Guerra: tutto quello che non ci hanno voluto dire
PRIMA PARTE
È impossibile capire qualcosa dell’operazione militare russa in Ucraina, finché si continuerà a ripetere la
retorica fintamente “pacifista”, “umanitarista”, che dimentica in modo ipocrita la guerra che da otto
anni c’è nel Donbass con i suoi massacri continui di civili russofoni (si parla di almeno 14 mila morti) e
che nasconde spesso interessi precisi, operazioni politiche poco trasparenti o, al più, il
“sentimentalismo” delle anime belle, che vorrebbero che la realtà fosse diversa da come, purtroppo,
spesso è. La guerra in Ucraina non è cominciata nelle ultime settimane.
Le cose bisognerebbe vederle, allora, per quelle che sono. Parlare di un tentativo di Putin di rovesciare il
“governo legittimo” del presidente Zelensky è quantomeno bizzarro: questo governo è infatti il risultato
di un colpo di Stato in piena regola, attuato nel 2014 contro l’allora democraticamente eletto governo
di Viktor Janukovyč. Potete chiamarla “rivoluzione”, anziché colpo di Stato, ma i fatti non cambiano: ed i
fatti sono che la cacciata di Janukovyč, se fu sostenuta da un movimento popolare, lo fu anche
dall’ingerenza dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, e che essa ha determinato una serie di spaccature
interne al Paese e quella tensione dei rapporti con la Russia che oggi è giunta a compimento. I fatti sono
che il sedicente Occidente “liberale” e “democratico” tesse gli elogi di un governo erede di un golpe che
ha chiuso tre canali televisivi che lo criticavano e fatto arrestare Medvedchuk, uno dei leader del partito
di opposizione arrivato secondo alle elezioni.
Dopodiché, il problema oggi non è neppure – in fondo – quello di stabilire “chi abbia ragione” e chi
torto, chi sia veramente l’”aggredito” e chi l’”aggressore”. Figure che possono anche cambiare soggetto
nel corso di un conflitto. E così l’aggredito può diventare aggressore e viceversa. Dopo aver riconosciuto
l’indipendenza delle due autoproclamatesi repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk Putin ha
avviato una operazione militare anche al di fuori dei territori russofoni dell’Ucraina. Questo ha cambiato
la percezione di quanto stesse avvenendo: fino a quel momento si poteva considerare Putin come colui
che interveniva per difendere civili russofoni in territorio ucraino da una politica sempre più aggressiva
nei loro confronti da parte del governo centrale, dopo Putin è invece finito con l’apparire agli occhi
dell’opinione pubblica internazionale come l’aggressore di uno Stato sovrano. Certo, ci si può, ci si deve,
schierare, sulla base delle proprie convinzioni politiche, ideologiche, e così via. Ma i fatti e la loro
percezione restano e ora è molto difficile prevedere come finirà un conflitto in cui Putin dopo averci
messo in questo modo la faccia non può perderla. Quello che però possiamo dire è che l’Unione
Europea non ha fatto nulla per evitare un’escalation del conflitto, che anzi ha contribuito ad alimentare.
E così siamo in guerra. Una delle tante guerre.
La guerra è certamente un fenomeno storico, e nella storia essa ha significato cose diverse, è stata
condotta e regolata in modi diversi, è stata, aggiungiamo, percepita in modo diverso dalle coscienze dei
popoli. La guerra che oggi conosciamo non è più ovviamente quella “regolata” del tempo dello jus
publicum europaeum, e al suo scoppio i popoli – perlomeno quelli europei – non reagiscono più con
quelle manifestazioni di giubilo che accompagnarono, ad esempio, l’entrata nella Prima guerra mondiale
di molte delle potenze europee, tra cui l’Italia. I facili entusiasmi popolari del passato sono scomparsi,
ma i governi dei popoli europei non hanno certo smesso di approvare, autorizzare, deliberare interventi
militari in questi ultimi anni. Persino la Germania, che sinora non lo aveva mai fatto, si è unita agli altri
governi ed alle UE nell’approvare all’unanimità l’invio di armi e di militari a sostegno di operazioni di
guerra della Nato. E che la Germania, la quale tra l’altro ha deciso di aumentare in modo considerevole
le spese in armamenti (salendo così al terzo posto nel mondo per spese militari), possa diventare di
nuovo una potenza militare dovrebbe preoccupare tutti.
Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo conosciuto nuovi tipi di guerra – da quelle “umanitarie” alle “guerre
preventive” contro i cosiddetti “Stati canaglia”: non più il conflitto regolato ma il “bellum iustum” che in
nome della “iusta causa” giustifica ogni nefandezza in spregio al diritto internazionale (l’invasione
condotta in Iraq e i bombardamenti in Libia condotti dall’Occidente a guida americana ne sono un
chiaro esempio). Guerre “giuste” che, per una sorta di illusione ottica, ci hanno dato la sensazione di un
mondo ormai pacificato, quando in realtà si è trattato di una pace assicurata solo ad una porzione,
peraltro ristretta, dell’Occidente. Ma la guerra non è mai stata abolita, ed ha continuato – per servirsi
della famosa formula di Clausewitz – a servire come “prosecuzione della politica con altri mezzi”. Né è,
ovviamente, vero che, almeno sul suolo europeo, essa era stata finalmente sradicata, dopo la Seconda
guerra mondiale. Anzi con la fine della “guerra fredda” è cominciata quella calda. È strano quanto poco
vengano ricordati in questi giorni, anzi direi rimossi, i raid aerei dell’Alleanza Atlantica contro la Serbia,
che durarono per settantotto giorni. Era il 1999, 527 vittime civili.
Sorprende sentire Mario Draghi affermare che «negli ultimi decenni, molti si erano illusi che la guerra
non avrebbe più trovato spazio in Europa. Che gli orrori che avevano caratterizzato il Novecento fossero
mostruosità irripetibili. Che l’integrazione economica e politica che avevamo perseguito con la creazione
dell’Unione Europea ci mettesse a riparo dalla violenza». “Negli ultimi decenni”: forse Mario Draghi non
ricorda che fu il governo di Massimo d’Alema a decidere – per quanto probabilmente malvolentieri –
l’intervento italiano e mandare i nostri aerei a bombardare Belgrado ed una nazione che confinava con
la nostra. E questo – ricordiamolo – per via del Kosovo e qui non può essere ignorato, in linea
puramente teorica si intende, il paragone tra i territori russofoni dell’Ucraina e il Kosovo, che presentava
una forte componente albanese e rivendicava l’indipedenza dalla Serbia. Almeno D’Alema non pare aver
dimenticato quello che successe allora, e onestamente riconosce che «non si può non tenere conto,
malgrado Putin, che ci sono anche le ragioni della Russia», che i conflitti e le guerre non solo hanno
accompagnato costantemente anche gli ultimi decenni della nostra storia, ma che esse hanno cause e
ragioni storiche e politiche che occorrerebbe, perlomeno, conoscere, prima di parlare. E questo vale
soprattutto per un Presidente del Consiglio che con le sue parole offensive ha posto in serio pericolo
qualsiasi futuro rapporto con la Russia di Putin paragonandolo nel suo discorso di fatto a Hitler,
equiparando esplicitamente ciò che sta avvenendo in Ucraina all’annessione dell’Austria, l’occupazione
della Cecoslovacchia, l’invasione della Polonia. Colpisce la cosa, perché i “nazisti”, se ve sono,
andrebbero cercati, più che in Russia, in quei movimenti che hanno partecipato al colpo di stato del
2014 in Ucraina, e che oggi sono inseriti nelle fila della guardia nazionale ucraina, come pure nei vertici
del regime ucraino che considerano come eroe nazionale Stepan Bandera, criminale di guerra che
collaborò col Terzo Reich giurando fedeltà al Führer.
Una prima conclusione. Una vera pace in Europa nel secondo dopoguerra non c’è mai stata. Prima
l’Europa era divisa con la “guerra fredda” nelle due grandi aree di influenza, dopo con la dissoluzione
dell’Unione sovietica la guerra è diventata “calda”. Ed oggi assistiamo ad un episodio di questa guerra,
forse il più tragico. Non c’è mai stata vera pace in Europa perché la “questione russa” è rimasta il nodo
irrisolto.
