Gli Eroi di Howard
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Anteprima del libro
Gli Eroi di Howard - Michele Tetro
DALL'IGNOTO
Prefazione
di Elena Romanello
Robert E. Howard: un nome che forse a molti non dice niente, ma se si dice Conan il Barbaro ecco che emergono i ricordi molto anni Ottanta dei film con Arnold Schwarzenegger e magari del film più recente, non eccelso, ma con un buon Jason Momoa nel ruolo del protagonista.
Robert E. Howard è stato uno dei padri del fantasy moderno, alla pari di Tolkien e Lewis, solo che, a differenza di loro, non era un accademico di un college britannico, ma un autore della profonda provincia americana che scriveva racconti sulle riviste pulp, raccolte di storie d’avventura e fantastiche, solo all’apparenza di bassa lega, e capaci di plasmare l’immaginario di più di una generazione, visto che quelle storie le hanno lette persone come Spielberg, Milius, Tarantino, Lucas e tanti altri.
Howard ha inventato eroi e eroine che hanno saputo creare un ponte tra i miti e il moderno fantasy, facendo scuola con archetipi che poi sono stati ripresi fino ad oggi: il guerriero pieno di dubbi, l’eroe non senza macchia e senza paura, la donna combattente, l’avventuriero che esplora i mondi continuano ad esistere e continueranno a farlo almeno per molto tempo, ma il primo che ha raccontato le loro gesta è stato proprio Howard, sulle pagine di riviste allora guardate con un po’ di disprezzo e oggi oggetto di collezionismo.
Una vita intensa, la sua, dedicata alla scrittura in maniera costante, che lo rende simile a un maestro dell’avventura nostrana, Emilio Salgari, a cui lo accomuna anche la scelta di una morte tragica e prematura con un suicidio, per Howard, tra l’altro, a soli trent’anni.
Robert E. Howard è comunque un autore da scoprire e riscoprire, e per questo è importante che ci siano appassionati che lo omaggiano, come le persone presenti con i loro scritti in questo volume, Gli eroi di Howard. Eroi certo, e anche eroine, a cui appassionati di oggi, nati e vissuti decenni dopo la breve ma intensa vita dell’autore hanno dedicato i loro scritti, con nuove avventure e approfondimenti, perché il mondo di Howard ha ancora molto da dire ancora oggi.
Se, come diceva un signore chiamato William Shakespeare, noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, abbiamo allora bisogno di sogni e fantasia per vivere, e Howard ha dato tanto in questo senso, creando mondi che ancora oggi è bello visitare e personaggi, le cui avventure diventano le nostre, secondo le mille vite che si hanno grazie alla lettura, come diceva Umberto Eco.
Gli eroi di Howard è un omaggio all’opera di un autore, visto con le voci di scrittori contemporanei, quali Marco Bertoli, Niccolò Ratto, Christian Balsamo, Mirko Di Bella, Emiliano Dacavich, Mariateresa Botta, Michele Tetro e Paolo Motta (il quale è anche curatore dell'antologia). Tutti appassionati e cultori del fantastico, ognuno con una sua storia, e accomunati dal voler omaggiare Robert E. Howard e il suo mondo di storie.
Quindi buona lettura e buona scoperta di avventure immortali, rilette da chi continua ad amarle ancora oggi e che vuole condividerle con chi vorrà cimentarsi in queste imprese, ricordando che la fantasia non ha e non avrà mai confini e gli eroi di Howard hanno e avranno ancora molto da dire.
Elena Romanello
BÊLIT
L'indomabile piratessa
B ê lit è forse il personaggio che più di altri sottolinea una contraddizione nel carattere di Robert E. Howard. Da un lato l'autore, che si definiva senza mezzi termini comunista, non esitava a dare nei suoi scritti risalto particolare alle donne, mostrandole spesso come personaggi assertivi e battaglieri, in contrasto con la cultura dominate della prima metà del Novecento, dove il nascente femminismo doveva ancora vedersela con molti pregiudizi sessisti. Dall'altro lato Howard viveva in un'epoca in cui persino sui libri scolastici si divideva l'umanità in razze superiori e inferiori, nonché in una paese come gli Stati Uniti in cui la segregazione razziali era pratica comune.
