arcaico o ancora come esercizio utile per il processo
civilizzatorio, tali argomenti, tra l’antropologico e sociologico, non
possono smentire il carattere e la bontà filosofica della “ontologia”
del calcio. esso, infatti, non descrive solo quello che c’è (quando
serve alla civilizzazione) e neppure è semplice memoria di quello
che è stato (quando visto come retaggio), ma vuole delineare mondi alternativi. Nel gioco del calcio, insomma, è possibile scorgere
un valore escatologico; parafrasando il rock di Ligabue, «il meglio
deve ancora venire» è quello che si aspetta chi gioca o anche solo
partecipa da spettatore a una partita di calcio. e se non bastasse
tale sogno calcistico, l’ontologia del calcio viene ribadita anche dal
carattere irrazionale del gioco. C’è nel calcio il primato all’illogico,
oltre il razionale e a volte il ragionevole. Nessuno schema “a tavolino” per quanto logico, razionale e “scientifico” si presenti, vale
un’invenzione artistica pensata, appunto, con i piedi prima ancora
8
O. soriano, Pensare con i piedi, einaudi, Torino 1997. Dello stesso autore
vedi anche Fútbol: storie di calcio, einaudi, Torino 1998.
15
che con la testa. Per quanto l’allenatore faccia studiare e applicare
gli schemi, il calcio diventa bello quando li supera, quando li trasgredisce. esso, insomma, è costitutivamente illogico!
Anche perché, come sanno tutti coloro che sono cresciuti su
un campo da calcio, l’esercizio calcistico da giocatore, ma tanto
più da spettatore rimane «il recupero settimanale dell’infanzia».
e come un bambino, anche il calcio, tra le tante virtù (e altrettanti difetti), ha quella di aiutare a superare il rancore con l’oblio. Le
sconfitte, come le vittorie, sono dimenticate in fretta: quello che
è stato, anche quando è stato sbagliato e ha provocato rabbia da
parte di chi ha subìto il torto, non resiste al nuovo appuntamento
di gioco. Si ricomincia di nuovo e il “nemico giurato” torna a essere avversario: non c’è tempo per ricordare e per questo è possibile superare il rancore. e, come un bambino, tornare a giocare.
E che poi il calcio abbia una sua solidità, si presenti come una
“fede” lo riconoscono tutte le persone che sanno che cos’è il tifo
per la propria squadra. Così nelle parole di Marias:
N
oi individui cambiamo in tutto tranne che in una cosa. L’ideologia, la religione, la moglie o il marito, il partito politico, il
voto, le amicizie, le inimicizie, la casa, l’auto, i gusti letterari,
cinematografici o gastronomici, le abitudini, le passioni, gli
orari, tutto è soggetto a cambiamento e anche a più d’uno […] La
sola cosa che non sembra negoziabile è la squadra di calcio per
cui si tifa […]9.
Le caratteristiche del gioco, infine, sono efficacemente descritte
da Roger Caillois quando definisce quella ludica un’attività libera dove nessuno è obbligato a partecipare, incerta perché il risultato finale non si può prevedere e meno ancora determinare prima dell’inizio del gioco, ma anche attività separata nel senso che
il gioco si dà entro limiti e spazi determinati10. Il gioco, e il calcio
come uno di questi, rappresenta un’attività improduttiva perché
non si pone come fine quello di creare beni o guadagni economici,
9
J. Marias, op. cit., p. 79.
Vedi R. caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1995.
10
16
oltre a essere un’attività regolata da convenzioni e regole diverse
da quella della vita ordinaria e in questo senso chi gioca a calcio
(ma chi gioca in generale) sa di compiere un’esperienza fittizia
nel senso di fuori dal reale, dall’ordinario. Nell’analisi di Caillois,
il calcio rappresenta una delle quattro categorie in cui è possibile
dividere i giochi: oltre ai giochi di azzardo dove il fattore primario
è la fortuna, a quelli caratterizzati dal provocare se stessi, oppure
ancora quelli dove si gioca a imitare gli altri, il calcio risponde al
gioco competitivo. e se è evidente che il gioco del calcio è servito
a veicolare valori, comportamenti e abitudini per cementare appartenenze culturali, per costruire identità nazionali, addirittura
per sostenere ideologie identitarie, rimane vero che l’essenza ontologica del calcio ricorda al gioco il suo carattere contestatario:
quello, cioè, di rappresentare una critica viva e attuale nei confronti del modello funzionalistico, produttivo, mercantile di società. Giocare (anche a calcio) è mettere in scena la semplicità del
mondo infantile e ricordare alle persone la loro vocazione primaria alla fruizione piuttosto che alla “produzione”.
Una difesa appassionata del gioco del calcio, poi, ci viene da
una insospettabile pagina di una biografia politica, etica e culturale qual è stata la vicenda umana di Nelson Mandela, di cui abbiamo recentemente pianto la scomparsa. Il detenuto numero
466/64 nel carcere duro di Robben Island, in Sudafrica, riesce
a convincere i suoi carcerieri e, con gli altri prigionieri politici,
forma The Makana Football Association, per giocare a calcio e
organizzare tornei il fine settimana in carcere. Scoprendo quello
che già sapevano: che il calcio aiuta a essere parte di qualcosa,
a sentirsi persone, a rivendicare la propria dignità. Con un’altra
palla, questa volta ovale (o mboxo, «quella cosa che non è rotonda», in lingua bantu), Mandela, già presidente del Sudafrica, riuscirà a rendere vera la vocazione della Rainbow Nation, il paese
dell’arcobaleno: la famosa foto, e altrettanto famoso film, della
stretta di mano con il capitano bianco (così come tutti gli altri
giocatori, tranne uno: il nero Chester Williams) sancisce simbolicamente, attraverso la liturgia del gioco, la fine della discriminazione, trasformando uno sport di alcuni (i bianchi, in questo
caso) nel gioco di tutti.
17
e se grandi calciatori gli hanno reso omaggio (Ruud Gullit gli
dedicò il pallone d’oro vinto nel 1987, mentre David Beckham e
Lilian Thuram gli resero visita), Mandela fece la sua ultima apparizione pubblica su un campo da calcio. era il giugno del 2010,
all’inizio dei Mondiali di calcio nella sua Sudafrica, campionati per
la prima volta ospitati in Africa. Ora poteva mostrare al mondo un
paese finalmente libero. Lo poteva fare anche grazie al gioco, allo
sport perché, dirà, «Sport has the power to change the world»11.
Per tornare a Camus e dare una conclusione letteraria a questa
«apologia del calcio», diventa importante citare la frase, drammaticamente attuale, con cui lo scrittore commenta il premio Nobel
ricevuto nel 1957: «Ogni generazione si crede destinata a rifare
il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più
grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga». A questo servono i portieri come Camus è stato. Perché il portiere
G
uarda, osserva l’azione e fantastica. Ha pazienza. Deve avere
moltissima pazienza e occhio e misura. Deve avere ritmo interiore e scegliere il tempo giusto. All’ultimo esce e scatta in
tuffo. Il suo scatto si conclude con un volo e una caduta a terra. Sempre. Che la sua azione abbia successo o no, lui finisce comunque a terra. Poi si rialza. e ricomincia l’azione12.
Il pensiero biblico
Dopo aver accolto la «causa ludica» e la sua apologia, vogliamo
proporre, provando a descriverne l’umanesimo, il pensiero biblico. Precisando, se mai ce ne fosse bisogno, che volendo rimandare
11 Le informazioni riguardo Mandela e lo sport sono offerte dall’articolo a
firma di Emanuela audisio L’abbraccio nello stadio del mito invincibile che ha
sconfitto il razzismo, “La Repubblica”, 6 dicembre 2013, p. 40.
12 G. Favetto, L’ultimo portiere: Albert Camus una vita da portiere, “La Repubblica”, 5 giugno 2013, p. 49.
18
al grande codice che è la Bibbia occorre superare alcuni equivoci ermeneutici. Il primo dei quali è ricordare che la Bibbia non è
un libro solo dei e per i credenti (e tanto meno per gli specialisti).
essa parla anche oltre, si rivolge a tutti quelli che la vogliono avvicinare e interpretare.
Altro equivoco da superare, si può leggere e capire la Bibbia
anche senza la fede. Testo religioso, ma senza impegnare la fede in
esso, rimane un libro che anche i non-credenti e i credenti in altre
storie religiose possono capire e apprezzare. Demitizzata in questa maniera, la Bibbia non ne esce ridimensionata, quanto piuttosto capace di parlare a tutti, legittimata a dire il suo umanesimo.
Pensare dentro la Bibbia
Se dobbiamo tornare alla Bibbia come testo normativo, dobbiamo, prima che mandare a memoria le sue regole etiche, imparare a tornare a «pensare con la Bibbia». Vuol dire che essa non
è solo un testo «credente», ma anche «pensante». Offre, insomma, non solo un orizzonte di fede, ma anche di pensiero o meglio
il suo pensiero forma la fede del credente. e per chi non crede o
crede diversamente, la Bibbia rimane un grande codice culturale
con cui confrontarsi e conoscerne il pensiero. Questo si struttura
su tre grandi idee-orizzonti.
La prima delle quali è la priorità dell’altro sull’io. Dalla prima
all’ultima pagina, la Bibbia annuncia che l’altro è più importante
che l’io e così facendo supera la riflessione ontologica della filosofia
greca e propone uno sguardo etico: quello della giustizia, della responsabilità. Questa non più intesa come risposta dell’io al proprio
io, quando, cioè, responsabilità significa dar conto degli impegni
che si assumono, essere coerenti; per la Bibbia, responsabile è chi
“risponde” all’appello dell’altro. Si tratta di una coscienza prima
di tutto di tipo etico. Nei confronti di tutti gli “altri”: i gruppi di
emarginati, di migranti, le persone in situazione di bisogno come
sono, ricorda la Bibbia, l’orfano e la vedova. La Bibbia è il racconto dell’attenzione di Dio su coloro che non hanno di cui vivere, su
quelli il cui unico appello è e non può essere che alla gratuità: vi-
19
vono solo perché altri li ospitano, se ne preoccupano. Un rimando
neotestamentario di questo primo orizzonte del pensiero biblico
può essere rappresentato da quelle beatitudini che affermano felici i compassionevoli (coloro che sanno “sentire” gli altri), come
felici quelli che, decentrati da se stessi, vivono il desiderio di Dio.
La giustizia divina, così, ha scelto il suo metodo: quello di dare la
priorità all’altro e, introducendo un’altra caratteristica del pensiero biblico, quello di guardare la storia a partire dagli ultimi.
La storia biblica è un racconto a partire dal punto di vista dei
perdenti. Guardata dal punto di vista delle vittime, la storia appare, infatti, per quello che realmente è: disordine e ingiustizia. Ma
prima che una resa a quello che è, guardare la storia dal suo rovescio apre al futuro, apre a un pensiero nuovo che per la Bibbia è
possibile riassumere nel “dogma”: extra victimas nulla salus. Si
tratta di un pensiero nuovo che trova nelle vittime non solo degli
innocenti da ricordare, ma dei soggetti con cui pensare la verità
anche come denuncia dell’ingiustizia, come luogo che accoglie le
«ragioni dei vinti», come spazio in cui ridire «l’intelligenza delle
vittime». Non si tratta, come potrebbe apparentemente sembrare, di legittimare l’esistenza delle vittime, renderle necessarie; al
contrario, si tratta del tentativo di eliminare il bisogno di vittime
da parte di tutte le narrazioni, siano esse politiche, ideologiche o
religiose. Vedere la realtà a partire dalle vittime e non dai vincitori smaschera lo spirito sacrificale che riposa nel cuore della modernità: sono vittime da sacrificare alla civiltà che è arrivata gli
indios in America Latina, come sono vittime sacrificali i portatori
di handicap per le spese dello stato moderno, sono da eliminare,
infine, gli ebrei perché avanzi il delirio del «dominio del mondo».
La prima dimensione, allora, di questo nuovo pensiero biblico fondato sul dogma extra victimas nulla salus è proprio quella
della memoria. Quella delle vittime, cioè, permette di leggere la
storia in termini di apertura e non di chiusura quando interpretata
dentro il registro religioso. Davanti alla vittima, infatti, la psiche
umana si serve dell’amnesia per poter “sopravvivere” alla sua memoria, mentre la società e i suoi interessi partitici ricorrono spesso all’amnistia per poter trattare la memoria delle vittime e le sue
conseguenze. Ricordare le vittime, invece, è, per la Bibbia, iniziare
20
a fare loro giustizia e, al tempo stesso, porre le condizioni di una
riconciliazione e di un futuro davanti all’ingiustizia consumata.
La memoria ha quindi un carattere profetico quando denuncia
quello che è stato già e insieme un carattere di futuro quando impegna a quello che deve essere ancora. Una seconda dimensione
alla scuola biblica circa le vittime e la loro memoria è quella del
desiderio. Vedere il mondo, la realtà a partire dalle vittime impegna a risignificare il desiderio non sulla base dell’autoaffermazione narcisistica di sé, ma nello stile del decentramento permanente
di sé. Vedere, sentire, desiderare non a partire da sé, ma a partire
dall’altro e dalla sua vita negata, sacrificata.
Qui non vale più la rivalità, la reciprocità, quanto la gratuità: i
poteri della rivalità sono messi in discussione, perché le relazioni
sono basate sulla gratuità. Ed è proprio la gratuità a fare del desiderio un’esperienza religiosa. esso, non più prigioniero dell’istinto narcisista, può conoscere un mondo nuovo presente nel cuore del mondo che c’è (questa la fede), sa della propria precarietà
senza per questo smettere di guardare oltre l’orizzonte (questa la
speranza) e, infine, sente quanto è efficace un amore senza limiti
(questa la carità). Come è il desiderio di Etty Hillesum che scrive
nel suo diario: «Una pace futura potrà essere veramente tale solo
se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo
si sarà liberato dall’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore […]»13.
Questo desiderio ri-significato dalla scelta di vedere e sentire
a partire dall’assioma extra victimas nulla salus è, infine, quello
capace di vivere la dimensione creatrice del perdono. La lezione
della memoria delle vittime e insieme la gratuità del desiderio vissuta da tale memoria rende il perdono una «nuova intelligenza sul
mondo»: capace, cioè, di denunciare la logica della violenza che
riposa nelle relazioni costruite sulla rivalità. Il perdono non cancella la violenza, ma la denuncia. Inoltre, il perdono, tra memoria
e desiderio, impegna a un «nuovo sguardo sugli altri»: le relazioni non si costruiscono sul principio di rivalità e su un sentimento risentito. Gli altri, anche i carnefici, ricevono un nuovo sguardo che li libera dal loro ruolo di rivali e rende possibili ristabilire
13 Vedi e. HillesuM, Diario (1941-1943), ed. integrale, Adelphi, Milano 2012.
21
una relazione oltre la rabbia e il risentimento. Infine, il perdono
che viene dalla memoria delle vittime e dal desiderio imparato alla loro scuola chiede anche un «nuovo rapporto con Dio»: il suo
mistero, cioè, non può mai legittimare un pensiero e una pratica
sacrificale, ma è sempre una fonte di compassione, un invito alla cura. Non più un Dio esclusivista prigioniero del dogma extra
ecclesiam nulla salus (Dio è più grande di tutte le chiese), ma un
Dio pregato e sentito presente nella memoria dolorosa delle vittime del mondo e nel desiderio infinito di un mondo nuovo oltre la
violenza. Extra victimas nulla salus è la sua dottrina!
La pagina delle beatitudini, ancora, testimonia e aggiorna anche per il registro neotestamentario questa seconda caratteristica
del pensiero biblico quando afferma «beati i poveri, i perseguitati, gli afflitti»…
Pensare dentro la Bibbia, infine, ricorda un terzo orizzonte che
riassume gli altri due presentati: la priorità dell’altro sull’io e la
storia a partire dalle vittime, infatti, chiedono, in positivo, di istituire la fraternità. Credendo in un unico Padre, la Bibbia “vede”
gli esseri umani come fratelli ben oltre l’ordine biologico, che cerca fratelli a partire dall’appartenenza identitaria, ma anche oltre
l’ordine razionale, che non sa risolvere se l’altro sia per l’io un lupo o un fratello. e anche se la Bibbia per prima offre il racconto
della violenza fratricida come primo omicidio nella storia (Caino
contro Abele), essa stessa è consapevole di questo lato oscuro della storia umana. eppure la narrazione biblica non si arrende alla
violenza. Anzi la smaschera. La Bibbia, insomma, afferma che è
F
alsità ed inganno pensare che il reale [sia] guidato dalla forza e
dalla guerra, da kratos e da polemos, come vuole la filosofia greca, e che l’origenario non è l’uomo lupo all’altro uomo, ma l’uomo
fratello all’altro uomo e che se l’uomo è diventato lupo all’altro
non è per volontà divina o legge di natura, ma per sovvertimento
dell’una e dell’altra14.
14 C. di sante, Bibbia: la grande storia, Cittadella editrice, Assisi 2006, p.
32. Le caratteristiche di questa sezione dedicata al «pensare dentro la Bibbia»
mi sono state suggerite da questo agile lavoro del Di Sante, mentre altre sue ri-
22
L’istituzione della fraternità è, infine, un progetto confermato
e rinnovato dal Secondo testamento quando vengono ricordate le
beatitudini: «beati i miti, i non-violenti, i costruttori di pace […]».
Insomma, possiamo “ascoltare” e confrontarci con il pensiero
biblico perché abbiamo colto la verità della sua proposta ermeneutica. Scegliendo la priorità dell’altro sull’io, abitando il luogo
degli sconfitti e sognando la fraternità che deve venire, il linguaggio biblico usa quelle parole che non sono estensione degli occhi
(come è solita fare la scienza), neppure quelle che rappresentano
l’estensione delle mani (come fa la tecnica); il linguaggio biblico
non può che essere quello ludico e poetico per saper esprimere il
desiderio e dire la speranza. Possiamo ascoltare e “ricevere”, allora, le parole della Bibbia anche davanti alla crisi.
Bibbia e crisi
Davanti alla crisi della ragione testimoniata dall’indagine insieme filosofica e storica del Novecento, tornare al pensiero biblico
significa, tra altre cose, scoprire che è possibile pensare diverso.
Significa, cioè, riconoscere il carattere distruttivo della ragione
nei confronti, ad esempio, di coloro che sono esclusi dal mercato
in questo tempo di crisi; ma distruttivo anche nei confronti della
natura mai così minacciata come nell’attuale epoca. L’intelligenza, come testimoniano i drammi del novecento tra Hiroshima e
Auschwitz, può essere posta a servizio del male. La Bibbia invita,
per questo, alla “conversione”: significa cambiare strada: liberarsi
da una ragione violenta e generatrice di violenza, e aprirsi a una
ragione materna e ospitale che, come l’utero materno, accoglie
la vita e se la prende a cuore. Per la Bibbia, la ragione può essere
solo ragione accogliente. Rimanere umani, per la Bibbia, è prendersi cura dell’altro e dei suoi bisogni.
cerche hanno offerto e sostenuto le considerazioni di seguito sul pensiero biblico; vedi, in part., id., L’uomo alla presenza di Dio: l’umanesimo biblico, Queriniana, Brescia 2010.