SECONDA PARTE
Vengo ora al secondo punto, che mi preme sottolineare. Farò solo un cenno perché l’argomento
meriterebbe ben altra attenzione. Qualche anno fa, Kissinger ha detto che “per capire Putin, si deve
leggere Dostoevskij”. Dev’esser proprio vero, se in questi giorni il Rettore della Bicocca ha deciso
di sospendere un corso universitario che uno scrittore italiano avrebbe dovuto tenere su Dostoevskij
con la motivazione che potrebbe “creare polemiche”. La cosa, che pare sia poi rientrata, ha
dell’incredibile, ma è accaduta, e forse, per precauzione, sarà bene, se li avete in casa, nascondere le
vostre copie dei Karamazov o dei Demoni, che presto potrebbero diventare libri “proibiti”, propaganda
sovversiva. Ma torniamo a Kissinger.
La sua non era una battuta. Mira, tra l’altro, a far capire che “per la Russia l’Ucraina non può mai essere
solo un paese straniero e che l’Occidente ha quindi bisogno di una politica che miri alla riconciliazione…
L’Ucraina non dovrebbe aderire alla Nato”. Era il 2014 e tutti sappiamo cosa successe quell’anno in
Ucraina. Il giudizio di Kissinger era molto più preciso e adeguato di quello che oggi va per la maggiore e
che ritrae Putin come una specie di “nazista”, di un criminale di guerra, di un nuovo Hitler. La politica
estera di Putin, in realtà, è una politica interamente inscritta nella cultura russa, nella sua tentazione
“slavofila” che ha sempre fatto da contrappunto a quella “occidentalista”. Ed è una tradizione che – non
solo da oggi – si è retta sulla religione cristiano-ortodossa, sul senso di una “missione” salvifica, sull’idea
che, come i panslavisti russi dicevano, la Russia, la Santa Madre Russia “non è il paese della Legge ma
della verità”, in contrasto con un’Occidente profano e senz’anima. Bisogna davvero allora leggere
Dostoevskij, partendo da quella critica alla “civilizzazione“ europea che trova espressione nelle Note
invernali su impressione estive ma – aggiungo anche Solženicyn, oggi i discorsi sul Ritorno in Russia sono
più attuali che mai – per capire il modo in cui la Russia ha affrontato il problema della modernità e del
suo difficile rapporto con l’Europa d’Occidente.
“Europa d’Occidente”, perché ci sono in fondo “due Europe”, lo ricorda persino Joseph Ratzinger in una
conferenza tenuta a Berlino nel novembre del 2020, che andrebbe oggi riletta. L’Europa di cui facciamo
parte noi, erede dell’Impero Romano d’Occidente, rinato con Carlo Magno, attraverso il Sacro romano
impero, e che intendeva fondere in esso l’elemento cristiano-cattolico, quello romano e quello
germanico. Ma c’è anche un’altra Europa, quella dell’Impero Romano d’Oriente che continua a Bisanzio
sino a che i turchi per sempre pongono fine all’Impero. Per circa un millennio Bisanzio considera se
stessa come la vera Roma, la seconda Roma, e questo Impero estendendosi al Nord finisce nel mondo
slavo. Qui ora sopravvive la cultura greco-cristiana, europea. Da questa eredità bizantina nasce
dunque la terza Roma: Mosca. E “due Rome sono cadute, ma la terza resiste e non ve ne sarà una
quarta” (starec Filofej di Pskov). Con Mosca quale terza Roma nasce una propria forma di Europa e la
questione da allora in poi sarà la convivenza tra queste due Europee, diverse ma accomunate da un
retaggio comune.
Ciò che accomuna le due Europe è il cristianesimo. Ciò che oggi le divide è il “nichilismo”
occidentale con la sua perdita di valori, rispetto al quale la Russia si presenta per la verità, oggi come
ieri, come l’unica “forza frenante” che difende la tradizione contro la perdita di valori diffusa in
Occidente. Tutta la storia dell’Occidente è heideggerianamente caratterizzata dall’”oblio dell’essere”,
tutto Dostoevskij si spiega filosoficamente come la risposta russa al nichilismo dell’uomo occidentale,
che ha sacrificato all’esasperazione del “principio individuale, personale”, l’idea di una comunità di
destino, quella comunità cui ha fatto implicito riferimento Putin nel suo recente discorso alla nazione.