Seguendo le sue inclinazioni femministe, lo scrittore di Cross Plains inserisce nel ciclo di Conan diversi personaggi di guerriere e piratesse, che spesso fungono da compagne occasionali del suo antieroe cimmero. Tra esse c'è Bêlit, che compare nel racconto La Regina della Costa Nera su Weird Tales n. 23 (maggio 1934). Lei è una piratessa dalla pelle bianchissima che comanda una ciurma di neri, i quali la venerano come una dea. Questo renderebbe forse il personaggio razzista agli occhi dei lettori attuali, ma all'epoca, come dicevamo, certi cliché etnici erano passi comuni in tutta la narrativa, non solo in quella popolare.
Nonostante ciò, Bêlit risulta un'eroina straordinaria: sfrontata, coraggiosa, indipendente, è sfuggita ad una vita di agi, presso la nobile famiglia shemita a cui apparteneva, per darsi ad una vita d'avventura. Incontrato Conan, se ne innamora immediatamente. Il suo unico punto debole sarà però l'avidità che la condurrà ad una morte violenta, sebbene per un istante tornerà dall'aldilà per aiutare il suo amato Cimmero (trovata utilizzata nel film Conan il Barbaro di John Milius riguardo ad un'altra piratessa howardina, Valeria).
Sebbene nell'opera originaria di Howard, Bêlit ha vita breve, in opere di altri autori le è stata donata un'esistenza postuma. Poul Anderson la inserì nel suo apocrifo Conan il Ribelle. In Messico apparve un fumetto non autorizzato dagli eredi di Howard: Reina de la Costa Negra, scritto da Loa e Victor Rodriguez per i disegni di Salvador Lavalle, dove Bêlit e la sua ciurma diventano un ibrido tra i Vichinghi e i Conquistadores spagnoli. Infine, i fumetti della Marvel e della Dark Horse hanno ampiamente sfruttato la piratessa shemita, a partire dalla sua prima apparizione in Giant-Size Conan n.1 di Roy Thomas e Gil Kane.
UNA CORONA PER UNA REGINA
di Marco Bertoli
1.
Seduto dietro la scrivania del suo ufficio al terzo piano della gilda dei mercanti di Kordava Zingelito fissava con le sopracciglia aggrottate il visitatore accomodato davanti a lui. Un uomo dalla faccia smagrita e livida, la figura tarchiata e una chioma di capelli color stoppa raccolti in una coda di cavallo. Dalle maniche della camicia arabescata da simboli apotropaici spuntavano mani le cui dita si agitavano come vermi sopra una carcassa putrefatta. I lineamenti del volto, il colore chiaro delle iridi, la corporatura e l’accento della parlata con cui si era presentato indicavano la provenienza dalle lontane terre della Brythunia.
«Mi domando perché siete venuto a offrire proprio a me la mappa di un tesoro la cui ricchezza avete definito oltre ogni fantasia umana
» esordì lo Zingariano con un balenio di sospetto negli occhi incassati. «In questo edificio ci sono file di porte a cui avreste potuto bussare. Concorrenti per i quali un migliaio di talleri d’argento rappresentano una bazzecola e non una piccola fortuna come per il sottoscritto».
«Comprendo il dubbio che vi arrovella e lo considero più che legittimo» rispose il suo interlocutore dopo un colpetto di tosse. Il tono della sua voce ricordava il raschiare di una pietra contro l’altra. «La risposta è semplice. A differenza delle loro, nelle vostre vene scorre il sangue di antichi esploratori, non di semplici bottegai o commercianti ambulanti. Voi siete un uomo capace di affrontare il rischio dell’impresa che vi ho prospettato, loro no».
Zingelito corrugò in una smorfia la bocca carnosa. «Su questo avete ragione. Mi ritengo, infatti, un po’ più intraprendente e incline a correre dei rischi di quanto lo siano i miei colleghi; tuttavia non sono uno sprovveduto e adularmi non mi convincerà ad accettare la vostra proposta» si mordicchiò un labbro. «C’è un’altra questione che non capisco...»