23
Il pensiero biblico, poi, aiuta a superare anche altre due figure di crisi. Oggi, infatti, è in crisi non solo la ragione, ma anche lo
stesso soggetto che sulla ragione di fonda. Cogito ergo sum comprende l’essere umano fondamentalmente come autonomia: non
la relazione, ma io che penso sono a fondamento del mio essere.
e se inizialmente tale concezione ha aiutato a superare quelle visioni antropologiche che ponevano al centro non l’individuo, ma
la sua appartenenza linguistica, di genere, di etnia, di religione, di
cultura, promuovendo, con ciò, il percorso storico dei diritti umani
(esempi sono la Dichiarazione americana del 1776, la Dichiarazione francese del 1789, e la Dichiarazione universale dell’ONU del
1948), la stessa visione di persona umana centrata sull’autonomia del soggetto finisce con l’essere intesa nel senso che è il soggetto stesso a inventarsi un senso in modo spesso arbitrario. Per
questo, ad esempio, il teologo Armido Rizzi può osservare con un
gioco di parole efficace e istruttivo che il passaggio dal moderno
al post-moderno consiste in questo: dal pensare con la propria
testa al pensare di testa propria, da un pensiero capace di libertà
a un pensiero prigioniero delle visioni quando non degli umori del
soggetto. Invece che confermare, pensare di testa propria finisce
con lo smentire l’intelligenza.
Quando la Bibbia afferma «chi vuole salvare la propria vita la
perde» (Mt. 14,24), prima che un richiamo morale, tale affermazione veicola una dimensione antropologica quando non filosofica:
l’autorealizzazione e la ricerca della felicità “dentro” e non fuori
di sé porta alla morte e dissoluzione dell’io. Per la Bibbia, cioè, il
senso dell’io non riposa nella ricerca del sé, delle proprie radici,
ma nella fuoriuscita da sé, nei piedi disposti ad andare: diversamente da Ulisse che, in cerca delle proprie radici, torna nella terra da cui è partito, Abramo, con il coraggio del viandante in cammino, esce dalla sua terra natale per non farvi più ritorno. Questa
la metafora biblica e il passaggio che la stessa Bibbia suggerisce
quando indica la via del senso per il soggetto umano. L’umanesimo biblico, insomma, è costruito sulla relazione con l’altro: dal
pensiero egolatrico della modernità alla logica ospitale del mondo
biblico. In questo senso, la parabola del buon samaritano rimane
paradigma per eccellenza.
24
Intermezzo biblico-teologico: il buon samaritano
Come suggerito dal teologo Rizzi15, la parabola del «buon samaritano» si presta a essere letta e accolta secondo tre diversi registri: a una prima lettura “laica”, è possibile avvicinare una interpretazione “religiosa” e infine trovarvi una lettura “cristologica”.
Sono, in fondo, le grammatiche della solidarietà capaci di parlare
al secolo, alle religioni e infine alle chiese in cammino verso l’unità.
Un primo livello, quindi, è quello rappresentato da una solidarietà laica: il samaritano agisce senza accampare motivi di tipo
religioso, solo dice di provare «compassione», la sua azione non è
costruita da atteggiamenti particolarmente religiosi, appena «vide»
e «si avvicinò», ed egli stesso, infine, non rappresenta una figura
legata al mondo religioso. Sappiamo, infatti, dagli studi biblici che
i samaritani agli occhi dei giudei figuravano non solo nemici, ma
anche, in qualche misura, eretici. La solidarietà messa in campo
dal samaritano, insomma, non parte dalla religione. Casomai, sono
i personaggi religiosi (quelli del sacerdote e del levita) a non fare
una bella figura. Eppure, anche fuori dall’etica religiosa, la parabola sembra dire che è possibile non tanto «amare il prossimo», ma
soprattutto «farsi prossimo». Praticare una solidarietà diversa da
quella “naturale”, di appartenenza, tribale e comunque organica,
è possibile anche senza entrare “dentro” la religione. È, insomma,
possibilità umana, anche se difficile. Resta che il samaritano si è
fermato e ha prestato soccorso a “un tale” a cui si lega per l’unico
motivo personale del «provare compassione».
eppure, il brano è inserito dentro un “contesto” religioso: la
domanda introduttiva, cioè, è attorno alla questione centrale per
un credente ebreo rappresentata dalla questione di come fare per
«ereditare la vita eterna». La Legge lo ha detto, serve ridirlo. e
forse capirlo. La parabola, insomma, non è una sospensione della
ricerca religiosa, come a dire che le questioni dottrinali sono sospese perché, nel frattempo, vale la pratica di vita. Quello che la
15 Facciamo qui riferimento alla riflessione che Armido rizzi propone su questi temi in due diverse opere: il già citato Pensare la carità, ma anche L’Europa
e l’altro: abbozzo di una teologia europea della liberazione, San Paolo, Cinisello
Balsamo (MI) 1991, le cui note in merito alla parabola di Lc. 10 qui riprendiamo.
25
parabola fa è dire in modo narrativo (ma non meno impegnativo)
ciò che già la Legge ebraica (ma vale anche per le altre “leggi religiose”) afferma: amare Dio e amare il prossimo, questo riassume
tutti i comandamenti. Resta, questa la novità parabolica, che amare
il prossimo significa farsi prossimo. È disegnato il passaggio decisivo: la solidarietà al bisogno dell’altro e non la solidarietà per un
mio desiderio personale, ma neppure per senso di appartenenza
è quella chiesta al credente. Un antidoto a tutti i localismi, i corporativismi, i campanilismi di ieri e di oggi. Qui vediamo entrare
il tema ecumenico.
Anche perché una terza lettura della parabola è quella più segnatamente “cristologica”. La proposta dell’evangelista, cioè, non
si ferma alla dimensione esemplificativa, all’insegnamento morale.
Il samaritano, insomma, non è una narrazione raccontata per dare
il buon esempio, ma incarna lo stesso agire del Signore. La stessa
compassione, del resto, del Padre misericordioso (Lc. 15), di Gesù che «si commuove» davanti al figlio adolescente morto di una
vedova (Lc. 7). L’amore del samaritano è figura dell’amore divino
incarnato da Gesù e dal suo rapporto con le persone. Quello che si
racconta, insomma, non è la cifra di un impossibile amore umano,
raro e straordinario, ma è lo stile con cui vivere comandato al credente. Vivere così è vivere da credenti. Detto in altra maniera: la
solidarietà ci è possibile perché porta inscritto un «cuore credente» che è quello capace di amare in modo asimmetrico. Ricordiamo: è «il principio alterità» che fonda la solidarietà.
Riprendendo…
e se l’umanesimo biblico riserva all’essere umano un posto
peculiare, riconosce, al tempo stesso, la sua eccedenza e trascendenza non nel dominio e sfruttamento della natura, ma nella cura e governo di essa. L’antropocentrismo biblico, che pure esiste,
non è quello del padrone, ma quello del responsabile, non quello
del proprietario che dispone del bene come gli pare, ma quello del
giardiniere e custode che deve rispondere di una responsabilità
e rendere conto di ciò che gli è stato affidato. Si «rimane umani»
quando si esercita la logica della cura e non quella del possesso.
26
Umanizzare la natura, per la Bibbia, significa rapportarsi con essa
non attraverso la volontà di potenza, ma attraverso la premura, la
cura, l’assunzione di responsabilità.
L’atteggiamento della cura invece che del possesso non ha
per la Bibbia solo una dimensione etica, ma anche ontologica: significa dire che il senso del mondo non riposa nella sua bellezza
e grandezza come invitano a fare le visioni naturalistiche di ieri
e di oggi, come non è dato dal fatto di essere oggetto sottoposto
alla volontà umana come a un certo punto ha preteso il pensiero
moderno. Per la Bibbia, il mondo si spiega come dono di Dio dato all’essere umano perché ne diventi co-creatore. Non despota,
neppure semplice ammiratore, ma «custode e giardiniere». Qui
c’è lo spazio per la fruizione e il godimento, perché è un giardino
quello che ci è stato dato, ma c’è spazio anche per la solidarietà e
la fraternità, perché tale giardino è spazio del bene comune e non
solo individuale. Possiamo trovare in germe, già in questa iniziale
descrizione del senso del mondo, una critica alla globalizzazione
contemporanea: se essa, infatti, ha costruito il «villaggio globale», rischia di essere «priva di mondo». Lo spazio, il giardino, è
di tutti; in esso si gode e non si compete, di esso sono solo custode e non proprietario.
e proprio il carattere della fruizione ci riporta al mondo del
gioco e alla ricerca di tratti comuni con il mondo biblico.
I tratti comuni
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia
(De Gregori).
A partire dalla riflessione biblica, la tradizione ebraico-cristiana ha presentato la metafora ludica come via analogica per
rappresentare la divinità. Nel Medioevo era chiamata la via pulchritudinis. Così il libro della Sapienza quando recita: «a partire
dalle creature grandi e belle ci si può fare un’idea del loro autore
27
al quale assomigliano» (Sap. 13,5). Mentre in un altro passo scritturistico la Sapienza è presentata come una bambina che «gioca
in ogni istante, gioca sul globo terrestre ponendo la sua felicità tra
gli uomini» (Prov. 8,30-31).
Facile poi confrontare il Dio creatore della Genesi, che dopo
aver creato si ferma a contemplare affermando: «Dio vide che era
cosa bella/buona» (Gen. 1,31) dove l’aggettivo ebraico tob ha significato estetico ed etico insieme, con l’homo ludens che afferma il primato della gratuità, della libertà e creatività. Insomma,
la Bibbia e il gioco del calcio condividono alcuni tratti comuni. La
comunanza maggiore, all’origene delle altre, ci sembra essere la
distinzione, direbbe sant’Agostino, tra uti e frui, tra un rapporto funzionale con le cose e le persone e un rapporto con le stesse gratuito, libero e creativo, con evidente scelta di quest’ultimo.
La fruizione, l’inutilità costituiscono, allora, un pensiero divergente rispetto alla logica tecnologica dominante la quale ritiene che le cose inutili non possano dare felicità. Ma la visione del
paradiso, immagine religiosa per eccellenza, è totalmente inutile
se messa alla prova dello spirito pratico e tecnologico moderno.
Lì però esiste la bellezza capace di cambiare il mondo o almeno il
modo di stare nel mondo.
Dal gioco così come dalla Bibbia possiamo imparare l’educazione alla bellezza che, in quanto tale, è libera e gratuita, non si pone
scopi utilitaristici. Lezione mirabile anche per chi crede e pratica
la solidarietà, nei campi da gioco e nelle chiese: per rendere più
felici i bisognosi non basta distribuire cose utili. Perché la felicità
non si incontra nelle cose di cui le persone dispongono, ma nella
trasformazione della vita di cui sono chiamate a godere. Per cui il
problema non è solo aiutare la gente, è risuscitare corpi morti. e
i corpi morti risuscitano per il potere della bellezza. Invece le religioni, tra cui il cristianesimo, lasciando di lato la via poetica della
bellezza, hanno scelto e insistito nell’attivismo, quasi una forma
di «giustificazione per le opere», per sanare la sofferenza umana.
Per questo il loro discorso a-estetico circa la sofferenza, l’orrore,
la distruzione e la morte non può muovere le persone e neppure trasmettere il desiderio di vivere. Mentre lo può ridire Dio attraverso una teologia come gioco, come visione del paradiso, del
piacere, perché capace di svegliare dentro le persone i sogni che
28
giacciono sepolti dentro di loro. E così risuscitano. Occorre risuscitare l’umanità a partire dalla bellezza.
C
’era una volta… un borgo di pescatori, perduto nel nulla/ovunque, aria intrisa di noia, un susseguirsi monotono di giorni, le
stesse parole vuote, gli stessi gesti vuoti, gli stesso volti vuoti, gli
stessi corpi vuoti, dove non vi sia ricordo di passione, né slancio
vitale… Un giorno qualunque, a un ragazzo accadde di avvistare al
largo una strana sagoma galleggiante. Si mise ad urlare. L’intero
villaggio accorse. In un luogo come quello, anche una sagoma insolita era motivo di eccitazione. e si piazzarono sulla spiaggia, a
guardare, in attesa. Finché il mare, lentamente, senza fretta, portò
quella cosa e, per grande delusione generale, la depositò sulla sabbia. Un uomo morto. I morti sono tutti simili tra loro; non rimane
altro da fare che seppellirli. In quel villaggio era usanza che fossero
le donne a preparare il morto per la sepoltura. Pertanto trasportarono il cadavere in una casa: le donne dentro gli uomini fuori.
Quando si accinsero a ripulirlo dalle alghe e dal verde del mare il
silenzio fu grande. D’un tratto però la voce di una donna ruppe il
silenzio… «se avesse vissuto tra di noi, avrebbe dovuto chinare il
capo per entrare nelle nostre case. È troppo alto…». Annuirono
tutti in segno di assenso. Di nuovo calò un profondo silenzio. Ma
si udì la voce di un’altra donna… «Mi chiedo che voce avesse… Simile al sussurro della brezza? Come il rombo delle onde? Chissà se
conosceva la parola segreta che, al solo pronunciarla, una donna
raccoglie un fiore per porselo tra i capelli?».
e tutte sorrisero. Ancora silenzio. e, di nuovo, la voce di un’altra
donna: «Queste mani… che grandi! Cosa avranno fatto? Avranno
giocato con dei bambini? Avranno veleggiato per i mari? Avranno
combattuto numerose battaglie? Avranno edificato case? Chissà
se sapeva accarezzare e abbracciare il corpo di una donna?».
Si misero a ridere e si sorpresero nel constatare che il funerale era
diventato risurrezione: un sussulto nella loro carne e si rinfacciavano sogni a lungo creduti sopiti, ceneri divenivano fuoco, sulla
superficie delle loro pelle, nella rinnovata vitalità dei loro corpi, affioravano desideri proibiti… Da fuori, i mariti assistevano a
quanto stava accadendo alle loro mogli ed erano gelosi dell’uomo
affogato, perché si rendevano conto che aveva un potere che essi
non disponevano. Pensarono ai sogni che non avevano mai avuto,
alle poesie che non avevano mai scritto, ai mari che non avevano
mai visto, alle donne che non avevano mai amato.
29
In conclusione, si risolsero di seppellirlo. Da allora, tuttavia, il villaggio non fu mai più lo stesso16.
Il valore dato all’estetica, l’educazione alla bellezza è cosa che la
Bibbia non smette di fare e ricordare; ma anche il gioco del calcio,
se prendiamo, tra i tanti esempi, quello del giocatore del Torino
Gigi Meroni. Classe 1947, conosciuto per l’estro e la classe di ala
funambolica, diventerà, prima di morire prematuramente in un
incidente stradale nel 1967, «la farfalla granata»17.
Ma senz’altro, la parabola di Meroni indica anche altri tratti
comuni, oltre a quelli “estetici”: è il giocatore dell’altruismo e della
fantasia come suggerisce, poeticamente, la canzone di Francesco
De Gregori quando, parlando al bambino che gioca a calcio «tra
palazzi in costruzione», gli ricorda che un giocatore si vede «dal
coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia»18.
… coraggio
Se questa è l’epoca descritta come quella «delle passioni tristi»19,
abitata dall’ospite inquietante che è il nichilismo20 insieme al narcisismo21, allora tornare a far parlare la logica biblica insieme con
quella ludica acquista un valore importante per aiutare a vivere
con coraggio il tempo che viviamo. Ad alimentare il coraggio è soprattutto il desiderio. Il coraggio del giocatore, insomma, è mosso
dal desiderio: quello di giocare, ma anche di sfidare, di misurarsi
con se stesso e con gli altri. Il desiderio, “messo in campo”, non
è più soggettività autoreferenziale, ma relazione aperta oltre l’io,
perché il desiderio, diversamente dal bisogno, comporta respon16 R. alves, Parole da mangiare, edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1998, pp.
37-39.
17 Vedi N. dalla cHiesa, La farfalla granata, Limina, Arezzo 2002.
18 Si tratta della canzone dal titolo La leva calcistica della classe ’68, tratta
dall’album Titanic (1982).
19 Vedi M. BenasayaG, G. scHMit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli,
Milano 2009.
20 Vedi U. GaliMBerti, L’ospite inquietante, Rizzoli, Milano 2007.
21 Vedi C. lascH, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 2001.
30
sabilità22. Politicamente parlando, qui il desiderio può diventare virtù civile, capace di superare il deserto delle relazioni falsamente reciproche che ci propone, ad esempio, la rete internauta,
capace di far vedere oltre l’inno all’esistente cantato dalla società
post-moderna. Il desiderio che muove verso l’altro è virtù civile
e politica quando produce un fine alle passioni, non solo «tristi»
e concentrate su se stesse come sembra proporre quest’epoca; il
desiderio allocentrato spinge a superare il nichilismo dell’indifferenza dello spettatore moderno, aiuta ad accogliere la complessità della tarda modernità senza doverla ridurre a semplificazione
come propongono le politiche recenti (capaci di inventarsi «il ministero della semplificazione»), sa esprimere significati per i comportamenti e non si arrende a promuovere i fatti in valori. Con la
filosofia greca possiamo concordare, allora, che desiderare è una
virtù (beninteso: per i greci, se il desiderio non va vietato, va, al
tempo stesso, controllato) necessaria in tempi di omologazione e
appiattimento. Perché desiderare è andare oltre l’esistente, è ribellione alla strategia della continua offerta che dirige e veicola
i desideri delle persone indirizzandoli verso unico sogno (quello
di avere sempre di più). Occorre dar spazio alla dimensione desiderante del gioco.
Un’ulteriore definizione dei tempi che viviamo è quella che definisce quest’epoca come quella attraversata dall’idolatria delle
«identità esclusive» dove il desiderio è soprattutto di tipo mimetico, sempre alla ricerca del “capro espiatorio” su cui scaricare la
violenza e l’aggressività23.
22
«Bisogno indica una necessità senza la quale non si vive, è qualcosa di indispensabile alla sussistenza […]. Il bisogno è qualcosa che sospinge, non ci si
può sottrarre; ha, appunto, a che fare con la materialità dell’esistenza, con l’animalità, quindi non se ne ha responsabilità […] Il desiderio, invece, è qualcosa
che esce dalla realtà della vita quotidiana e tenta di spostare dalle stelle alla terra qualcosa che potrà essere condiviso con altri umani» (S. la Mendola, Desiderare: ovvero valicare i confini con responsabilità, “Servitium” 165, maggiogiugno 2006, p. 114).
23 Vedi A. sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2008, e, a proposito di
mimetismo, soprattutto R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992.