Certo, il tutto è molto più complesso, ma questo cenno valga almeno per ricordare come esista una
geopolitica russa, un problema storico dei rapporti della Russia con lo spazio europeo e persino un
peculiare “spirito russo”.
Per noi europei “d’Occidente”, c’è un altro punto essenziale, direi esistenziale. Questa guerra ha
dimostrato, una volta per tutte, il fallimento dell’idea di uno spazio politico europeo fondato
esclusivamente sul “libero mercato”, di una unione tra Stati di tipo meramente economico, e della
stessa posizione dell’Europa nell’attuale quadro geopolitico.
È quest’ultimo aspetto che ora mi interessa analizzare, e con cui vorrei chiudere il ragionamento. La
mossa di Putin non si comprende se la si continua a guardare dal punto di vista tipico di noi europei,
perché essa si spiega solo come una mossa – sbagliata o intelligente, forse nell’ultima fase azzardata
questo ora poco importa – che si inquadra all’interno di una serie di conflitti che, oggi, oppongono gli
Stati Uniti, l’impero americano, in crisi nel suo ruolo di garante dell’ordine mondiale, e l’Oriente. Può
sembrare che proprio da questa guerra gli Stati Uniti ne riescano rafforzati e nell’immediato ciò può
anche essere vero. Con questa guerra, e con tutto ciò che ne consegue (sanzioni economiche,
soprattutto il blocco da un lato del gasdotto North Stream, cordone ombelicale che congiunge le
immense risorse russe al cuore d’Europa, e dall’altro della Nuova Via della Seta, rotta commerciale
eurasiatica alternativa ai traffici marittimi sotto egida statunitense), gli USA riescono nell’immediato in
un triplice obiettivo: isolano il loro principale rivale militare (la Russia) , al contempo contengono il loro
principale rivale commerciale (Pechino), infine stringono il collare degli europei al proprio padrone
economico e militare. Ma tutto questo non è destinato a durare nel tempo. Cina, India e Russia (con
l’aggiunta di un Iran conscio, al pari di Pechino, di essere erede di un impero millenario): non è questo
l’asse di un nuovo equilibrio mondiale che potrà nel futuro porre fine al “mondo americano”?
Ed è di fronte esattamente a questo spostamento che Putin sta mettendo l’Europa, cercando di
“forzarla” a ridisegnarsi su un assetto autonomo che non sia più quello dipendente dalla Nato. Il punto
non è, ovviamente, andare incontro agli obiettivi di Putin e dei russi. Putin non vuole ricostruire l’Unione
sovietica e non ha le mire espansioniste che gli vengono attribuite, vuole in fondo solo difendere la
Russia, i russi e lo spirito russo. ( Paradossalmente è solo l’incapacità dei suoi nemici, i quali – non
comprendendo l’obbiettivo limitato dell’intervento militare e costringendo Putin a estendersi di molto
in territorio ucraino – possono spingerlo ad alzare la posta in gioco,
cfr. https://lamiarussia.com/2022/03/15/ucraina-ogni-giorno-cresce-il-prezzo-della-pace/ )
A tal proposito, Marco Bertolini, già generale della Nato, dunque non tacciabile di russofilia, ha
recentemente ammesso: «Gli Stati Uniti non si sono limitati a vincere la guerra fredda, ma hanno anche
voluto umiliare la Russia prendendole tutto quello che in un certo senso rientrava nella sua area di
influenza. La Russia ha sopportato con i Paesi Baltici, la Polonia, la Romania e la Bulgaria: di fronte
all’Ucraina, che le avrebbe tolto ogni possibilità di accedere al Mar Nero, ha reagito». Il punto però non
è questo per noi. Per noi si tratta capire che cosa vogliamo essere, noi europei d’Occidente, in un
mondo in cui la fine della “guerra fredda” non ha portato alla vittoria definitiva degli Stati Uniti, alla
“fine della storia”, all’affermazione di un mondo unico, globale, identico a sé stesso, caratterizzato – per
riprendere la celebre distinzione marxista – a livello di “struttura” dal piano perfettamente liscio del
mercato concorrenziale globale popolato da monadi sradicate al quale corrisponde il cosmopolitismo
liberal come sua legittimazione “sovrastrutturale”. Forse per un po’ ci è parso fosse così, ma dobbiamo
prender atto che alla fine Samuel Huntington ha prevalso su Francis Fukuyama.