«Per qual motivo Thugra Khotan, un ladro tanto abile da aver ricevuto il soprannome de l’Inafferrabile» lo anticipò il Brythuniano, «non si dedica alla ricerca in beata solitudine? È questo che volevate chiedermi, oppure ho frainteso le vostre intenzioni?»
«Per nulla. A quanto mi risulta, ladri e mercanti hanno una qualità in comune: la scarsa propensione a condividere con estranei quanto guadagnato con fatica».
Un accenno di applauso accolse la considerazione. «Un bel giro di parole per definire l’avarizia». Thugra Khotan si strinse nelle spalle. «Non nego che non sarei qui, se ne avessi avuta la pur minima possibilità; purtroppo, come talora capita anche ai migliori nella mia professione, Bel non è stato benevolo con me». Masticò una bestemmia fra i denti, quindi riprese: «Non appena sono entrato in possesso della mappa, in circostanze connesse indirettamente con la mia attività, mi sono premurato di compiere alcune indagini per attestarne l’autenticità. Ho trascorso così settimane a consultare tomi coperti di polvere e intrisi di muffe antiche quanto l’impero di Acheron e ciò ha causato la mia rovina. Se da un lato, infatti, ho accertato che l’isola esiste sul serio al largo della costa del Kush, dall’altro mi sono marciti i polmoni…» S’interruppe per tossire di nuovo. Una scarica di colpi, stavolta. «Nessun incantesimo o pozione può guarirmi. Potrebbero restarmi una spicciolata di mesi di vita, così come un solo giorno».
«Me ne dispiace».
Il ladro sorrise sghembo. «Vi esimo dal fingere una compassione che, come logico, siete lungi dal provare… Tornando a noi, preferisco avere nella scarsella mille monete d’argento e spendere il tempo che mi resta a ubriacarmi e fottere cortigiane, piuttosto che a caccia di un tesoro favoloso che non sarei in grado di godermi».
«Non fa una grinza. Meglio un fagiano scarno nel carniere che due grassocci che svolazzano nel campo» Zingelito si grattò il mento. «Ammetto che la vostra esposizione suoni plausibile, tuttavia non risolve il problema fondamentale: cosa mi assicura che tanto la storia, tanto la piantina siano autentiche?»
Il lestofante si esibì in una risatina simile al crepitio di ossa. «Nella mia carriera mi sono spesso imbattuto in situazioni identiche a quella in cui vi trovate. Fidarsi o non fidarsi?» si toccò il naso a patata con un dito. «In ognuna ho dato retta ai suggerimenti del mio fiuto e non mi ha mai messo nei guai. Suppongo che il criterio valga anche per voi. Se non sapeste giudicare gli uomini e i loro discorsi, non avreste raggiunto la posizione che occupate».
«Parole degne di un saggio» concordò lo Zingariano. «In quest’istante il mio annusa un sottile ma inequivocabile sentore di fandonie» si augurò che nessun muscolo del viso tradisse con un guizzo che stava mentendo. A differenza di molti che gli erano stati propinati in precedenza, infatti il racconto del Brythuniano aveva il profumo della sincerità. Un furfante del calibro di chi aveva di fronte non si sarebbe esposto in quel modo se non avesse avuto un motivo davvero grave per spingerlo a cacciarsi in trappola da solo. La finestra della stanza era sbarrata da inferriate e a lui sarebbe bastato urlare Allarme!
perché un sortilegio di protezione lo avvolgesse e frotte di guardie irrompessero in un battibaleno dall’unica porta.
«Forse è insito nella professione in cui eccello» mormorò Thugra Khotan, quindi, quasi che gli avesse letto nella mente, proseguì: «Considerate che mi sono ficcato nella gabbia di mia volontà, consapevole che occorrerebbe appena un vostro Allerta!
per serrarla».
«Ve lo concedo, però nel gioco dello Shāh Māt talora si sacrifica la regina per vincere la partita. Fuor di metafora, millantate di esporre la vostra incolumità per superare la mia diffidenza».