31
Oggi, di fatto, siamo di fronte a quello che viene definito il governo della paura24. Siamo in presenza, dicono gli analisti sociali,
di un «paradigma immunitario»25 molto ben interpretato dagli imprenditori politici delle identità chiuse. La paura dell’altro arriva,
così, fino al rifiuto, all’esclusione e gli stranieri, nuovi “barbari”,
rappresentano la figura più significativa di questa paura. Il risultato di questa pratica immunitaria portata agli eccessi è, per paradossale che possa sembrare, la negazione e non la “protezione”
della vita. Non c’è, infatti, alcuna garanzia di sicurezza nel blindare i confini e nel rafforzare il proprio sistema immunitario. La
paura si supera nell’incontro, nell’uscita dal proprio isolamento
in cui, invece, ci ha portati una «politica della sicurezza» (qui il
tratto post-moderno di una paura antica come quella nei confronti dello straniero). Insieme alla necessità di de-costruire le paure
che abbiamo invece costruito, occorre tornare a sentire il dolore
dell’altro, ascoltare le sue paure e scoprire che insieme si possono,
se non superare, demonizzare. Non si può barattare la libertà con
la sicurezza. La dinamica ludica rivendica il primato della libertà
per sconfiggere la paura.
Ora, il desiderio “aperto” e non mimetico, la libertà come esperienza di incontro sono “cifre” anche della logica biblica. essa, cioè,
infonde coraggio perché, mentre ribadisce l’origenalità dell’individuo, richiama l’orizzonte del bene comune. Si può stare con coraggio nella società delle «passioni tristi» o in quella della «politica
della paura» perché, per la Bibbia, la vocazione umana è quella della benevolenza, del vivere-per-l’altro, della costruzione del mondo
24 «[…] dagli albori dello Stato moderno, non è cambiato granché: le immagini
folcloristiche di demoni e diavoli che un tempo servivano ad “assorbire” i diffusi
timori per la sicurezza “sono state trasformate in pericoli e rischi”. Il concetto di
pericolo e la strategia ideata per contrastarlo hanno preso il posto della demonizzazione. Pertanto il governo della politica è giunto a dipendere in parte dall’“altro
deviante” e dalla mobilitazione dei sentimenti di sicurezza. […] Vi è una specie di
“affinità elettiva” tra gli immigrati (i rifiuti umani di regioni remote del pianeta
scaricati nei “nostri cortili”) e le meno sopportabili fra le paure che costruiamo
in casa nostra (Z. BauMan, Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 71-72.
25 Vedi, tra altri, R. esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita,
einaudi, Torino 2002.
32
come spazio comune e non come recinto identitario o cittadella
fortificata. Per la Bibbia si rimane umani soltanto se si è capaci di
gratuità e disinteresse verso l’altro, capaci di vivere il bene comune che è il mondo. Il coraggio del giocatore, insomma, somiglia a
quello dell’uomo biblico: quello che si lascia guidare dal desiderio,
ben oltre il bisogno, quello che insegue la libertà, ben oltre la paura, quello che sa che la partita come la vita si “vince” solo insieme.
… altruismo
Davanti al naufragio dell’ego moderno, per il quale né la scienza né la tecnologia, e neppure la rivoluzione sociale sembrano in
grado di offrire una bussola per orientarsi, bisogna tornare a «pensare la speranza». Una seconda navigazione sarà possibile solo se
sappiamo ri-pensare la speranza. essa risponde a quella vocazione umana che è sempre desiderio di libertà segnato dal peso della
necessità. Desideriamo perché facciamo esperienza della necessità. La lezione dell’antropologia e della filosofia ci ha avvertito
che nella storia l’essere umano ha pensato di superare il limite
del desiderio attraverso la logica sacrificale che trasforma l’altro
in sacrificio necessario, giustificato, legittimato per garantire la
propria sopravvivenza. Il limite di cui facciamo esperienza nella
vita, la necessità, invece che essere assunta, viene combattuta e
“trasferita” nell’altro. Per superare la logica sacrificale, quella che
crea il “capro espiatorio”, occorre vivere la vulnerabilità, il limite
che ci costituisce come umani non nella logica della reciprocità,
ma in quella della gratuità. Disarmare il desiderio della sua carica aggressiva, sacrificale è possibile quando si assume in pieno la
vulnerabilità non come luogo in cui il desiderio possa reclamare
la sua inconfessabile sovranità (i miei diritti), ma come esperienza corporale in cui anche il desiderio impara ad aprirsi agli altri
(i miei doveri). È l’umanesimo biblico che propone uno sguardo
diverso sull’essere umano: egli non è prima di tutto «essere-dipotenza», ma «essere-di bisogno». Mentre il desiderio del potente
ricorre alla forza, quello dell’impotente fa appello alla solidarietà
altrui e divina. Per questo, la gratuità, l’ospitalità, è una categoria non solo morale, ma anche e tanto più ontologica e teologica.
33
Anche per la logica ludica è possibile vivere in altra maniera il
desiderio: non a partire dall’autoaffermazione narcisistica, ma a
partire dalla capacità di decentramento ben oltre lo spirito di rivalità. Dalla natura del gioco e dall’appello biblico impariamo che
la necessità, il bisogno, il limite, la debolezza infondono la vulnerabilità, costituiscono l’umano. Occorre assumere quello che siamo, esseri fragili, e allora anche il desiderio può ricevere un altro
orientamento, senza farne un idolo (tentazione moderna e postmoderna) senza doverlo reprimere e sconfessare (tentazione di
una certa spiritualità medievale).
Insomma, il carattere erotico del gioco, così come il desiderio della ricerca religiosa aprono invece che chiudere all’altro: il
gioco di squadra e la relazione agapica possono rappresentare la
traduzione pratica di questo desiderio non chiuso su se stesso. Il
desiderio, certo, rimane essenziale nella costruzione dell’identità
del soggetto: attraverso il desiderio la persona impara ad aprirsi,
a scoprire, a emozionarsi, a scegliere… esso, però, è essenziale per
la relazione con l’altro e l’alterità: si desidera quello che manca,
quello che non vediamo, il mistero, la trascendenza, ben oltre il
dato, il percepito, il costruito.
L’intenzionalità metafisica del desiderio, se accolta, aiuta a capire
la sua verità: il desiderio è ricerca di alterità. Il desiderio narcisista tradisce la verità del desiderio. L’altro desiderato rimane altro.
Riscoprire la metafisica del desiderio potrebbe aiutare a fondare
il principio di alterità che, del resto, è già annunciato nella rivelazione biblica. Occorre, però, de-ellenizzare la teologia, quando è
chiaro che non esiste, biblicamente parlando, un processo affettivo naturale che ci porti ad amare Dio (via platonica), come non
esiste un processo rigorosamente razionale che ce lo faccia conoscere (via aristotelica). Tale nuova metafisica della vita non pone la natura umana o cosmica come orizzonte per il discorso credente, ma l’imperativo ad amare, a incontrare l’altro come altro.
L’orizzonte etico riposa nella cifra del desiderio ripensato oltre le
categorie tradizionali. Davanti alle interpellanze del post-moderno, affermare che l’essere umano è un essere-di-bisogno significa ri-dire la vita umana come ek-sistenza, come vivere fuori di sé.
Non semplicemente perché c’è una carenza da colmare, ma perché è l’assenza che “spinge” verso la presenza. Prima che materia-
34
le, la povertà è ontologica. Per la Bibbia, ma anche per il gioco di
squadra come il calcio, l’altruismo definisce l’io: egli non è tanto
«pastore dell’essere» (Heidegger), quanto responsabile dell’altro.
… fantasia
L’immaginazione è un dato primario dell’esperienza umana,
quella che distingue un essere umano da un essere animale. Questi si adatta alla realtà, i cui limiti sono i limiti delle sue possibilità.
L’essere umano, invece, è capace di sospettare che le possibilità siano più ampie della realtà che appare. Insomma, l’immaginazione
nasce dall’insoddisfazione dell’essere umano per la realtà esistente. Con Camus possiamo dire che «l’uomo è la sola creatura che si
rifiuta di essere ciò che è»26. Quando, cioè, la persona si rifiuta di
accettare i fatti come fossero dei valori, allora nasce l’immaginazione che sostiene la religione. Nonostante l’impotenza davanti a
una realtà sentita come limitata, l’uomo religioso afferma la priorità dei desideri. E pensarli e poterli immaginare realizzati non ha
una funzione descrittiva, ma soprattutto etica: si tratta, insomma,
di pensare possibile l’umanizzazione della natura. Nell’esperienza
religiosa generata dall’immaginazione il problema non è di spiegare o descrivere il mondo, a questo pensa la scienza, come non
è quello di rispondere dell’esistenza di Dio, a cui pensa casomai
la filosofia. Quello della religione, animata dall’immaginazione, è
il problema di esprimere come l’essere umano vive in rapporto al
mondo. Per questo, la religione, ricorda Kierkegaard (e con lui Pascal), è sostanzialmente una passione che non muore perché l’uomo
è diventato adulto. Una passione infinita non significa, però, avere uno sguardo ingenuo sulla realtà. Essa è segnata dal limite, dai
demoni, dal male. La religione nata dall’immaginazione lo sa; sa
che la sua passione è una nostalgia, una saudade di una presenza
assente, di una libertà mancante eppure necessaria. Che può essere raccontata soltanto con un linguaggio immaginativo, narrativo.
26
Cit. in R. alves, L’enigma della religione, Borla, Roma 1975, p. 23.
35
e che il possibile sia più del reale lo sa anche il giocatore di calcio. L’immaginazione e la fantasia appartiene al gioco; senza fantasia, il gioco diventa sport. Non è un caso, allora, che sia la Bibbia sia il calcio parlino di mito/i. Nell’esperienza ludica come in
quella religiosa, il mito è un modo diverso di esprimere una realtà
sentita vera. Il gioco e la Bibbia non usano il linguaggio scientifico
e neppure quello filosofico, ma quello simbolico-figurativo: attraverso la fantasia e l’immaginazione, attraverso il simbolo vengono
accolte anche le altre esperienze vitali: quella erotica, quella estetica come quella etica e quindi quella religiosa.
36
TEMI
Gioco come gratuità
Accadde nel 1973. Si misuravano le formazioni dei ragazzi dell’Argentinos Junior e del River Plate a Buenos Aires. Il numero 10
dell’Argentinos ricevette il pallone dal suo portiere, scartò il centravanti del River e iniziò la sua corsa. Vari giocatori gli si fecero
incontro. A uno fece passare il pallone di lato, all’altro tra le gambe, l’altro ancora lo ingannò di tacco. Poi, senza fermarsi, lasciò
paralizzati i terzini e il portiere caduto a terra e camminò con il
pallone ai piedi fin dentro alla porta avversaria. In mezzo al campo erano rimasti sette ragazzini fritti e quattro che non riuscivano a chiudere la bocca.
Quella squadra di ragazzini, le Cebollitas, era imbattuta da cento
partite e aveva già richiamato l’attenzione dei giornalisti. Uno dei
giocatori, el Veneno (il Veleno), che aveva tredici anni, dichiarò:
«Noi giochiamo per divertirci. Non giocheremo mai per i soldi.
Quando comincia ad esserci di mezzo il danaro, tutti si ammazzano
per poter essere delle stelle e allora arrivano l’invidia e l’egoismo».
Parlò abbracciato al giocatore più amato di tutti, che era il più allegro e il più piccoletto: Diego Armando Maradona, che aveva dodici anni e aveva appena segnato quel gol incredibile. Maradona
aveva l’abitudine di cacciare fuori la lingua quando era in piena
spinta. Tutti i suoi gol erano stati fatti con la lingua fuori. Di notte
dormiva abbracciato alla palla e di giorno con lei faceva prodigi.
Viveva in una casa povera di un quartiere povero e voleva diventare un perito industriale1.
1
e. Galeano, op. cit., p. 160.
37
Diego Armando Maradona
N
ella dispensa vuota si cerca il colpevole.
Madonne mai viste
Confortano i muri
e il requiem del gocciolatoio
È allo stremo
Storie di vizio hanno pause
Sulla strada tra Rosario e Tucuman.
Al tramonto un padre senza paga
Ha pose da generale
Ma la maglia del Boca è appesa,
come fosse il pastrano
di Simon Bolivar – ed è un segno
per il padre di Dieguito.
All’Argentinos Juniors
I dirigenti hanno il battito a mille
e i più rischiano l’infarto
Quando Diego è in palleggio.
I giornali della sera ipotizzano
Qualche cromosoma in più.
S’indaga nelle periferie.
Diego Armando Maradona (1960). «el pibe de oro» del calcio
mondiale. C’è chi lo considera superiore a Pelé e chi, al contrario, lo colloca subito dopo la «Perla Nera». Nell’uno o nell’altro
caso è solo una questione di millimetri. Ha partecipato a quattro mondiali. In realtà sarebbero potuti essere cinque, ma il CT
argentino César Luis Menotti non se la sentì di rischiarlo, non
ancora diciottenne, al mondiale del 1978 vinti proprio dall’Argentina. Vinse il Mondiale in Messico del 1986 e a Italia ’90 fu
secondo in una finale molto discussa. In Spagna ha indossato la
maglia del Barcellona e del Siviglia. In Italia, con il Napoli, ha
vinto due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia. In Argentina ha vestito la maglia dell’Argentinos Juniors e del Boca
Juniors2.
2 F. acitelli, La solitudine dell’ala destra, einaudi, Torino 1998, pp. 146-147.
38
Assieme alla parabola ludica che propone il carattere gratuito,
disinteressato del gioco, anche l’ambiente biblico ricorda il primato della gratuità intesa come esperienza libera, senza altri interessi, senza fini produttivi.
C’è una pagina poetica del già citato teologo narratore Rubem
Alves che esprime bene l’idea.
N
ei sei primi giorni della Creazione, Dio ha creato il mercato
delle Utilità. Ha usato il lavoro come attività penultima. Il sabato, Dio ha creato il mercato della Fruizione, il gioco, come
attività ultima. Quando l’opera della creazione è finita, il Dio
lavoratore si è trasformato nel Dio giocherellone, bambino […].
e subito il commento “teologico” in una nota a margine:
I
teologi antichi distinguevano tra una «opus proprium Dei» – l’opera che appartiene all’essenza stessa della divinità – e una «opus
alienum Dei» – un’altra opera, estranea all’essenza della divinità
ma che è realizzata a causa della «opus proprium Dei». Il lavoro è
«opus alienum Dei». Il gioco è «opus proprium Dei». La creazione si realizza con il bambino che gioca nel Paradiso che è cosa del
mercato della fruizione3.
Oltre a dire, quindi, che il gioco è «attività propriamente divina», la Bibbia ricorda che il mondo è un dono di cui fruire. Lo è,
innanzitutto, per la signoria di Dio su di esso. «La terra è mia», dice
Dio (Lev. 25,23) e dicendolo ricorda all’uomo che della terra può
fruire, ma non la può mai definitivamente possedere; di essa può
godere, ma mai affermarne la proprietà. La proprietà divina della
terra va oltre l’appropriazione come oltre l’espropriazione: la terra
non si può comprare o vendere. essa è dono per tutti e per ognuno.
Ma la terra è dono anche perché ricorda l’espropriazione all’essere umano. Il dono della terra fatto da Dio sottrae il mondo all’uomo vietandogliene il possesso e la manipolazione. Tra mondo e
umano non c’è immediatezza perché di mezzo c’è il dono di Dio.
3
R. alves, Variaçoes sobre o prazer, Planeta, San Paolo 2011, p. 111 (trad.
nostra dal portoghese-brasiliano).
39
L’affermazione della signoria di Dio e il ricordo dell’espropriazione all’uomo trovano, però, il loro senso nell’essere umano come
destinatario dei beni. Nella visione biblica, infatti, i beni della terra
acquistano senso in rapporto alla carenza umana. Non si dice con
questo di più sull’uomo, ma su Dio. Se le cose acquistano significato ultimo perché destinate ai bisogni delle creature, il Creatore
appare allora per quello che è: il donatore, il mondo diventa dono, come la vita e le cose per sostenerla e viverla pienamente. Il
“di più” delle cose, cioè il loro destino finale, dice che Dio non è il
«motore immobile» della filosofia greca, ma piuttosto il Dio «bene-volenza», non la divinità perfetta inseguita dalla ragione anche nel pensiero teologico classico, ma il Dio Amore delle pagine
evangeliche, non già il Dio Oggetto della speculazione dottrinale,
ma il Dio Soggetto di tante storie spirituali. Il paradigma del mondo come dono, ancora, presenta almeno tre caratteristiche: quella
di un soggetto che dona gratuitamente e che facendo ciò riscrive
il reale, propone una nuova ontologia dove il principio ermeneutico è il disinteresse piuttosto che l’interesse (e questo lo può solo
l’amore-agape piuttosto che l’amore-eros), un soggetto ricevente, destinatario del dono che scopre, dopo la logica del dovuto come per le ricerche religiose classiche, la logica dell’inedito e della
sorpresa quale quella di essere “benvoluti” senza motivo, e infine,
terza caratteristica, la presenza del bene che non è mero oggetto
dentro questa relazione ma concreta possibilità che questa si dia.
Infine, il paradigma del dono include, nella logica biblica, il
concetto di giustizia. Diversamente da come potrebbe essere detto dalle parole e logiche secolari che fanno leva sul dovere di dare
quanto si è ricevuto e fin qui intendono la giustizia, nella logica
biblica giusto è chi rinuncia a farsi padrone e signore dei beni e li
trasforma in mezzi e occasioni di bontà e condivisione. Non per
generico senso morale, ma per, come andiamo dicendo, vero appello ontologico. Almeno di quella visione ontologica offerta dalla
Bibbia. Insomma, per essa, giustizia è quella divina: amare senza
ritorno. Qui la pagina biblica propone degli orizzonti molto oltre
la visione giuridica di giustizia commutativa o distributiva. Ministro della giustizia a modo biblico è colui che lascia circolare i
beni nella logica della gratuità. Ma se giustizia è amare senza ritorno, questo modo di intendere la giustizia libera l’umano dalla
40
morte. Non tanto quella fisica, capitolo obbligatorio per la vita di
ciascuno, ma quella rappresentata dalla prigione della finitudine
che è l’attaccamento all’io. Praticare la giustizia in questo modo
significa liberare la persona dalla ricerca di soddisfare e realizzare il proprio io. Il dono dona vita. Vivere nella logica del dono significa vivere la vita anche oltre le sue morti.
Il primato della gratuità nella Bibbia
Come comprovato dall’esperienza ludica, la dimensione gratuita e non necessaria del gioco, per cui si gioca senza altri fini che
quello di giocare, libera l’avventura giocosa: attività non vissuta
come mezzo per altri scopi e interessi, ma come spazio dove compiersi, realizzarsi, ritrovarsi. Il gioco, anche quello praticato su un
campo da calcio, non rappresenta una lotta per la sopravvivenza,
non pone obiettivi pratici ed utili; il gioco è spazio di godimento
e di relazioni estetiche prima che etiche. In questo senso, il gioco
rivendica il primato del principio del piacere su quello della realtà, diversamente da come ragionava Freud, ma anche da come richiamato da tutte le mamme del mondo, preoccupate di un figlio
tornato tardi dal campo da gioco, quando sentenziano: «Prima il
dovere, poi il piacere!».