Quello che è più difficile, allora, è riuscire a vedere, oggi, il mondo da un punto di vista diverso da quello
attraverso il quale, in fondo, non abbiamo mai smesso di vederlo, noi “europei” – un po’ come se
dovessimo abituarci a vederlo, a muoverci in esso, a ragionarvi, con i planisferi da cui lo vedono in
Australia, o in Sud Africa, o in Cina o negli stessi Stati Uniti. Se ne fissate uno per qualche minuto,
capirete che è un’esperienza straniante. Ma è utile per capire come in fondo è “veramente” fatto il
mondo a partire dalla fine della guerra fredda – che, paradossalmente, pur opponendo Stati Uniti e
Unione Sovietica, aveva garantito all’Europa la possibilità di percepirsi ancora come il “centro” del
mondo, il tavolo su cui la partita si giocava. L’Europa rischia ora di andare incontro al suo definitivo
tramonto, se non saprà ripensarsi ed inserirsi in modo inedito in questa nuova costellazione geopolitica
mondiale.
Oggi alcuni arrivano a dire che Putin ha finito per unire l’Europa, e – paradossalmente – le ha permesso
di emergere finalmente come attore geopolitico. In realtà, è esattamente l’opposto: la spropositata
reazione economica, vedi le sanzioni, e militare, con l’invio di armamenti, che l’Unione europea sta
compiendo, sta avvenendo dietro esplicito mandato americano e contro gli stessi interessi dei Paesi
europei. Perché il risultato di questa presunta “prova di forza” è che si sta aumentando la tensione di
una guerra che l’Europa ha in casa propria, e con essa si sta sgretolando la sua stessa economia. La
reazione “europea”, in altri termini, sembra non dimostrare altro che l’impotenza radicale dell’Europa
stessa, il fallimento dell’Unione europea di potersi porre come polo indipendente nel mondo
multipolare che verrà, il suo non essere altro, sotto il profilo geopolitico, che l’emanazione della Nato e
degli Stati uniti, esatteme coem alla fine delle seconda guerra mondiale.
Nonostante la sua, anche se oscillante, riscoperta “accademica”, sembra che la lungimirante previsione
di Carl Schmitt, la sua chiarissima idea della necessità di un altro “nomos” della terra rispetto alla
«pretesa ad un controllo e dominio mondiali, universali, di carattere planetario», sia rimasta inattuata.
Eppure, è proprio questa la lezione che, finalmente, l’Europa dovrebbe imparare, se oggi, ancor più di
ieri, è divenuto ormai chiaro che il vero conflitto mondiale si svolge intorno all’alternativa tra un mondo
“unico”, dominato da un’unica potenza universale, (è questo il cosiddetto globalismo), e un mondo
plurale fatto di grandi spazi determinati storicamente, culturalmente omogenei, economicamente
indipendenti e in relazione pacifica tra loro. Intorno, diremo ancora con Schmitt, «al problema se il
futuro consentirà o no la coesistenza di varie figure autonome, o soltanto filiali regionali o locali
decentralizzate di un unico “signore del mondo”».
Oggi possiamo dire che da questa guerra ad uscirne rafforzati sono proprio gli Stati Uniti d’America,
mentre il vero perdente è l’Unione Europea apparsa ancora una volta totalmente al traino degli
americani e incapace di elaborare una propria strategia politica. Di più gli americani sembrano
abilmente riusciti a scavare un solco profondo e chissà quanto duraturo tra le due Europe. L’Europa dei
capitali, delle tecnologie, del progresso, ma sradicata dalle sue radici avrebbe potuto trovare nella
Russia delle immense materie e ancora molto legata alla conservazione della tradizione, il suo stesso
complemento: una parte detiene ciò di cui l’altra è priva. Massimo vantaggio per entrambe è vederle
alleate, massimo danno per entrambe è vederle in guerra.