«Non ho altro da aggiungere, né fiato da gettare al vento nel tentativo di convincervi della mia schiettezza. A voi la sentenza: prendere o lasciare».
«Sarebbe un bel incentivo a prestarvi fede se mi mostraste l’oggetto alla radice di quest’abbozzo di trattativa. Tanto per ribaltare la popolare sentenza: prima vedere cammello, poi pagare moneta».
«La fama che siate un osso duro non è immeritata» sbottò il ladro. «Eppure, dovreste essere edotto che la prudenza, come il denaro, non è mai abbastanza. Ho conosciuto individui capaci di recitare un intero poema a memoria subito dopo una rapida scorsa al testo del componimento. Niente mi assicura che voi non apparteniate a quel genere di portenti».
Il mercante arpionò con gli occhi quelli dello straniero e ribatté caustico: «Chi pretende di ricevere fiducia non deve comportarsi da schizzinoso, ma essere pronto a ricambiarla sull’unghia».
Il Brythuniano sostenne il duello di sguardi per qualche respiro ansante, poi capitolò. «Sta bene. Vi concedo una sbirciatina». Infilò la mano sotto la camicia e ne estrasse un cilindretto di bronzo lucido. Svitato il coperchio, tirò fuori una pergamena arrotolata; con un’unica mossa la svolse, rivelando un lembo di pelle perlaceo e sottile, l’offrì per un attimo alla vista di Zingelito, quindi richiuse il documento su se stesso e lo rinfilò nel contenitore.
Gruppi di parole vergati in qua e in là, con caratteri diversi ma a lui comunque sconosciuti, e un disegno sbiadito furono tutto quello che lo Zingariano riuscì a scorgere. Immaginò che la linea irregolare tracciata vicino al bordo destro del foglio rappresentasse un tratto di costa e la macchia d’inchiostro brunastro al centro, dal contorno frastagliato e circondata da minuscoli simboli di onde, l’isola dove era sepolto il tesoro. Le annotazioni, poi, dovevano costituire le spiegazioni dell’insieme.
«Lo scritto originario è nella lingua perduta dell’impero di Acheron; la traduzione, invece, è in stygiano arcaico. È più arzigogolato dell’attuale, tuttavia non ho avuto difficoltà a interpretarne il significato» accortosi dell’espressione perplessa apparsa sulla faccia del mercante, spiegò: «Più lingue si parlano e leggono nel mio lavoro, più si amplia il campo degli affari e si riducono i pericoli. Ovvio che nel prezzo è inclusa la traduzione nel vostro idioma… Senza ulteriore esborso di monete vi confido un paio di curiosità che ho racimolato durante i miei studi. Il materiale su cui è tracciata la mappa è un pezzo di pelle conciata ottenuto dall’inguine di una vergine di un popolo progenitore degli Aesir; il componente base dell’inchiostro è il sangue della medesima ragazza. I sacerdoti dell’epoca sguazzavano in tali divertimenti; non che i contemporanei siano meno cruenti nei loro svaghi: godono nello scannare le persone come maiali o agnelli» si strinse nelle spalle. «Passano i secoli, le civiltà nascono, fioriscono e appassiscono, però le tenebre nei cuori degli esseri umani non spariscono mai» si schiarì la gola da un grumo di catarro. «Perdonate la divagazione filosofica, insolita per uno che pratica il mio mestiere. Avere come compagna quotidiana la morte induce alla malinconia e a ragionamenti sul senso dell’esistenza. Torniamo agli affari» fu il suo turno di ridurre a fessura le palpebre e uncinare gli occhi dello Zingariano. «Allora?» si compiacque nel vedere riverberarsi in essi il combattimento interiore in cui si lacerava il mercante. Un dilatarsi improvviso delle pupille gli segnalò che il conflitto aveva raggiunto la conclusione. S’irrigidì sulla sedia. Tra un attimo avrebbe saputo se il resto della giornata sarebbe scivolato via davanti a boccali schiumanti di birra e negli amplessi di morbidi corpi o avrebbe arrancato nel proporre a nuove orecchie la medesima transazione.