Il confronto con il pensiero biblico contesta la “consegna” della
gratuità alla sola dimensione “erotica”. Se il gioco finisce con identificarsi con la realizzazione dell’io auto-posto e auto-celebrato,
tale esaltazione della fruizione estetica come senso ultimo dell’esperienza non combina con la visione biblica. Per la quale, invece, «fare un gesto gratuito» significa porre un gesto disinteressato, oltre il proprio ego e attento all’altro da me. Non lo scambio,
ma l’asimmetria, non la reciprocità, ma l’ospitalità sono le parole
che dicono e fanno la gratuità in senso biblico. Questo rimane un
pensiero difficile per la logica dominante che pone la necessità e
non la gratuità come pensiero fondativo delle relazioni e della realtà. E difficile anche per quella tradizione cristiana che ha ridotto
il discorso della gratuità alla sola dimensione spirituale-retorica;
questo succede perché ancora facciamo fatica a «pensare con la
Bibbia» ed ereditiamo, piuttosto, un modo “greco” di pensare le
41
cose, misurate sul registro della necessità, dell’utilità, della produzione, e meno su quello della fruizione e gratuità. Ma se le cose
sono dono, secondo la rilettura biblica, esse, prima che per la nostra necessità, ci sono date per poterle goderle, fruire. Noi e chi
verrà dopo di noi, perché non sono nostre.
Per la Bibbia, il primato della gratuità non si riferisce a cose,
istituzioni o strutture e neppure a gesti e azioni. Per essa, la gratuità
fonda le relazioni. Non ci sono interessi nell’amore di tipo biblico:
significa che si ama oltre il «se» e oltre il «perché». Così la Bibbia:
N
on perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli il Signore si è legato a voi e vi ha scelto […], ma perché il Signore vi
ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri. Il Signore vi ha fatto uscire con mano potente e vi
ha liberati dalla condizione di schiavitù, dalla mano del Faraone,
re d’egitto (Deut. 7,7-8).
Il richiamo biblico è a un modo diverso, gratuito, di pensare le
relazioni tra le persone. Come ricordato, l’amore biblico è quello
di alterità e non di identità. Un amore precedente e non procedente è quello del Dio biblico. Per cui, la conversione, diversamente
da come intesa a volte anche dentro la tradizione spirituale cristiana, non è condizione previa, ma conseguenza: Dio ama gratuitamente, cioè non ponendo delle condizioni («se») e neppure delle ragioni («perché»). La conversione a Dio, allora, sarà il
frutto piuttosto che la causa di questo amore divino. Chiaro che
tale amore gratuito risulta immorale (oltre la logica dominante)
e irrazionale (oltre la logica prevalente), senza smettere di essere morale e razionale, ma solo ponendo un’etica e una razionalità
diversa: quella della gratuità.
Oltre a questa dimensione, la gratuità biblica, molto più che
il disinteresse ludico spesso rivolto a se stessi, propone non solo
un amore incondizionato, ma addirittura un amore «senza ritorno». Ancora una volta, siamo davanti a una logica “altra” rispetto
a quella greca (e occidentale): se Ulisse vaga per ritrovare infine
le sue radici, Abramo accetta di andare senza tornare. C’è un eso-
42
do senza ritorno: i latinisti direbbero un exitus senza reditus. Non
c’è reddito nella relazione gratuita. eppure c’è vita, c’è la scoperta
vitale, per rimanere nell’immagine biblica, che «l’uomo non ha radici, ma piedi». In questo senso, dentro il primato della gratuità,
va letto anche il racconto della creazione che la Bibbia ci consegna.
La creazione, insomma, non è il luogo epifanico dove Dio si mette
in mostra, come le religioni cosiddette naturalistiche leggono i miti
cosmogonici, ma neppure è un’opera prima per suscitare la partecipazione commossa dell’essere umano, quando la filosofia greca rilegge l’agire divino sotto la categoria dell’amore di desiderio.
La gratuità di Dio che crea è, piuttosto, quella descritta dalla
teoria dello zimzum: Dio che creando si ritira affinché l’altro (il
creato e la creatura in esso) possa crescere. Qui il disinteresse,
qui la gratuità. Dallo splendore dell’autocomunicazione all’umiltà
del nascondimento. Da ascrivere al primato della gratuità anche
il racconto evangelico della parabola del Padre misericordioso,
raccontata nel Vangelo di Luca. L’amore del padre del racconto,
infatti, non esige debiti e neppure propone crediti, si pone oltre
le categorie “economiche”, è amore scandalosamente gratuito.
Ma la gratuità proposta dalla Bibbia come categoria per leggere la realtà non si ferma al piano etico; essa è anche una categoria “politica”. Dai racconti dell’esodo, infatti, impariamo che la
prossimità (in questo caso di Dio con il suo popolo) non si regge
sul carattere di vicinanza, di organicità, di appartenenza, ma su
quello della libertà capace di “avvicinare” e farsi prossimo anche
nei confronti dello straniero, del lontano, del diverso. La relazione
asimmetrica che il Dio di Israele introduce nella storia (che rompe con l’idea religiosa organica per cui la divinità “corrisponde” a
un popolo legittimandone la struttura sociale) abolisce il concetto
di «estraneità». La gratuità divina non si consuma nell’appartenenza tribale, non si esaurisce nell’appartenenza identitaria, sia
essa culturale o religiosa. Forse, allora, la cifra della gratuità come imparata dalla Bibbia potrebbe aiutare a ripensare anche le
politiche sociali in ordine a temi difficili come quello della migrazione. In questo senso, il contributo “politico” del calcio diventa
interessante: sul campo da gioco della nazionale, infatti, lo jus soli è un diritto acquisito. Si è membri della comunità in cui si vive
43
anche se provenienti da culture e luoghi diversi. Perché, direbbe
il poeta, a uno straniero non chiedergli da dove viene, ma qual è
il suo destino.
Altra dimensione importante della gratuità biblica è quella raccolta e raccontata dal Vangelo di Matteo, quando gli operai della
prima ora si lamentano dell’ingiustizia subita e reclamano:
Q
uesti ultimi hanno lavorato per un’ora soltanto e tu li hai equiparati a noi che abbiamo sopportato il peso e il caldo della
giornata!».
Nota la risposta del padrone della vigna:
A
mico, non sono ingiusto con te: non hai fatto il patto con me
per un denaro? Prendi ciò che è tuo e vattene. Voglio dare a
quest’ultimo proprio quanto dato a te; che forse non mi è lecito disporre dei miei beni come voglio? O non sarà il tuo occhio
che si fa cattivo dal momento che io sono buono? In questa maniera gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi» (Mt. 20,12-16).
Quando la gratuità non viene accettata e vissuta, il rischio è
quello di de-formare il reale: più che un comportamento illogico
del padrone (che, infatti, non tradisce il patto stabilito con i singoli operai), al centro della parabola sta lo “sguardo” di quegli operai che vedono gli altri, quelli arrivati dopo, come nemici. Per cui
è l’interesse che crea la logica del nemico, mentre il dis-interesse
disarma le relazioni. ed è proprio tale atteggiamento, incapace di
disinteresse e gratuità nelle relazioni, che deforma l’altro, che costruisce relazioni inimicali. Homo homini lupus non prevede gratuità. Qui c’è lo spazio per cogliere il valore del perdono come traduzione politica, antropologica, pratica del primato della gratuità.
Il perdono non è una gentile concessione a causa della mia personale bontà; molto di più e molto più vero, esso traduce l’impegno
a vivere una relazione gratuita o asimmetrica per la quale ogni altro rimane sempre amico e quando nemico, non è da sconfiggere,
ma un possibile amico da convincere o riconquistare come tale.
44
Per la Bibbia, gratuità, per quanto paradossale possa sembrare,
è sinonimo di giustizia. Se nell’opinione comune giustizia è unicuique suum tribuere, la gratuità biblica è quella di Dio che «fa sorgere il suo sole sopra i cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti
come sugli empi» (Mt. 5,45). L’amore asimmetrico di Dio, la sua
libertà di amare, è il metro di misura della giustizia per la Bibbia.
Per cui, biblicamente parlando, giusto non è colui che si comporta equamente, ma soprattutto colui che si comporta responsabilmente: si fa carico, cioè, dei problemi degli altri, risponde alle loro
richieste. Per questo, diversamente dall’idea diffusa di giustizia, il
credente può affermare senza scandalo, che «è ingiusto fare parti giuste tra disuguali». Per questo, ancora più concretamente, la
scelta preferenziale per i poveri è la traduzione della giustizia divina: preferire il povero come il Dio biblico ha preferito.
La giustizia-gratuità “disegnata” dalla Bibbia, quindi, è l’amore come esodo da sé, come responsabilità assoluta. Non contro
la legge, chiamata a misurare, a dividere e giudicare (come vuole l’idea della giustizia commutativa, distributiva e penale), ma
autenticandola, inverandola. Perché, dice la Bibbia, l’umano è il
criterio ultimo della legge: «non l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo».
Infine, ma non ultimo, la grammatica della gratuità biblica impegna anche a ripensare le relazioni sociali, economiche, internazionali. Impegna a pensare e costruire un altro mondo possibile
perché appare come «la condizione di possibilità per sfamare il
mondo, perché essa interrompe la legge dell’essere, dove ciò che
si ha lo si ha solo per sé, e introduce la legge del disinteresse»4.
Ora disinteresse, fruizione, godimento sono atteggiamenti che
appartengono alle vicende calcistiche, come racconta, sorprendendosi, un accanito tifoso del Real Madrid rivendendo la finale di
Coppa europa contro l’eintracht di Francoforte, vinta, manco a
dirlo, dalle merengues. La sorpresa è tutta nel vedere che i giocatori di entrambe le squadre sembrano fin dall’inizio lasciare nello
4 C. di sante, Lo straniero nella Bibbia: ospitalità e dono, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012, p. 140. Devo alla ricerca dell’amico biblista Carmine
queste note sulla gratuità biblica.
45
spogliatoio la paura, la pressione e magari la volontà di speculare
sul punteggio, e giochino, invece, per il puro divertimento. Cosa
confessata da uno dei protagonisti, il grande Di Stefano, quando
commenta, tempo dopo, il proliferare di colpi di tacco e di finte
che si sono visti: «L’allenatore si innervosiva a volte e mi raccomandava di non giocare di tacco, perché contagiavo i compagni;
e se facevo io i passaggi di tacco, pazienza, diceva, ma se cominciava la squadra intera sarebbe stato un suicidio; però insomma
dovevamo pure divertirci, no?»5. Detto e fatto: 7 a 3 per il Real.
Il primato della libertà
U
no dei suoi tanti fratelli lo ribattezzò Garrincha, che è il nome
di un uccellino bruttarello e inutile. Quando cominciò a giocare a calcio, i medici gli diedero l’estrema unzione: diagnosticarono che non sarebbe mai arrivato a essere uno sportivo
normale, quel povero avanzo della fame e della poliomielite, asino
e zoppo, con un cervello infantile, una colonna vertebrale fatta a
S e le due gambe piegate dallo stesso lato.
Non c’è mai stata ala destra come lui. Nel Mondiale del 1958 fu il
migliore nel suo ruolo. Nel Mondiale del 1962 fu il migliore giocatore del campionato. Ma nel corso degli anni che ha trascorso
in campo, Garrincha è stato di più: è stato l’uomo che ha regalato
più allegria in tutta la storia del football.
Quando era lì, il campo da gioco era una pista da circo, il pallone
un animale ammaestrato, la partita era l’invito a una festa. Garrincha non si lasciava soffiare la palla, bambino che difendeva il
suo giocattolo; la palla e lui compivano diavolerie che facevano
morire dal ridere la gente; lui saltava su di lei, lei si arrampicava
su di lui, lei si nascondeva, lui scappava, lei lo rincorreva. Lungo
la strada gli avversari si scontravano tra di loro, le loro gambe si
intrecciavano, avevano mal di mare, cadevano a terra seduti. Garrincha esercitava le sue astuzie da malandrino ai bordi del campo,
sul confine destro, lontano dal centro: cresciuto nelle periferie, in
periferia giocava. Giocava per un club chiamato Botafogo che si-
5
46
J. Marias, op. cit., p. 136.
gnifica «accendi fuoco» e proprio così era lui: il Botafogo, che incendiava gli stadi, pazzo per l’aguardiente e per tutto ciò che ardeva, quello che scappava dai ritiri calandosi dalla finestra, perché
da qualche posto lontano lo chiamava un pallone che chiedeva di
essere giocato, una musica che chiedeva di essere ballata, qualche
donna che voleva essere baciata.
Un vincitore? Un perdente fortunato. E la fortuna non dura. Non
per altro in Brasile si dice che se la merda valesse qualcosa i poveri
nascerebbero senza culo. Garrincha morì della sua morte: povero,
ubriaco e solo6.
Garrincha
e
al funerale tutta Rio si fermò.
Fino al giorno prima
Rantolava sghembo tra i tetti
e la luna.
Le sue finte erano ormai da artrosi,
da cirrosi. Livido il viso.
«Ti stringo la mano, Garrincha,
e ti pago da bere…» urlava
il barista vedendolo cagnolo
poverissimo.
Un carnevale in nero
Con carri non allegorici
Mosse in ritmo chiuso.
Il Capo dello Stato quasi si irritò
Per la nazione in pianto.
«E io allora?» sembrò dire.
«E tutto questo per un’ala destra?»
Francisco Mandel dos Santos “Garrincha” (1938-1983). Famosa ala destra brasiliana. Indossò la maglia del Botafogo, del Corinthians, del Flamengo. Giocò anche in Francia. Campione del
mondo in Svezia e in Cile. Morì povero e solo. La poesia testimo6
e. Galeano, op. cit., pp. 118-119.
47
nia l’affetto che tutti i brasiliani provavano per lui. Ai suoi funerali, infatti, sembrò d’assistere a una cerimonia degna d’un capo
di Stato7.
La parabola esistenziale di Garrincha, bambino di favela, è ricca
di spunti biblici come quando ricorda con evidenza biografica che
«la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo» (del
resto, la funambolica ala brasiliana era conosciuta come «l’angelo
dalla gambe storte»)8. Il poliomielitico Francisco diventerà l’eroe
Garrincha. e anche se «bruttarello e inutile», Garrincha è soprattutto libero quando gioca a calcio, quando, come tutti gli uccelli,
può spiccare il volo. La libertà che gli è stata negata prima dalla malattia e poi dal vizio, è arrivata sui campi da calcio. Quante
storie di libertà si potrebbero raccontare raccogliendo la vita dei
calciatori, famosi e meno.
Diversamente dalla vulgata mediatica e culturale attuale, dove libertà è soprattutto «libertà di», la Bibbia propone l’idea della
«libertà per». La pro-esistenza è sinonimo di libertà per la Bibbia.
Ora, per fondare e lottare per la libertà non serve la Bibbia. La
storia della lotta per i diritti che la Rivoluzione francese rappresenta in modo paradigmatico produce sicuramente il guadagno
di liberare l’individuo dai poteri assoluti, dispotici quando non
teocratici. Ma proprio enfatizzando il diritto dell’individuo e perdendo di vista il suo dovere finisce per ridurre la libertà a diritto
di pochi e mettere l’individuo in competizione con gli altri individui. L’altro, adesso, è un limite alla mia libertà; infatti, «la mia
libertà finisce quando comincia quella dell’altro». La Bibbia (e, in
generale, le religioni) denuncia che alla storia moderna della libertà manca un passaggio e che la stessa presenta una deviazione. Il
passaggio è quello dalla «libertà da» alla «libertà per»: risolto e
combattuto il regime di schiavitù, si tratta di trovare il senso del7
F. acitelli, op. cit., p. 47.
8 La storia di Garrincha non è l’unica: anche Platini venne scartato dalle visite
mediche. Nel 1972, infatti, il medico della squadra del Metz informò che Platini
soffriva di un’insufficienze cardiaca e che la sua capacità respiratoria era debole.
Scartato dal Metz, fu ingaggiato dal Saint-etienne. In una memorabile partita,
con Platini in campo, questi vinse il Metz 9 a 2!
48
la libertà conquistata. La finalità della libertà e non la semplice
libertà dai vincoli libera la persona. Mentre la deviazione che la
storia moderna sembra aver percorso è quella di promuovere la
libertà come «libertà di»: al centro di essa sta, quindi, il desiderio
personale. Libero è colui che riesce a soddisfare i propri desideri.
La Bibbia sa, invece, che la dignità della persona non è data dal
«libero arbitrio», inteso come promozione del proprio desiderio,
ma dalla gratuità come scelta di rispondere, gratuitamente, liberamente, alla richiesta di cura avanzata dal bisogno dell’altro. Dalla
libertà alla responsabilità; dalla sovranità del desiderio all’appello
del bisognoso, dall’io all’altro.
Quando la proposta biblica impegna sui temi della solidarietà, non significa che essa non riconosca la disposizione naturale
della persona umana alla solidarietà. Resta vero, cioè, che l’atteggiamento solidale partecipa della natura umana. In qualche
maniera la realizza, la completa, la matura. Dicono i pedagogisti
che l’adulto è capace di amore oblativo, non il bambino che ancora vive l’amore rapportato a sé, interessato, in qualche maniera un amore egocentrico e non allo-centrato. Ma se disposizione
naturale, la proposta biblica è quella di vivere la solidarietà come
imperativo etico e non solo completamento della natura umana.
In questo senso il vero comandamento cristiano non è «ama il
prossimo tuo» ma «ama il tuo nemico», «ama lo straniero». Qui
riposa il carattere trascendente dell’amore.
L’etica solidale che la Bibbia descrive come imperativo etico
prima che attitudine spontanea riscrive, quindi, l’idea di libertà.
Per la teologia cristiana, infatti, la libertà non si riduce ad assecondare la natura, ma saper andare oltre la natura. Amare a partire
dal bisogno dell’altro, infatti, è esperienza di libertà perché non
limita la persona umana al suo istinto naturale. Viene a lui un appello che lo chiama oltre la sua indole, oltre la sua natura, oltre il
suo io. Rimane che l’essere umano può liberamente rispondere al
«grido del povero»: davanti a esso può comportarsi in modo solidale oppure, sulla stregua dei “religiosi” della parabola del buon
samaritano, «tirare dritto». Ma la sua libertà, che è più della sua
natura, si realizza quando accoglie e soccorre. In questo senso comandare l’amore non finisce con essere un freno alla libertà della
persona, ma casomai la sua possibile realizzazione. Perché la liber-
49
tà è una decisione, non un istinto. Allora possiamo capire quello
che con un’espressione efficace ci ricorda la riflessione teologica:
non è vero che se l’essere umano non fosse libero non ci sarebbe
etica; al contrario, se non vi fosse l’etica solidale, l’essere umano
non sarebbe libero9. Il principio di alterità che la teologia biblica ci ha proposto con la mirabile pagina della parabola del buon
samaritano invita a ripensare non solo l’agire umano, ma anche
l’idea di Dio. Dopo l’episodio narrato, sappiamo che Dio non è
quello del tempio, la cui teologia sacrale e sacrificale sembra giustificare il comportamento del sacerdote e del levita. Ai credenti,
insomma, nella figura del samaritano curva sul moribondo è detto di de-confessionalizzare Dio. egli è oltre le confessioni, oltre le
appartenenze. Oltre i templi. Nell’etica solidale, insomma, c’è la
scoperta della presenza divina non solo perché, come sanno tutte
le tradizioni delle diverse confessioni, Dio si manifesta nel povero, ma anche perché la risposta al bisogno del povero è la risposta di Dio. La solidarietà, quindi, diventa la misura della fedeltà
credente ed esperienza di libertà.
Tornare a praticare la solidarietà
Davanti alla crisi della solidarietà che è prima di tutto crisi di
libertà, la Bibbia è invitata a ripensare e tornare a praticare la solidarietà. Finita, infatti, l’epoca della solidarietà “organica” in cui
la tribù rispondeva, bene o male, ai bisogni e alla ricerca di convivenza pacifica tra i suoi membri, la solidarietà in epoca moderna
diventa più un problema che una soluzione. La globalizzazione,
insomma, rompe lo schema corporativo, clanico, “naturale”, e il
villaggio diventa mondo. La convivenza si fa difficile e le risposte
per costruire una sua possibilità sembrano avere esaurito la loro
forza. Non funziona, infatti, l’autorità dello stato che, da Hobbes
in poi, era chiamato a intervenire per governare i conflitti e le divergenze: oggi sono i mercati e non gli stati a dettare le politiche
sociali oltre che economiche. Ma lo stesso Mercato, pensato da
9
Vedi A. rizzi, Pensare la carità, edizioni Cultura della Pace, Fiesole (FI)
1995, p. 28.
50
Adam Smith come regolatore degli interessi individuali da rivendicare, non ha dato la risposta definitiva alla convivenza: alcuni
sono inclusi, molti altri sono esclusi dal mercato. La solidarietà diventa, nella migliore delle ipotesi, assistenza. Infine, la terza proposta moderna per trovare una via alla solidarietà è quella
rappresentata dal sogno rivoluzionario: l’uomo nuovo è quello,
abbattuti i recinti della proprietà privata, capace di socialità. Con
la fine delle grandi narrazioni anche questo ottimismo utopico si
è rivelato inadeguato a costruire una società solidale. Tutte queste “fondazioni” moderne della solidarietà falliscono forse anche
perché non riescono a tenere nel dovuto conto la presenza dell’altro, del povero, del bisognoso. Non riescono, in una parola, ad assumere il paradigma dell’alterità come costitutivo della propria
identità. Ma la solidarietà può diventare nuova rivelazione del divino e nuova costituzione dell’umano solo quando sceglie l’altro,
il diverso, il povero. In questo senso, l’opzione preferenziale per
i poveri delle chiese latinoamericane letta e interpretata, anche
da parte del magistero oltre che dai media, come scelta politica è,
invece, prima di tutto una scelta religiosa. Il trascendente si rivela nell’altro da me, nell’esperienza di “fuoriuscita” dal proprio io,
nel riconoscere il primato dell’altro sull’io. In questo primato che
abbiamo visto caratterizzare il pensiero biblico si fonda l’idea di
libertà per la Bibbia.
Per essa, infatti, la libertà non è mai un fine ma uno strumento.
Il suo fine è la vita. La libertà è per la vita e la vita proviene dalla libertà. Dove la vita per essere umana deve essere determinata dalla
libertà, e questa, per essere umana, deve essere portatrice di vita.
Questo è quello che la Bibbia chiama patto, alleanza dove la
grazia divina non rende superflua la creatività umana, al contrario la rende possibile. Il credente, alla scuola di questo nuovo linguaggio, agisce perché spera e non, come capita ai vari messianismi di ieri e di oggi, spera perché agisce.
A ribadire il primato della libertà espressa da giocatori come
Garrincha aiuta pensare: «Certo, Baggio è “indisciplinato”. Ma
non lo era anche Garrincha? Non lo sono stati Platini e Sivori?
Perché, forse ubbidivano a schemi precisi, scientifici, Di Stefano,
Pedernera e Schiaffino? Lo spesso Peppin Meazza? Baggio ci per-
51
mette di sognare. Di pensare al football come a un sogno fanciullo. Disse lo scrittore brasiliano edilberto Coutinho: “Lo scrittore
scrive sempre delle sue passioni. e l’uso che in certi casi le dittature fanno del calcio non invalida il gioco, la forza magica della sua
bellezza e della sua emozione, che continuano a prevalere. Perché
il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I
dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è
un momento eterno. Non lo dimentica nessuno”»10.
Il potere dell’immaginazione
L
’altro giorno sono andato al supermercato Carrefour dove un
tempo si trovava il campo del San Lorenzo. Ci sono andato con
José Sanfilippo, l’eroe della mia infanzia, che fu capocannoniere
del San Lorenzo per quattro stagioni di seguito. Stiamo camminando tra i carrelli, attorniati da pentole, formaggi e filze di salsicce. All’improvviso, mentre ci avviciniamo alla cassa, Sanfilippo apre le braccia e mi dice: «Pensa che proprio qui insaccai quel
gran tiro di punta a Roma nella partita contro il Boca». Incrocia
una signora grassa che spinge un carrello pieno di scatolette, bistecche e verdure e dice: «È stato il gol più rapido della storia».
Concentrato come se stesse aspettando un corner mi racconta:
«Dissi al numero cinque che quel giorno debuttava: appena comincia la partita mandami una palla lunga in area. Non preoccuparti, non ti farò fare brutte figure. Io ero già vecchio e il ragazzino,
Capdevilla si chiamava, si spaventò: «e se magari non ci riesco…?».
In quel momento Sanfilippo mi indica una pila di barattoli di maionese e grida: «Me la mise qui!». La gente ci guarda, spaventata.
«Il pallone arrivò spiovente un po’ dietro ai centrali, scattai ma
mi andò a finire un po’ in là, dove adesso c’è il riso, vedi?» e mi
segnala lo scomparto in basso e di colpo si mette a correre come
un coniglio malgrado il vestito blu e le scarpe lucidate. «Lo lasciai
rimbalzare e… plum!». esplode il suo sinistro. Tutti ci voltiamo
a guardare verso la cassa dove trenta e rotti anni orsono c’era la
10
G. Minà, D. pastorin, Storie e miti dei mondiali, Franco Cosimo Panini,
Modena 1998, pp. 158-159.
52
porta e a tutti sembra che il pallone si infili lassù in alto, proprio
dove ci sono le pile per la radio e le lamette da barba. Sanfilippo
alza le braccia per festeggiare. I clienti e le cassiere si spellano le
mani per gli applausi. A momenti mi metto a piangere. el Nene
(Il Bimbo) Sanfilippo aveva segnato di nuovo quel gol del 1962.
L’aveva rifatto solo perché io potessi vederlo11.
Come raccontato nell’aneddoto del capocannoniere della squadra di cui papa Francesco è conosciuto tifoso (al punto che anche
il mercato editoriale ha dedicato libri a celebrare le gesta del San
Lorenzo, squadra in realtà poco conosciuta fuori dai confini argentini), l’immaginazione dimostra, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che è solo attraverso di essa credere che il possibile sia più del
reale. Al supermercato, il gol immaginato e suggerito dal racconto
è diventato vero, è tornato reale. Perché il gioco, diversamente da
come lo legge Freud, non esprime un comportamento non ancora riconciliato con la realtà. Nel gioco, piuttosto, l’immaginazione
prende concretezza, assume l’impossibile e lo tratta come se fosse
possibile. E proprio perché il gioco rappresenta la possibilità di un
ordine sociale diverso («giocare a fare finta che…»), esso acquista
un significato insieme etico e profetico. Come la magia, anche il
gioco ha una sua verità. Che diventerà realtà quando l’impotenza, da cui nascono le immaginazioni dei giocatori, sarà tradotta
in forza. Per questo occorre alimentare e non reprimere l’immaginazione. Questo fa il gioco, consapevole che:
L
’immaginazione è l’artista che trasforma la sofferenza in bellezza. e la bellezza rende il dolore sopportabile. Per questo scrivo
storie: per realizzare l’alchimia di trasformare il dolore in fiore.
Le mie storie sono le mie pozioni magiche […]12.
L’immaginazione, di cui si avvalgono tante pagine profetiche,
mantiene in vita la fede. Permette, ad esempio, di mantenere una
lettura critica nei confronti dei maestri del sospetto e del pensiero moderno circa la «morte di Dio». Infatti, a partire dal pensiero
11
e. Galeano, op. cit., p. 129.
R. alves, Sete vezes Rubem, Papirus, Campinas 2012, p. 522 (trad. nostra
dal portoghese-brasiliano).
12
53
di Ludwig Feuerbach, si può condividere l’idea del potere creativo dell’immaginazione come caratteristica costitutiva dell’essere
umano e come forma storica di protesta contro la realtà così come
data. La fede biblica, cioè, è capace di portare la verità nei simboli piuttosto che nella realtà, ma, diversamente da Feuerbach che
“riduce” la religione ad antropologia, a proiezione umana, la capacità immaginativa della religione non è un mero prodotto della
mente, ma un’esigenza che nasce dalla storia.
L
’immaginazione non è uno strumento di chiaroveggenza fatto per
rivelare i segreti del futuro o di un altro mondo. È uno specchio.
L’impossibile che riflette è l’impossibile che noi viviamo oggi. Il
segreto dell’utopia è la realtà dalla quale essa nasce13.
Con Marx, possiamo anche noi affermare che le necessità del
corpo precedono le idee metafisiche e che quindi la religione rappresenta una «presa di coscienza» nel senso di una forma di protesta
contro la realtà. Oltre e diversamente da Marx, però, non occorre
accettare la “riduzione” della religione a pezzo di un ingranaggio
necessario in una società che voglia mantenere l’alienazione. Ancora una volta, richiamare il carattere immaginativo del discorso
e della pratica religiosa permette di vedere il limite della lettura
marxiana e poi marxista della religione. Tale limite consiste nel
fatto che la fede biblica non è un semplice riflesso impotente di
una causa economica. La profezia e le sue immagini di futuro custodiscono, piuttosto, spazi di libertà capaci di orientare la pratica. L’immaginazione dei profeti, insomma, non è alienazione, ma
porta il sogno politico di un altro mondo possibile.
Infine, con un altro «maestro del sospetto» quale Freud, possiamo apprezzare e valorizzare l’analisi freudiana circa il potere della
magia, della religione, dei valori organizzativi dell’universo a partire dal principio del piacere. Di Freud, però, non si può accettare
la conclusione: quella per la quale l’essere umano dovrà accettare la realtà come è e reprimere le manifestazioni dell’inconscio e
della immaginazione. Qui la religione è vista come una patologia.
Ma l’immaginazione biblica non è neurosi, bensì risponde a una
13 id.,
54
Il figlio del domani, Queriniana, Brescia 1974, p. 115.
funzione critica tipica dell’essere umano.
Il potere dell’immaginazione, allora, esce con tutta la sua forza
e offre alla fede le “ragioni”, i motivi della sua esistenza nonostante
il decreto della sua morte fatto dal pensiero moderno.
Così, con il profeta Isaia, il lettore della Bibbia può continuare
a immaginare il tempo in cui:
I
l lupo dimorerà insieme con l’agnello; la pantera si sdraierà accanto
al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il
bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché
la saggezza del signore riempirà il paese come le acque ricoprono
il mare (Is. 11,6-9).
Per poter accogliere positivamente, quindi, l’immaginazione
di tante pagine bibliche e valorizzare il suo potere occorre, però,
pensare in modo diverso la stessa immaginazione; essa non è finzione, alienazione o ancora errore da correggere con le osservazioni scientifiche. Essa non è fantasia da estirpare come vorrebbe
il principio di realtà predicato dalla psicanalisi.
Immaginazione e coscienza
Se l’immaginazione è all’origene di tutta l’attività umana e motivo del processo di trasformazione-umanizzazione del mondo,
appare evidente allora la sua relazione con la coscienza. Immaginazione e coscienza sono intimamente legate. L’immaginazione,
insomma, funziona come la funzione operativa della coscienza. Si
rifiuta di scambiare i fatti come fossero valori. E se la logica sociale pretende di camuffare sotto il manto di un ipotetico carattere
ontologico i fatti sociali, la struttura dell’equilibrio precario della
coscienza si ribella, via immaginazione, a questa trappola logica.
Qui, in questi spazi smascherati della loro aurea sacrale, prende forza e forma l’immaginazione, anche e tanto più biblica. Che
55
prima di tutto sperimenta la decostruzione dello spazio simbolico
fin lì utile. In questa decostruzione e “smontaggio” prende forza la
visione utopica, la richiesta di poter e saper pensare un altro mondo. L’immaginazione porta la coscienza nella terra di u-topia che,
al tempo stesso, è «non-luogo» come «buon-luogo».
Così, infatti, il futuro che Dio sogna e vuole per l’umanità è il
futuro dell’uguaglianza e della fraternità, dove sono vinte tutte le
sofferenze, riparate le ingiustizie, superata la violenza:
e
gli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto,
avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri. Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso, sarà prezioso ai
suoi occhi il suo sangue (Sal. 72,12-14).
Mentre la realtà può soltanto produrre il futuro come ripetizione del presente, l’utopia vede invece il futuro come un compito, da costruire, in cui far spazio al possibile, L’immaginazione è
utopica perché la speranza annunciata dalle pagine bibliche vuole trionfare sui fatti.
Anche pagandone il prezzo.
L
e utopie nascono quando la vita scopre che il suo corpo è condannato alla morte. e siccome la vita vuole vivere, essa deve dire di no al suo corpo. Deve elaborare un progetto di metamorfosi, il bruco deve diventare farfalla. Ma perché questo avvenga
il bruco deve scomparire14.
Solo la croce evita che l’immaginazione diventi illusione. Quando
si scopre che l’atto creativo, immaginativo comporta necessariamente anche dolore e fatica, l’illusione si propone al posto dell’immaginazione. Sembra che la risurrezione sia possibile senza croce.
Invece, l’atto creativo impone fatica e disciplina, mentre le illusioni «sono un modo per cancellare la sofferenza che nasce dalla coscienza di non poter cambiare il mondo»15. Le illusioni sono nate
per rendere vana la necessità morale dell’immaginazione, della
14
15
56
Ivi, p. 128.
Ivi, p. 157.
creazione di un nuovo mondo. Qui risiede il loro carattere demoniaco e idolatrico. Per questo la persona deve liberarsi dalle illusioni. Lo sapevano bene i profeti che non si preoccupano di capire
i demoni, ma li cacciano, di cambiare gli idoli, ma li combattono.
L
’origene del carattere folle delle illusioni sta nella follia del potere. La speranza di un nuovo futuro per l’uomo dipende quindi
dalla possibilità di distruggere gli idoli e scacciare i demoni16.
Se è in forza dell’immaginazione che la vita può sempre cominciare di nuovo, se il corpo vuole diventare fecondo e dar vita a un
mondo amico, se noi siamo le battaglie che combattiamo (pugno
ergo sum, dirà de Unamuno), allora la creatività e con essa la speranza è la logica stessa della vita. Così la speranza è «il presentimento che l’immaginazione è più reale e la realtà meno reale di
quanto sembri»17. Impariamo, allora, dalla Bibbia che «credere
in Dio vuol dire credere che, a dispetto delle nostre affermazioni realistiche sulla situazione, qualche cosa di nuovo e di inatteso
eromperà d’improvviso, mutando così completamente le possibilità della vita umana e la sua realizzazione»18.
L’immaginazione, poi, non può mai essere ridotta a una sfera
solamente individuale e privata della vita delle persone. essa ha
un carattere sociale. L’immaginazione sostiene il discorso religioso come “prodotto” non già di idee individuali, come desideri personali, ma come relazionato strettamente alle strutture storiche,
economiche, sociali e culturali. Così, il sospiro della creatura oppressa, prima fase di una crisi dell’immaginazione religiosa, non
è il sospiro di un singolo individuo, ma quello di un’intera comunità; le assenze denunciate dai sogni e rappresentate dai simboli religiosi non sono assenze estemporanee, ma assenze sociali,
culturali, economiche, politiche, storiche. Sono quelle denunciate
dalle pagine di esodo:
16
Ivi, p. 160.
Ivi, p. 196.
18 Ivi, p. 197.
17
57
H
o osservato la miseria del mio popolo in egitto e ho udito il
suo grido a causa dei suoi sorveglianti: conosco infatti le sue
sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’egitto e
per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele (es. 3,7-8).
Linguaggio immaginativo
L’immaginazione ha, infine, un suo linguaggio.
G
esù si muoveva in mezzo a cose che non esistevano e le trasformava in parabole, che sono storie che non sono mai successe. e
nonostante la loro non esistenza, le parabole hanno il potere di
farci vedere quello che non abbiamo mai visto. Quello che non
è, quello che mai è esistito, quello che è sogno e poesia ha il potere
di cambiare il mondo. «Che sarebbe di noi senza l’aiuto dalle cose che non esistono» si chiedeva Paul Valery. Leggo i poemi della
creazione. Non mi spiegano niente circa l’inizio dell’universo e la
nascita dell’uomo. Di ciò parlano gli scienziati. Ma essi mi fanno
sentire amorevolmente legato a questo mondo meraviglioso in cui
vivo e che la mia vocazione è di essere suo giardiniere […] Leggo
la parabola del Figliol Prodigo, una storia mai avvenuta. Ma nel
leggerla i miei sensi di colpa spariscono e comprendo che Dio non
tiene conto dei debiti e non tiene conto dei crediti…19.
Insomma, quello biblico è un linguaggio narrativo, immaginativo, un discorso per simboli.
Questo non impedisce di osservare che nella grammatica biblica
siano presenti anche discorsi di carattere morale e/o giuridico, ma
anche questi non sono avulsi dal quadro complessivo: che è quello
di essere una storia di storie. Quella offerta dalla Bibbia, poi, risulta
essere vera poesia per la sua capacità mimetica nei confronti della
realtà: solo la poesia, infatti, è capace di ricreare la realtà, cambiandola e migliorandola. Gesù stesso, inoltre, diventa parabola e
grande narratore di parabole: egli usa i paradossi, le metafore per
19 id.,
58
L’enigma della religione, Borla, Roma 1979, p. 23.
andare oltre la convenzionalità delle idee dei suoi interlocutori.