Zingelito appoggiò i gomiti sulla scrivania e ringhiò: «Cinquecento talleri».
Thugra Khotan l’Inafferrabile trattenne a fatica un sorriso in cui si mescolavano sollievo e appagamento: la contrattazione era cominciata!
2.
Zingelito picchiettava l’indice grassoccio sulla mappa stesa sopra il tavolino di noce con intarsi di palissandro. Erano ormai quindici giorni che il Tricheco S dentato si era lasciato di poppa la città di Zabhela e navigava lungo la Costa Nera, tenendosi a meno di mezza lega dalla riva. Ancora, però, non vi era traccia del promontorio a forma di testa d’unicorno tratteggiato sul foglio di epidermide madreperlacea, il punto di riferimento da cui dirigere la prua della galea verso il mare aperto. Solo un alternarsi di spiagge dai granelli di sabbia color ocra, giungle le cui propaggini verde smeraldo sfumavano nell’azzurro dell’Oceano Occidentale, falesie a picco di rocce grigiastre contro cui s’infrangeva e spumeggiava la rabbia delle onde. Nel paio di miserabili villaggi di pescatori indigeni in cui si erano fermati per approvvigionarsi di acqua, frutta e verdura fresche, nessuno aveva mai sentito parlare di quel luogo dal profilo così singolare.
Il mercante schioccò la lingua. Fino a quel momento l’unico reale profitto di quel viaggio sconsiderato, escluse qualche malridotta zanna d’elefante e pelli di leone tarlata da piazzare nelle botteghe dei bassifondi della capitale, era costituito dalla creatura abominevole incatenata nella stiva. Anche l’avesse venduta a peso d’oro a qualche nobile appassionato di bizzarrie, avrebbe a malapena coperto il costo dei rammendi alla vela strappata dalla tempesta che li aveva colpiti nei pressi della foce di un fiume senza nome.
Si deterse la fronte da una patina di sudore e sbuffò per la stizza. Durante le numerose spedizioni compiute nel Kush per rifornirsi di avorio di qualità, pellicce di prima scelta e uova di struzzo non si era mai spinto tanto a meridione. Nonostante le finestrelle aperte e un alito di brezza, il caldo dentro la cabina era insopportabile, specie per uno che era nato, cresciuto e abitava tuttora all’interno delle fresche e confortevoli stanze di un palazzo. Il ricordo del trillo dei getti d’acqua che abbellivano le fontane disseminate tra i vialetti ombrosi dei suoi giardini portò al culmine l’insofferenza fisica e la frustrazione che gli rosicchiava l’animo. Una smorfia di rabbia gli deformò il grugno porcino e abbatté il pugno sul piano del mobile, rovesciando il calamaio in vetro insieme all’artistico sostegno della penna d’oca.
«Che Bel ti schiacci sotto le suole dei suoi calzari, maledetto imbroglione! E i cani divorino le tue budella, razza di bugiardo!» inveì mentre sottraeva d’istinto la pergamena allo spandersi del liquido nerastro. «Thugra Khotan l’ I nafferrabile? Il T ruffatore dovresti farti chiamare! Anzi, no: il C iarlatano ti si addice meglio, verme farabutto!» trattenne il respiro sino a che le guance gli diventarono paonazze, quindi esplose in una nuova grandinata d’imprecazioni. «Pelle conciata dell’inguine di una vergine antica? Forse di una natica scrofolosa di quella mignotta decrepita di tua madre, che la dava via per un copeco di rame a pastori e mandriani! Disegnata con il sangue? Come no! Con il piscio dell’uccello corroso dallo scolo di quel buggerone di tuo padre, che si vendeva nel retro delle bettole per un boccale di birra rancida!»
Continuò a berciare contumelie, ognuna più fantasiosa e colorita della precedente, sinché lo sfogo lo lasciò privo di fiato. A bruciargli dentro non era tanto il rimpianto di aver buttato alle ortiche ottocento talleri quanto la ferita all’orgoglio: come poteva un mercante della sua esperienza essere stato così ingenuo da lasciarsi menare per il naso peggio di un principiante?