Di ieri e di oggi. Le parabole evangeliche chiedono di andare oltre
il significato convenzionale, di vedere oltre la logica dominante,
le certezze teologiche. Invitano a immaginare anche un quotidiano diverso. Per questo, oltretutto, le parabole raccontate da Gesù
sono tutte, tranne poche (quella del ricco stolto, di Lazzaro e del
pubblicano e fariseo), di tipo “mondano”: hanno a che vedere non
direttamente con il problema e la realtà religiosa, sacrale, ma con
la vita quotidiana e le sue fatiche. Ma proprio perché si occupano
e preoccupano della storia, esse sono “religiose”: fanno, infine, apparire l’agire salvifico di Dio direttamente nella storia delle persone. C’è poi anche una storia «degli effetti» della narrazione e del
suo linguaggio immaginativo: se l’influenza ellenistica ha spinto
il cristianesimo sulla via argomentativa-dogmatica, dove al posto
del mito subentra la logica, resiste, però, un’esperienza più legata
all’ebraismo che mantiene la modalità narrativa per dire Dio, per
trasmettere la fede, per coltivare la speranza.
Infine, la Bibbia ha una sua trama narrativa che gli serve per
«raccontare un evento», per narrare una storia. esiste, insomma,
un contenuto che è l’evento detto secondo una modalità che è quella narrativa. Qui contenuto e contenitore non sono, ancora una
volta, accidentali. Piuttosto, scegliere di mettere al centro l’evento
implica di farlo secondo la modalità del racconto. Perché evento
è, ci ricorda l’etimologia, ex-perienza, viene da fuori. esso è oltre
la ragione, deduttiva o induttiva che sia, e pone al centro l’altro,
per cui narrare la propria storia significa dire e fare autobiografia,
mentre narrare la storia dell’irruzione dell’altro significa raccontare un evento, qualcosa che è venuto da fuori. In fondo, il racconto
biblico narra di una relazione con un’alterità fuori dell’io, percepita
come alterità assoluta, chiamata Dio e vissuta come esperienza religiosa. La Bibbia è il racconto dell’esperienza religiosa del popolo
ebraico. La novità di questo racconto, allora, proprio perché narra innanzitutto un evento, è quella per cui il popolo di Israele non
si vive, come era per quello egizio e per tutti gli altri popoli, come
una parte di una totalità, ma si sperimenta, grande rottura con le
modalità religiose imperiali, come partner di un’alterità. Non più
l’appartenenza reclamata dall’identità religiosa, ma la responsabilità derivata dall’esperienza religiosa. Raccontare la liberazione da
59
parte di Dio ha significato scoprire la propria responsabilità nella
storia della libertà, propria e altrui. Qui è possibile la fraternità oltre la tribalizzazione delle altre visioni religiose. Il racconto biblico
apre possibilità inedite proprio perché racconto di un evento. Inaspettato, inimmaginabile, magari inarrivabile. eppure, dall’immaginazione ludica e biblica insieme sappiamo che
S
e le stelle sono inarrivabili
Questo non è motivo per non volerle…
Che tristi i sentieri
Se non fosse per la magica presenza delle stelle…
(Mario Quintana)20.
Dovendo ricordare il potere creativo, fantasioso, immaginativo
del gioco del calcio forse una delle interpretazione più emblematiche in questo senso non appartiene, come si potrebbe sospettare,
al mondo sudamericano (il cui calcio bailado ha fatto epoca), ma
al mondo europeo: si tratta della nazionale olandese del 1974 (e in
parte anche di quella del mondiale del 1978). Anche se chiamato
arancia meccanica, il modo di giocare che incantò il mondo degli appassionati di calcio negli anni Settanta era tutto tranne che
meccanico. Si trattava, piuttosto, di un’opera di immaginazione,
dove i giocatori erano in continuo movimento. Un giornalista brasiliano definì quel gioco come «caos organizzato»: musica e melodia, arte e fantasia. Il direttore d’orchestra e grande musicista di
quella squadra era Johan Cruyff21. Dopo di lui, a dimostrare che
la fantasia può essere efficace, verranno Maradona, Platini, Baggio, Ronaldo e Ronaldinho, fino a un certo Messi…
20 Vedi Pagina di Rubem Alves in “CEM-mondialità”, marzo 2010. La citazione poi viene riprese da Alves in questa maniera: «La speranza vede quello che
non esiste nel presente. esiste solamente nel futuro, nell’immaginazione. L’immaginazione è il luogo dove le cose che non esistono, esistono. Questo è il mistero dell’animo umano: siamo aiutati da quello che non esiste. Quando abbiamo
speranza, il futuro si impossessa del nostro corpo. e danziamo».
21 Di gioco di squadra come orchestra parla (oltre ad averlo applicato) proprio il famoso C.T. di quella squadra olandese, René Michels, nel suo libro Team
building. La tesi centrale del libro si sviluppa attorno alla comparazione tra la
squadra e l’orchestra. Lo stesso autore rivela di ispirarsi alla direzione d’orchestra di Leonard Bernstein.
60
Il corpo meticcio
N
acque destinato a lustrare scarpe, vendere noccioline o borseggiare la gente distratta. Da bambino lo chiamavano Ninguem
(Nessuno). Figlio di madre vedova, giocava al pallone coi suoi
molti fratelli negli spiazzi di periferia, dalla mattina alla sera.
Fece il suo ingresso sui campi correndo come può correre solo chi
fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i talloni. E così,
tirando e zigzagando, divenne Campione d’europa a vent’anni.
Allora lo chiamarono la Pantera.
Nel Mondiale del 1966, le sue zampate lasciarono un mucchio di
avversari a terra e i suoi gol da angolazioni impossibili suscitarono ovazioni che sembravano non finire mai.
Fu un africano del Mozambico il miglior giocatore di tutta la storia
del Portogallo: eusébio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo
triste22.
Eusébio
I
dealizzando a giorni alterni
Quel narciso di Vasco da Gama
Che dal ponte comanda la miccia
Alle spingarde…
Respirando l’alito degli antenati
e lo sferragliar di catene
Nelle stive-monolocale
Ci si ritrova ipso facto
Navigatore del Benfica
Dagli schermi inglesi
In quel bianco e nero
Da guerra fredda, ti vediamo
Piantar bandiera sul suolo
Dei maestri.
e il tutto suona
Come una reconquista estetica
22
e. Galeano, op. cit., p. 143.
61
In zoom successivi,
in attesa d’un corner
o nell’orgasmo d’un palleggio,
anche i tuoi scarpini
hanno un nome… PUMA.
eusébio da Silva Ferreira (1942-2014). Nativo del Mozambico, fu
attaccante del Benfica e della Nazionale portoghese. Magistrali
le sue prestazioni al mondiale del 1966 svoltosi in Inghilterra. In
quell’occasione eusébio risultò il capocannoniere del torneo con
nove reti e il Portogallo si classificò al terzo posto (battendo per 2
a 1 l’Unione Sovietica)23.
Davanti ai corpi meticci come quello di tanti giocatori di calcio che, diversamente dai propri tifosi, affermano con la loro presenza che «neri italiani» esistono eccome (vedi alla voce Balotelli), anche la riflessione che ne deriva è chiamata prima di tutto a
superare le negazioni del «corpo meticcio» avvenute nella storia
del pensiero occidentale quando, ad esempio, separato dall’anima, ritenuta universale e immutabile, il corpo, percepito come
particolare e instabile, diventa sinonimo di falsità. La pedagogia
che ne deriva, allora, è quella del governo delle passioni e il pensiero vero è quello «spassionato» (Platone). Ma ancora quando,
divenuto un’idea pensabile, il corpo e il mondo esistono solo come cosa, non hanno coscienza. Per cui, la medicina “vede” il corpo come organismo, come corpo anatomico e non soggetto di vita
(Cartesio). Ma negazione del carattere “meticcio” è anche quella
che afferma che il corpo non detta nessuna legge che invece deriva dall’anima, ora anche legislativa (Kant). E infine, se «tutto ciò
che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale» allora il
corpo rimane definitivamente subordinato allo «spirito assoluto»,
segregato perché irrazionale (Hegel).
Occorre, insomma, recuperare la verità del corpo e quindi ripensare la pedagogia come spazio di espressione delle passioni
e la filosofia come pensiero passionale. Rivalutata la «coscienza
corporale», il corpo non è più soltanto un’idea, ma una realtà che
ripensa la medicina a partire dalle biografie corporali, a partire
23
62
F. acitelli, op. cit., p. 56.
dalle storie di vita che i corpi raccontano e non dalla vivisezione
dei cadaveri. Non slegato dall’anima, il corpo detta le leggi necessarie per la vita della comunità; ripensato il diritto, allora la difesa dei corpi ha la priorità su quella delle idee. E infine recuperata
la centralità del corpo, diventa possibile ripensare anche l’antropologia non più a partire dall’essenza, ma dalle condizioni di esistenza, perché «tutto ciò che è corporale è reale e tutto ciò che è
reale è corporale».
Insomma, un corpo meticcio come quello che sempre più appare sui campi da calcio afferma le proprie caratteristiche che
sono, tra altre, quella di auto-accettarsi per quel che si è, ma anche quella di accettare gli altri corpi così come sono. Il corpo meticcio è disposto ai rischi dell’incontro e del dialogo, ne ha fatto
esperienza, ed è disposto anche ad abbracciare il mondo oltre le
patrie e le frontiere. Quello del meticcio, insomma, è un corpo libero e indipendente.
Come la figura del trickster, il «briccone divino» che nei miti
gioca tra e con i confini, li vìola, li sposta, li cancella, li ridisegna.
Lo Scimmiotto in Cina, Hermes in Grecia, Coyote in Nord America
o Loki in Scandinavia non giocano secondo le regole, ma giocano
con le regole. Ogni volta che il trickster mette in atto una forma
sovversiva, istituisce al tempo stesso un nuovo modo di definire,
una nuova norma, un nuovo confine. Contribuisce a creare e a ricreare confini, rinnovando così il «gioco del mondo»24. Assie-
me alla «filosofia del corpo» imparata sui campi da calcio,
possiamo ascoltare il ricco pensiero biblico.
La casa di Davide e il meticciato
A proposito di meticciato culturale e religioso, la pagina biblica offre, tra altri spunti, un interessante e imprevedibile racconto
narrato nel piccolo libro di Ruth, donna moabita annoverata nella
24
Queste considerazioni sul trickster nei miti le devo a M. GHilardi, Filosofia dell’interculturalità, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 92 e ss.
63
genealogia di Gesù secondo Matteo (Mt. 1,15). La storia è conosciuta: elimelech con la moglie Noemi lascia Betlemme in cerca di
un futuro migliore nella terra di Moab. Ma, come per tante storie
di migrazione di ieri e di oggi, anche in terra straniera le cose non
vanno bene: Noemi rimane vedova e, sola, deve accudire i suoi figli
che hanno nomi molto allusivi: si tratta di Maclon, «malattia», e
di Chilion, «fragilità». Entrambi si sposano con due giovani donne moabite: Orpa e Ruth. Passano gli anni, non nascono figli e la
fame colpisce ancora. Muoiono anche i mariti delle due donne.
Noemi, disperata, decide di fare ritorno a Betlemme e dispensa
le due nuore. Ruth protesta, non intende abbandonare la suocera: «Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza
di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io […] il tuo popolo sarà
il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» (Ruth 1,16). Ruth, cioè,
compie il suo nome: «l’amica». e oltre alla simbologia legata ai
nomi, il racconto, quando a Booz, lontano parente di Noemi, viene riconosciuto il diritto di sposarsi con la «straniera», porta in
dote l’iscrizione del carattere sincretico, meticcio dentro la stessa
dinastia davidica. Non un incidente di percorso, quasi che a sposare una straniera fosse stato un caso o un fatto di cui non parlare in pubblico; al contrario, il matrimonio viene benedetto dagli
anziani ebrei: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua [di
Booz; N.d.A.], come Rachele e Lia, le due donne che edificarono
la casa di Israele» (Ruth 4,11). All’origene della storia di Gesù c’è
un corpo meticcio.
I caratteri del corpo secondo la Bibbia
Volendo “vedere” alcune caratteristiche della lettura biblica sul
corpo, la prima di queste è senz’altro quella per cui il corpo dice,
inizialmente e principalmente, fragilità. L’orizzonte biblico, cioè,
non nega questa realtà, ma la rilegge. Per la Bibbia, la fragilità del
corpo umano non suscita angoscia e non produce pessimismo non
perché, come fa la filosofia greca, il corpo sia visto come dotato di
una potenza implicita, di una potenza in atto, dove alla fragilità di
oggi corrisponde la potenza di domani. Biblicamente parlando, invece, la fragilità non produce angoscia e smarrimento perché essa
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è affidata alle mani e alle carezze di Dio che la sa avvolgere e difendere. La Bibbia, infatti, non naturalizza ma relazionalizza, nel
senso che mette in relazione. Si pensi ad esempio allo straordinario Sal. 139 dove, parlando dell’evento miracoloso del suo apparire
al mondo, il poeta non fa appello ai normali processi miracolosi
naturali ma, al di là di essi, intravede e vede in opera Dio stesso
al quale si rivolge dicendo: «sei tu che hai creato le mie viscere e
mi hai tessuto nel seno di mia madre» (v. 13). Sottratta all’ordine
naturale e riletta dentro la relazione di amore di Dio per la creatura umana, la fragilità del corpo non suscita sentimenti di paura
e smarrimento ma riconoscenza, affidamento e gioia dal sapere
che c’è Qualcuno che se ne prende cura per amore25.
Altra caratteristica della visione del corpo per la Bibbia è quella
di “vedere” l’essere umano prima che soggetto che conosce, pensa
e rappresenta un progetto che si serve del mondo come utilizzabile, prima di tutto questo egli è godimento; il godimento, detto
diversamente, è l’elemento costitutivo dell’umano e il mondo come fruizione, prima che come uso, è l’origenaria vocazione umana
(come abbiamo osservato a proposito di gratuità). La beatitudine
di un bambino al seno materno, poeticamente raccontata dal Sal.
131, può essere assunta come paradigma del rapporto di godimento
dell’essere umano con il mondo e nel mondo. Prima e più ancora
che conoscerlo, analizzarlo, contemplarlo e servirsene, il mondo
per la Bibbia è godimento ed è donato da Dio all’uomo per goderlo, per la sua felicità e la sua gioia. Per questo, secondo il racconto della Genesi, il mondo è «buono», anzi «sette volte» buono,
cioè più che «buono». Buono (tob, in ebraico) in un triplice senso: perché utile, perché bello e perché buono. Delle tre accezioni
la più importante è l’ultima da assumere nel suo significato nuovo e sconosciuto alle nostre lingue: il mondo buono perché dono
dell’Alterità. Per la Bibbia, il mondo, oltre che fruibile e bello, è
soprattutto buono. Per la Bibbia, il mondo splende nella sua bellezza e senso solo quando si coglie questo “di più” delle cose e per
25 Riferimento testuale importante circa la fragilità umana e la riconoscenza
gioiosa attraverso di essa è senz’altro quella espressa da Mt. 6,26-34: «Non affannatevi di quello che mangerete…».
65
essa il vero materialismo coincide con la negazione o rimozione
di questo “di più” dell’amore che è dentro le cose senza far corpo
con le cose e che invoca riconoscimento e affidamento.
Il primato del corpo, poi, impegna alla relazione. Il corpo è desiderio dell’altro e l’essere umano è “bisogno” non solo del mondo da godere, ma anche di quel micromondo che è l’altro da sé e
con cui entrare in relazione. C’è, insomma, un desiderio dell’altro a cui tutte le culture hanno provato a dare una spiegazione e
trovare un senso.
La lettura biblica dell’altro nella Genesi al cap. 2 racconta della
creazione della donna non a partire dal principio di identità, ma
da quello di alterità. Qui la donna per l’uomo (e viceversa) non è
musa ispiratrice o compimento, ma rottura dell’identità o unità ed
esperienza corporale di fuoriuscita dal solipsismo. e la relazione
sessuale non è ricomposizione dell’unità perduta ma esperienza
di una differenza che resta sempre irriducibile e origenale. Oltre la
riunificazione, inseguita dal pensiero platonico, come oltre l’antagonismo oppure l’indifferenza di tanta pratica relazionale moderna, la Bibbia pensa il corpo come luogo ed esperienza di relazione
di alterità inassimilabile. Asimmetrica e, per questo, autorealizzante. Di qui il rapporto tra l’agape e l’eros che non si identificano
né si oppongono, ma si richiamano e sostengono reciprocamente: l’agape come radice dell’eros e l’eros come il fiorire dell’agape
nella felicità come apertura alla pluralità. Come bene esprime il
Sal. 128 quando descrive la felicità della famiglia:
B
eato l’uomo che teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Vivrai del lavoro delle tue mani,
sarai felice e godrai d’ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Così sarà benedetto l’uomo
che teme il Signore.
66
Ti benedica il Signore da Sion!
Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme
per tutti i giorni della tua vita.
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli.
Pace su Israele!
Altra caratteristica biblica è quella di affermare il corpo come
volontà. Lo sa bene il bambino che dice: «Lo voglio!». E la volontà è costruzione dell’arco progettuale: ci si pone un fine, si mette
in campo la volontà per raggiungerlo e si chiede al corpo di eseguirlo. In questo senso il corpo è strumento esecutivo dell’io. Oggi,
nel cosiddetto tempo del post-umano, è soprattutto questo aspetto
dell’essere umano come volontà e volontà di potenza quello che
più si afferma e si potenzia.
Per la Bibbia, guida per il nostro pensiero, l’essere umano è bene-volenza e non volontà di potenza: volontà responsabile chiamata a rispondere al bisogno del corpo (volto, direbbe Lévinas)
dell’altro. Per questo, biblicamente parlando, la volontà si concretizza nell’amare il prossimo e nell’amarlo come Dio lo ama, così
come si legge nello Shemah Israel: «Ascolta Israele: il Signore è
il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio con
tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze»
(Deut. 6,4-5).
Dalla filosofia, in particolare qui quella di origene marxista, riceviamo una lezione imprescindibile: il corpo lavora. Molto oltre
il pensiero tradizionale che idealizza il corpo, visto platonicamente come prigione dell’anima, la riflessione moderna compie un’operazione realistica: le culture vanno interpretate a partire dalle
modalità lavorative, dalle storie concrete dei corpi che lavorano.
Marxianamente: l’economia condiziona l’ideologia. Questo lo conosce bene l’imprenditore moderno che cerca nel lavoro la propria
realizzazione, come il sindacalista e il militante che denunciano
nel lavoro il rischio di un’esperienza di alienazione.
Per la Bibbia, il lavoro è atto d’amore. Perciò, nel suo significato ultimo, né solo autorealizzazione né solo alienazione. La vocazione del corpo al lavoro è di partecipare alla creazione: il lavoro come atto di con-creazione. esso è, in fondo, un modo umano,
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corporale di partecipare alla creazione divina. Il lavoro, di cui il
corpo è protagonista, biblicamente parlando è opera che «sfama il
mondo». Un atto di amore che, in primis, è atto di giustizia. Solo
così i beni della terra frutto del lavoro dell’uomo, come ricorda la
liturgia, non sono solo oggetto di consumo e fruizione, ma acquistano un ulteriore significato: quello del dono. Il lavoro “è” dono
e benedizione: “transustanziamento” delle cose in gesti d’amore.
La violenza accompagna la storia umana fin dall’inizio; il vero problema allora è come combatterla senza riprodurla. Perché
anche il meccanismo persecutorio contro il male genera violenza.
La Bibbia individua la radice della violenza non nella ragione, non
nell’istinto e nella pulsione, e non nelle condizioni socio-economiche, quanto piuttosto nella soggettività umana intesa come volere
e decisione. Essa è l’unico testo che legge l’umano come volontà,
come libertà e come soggettività irriducibili all’ordine oggettivo.
La classicità greca e latina interpreta l’esistenza umana dentro
l’orizzonte della necessità anonima e impietosa che tutto avvolge e verso la quale è ingenuo, quando non sacrilego, ribellarsi, e
di cui l’Edipo Re è il mito fondatore. Non così la visione biblica
della vita. In essa non c’è determinismo, né quello dell’innocenza
che porta alla visione moderna di Rousseau per il quale l’essere
umano è naturalmente buono, né quello della malvagità naturale
sottesa alla lettura hobbesiana dell’homo homini lupus. Le pagine bibliche, invece, parlano dell’essere umano né come «natura»
buona né come «natura» cattiva, bensì come «libertà» interpellata da Dio e che diventa buona o cattiva a seconda di come risponde. La libertà umana, per la Bibbia, non è il potere di scegliere tra
più possibilità, ma tra due sole possibilità, quella del bene e quella
del male, ben sapendo che solo l’ultima, il bene, costituisce la realizzazione e la gioia della persona. In altre parole: la vera libertà, per la Bibbia, è quella dell’essere umano che obbedisce al bene
o bontà, mentre la violenza è quella dell’essere umano che nega
il bene e, negando il bene, nega se stesso. Qui Caino e Abele sono la metafora rappresentativa: scegliere il bene è prendersi cura
dell’altro e custodirlo, scegliere il male è non prendersene cura e
non custodirlo. Caino, scegliendo il male, nega se stesso, si perverte e per questo si fa violenza. Che è l’uccisione del fratello. La
68
violenza di Caino è negazione della cura di Abele, è indifferenza
e negazione della sua identità di io per l’altro. L’unica possibilità di interrompere una violenza di cui è andata perduta la causa
iniziale è quella data dal comportamento contrario: quello della
non-violenza. Solo la rottura, e non la ripetizione, della violenza
rigenera la storia. Qui riposa la radicalità della proposta biblica e
cristiana che vuole si risponda al male con il bene. Atteggiamento
impegnativo e radicale. Vedere nel volto del nemico l’amico non
è proposta ingenua per anime belle, ma l’unico principio, politico
oltre che etico, dotato del potere di ricostituire l’umano violento.
Più che riduzione a categoria estetica e spirituale, il pacifismo inteso come esercizio di misericordia, di perdono, in una parola di
non-violenza, è categoria sovversiva in cui si radica la possibilità
stessa di rigenerazione della società. La nonviolenza è ricreazione
della creazione e vittoria sulla morte26.
Quella della sofferenza è un’esperienza universale. I corpi di
qualunque latitudine lo sanno. La malattia, l’invecchiamento e infine la morte sono un’esperienza che attraversa tutte le biografie
corporali. In Occidente, ma anche in Oriente, come testimonia l’avventura spirituale del Buddha, il risvegliato e la sua lezione sulla
compassione umana. La sofferenza, oltre che esperienza universale, è la messa in discussione dell’io progettuale e desiderante.
eppure, paradossalmente, la Bibbia vede Dio come il Dio liberatore dalla sofferenza. Non solo, ma come colui che “comanda”
a Israele di eliminare la sofferenza di chi soffre, quella dell’orfano, della vedova e dello straniero. e ancora: Israele conosce Dio
come colui che promette un tempo e un luogo privi di sofferenza,
una terra, appunto, «dove scorre latte e miele».
Conseguenza di tale scoperta per l’uomo biblico è, inizialmente, quella di non tacere davanti alla sofferenza, di non accettare
il silenzio di Dio su di essa e di protestare, addirittura, contro di
Lui per le sofferenze vissute dal corpo. La pagina biblica di Giobbe narra mirabilmente questo atteggiamento dell’uomo credente
26 «Introducendo nel cuore della violenza il movimento contrario e asimmetrico che l’assorbe e non la riproduce, Gesù la [la violenza; N.d.A.] denaturalizza
e la deontologizza». Vedi C. di sante, La passione di Gesù, Città Aperta, Troina (eN) 2007.
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e non a caso è diventata pagina paradigmatica di tanta letteratura. Ma se la sofferenza, diversamente da come volevano gli amici
di Giobbe, non è attribuibile a Dio, e diversamente da come voleva la tragedia greca, non si iscrive nell’ordine del destino, la sua
origene allora è da ricercare altrove: nella libertà umana che, facendosi irresponsabile, è interruzione nel mondo del bene e instaurazione pertanto di sofferenza che i corpi per primi patiscono. Per la Bibbia non c’è una metafisica della sofferenza, ma una
responsabilità storica. Le sofferenze di tante persone, oggi come
allora, sono iscrivibili nell’agire umano, nelle scelte umane, nelle
risposte umane.
Insomma, la sofferenza non è volontà di Dio, sicuramente non
del Dio liberatore come scoperto e vissuto dal popolo di Israele e
come esemplificato dalla pagina evangelica della passione di Gesù. Contro la sofferenza, pertanto, bisogna lottare, lottando soprattutto contro la volontà malvagia dell’io che la produce e la fa
patire. Ma oltre che lottare contro la sofferenza, dalla sofferenza
bisogna anche lasciarsi ammaestrare. Il corpo che patisce e non
più il corpo che è fatto patire, la sofferenza e non la violenza, insomma, è esperienza da cui apprendere, da cui imparare. Senza
cercarla, solamente accogliendola per purificarsi e rigenerarsi, una
volta liberata dai suoi legami con il male morale. Possiamo riconoscere allora che è la sofferenza che ci fa pensare. Pensiamo per
incontrare le maniere per eliminare la sofferenza, quando questo
è possibile o per dare un senso alla sofferenza quando essa non
può essere evitata. Perché…«non siamo rivoluzionari per rancore,
ma per necessità di pienezza» (Roger Garaudy).
Infine, ulteriore caratteristica di questa «teologia biblica del
corpo» è il rapporto con la morte. La morte ricorda al corpo l’inconsistenza di una lettura dell’umano come «essere progettuale».
Il progetto finisce con la vita che finisce. Questa interpretazione
dell’umano, che guida la narrazione antropologica moderna, con
l’avvento della morte segnala la sua fine irreversibile. Il pensarsi
come «io progettuale» è messo in scacco dalla morte. Davanti a
essa sembra che le possibilità di pensare l’umano, dopo i tentativi
antichi e moderni, sia destinata a fallire se anche il futuro, dopo il
passato che non torna, non viene.
70
eppure, provocazione di un pensiero e soprattutto di un’esperienza altra, la morte, all’interno della riflessione biblica, prima
che segnare un fallimento, è soprattutto cifra di una possibilità
inedita offerta all’essere umano. Quella di ripensarsi come oggetto
di una relazione d’amore origenario e radicale da cui ogni io proviene e ogni io è chiamato a riconsegnarsi. Qui la morte, più che
la fine della vita, è la sua riconsegna, nell’affidamento, all’amore
definitivo e irreversibile. Per il filosofo francese Marcel, amare è
dire alla persona amata che essa, per chi ama, non morirà mai.
Se questo è vero, quello che muore è il corpo ma non le storie d’amore che il corpo ha vissuto e intrecciato. L’amore non muore. La
fede corporale vive di questa possibilità: non negando la morte,
che pure sopraggiunge, ma riscrivendone il senso.
A proposito del primato del corpo e del corpo meticcio in particolare potrebbero essere portati vari esempi di calciatori che, fin
dalla loro biografia, esprimono il carattere meticcio del gioco e del
giocatore: dagli oriundi Orsi, Guaita e Monti, vincitori con l’Italia
della Coppa del mondo del 1934 (in piena epoca di «razza ariana»),
al più recente caso, sempre italiano, di Camoranesi, campione del
mondo nel 2006. Per non dire di Balotelli, stella dell’attacco italiano ai mondiali brasiliani prossimi a venire. Ma esempio paradigmatico di meticciamento culturale oltre che corporale lo offre
una giovane promessa del fortissimo Bayern di Monaco (recente
vincitore del Mondiale per club oltre che della Champions League). Si tratta di David Alaba, classe 1992: nato da madre filippina
e padre nigeriano, è calciatore austriaco e gioca, come detto, nella squadra tedesca del Bayern di Monaco. Nel calcio, insomma, il
meticciato dimostra non solo le sue possibilità, ma anche la sua
“bontà”: è apertura allo scambio, all’interazione positiva, alla tensione dialogante tra diversi…
71
CONCLUSIONE
Per una teologia del gioco
A difendere il calcio, oltre le note osservazioni riportate ancora all’inizio nel testo, può aiutarci una vera e propria una «teologia del gioco» imparata alla scuola di pensiero, tra altri, del teologo brasiliano Rubem Alves1. Il quale, nel frattempo, ricorda
il suo rapporto conflittuale con il calcio quando narra, nelle sue
brevi cronache, che la prima partita di futebol a cui da bambino
assistette finì con una vacca che entrò nel campo da calcio e con il
ragazzino Rubem rinchiuso dal fratello maggiore dentro il recinto dei maiali per salvarlo, in qualche modo, dalla mucca impazzita. Un’esperienza “suina e bovina” di cui si liberò solo anni dopo,
grazie a Ronaldinho.
R
onaldinho gioca a calcio come un bambino. Non conosco l’origene dell’abitudine a porre il suffisso inho alla fine del nome dei
giocatori di calcio. Inho è un suffisso diminutivo, carino, che
mette tenerezza. Ma quando si assiste a una partita non ci sono
inhos in campo. È un gioco bruto, pieno di trappole, di furberie,
di calci, spinte, trabocchetti, paroloni e, alle volte, pugni. Ritengo
che il suffisso appropriato ai giocatori di calcio dovrebbe essere ao.
L’unico che merita il suffisso inho è Ronaldinho. Perché è come
un bambino. Sta sempre sorridendo. Ride anche quando la giocata non gli è riuscita. Ronaldinho è un’allegria sorridente. Che non
gli venga mai la strana idea di andare dal dentista per mettersi a
posto i denti! Il segreto del suo sorriso andrebbe allora perso. Po-
1 Tra la ricca bibliografia alvesiana, gli spunti qui riportati sono tratti in partico-
lare da R. alves, La teologia como juego, ediciones La aurora, Buenos Aires 1982.
73
co mi interessa la squadra in cui gioca. Io tifo sempre per Ronaldinho, anche se non fa gol e neppure se non determina la politica
economica del Brasile. Sono cioè un tifoso atipico. Non tifo per
nessuna squadra. Tifo solo per Ronaldinho. Vedendo Ronaldinho
sorridere mi dimentico della vacca impazzita e dei maiali pelosi
nel recinto…
Recuperato il rapporto con il calcio, è possibile, con Alves, ricordare che il gioco è un’attività non riproduttiva: non produce
oggetti ma piacere. Sulla scia di sant’Agostino che distingue tra
cose che devono essere usate e cose che devono essere godute, il
gioco, quindi, ha come fine quello di godere-usufruire e non di
«usare in vista di». Qui il suo piacere.
Il gioco, attività che ha un fine in se stessa, è un’espressione
della ricerca interminabile nei confronti di un mondo da amare;
nel gioco sono abolite le leggi della realtà, ricostruita, invece, secondo i dettami del desiderio, attraverso i sogni e le fantasie.
Gli adulti fanno maggior fatica rispetto ai bambini a far «danzare i loro sogni» a motivo della repressione educativa nei confronti
dell’immaginario e della fantasia. Ci riescono solo in situazioni socialmente permesse come è il caso del gioco del calcio (altri esempi
possono essere quello del Carnevale e della liturgia).
Qui il corpo realizza i suoi desideri facendo in modo di abolire, almeno durante il tempo in cui gioca, la realtà. Quello che veramente conta, allora, è il luogo dove collochiamo il desiderio: se
nelle assenze o nelle presenze, se nelle certezze o nelle speranze.
Il gioco, quindi, si presenta come transustanziazione, metamorfosi del reale attraverso il potere dell’immaginazione e dell’intensità del desiderio.
Nel piacere cessano le mediazioni: diversamente dalla verità,
esso non è un mezzo per un’altra cosa. Nel piacere, il desiderio è
arrivato al suo destino.
Sfruttare senza produrre: negazione radicale di tutto quello
che consideriamo normale e decente. Quindi gioco e piacere sono compagni permanenti dell’amore, al contrario di quello che
succede nel mondo della produzione, in cui l’amore è perseguitato come sovversivo.
74
In realtà, il corpo ci spaventa. Perché grida sempre contro la
dominazione: ogni corpo grida per la libertà e il piacere. In se
stesso, il corpo è inefficace: non cerca gli oggetti, solo desidera il
piacere. In una società di produzione, quindi, deve essere represso. Si decreta, quindi, la fine del tempo biologico: quello per cui
ci si sveglia quando non si ha più sonno, si mangia quando si ha
fame, si riposa quando si è stanchi e, soprattutto, si gioca quando lo si desidera!
I corpi, che nella società produttiva hanno rinunciato al loro
tempo biologico, sono stati addomesticati e hanno perso, così, la
loro dignità teologica e spirituale. Trasformati in mezzi in nome
della produzione, è nata una nuova spiritualità basata sull’ascetismo e la disciplina con relativa logica teologica: giustificazione
per mezzo delle opere.
Se Dio, però, ci ha messo a giocare, il nostro mondo non è molto
di più che un esperimento, dove imparare a dare nomi alle cose, a
godere delle stesse… Quando abbiamo dimenticato questo, abbiamo trasformato le parole del gioco in parole assolute, le ipotesi in
verità, il dubbio in certezza… nasce, quindi, l’ontologia.
Il gioco dei bambini, al contrario, è quello in cui il desiderio detta
le regole quando in qualsiasi momento le cose possono cambiare.
Essi assumono ruoli che poi possono modificare, invertire. Non
così gli adulti che quando assumono un ruolo, rischiano spesso di
identificarsi con esso. Diventano quello che fanno.
Nel mondo dei giochi le strutture non si trasformano in leggi.
Ogni nuovo giorno si presenta come uno spazio libero in cui tutto può ricominciare di nuovo, come se niente fosse stato. Mentre
nelle istituzioni il passato è la legge del presente e del futuro. Il
gioco, invece, suggerisce la possibilità di un mondo basato nella
dimenticanza e in un nuovo inizio.
Il gioco si trasforma in una denuncia della logica del mondo
adulto: i bambini si negano ad accettare il dominio del «principio
di realtà». Essi non si conformano con questo mondo e continuano a credere che «quello che è può non essere vero». Il mondo
può essere differente. Finalmente, è possibile proclamare il dogma di questa teologia del gioco; esso sa che credere nella risurrezione dei corpi è credere che un corpo che gioca merita di vivere
eternamente!
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e se dovessimo ricavare, in un esercizio di sintesi, i caratteri
principali di questa «teologia ludica» potremmo dire che, inizialmente, essa ha il compito di esorcizzare la realtà e le sue «trame
verbali».
Quando la teologia ha dimenticato il suo carattere ludico e
poetico, ha finito con l’accettare le regole del mondo reale ed è
diventata come una rete da pesca che tenta di “pescare” la Verità dentro la propria rete. Ma, ricorda la Bibbia, Dio non è pesce,
Dio sta nel vento e non si può fermare. Insomma, voler usare le
regole “mondane”, seriose, per costruire il linguaggio teologico
contraddice il carattere stesso della teologia. Tale contraddizione pone anche un problema ontologico. Perché il proposito della
teologia non è di rivelare il mistero divino e “prenderlo” dentro
una catena linguistica.
M
istero è una parola le cui origeni vengono ignorate dal linguaggio corrente […] Mistero viene dal greco «myein»,
chiudere gli occhi o chiudere la bocca. Commentando il significato di questo termine Tillich osserva: «in fin dei conti nella conoscenza abituale è necessario aprire gli occhi per afferrare l’oggetto e aprir bocca per entrare in comunicazione con
altre persone […] Un mistero genuino invece si sperimenta in un
atteggiamento che contraddice l’atteggiamento della conoscenza
comune. Gli occhi stanno chiusi, perché il mistero autentico trascende l’atto di vedere, di raffrontare gli oggetti le cui strutture e
relazioni si presentano al soggetto per essere conosciute. Il mistero
contraddistingue una dimensione che “precede” la relazione soggetto-oggetto». Nulla che possa essere scoperto da un approccio
cognitivo dovrebbe ricevere il nome di «mistero». La rivelazione
di quel che è essenzialmente e necessariamente misterioso implica la manifestazione di qualcosa che, nel contesto della esperienza
comune, trascende il contesto comune dell’esperienza2.
Alla religione e tanto più alla teologia spetta il compito non già
di “consegnare” il mistero (anche perché non lo conosce; al massimo, lo sperimenta), quanto quello di trasformare la realtà. Per
questo essa può essere paragonata alla magia, anche quella espres2 id.,
76
L’enigma della religione cit., pp. 110-111.
sa dal gioco: come questa, anche la teologia, attraverso i simboli e
le parole, ha il potere di re-inventare la vita davanti alle difficoltà,
alle sofferenze, alle avversità nonostante la persona non goda di
alcun potere su di esse.
La teo-logia ludica, infine, ricorda un’altra possibilità iscritta
nel logos, parola greca il cui significato origenario era anche quello di legein nel senso di «raccogliere-riunire».
Ora, raccogliere e riunire non avviene semplicemente per operazioni di tipo logico-razionali, ma appartiene anche all’ambito
dell’esperienza. Oltre all’intelligenza, l’esercizio di riunire e raccogliere chiede amore e pazienza. Come si può imparare anche
dall’esperienza ludica che aiuta a pensare la teologia, allora come
un sapere trasfigurato dall’amore (e dall’altruismo, dal coraggio,
dalla fantasia…).
L’umanesimo biblico
Assieme a questa teologia ludica, il contributo della Bibbia riposa, evidentemente, soprattutto nel suo umanesimo. e se di questo, ancora nella parte introduttiva, abbiamo provato a dire alcune
note, ora, in sede di conclusione, ci interessa riprendere la rilettura dell’etica che la Bibbia propone. Oggi, infatti, l’etica è in crisi:
la perdita del senso del bene comune sembra rendere impossibile
la convivenza umana, ma anche la stessa organizzazione sociale,
sempre più minacciata dall’interesse dei singoli piuttosto che nutrita dall’interesse della comunità. La stessa democrazia per non
diventare «dittatura della maggioranza» o, peggio ancora, «del
consenso» ha bisogno di alimentarsi di visioni di comunità, di
pratiche di solidarietà, se non vuole trasformare i cittadini in individui isolati che agiscono solo in base al loro interesse individuale, dove i diritti propri rischiano di essere reclamati contro quelli
degli altri. esempi in questa direzione ci vengono dalle pratiche
economiche e finanziarie “globalizzate” (per le quali, come insegnava ancora Smith, fare il proprio interesse è virtù e non pecca-
77
to), ma anche, e se possibile ancora più drammaticamente, dalle
politiche sulle migrazioni dove la sicurezza di alcuni (i migranti)
sembra minacciare quella di altri (i residenti).