«Basta!» latrò quando riuscì a calmarsi un minimo. «A tutto c’è un limite. Non intendo sciogliermi in questo forno un’ora di più» si alzò e, nel dirigersi verso la tenda che schermava l’ingresso della cabina, appallottolò la mappa e la scaraventò in un angolo con un ultimo gesto di collera.
Scostato il telo giusto il necessario per sporgere la testa comandò: «Gebbrelo, inverti la rotta! Si torna a casa. Non lesinare con la sferza se questi fannulloni battono la fiacca: non li pago per trastullarsi con le pale dei remi».
Abituato a obbedire senza discutere, il comandante del Tricheco S dentato annuì. Un secco: «Sissignore!» e cominciò a strepitare ordini a sua volta.
La galea si trovava nel bel mezzo della manovra per puntare la prua verso settentrione, quando la vedetta appollaiata nella coffa dell’albero maestro lanciò un urlo d’allarme: «Vela al traverso di babordo!»
3.
La R egina della Costa Nera scavalcò con il sandalo di cuoio allacciato al ginocchio l’uomo disteso sul tavolato e si piantò sopra di lui a gambe larghe. Cosce e polpacci torniti come candelabri in argento, ma dai muscoli guizzanti sotto la pelle eburnea, e caviglie fini da gazzella. Sollevò in un sorriso le labbra tumide, più scarlatte di un rubino del Khitai, e chiese: «Lo spettacolo è di tuo gradimento, Zingelito?» non ottenuta risposta, agitò la fascia purpurea che le cingeva i fianchi, l’unico indumento che indossava insieme alla cintura cui era appeso il fodero di una lama curva. Quindi conficcò le iridi di giaietto negli occhi sgranati del mercante e riprese con l’identica intonazione beffarda: «Non immagini nemmeno in quanti rinuncerebbero alla propria vita pur di ammirare il fiore della mia intimità dalla tua posizione!» di nuovo silenzio. Scosse i globi del seno florido e insistette: «Neanche queste meritano una parola di apprezzamento?... Ti ha mangiato la lingua il gatto? No? Allora mi vedo costretta a pensare che tu sia un estimatore dei fanciulli imberbi, mio caro».
Nonostante la provocazione lo Zingariano continuò a restare muto. A impedirgli di esprimere che cosa gli passasse per la testa, però, non era la malia di quelle forme discinte offerte con tanta sfacciataggine alla sua vista, bensì il taglio che gli squarciava la gola da un estremo all’altro.
Stanca di quel gioco macabro, pulì la lama della scimitarra sulla camicia del cadavere e sbottò: «Bah! Sarai pure stato un abile mercante, Zingelito, ma come schermidore non sapevi distinguere la punta della spada dall’impugnatura. Un pulcino di struzzo appena nato si sarebbe difeso meglio e più a lungo di te».
«Abbiamo finito di trasbordare il bottino sulla Tigre, mia signora».
In un tintinnio dei campanellini d’oro che le pendevano dai lobi delle orecchie girò il viso di trequarti: un negro nerboruto era curvo e incastrato di sbieco nell’ingresso della cabina. Era del tutto nudo, a parte un copricapo di lunghe penne bianche sul capo rasato a zero e bracciali e cavigliere di piume variopinte. Teschi ghignanti erano dipinti in pigmenti gialli e azzurri sul torace dalla muscolatura possente.
«Valeva la pena di sprecare un’ora del mio tempo per inseguire questa carretta del mare, N’Gora?»
Il Bamula arricciò le narici e grugnì con disgusto: «Giusto per assaporare il gusto del sangue della ciurma e tenerci in allenamento, padrona. Nella stiva abbiamo trovato merce scadente e…»
La piratessa lo interruppe: «Mi hai doppiamente deluso, Zingariano: valevi ben poco pure nei panni di un commerciante» allungò un calcetto alle costole della salma. «Continua».
«Una prigioniera» concluse il sottocapo. Nel pronunciare il termine, un’espressione strana gli apparve sul volto.
«Una splendida e magari ancora vergine principessa da vendere come schiava?»
«È meglio che la esaminiate con i vostri occhi, mia signora».
La reticenza del guerriero, di norma prodigo di chiacchiere, la incuriosì. «Arrivo. Anche qui non c’è niente che valga la pena di portare via». Rinfoderò l’arma e scavalcò la carcassa con uno schiocco della lingua. «Ti saluto, mio caro. Per quello che può servire, ti auguro un viaggio sereno sino al reame di Set».
Era a un passo dall’uscita quando si accorse del foglio accartocciato in un angolo della stanzetta. D’impulso lo raccolse e ne distese le pieghe. Dopo una veloce scorsa al disegno e alle scritte esplicative inarcò le sopracciglia e si rivolse al morto. «Non mi dirai che sei venuto a morire quaggiù per questa» commentò sbalordita. «Ti sei fatto imbrogliare da una delle innumerevoli mappe del tesoro che ciarlatani di ogni risma spacciano per autentiche dalle coste del Kush sino alle foreste selvagge dei Pitti?» scosse le onde della chioma corvina. «Nientemeno che il sepolcro di Dhurkhan Lamanera, il più terribile dei Signori della Guerra di Acheron! Incredibile come la brama di ricchezze possa accecare il raziocinio anche del più scaltro fra gli esseri umani».
Stava per lasciare cadere la pergamena, ma le dita non obbedirono allo stimolo: un particolare dello schizzo le aveva acceso una scintilla nella memoria. Un’espressione di dubbio le oscurò le pupille. Invece di abbandonare il documento, lo avvolse su se stesso e l’infilò nella fascia, infine scostò la tenda e uscì dalla cabina.
I raggi del sole ormai avviato al tramonto incendiarono le forme nivee del suo corpo voluttuoso nell’istante in cui sbucò sul ponte di poppa del Tricheco S dentato . Mentre ancheggiava con la grazia di una leonessa in mezzo ai cadaveri dell’equipaggio della nave arrembata, lance batterono contro scudi di pelli maculate e remi furono sollevati dall’acqua. Cento e passa ugole di pirati bruni come legno di ebano si fusero in un’unica tonante acclamazione: «Bêlit! Bêlit!»
Non fu una semplice ovazione elevata da scorridori alla capitana che li aveva condotti a cogliere l’ennesima vittoria, ma assai di più e qualcosa di ben diverso. A sgorgare dai petti rigonfi dei predoni fu l’omaggio traboccante di venerazione elevato dagli accoliti al nume che adoravano; alla divinità in cui riponevano la propria fede e per la quale erano disposti a immolarsi senza esitare. Agli sguardi di quel centinaio di neri Bamula, colei che superò con un agile balzo lo spazio oscillante fra le murate delle due imbarcazioni non era, infatti, una donna. Una Shemita figlia dei re di Asgalun venuta in quelle terre selvagge per placare una sete primordiale di tesori e massacri. No. Quella figura palpitante nel suo candore seminudo era una dea! E fu con l’algida indifferenza di una dea che Bêlit accettò quel segno di devozione mentre incedeva sul ponte della Tigre fra due ali di predoni osannanti.
«Cambio di programma, N’Gora» disse non appena raggiunse il sottocapo ritto accanto al timoniere. «Metti la prua a Sud».
La sorpresa schiarì le pupille di carbone del gigante, ma durò quanto un topolino stritolato dalle spire di un cobra. «Come desiderate» rispose con un leggero inchino.
«Quando avrai finito, conduci la prigioniera nella mia cabina: sono davvero ansiosa di scoprire il motivo della tua ritrosia a parlarmene».
«Se non vi spiace, mia signora, sarebbe più conveniente che scendeste voi sottocoperta e fosse presente anche N’Yaga» abbassata la voce, il Bamula continuò: «Meno la ciurma la vede, meglio è».
«Per le chiappe pelose di Mitra!» bestemmiò la capitana. «Che specie di abominio indicibile hai portato sulla mia nave, stupido di un selvaggio?»
N’Gora non