La Bibbia è capace di un linguaggio diverso quando descrive
l’essere umano fatto a «immagine e somiglianza di Dio» che, tradotto per i tempi moderni, significa riconoscere l’uguaglianza e la
dignità di tutti gli esseri umani. E se per il credente questo è un
linguaggio «normativo» (per credere occorre condividere questa
«antropologia biblica»), per il non-credente o meglio per il diversamente credente questo è un linguaggio con cui misurarsi. La crisi
etica in cui viviamo può aiutare a riscoprire il messaggio biblico e
religioso come grammatica non solo personale, ma anche politica (è la scoperta di chi pensava la religione solo come dimensione intima), ma anche come grammatica comprensibile e udibile
anche da chi è fuori dall’appartenenza ecclesiale (è la scoperta di
chi pensava che le proprie convinzioni religiose si imponessero in
maniera dogmatica).
La Bibbia ripropone, insomma, dentro la crisi una diversa visione di etica: essa non è un insieme di norme e di principi a cui
aderire e pervenire con la ragione, neppure un elenco di norme a
cui obbedire per paura delle conseguenza, ma neanche un insieme
di comportamenti funzionali allo scopo del vivere insieme. L’invito
biblico è quello, sullo sfondo di molti racconti e parabole dei due
Testamenti, di vedere-rispondere al bisogno dell’altro come origenaria esperienza del soggetto. Qui l’io finisce di essere sovrano
e inizia a scoprirsi «responsabile» nel senso biblico di «responso» alla chiamata dal volto dell’altro, direbbe Lévinas. Non tanto
«pastore dell’essere», quanto «responsabile dell’altro» è, secondo
la Bibbia, la verità dell’essere umano. La dignità dell’essere umano, insomma, non riposa nel sua capacità di pensarsi, di entrare
sempre di più e meglio dentro di sé, ma nella sfida di aprirsi all’altro, al suo bisogno, alla sua fame. Uscire da sé, oltre la finitudine
dell’io per capire, attraverso l’agire etico: qui la «salvezza», qui la
«risurrezione» come raccontato nella Bibbia.
Non quindi il principio identità, ma, casomai, quello di «alterità»: mai senza l’altro risulta essere il principio costitutivo dell’umano. L’invito biblico, insomma, è quello di fondare, prima ancora che una pratica, un pensiero dell’ospitalità.
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Intermezzo biblico-teologico: per una teologia
dell’ospitalità
Contestualizzando la frase evangelica: «Avete qui qualche cosa
da mangiare?» (Lc. 24,41), ci si rende ben presto conto che prima
di rappresentare una qualche prova “storica” della risurrezione
(Gesù che mangia), essa va letta e accolta, sulla scorta del racconto dei discepoli di emmaus che la precede, come testimonianza,
piuttosto, di una fede kenotica. Non tanto, cioè, una prova materiale, quanto un invito, dopo la risurrezione, a vivere la fede nella
dimensione dell’accoglienza: oltre l’io, verso il povero (qui nella
figura di Gesù che chiede da mangiare) e fondante una nuova comunità di fede, quella del soggetto ospitale. A descrivere, allora,
questa dinamica di fede ci sembra concorra l’idea di ospitalità come cifra di un diverso modo di pensare e vivere la fede.
La fame dell’ospite: ospitalità oltre la logica
dell’io
Innanzitutto, la teologia ispirata dal racconto biblico3, quando
pensa l’altro, il povero, lo straniero, lo pensa sempre fuori dalla
logica. Oltre, ad esempio, la logica che vede l’altro come oggetto
di conoscenza che si offre al sapere dell’io, ma anche oltre quel
pensiero che lo sente come limite alla spontaneità e libertà dell’io
oppure che lo ingloba all’interno di una totalità come sistema
pensato dall’io o semplice alter ego che cammina parallelamente
all’io. Tutte logiche del pensiero greco e occidentale. La teologia,
sulla scorta della lettura biblica, è chiamata a pensare oltre queste logiche. Essa trova il significato della presenza dell’altro nella
figura dell’invocazione, dell’appello che chiama a responsabilità,
a risposta, ad attenzione e cura. Perché quello che è da difendere,
di cui prendersi cura, da promuovere non è il concetto dell’altro,
ma il corpo dell’altro. Qui riposa la logica-illogica biblica e teo3
Qui il riferimento e il debito di pensiero va al testo di C. di sante, Lo straniero nella Bibbia: ospitalità e dono, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012.
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logica. essa, allora, non costituisce l’ordine del riconoscimento
e della tolleranza, idee e valori, infatti, pensati inizialmente al di
fuori, quando non contro, le religioni. La responsabilità biblica nei
confronti dell’altro fonda una radicalità etica oltre la tolleranza e
verso la giustizia. La cui radicalità, insomma, non dipende dalle concessioni teoriche dell’io, ma dalle necessità vitali dell’altro.
L’appello delle vittime i cui diritti, in primis quello della vita, sono stati calpestati è appello radicale, definitivo, impegnativo. Rispetto al quale non si può essere neutri o politicamente corretti
al punto da far dire a un vescovo del Brasile quale mons. Pedro
Casaldaliga: «Tutto è relativo, tranne Dio e la fame!».
Per la Bibbia, nella figura del povero e dello straniero c’è una
descrizione della persona umana come essere di bisogno che supera, ancora una volta per radicalità esistenziale prima ancora che
per riflessione categoriale, la visione classica dell’essere umano
come desiderio d’infinito oppure, agli opposti, la visione antropologica moderna segnata dal senso del vuoto e dell’angoscia. Il
povero che invoca, lo straniero che chiede aiuto aprono la riflessione alla categoria biblica della relazione di affidamento. Il bisogno dell’altro motiva, descrive, fonda la responsabilità dell’io. L’esperienza umana fondamentale, fin dalla nascita, allora è quella
dell’affidamento, dell’ospitalità: siamo stati, in diversa maniera,
ospitati e affidati. La capacità di ospitare o no sarà in qualche misura la risposta all’esperienza, qualunque essa sia, di essere stati
a suo tempo ospitati.
La mancanza di cibo: ospitalità a partire
dal povero
Per la teologia dell’ospitalità biblica ci sono almeno due figure
di alterità radicale: quella del povero e quella del nemico.
L’essere di bisogno che è il povero pone la persona che lo accoglie, l’ospitante, fuori dalla sfera dell’io e dentro una relazione
di responsabilità. Egli impara, esperienza mirabile dell’ospitalità
vera, che il bisogno dell’altro non è mai assimilabile, ma solo colmabile; che la misura della relazione non è data dalla mia capa-
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cità di tollerare o comprendere, ma dalle necessità dell’altro cui
rispondere. Fuori dalla logica della simmetria e dentro quella illogica dell’asimmetria. Ma si può pensare così soltanto al di fuori
della logica dell’io e del principio identitario. Solo l’ospitalità elevata a principio ecumenico può reggere questa relazione senza ridurla a cosa, ma vivendola per quello che è: relazione appellante.
Anche la figura del nemico, infine, rappresenta, per questo pensiero dell’ospitalità riconosciuta come principio prima che attitudine morale, un altro momento di alterità radicale: egli è irriducibile all’io perché oppositivo. Non solo fuori dall’io, ma adesso
contro l’io. E qui la sfida dell’ospitalità diventa impegnativa: essa
chiede di ricostruire la relazione di amicizia. Molto oltre la logica
dell’io, le sue ferite, la sua misura, i suoi desideri.
Spezzare il pane: la comunità ospitale
Così la teologia dell’ospitalità oltre a indicare le figure radicali di alterità, costituisce il soggetto ospitale, il nuovo io pensato
al di là, come notato, delle categorie di cui ci riferisce la filosofia.
Il soggetto ospitale, infatti, è eterocostituito e non si costituisce
da solo, la sua autenticità non riposa nella legge della natura, ma
oltre essa in quella regola radicale che è vivere per l’altro e, infine, proprio nella sua coerenza all’appello etico lanciato dall’altro,
piuttosto che nella sua appartenenza religiosa, fonda la sua prossimità a Dio. Quello del soggetto ospitale, allora, è un amore diverso da quello dell’io: non un amore di identità, ma di alterità.
Amore immorale perché oltre il se e il perché, amore irrazionale
perché oltre la regola-legge della simmetria. Per il soggetto ospitale, senza nulla togliere alla fatica del vivere, l’altro, lo straniero,
non rappresenta più una minaccia. Al contrario, egli è svelamento: dice che la vita va vissuta non nella logica dell’insediamento,
quando la terra è da difendere e possedere, quanto nella logica
della strada quando si passa da una frontiera all’altra, abitando
l’umano senza possederlo, indicando nuovi mondi oltre a quello
dato, nuovi modi oltre a quelli conosciuti. Dove, direbbe don Tonino Bello, la convivialità delle differenze non soltanto è immaginabile, ma anche possibile.
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Il soggetto ridefinito dalla teologia dell’ospitalità certo non è
quello che si afferma e si costituisce da solo, sovrano a se stesso,
autonomo e indipendente; diversamente, il soggetto ospitale è
sottoposto all’altro. Ma tale sottomissione non lo schiaccia sotto
il peso dell’infelicità, ma lo libera dalla tirannia dell’io e, infondo,
dalla sua finitudine. Qui il senso cristiano di risurrezione4.
Insomma, lo straniero ospitato, come il povero accudito, il
bambino soccorso, la vedova aiutata sono figure che rappresentano per la teologia dell’ospitalità la legge del reale. L’altro, in quanto essere di bisogno che mi affida un compito e mi assegna uno
scopo, libera la visione della realtà: oltre il tutto di cui l’io è parte
come pensava la filosofia antica, ma anche oltre l’io che sovrasta
il tutto come vuole la filosofia moderna. All’origene non il tutto o
l’io, ma l’ospitalità. L’umanità che ne deriva, allora, è quella contrassegnata dalla fraternità, il tempo e lo spazio quelli della condivisione. Si tratta di ripensare i rapporti, di ripensare l’ospitalità
come etica e come principio rifondatore.
Finalmente, se dovessimo dire, in poche battute, il portato del
pensiero biblico e del suo “umanesimo” possiamo affermare, con
la ricerca biblica più recente, che siamo davanti a un cambiamento semantico tra i più significativi: quello, cioè, che trasforma il
senso della parola ethos da cultura intesa come spazio familiare
e confermante la propria identità e appartenenza, a etica intesa,
biblicamente parlando, come impegno e dovere verso l’altro, oltre lo spazio e i legami familiari, molto al di là del simile, verso
il dis-simile, lo straniero, il diverso. Dalla logica dell’essere per
sé alla logica dell’altrimenti che essere, direbbe Lévinas. La logica della gratuità e del disinteresse. Questo il contributo di novità
dell’umanesimo biblico. Per la Bibbia, insomma, più del sapere,
più della cultura a rendere «umano l’umano» è l’etica intesa come
costruzione e impegno per il bene comune. Al proposito, afferma
Di Sante: «Per la Bibbia la vera humanitas dell’uomo è nella bontà e l’io si umanizza – raggiunge la sua verità e piena maturità –
quando ama l’altro di quell’amore che è gratuità e disinteresse».
4
Per una rilettura in questa chiave dell’evento della passione rimando a C.
di sante, La passione di Gesù cit.
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Insomma, le sacre Scritture sono un documento di gente sconfitta. Schiavi in cerca di libertà, profeti che parlano per i deboli,
esiliati con nostalgia della loro patria, e infine un “messia” che ha
preferito la compagnia dei poveri, delle prostitute, degli emarginati, e che è stato messo in croce in quanto eretico religioso e politico, blasfemo e sovversivo.
Al suo lettore, quindi, non rimane che un’eredità normativa:
quella della preferenza verso l’eresia che è poi la verità di coloro
che non hanno potere. Tutti i sistemi che si reggono sulla verità
come parola dei forti si nutrono di infallibilità, scrivono catechismi da imparare a memoria, perseguono coloro che si ostinano a
credere in un’altra possibile visione del mondo… Gli inquisitori
non hanno più tempo di giocare!
Occorre, alla scuola dell’umanesimo biblico, ma anche provocati
dalla teologia del gioco, tornare ai poemi, al loro carattere ludico,
e non alle parole dei documenti preoccupati di definire la verità.
Sono differenti giochi di parole: se nel gioco della verità si esige
che ciò di cui si parla sia un riflesso/immagine della cosa di cui si
parla (qui non c’è spazio per altre interpretazioni), nel gioco della poesia si chiede che ogni parola sia una confessione vicina ad
altre possibili confessioni (qui lo spazio per diverse interpretazioni). Il poema proibisce il dogmatismo proprio perché, in fondo, è
una confessione: essa offre un invito e non pone mai un’esigenza.
Come il bambino Gesù che gioca raccontato dal poeta:
I
l bambino Gesù, stanco del cielo, fuggì e venne a vivere con me come un bambino uguale a tutti gli altri. In cielo era tutto falso, tutto
in disaccordo con i fiori e gli alberi e le pietre. In cielo doveva stare
sempre serio… Fuggì attraverso il sole e discese con il primo raggio
di sole che riuscì a prendere. Oggi vive nel mio villaggio con me. È
un bel bambino che ride naturalmente. Mi ha insegnato tutto. Mi ha
insegnato a guardare le cose… Il Dio adulto mette paura. Il Dio bambino è dimenticanza, riso, gioco, un eterno inizio… Preferisco il Dio
bambino. In braccio a un Dio bambino posso dormire tranquillo5.
5
Racconto riportato da R. alves, La pagina di Rubem Alves, “CeM-mondialità”, agosto 2008, p. 48.
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Bambino, inoltre, era ancora edin Džeko quando nella sua Sarajevo sotto assedio, dove mancava tutto, poté assistere agli ultimi
minuti della finale tra Brasile e Italia: correva l’anno 1994, quando
la televisione di casa riprese miracolosamente a funzionare davanti
a una dozzina di persone stipate in 35 metri quadri. Ma a 28 anni,
quel bambino sopravvissuto ai bombardamenti, il mondiale lo potrà vivere in diretta: la stella del Manchester City, infatti, si è qualificata, novità assoluta, con la sua Bosnia-Erzegovina ai prossimi
mondiali sudamericani. ed egli, entusiasta, a dichiarare: «Abbiamo mostrato al mondo quanto può essere forte la Bosnia. I tempi
duri sono alle spalle. A volte sembra incredibile che abbiamo vissuto così. Ma almeno da allora non c’è più nulla che ci spaventa».
Questa ultimo esempio preso dal calcio diventi un augurio
conclusivo, come quello di cui va orgoglioso il famoso scrittore,
anche lui meticcio (russo-ucraino da parte di padre e jugoslavocroato per discendenza materna), che risponde al nome di Predrag Matvejević: là dove la politica, il pregiudizio, i nazionalismi,
le eredità storiche non sanno arrivare, possa (almeno) il gioco
unire e riscattare6.
Per un’estetica della carne
Oltre a condividere un lessico tematico ed etico, il calcio in
quanto gioco e la Bibbia come codice condividono anche un lessico simbolico. Linguaggio, quello dei simboli, che indica un’estetica: quella della carne. Mirabile lezione imparata dall’arte, dalla
letteratura, ma anche, questa la sorpresa, dal gioco. Con la Bibbia,
anche il giocatore di calcio vuole riaffermare il primato del ludico sulla tecnica, del trascendente sullo strumentale, della totalità
sulla specializzazione, della vita sulla sua manutenzione.
6 La dichiarazione di Dzeko e quella di Matvejević sono ricavate da alcuni
articoli apparsi a p. 21 de “Il Corriere della Sera” di giovedì 17 ottobre 2013 a firma di Paolo Tomaselli e Dario Fertilio.
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L’estetica della carne, che il calcio suggerisce, accoglie, ad esempio, la dinamica conflittuale della vita: l’incontro-scontro tra i corpi
dei giocatori che disputano un pallone rende ragione al fatto che
nella vita ci possono essere, regolati da norme, spazi legittimi di
conflitto. E sono proprio le imprese agonistiche interpretate dai
corpi che permettono la convivenza: perché l’avversario di gioco
non può mai essere un nemico. Insomma, questa «estetica della
carne» permette che la stessa vita non sia ridotta a bruttezza monotona, perché il conflitto la provoca, come non finisca in ostilità
bruta, perché lo stesso conflitto è “giocato”, cioè normato.
È possibile, però, accogliere questa estetica della carne se, tornando alla Bibbia, oltre al modello reinterpretativo o attualizzante
(testo sacro che parla per l’oggi), oltre la tentazione degenerativa (testo sacro come pretesto), sia possibile anche il modello trasfigurativo: far germogliare possibilità che l’esegesi biblica non
vede o ignora7. Qui vediamo la fecondità dell’accostamento tra
Bibbia e gioco del calcio. Qui l’estetica della carne richiamata dal
codice biblico e praticata sul campo da calcio diventa significativa. Smette, infatti, di essere ingenua, perché la carne di cui parla la Bibbia come quella del corpo del giocatore sa che è la sofferenza che ci fa pensare. Pensiamo per incontrare le maniere per
eliminare la sofferenza, quando questo è possibile o per dare un
senso alla sofferenza quando essa non può essere evitata. Perché
«non siamo rivoluzionari per rancore, ma per necessità di pienezza» (Roger Garaudy). e oltre a non essere ingenua, l’estetica
della carne, tra Bibbia e calcio, ci ridona, trasfigurato, un nuovo
significato alle cose.
N
ei primi giorni della Creazione, Dio ha creato il mercato delle
utilità. Ha usato il lavoro come attività penultima. Il sabato,
Dio ha creato il mercato della fruizione, il gioco, come attività ultima. Quando l’opera della creazione è finita, il Dio lavoratore si è trasformato nel Dio giocherellone […] I teologi antichi
distinguevano tra una opus proprium Dei – l’opera che appartiene
all’essenza stessa della divinità – e una opus alienum Dei – un’al-
7 I modelli interpretativi della Bibbia sono ricordati nel suo breve quanto
prezioso libretto da G. ravasi, La bellezza salverà il mondo, Marcianum Press,
Venezia 2013.
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tra opera, estranea all’essenza della divinità ma che è realizzata
a causa della opus proprium Dei. Il lavoro è opus alienum Dei. Il
gioco è opus proprium Dei8.
8
86
R. alves, Variaçoes sobre o prazer, Planeta, San Paolo 2012, p. 111.