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NEWSLETTER N.46
N.47 ANNO
ANNO IV XVI 18 NOVEMBRE 2024
19 NOVEMBRE
Market News
L’ACCORDO DI MAR-A-LAGO
La grande altalena del dollaro nei prossimi quattro anni
L’accordo di Mar-a-Lago non esiste ancora nei libri di storia e forse non vi entrerà mai.
È un’ipotesi di lavoro, il nome in codice di un progetto su cui si stanno esercitando da
qualche tempo economisti di area trumpiana e osservatori esterni come Zoltan
Pozsar. Prende spunto dall’accordo del Plaza del settembre 1985 ed è un capitolo
dell’ambizioso progetto di ridisegno degli equilibri economici internazionali che
movimenterà (sia che riesca, sia che fallisca) i prossimi quattro anni. Segnerà, se si
realizzerà, il punto storico di massimo splendore del dollaro, cui seguirà un graduale
ma lungo declino voluto e guidato dagli Stati Uniti e concordato con il resto del
mondo.
Uscito dalle traversie degli anni Settanta, il dollaro riprese forza con l’operazione di
risanamento guidata dalla Fed di Volcker. Gli altissimi tassi d’interesse utilizzati per
domare l’inflazione attirarono capitali verso l’America e il dollaro si apprezzò del 50
per cento, dal 1980 al 1985, nei confronti delle valute europee e dello yen. I capitali si
riversarono su Wall Street, che dette avvio al suo rialzo secolare, ma la massiccia
rivalutazione del dollaro creò seri problemi all’industria e portò il disavanzo
americano delle partite correnti al 3.5 per cento del Pil (oggi è del 3.7).
Proprio alla fine del decennio prese però avvio il processo di globalizzazione. Nel 1989
la stampa finanziaria iniziò a parlare dello svuotamento (hollowing out) dell’industria
americana. Rimanevano negli Stati Uniti la direzione generale, la ricerca e sviluppo e il
marketing, si spostava in Asia la produzione. Era visto come un fenomeno positivo, che
portava efficienza e abbassava i costi. Una manna per i profitti delle imprese e per i
consumatori americani.
Questo modello è però oggi in crisi. C’è una nuova guerra fredda e l’America si ritrova
con un apparato industriale che resta in alcuni settori sulla frontiera dell’innovazione
ma che è seriamente danneggiato e ridimensionato nei settori tradizionali, quelli che
servono, tra l’altro, a produrre armi e munizioni. Il Pentagono suona l’allarme. Gli stati
ad antica industrializzazione, svuotati, diventano politicamente fluidi e quindi decisivi
per determinare gli equilibri di tutta l’Unione. Trump seduce questi stati nel 2016
denunciando la deindustrializzazione. Biden li riporta a casa nel 2020 promettendo
crescita, ma la ottiene al prezzo dell’inflazione. Nel 2024 Trump torna a promettere la
reindustrializzazione dell’America.
Deregulation e tagli delle imposte per le imprese possono essere di aiuto, ma occorre
anche svalutare il dollaro. In alternativa si utilizzano i dazi. Per svalutare occorrerebbe
il consenso della Fed, che dovrebbe inondare il mondo di dollari. Ma non servirebbe,
perché Europa e Asia potrebbero a loro volta inondare il mondo con le loro valute. I
dazi invece non hanno questa simmetria, perché il resto del mondo importa poco
dall’America e i dazi europei o cinesi finirebbero con l’applicarsi a pochi prodotti. I dazi
poi li può decidere in un giorno il presidente, senza Fed o Congresso. I dazi, infine,
portano introiti fiscali, la svalutazione no.
Dazi su larga scala, dunque, e conseguente rafforzamento del dollaro. Chi paga, alla
fine, questi dazi? Il consumatore americano dice l’opposizione democratica. No, dice
Scott Bessent (futuro probabile Segretario al Tesoro). Metà la pagano gli esportatori
europei e asiatici, che sacrificano una parte del loro margine di profitto per conservare
la loro quota di mercato. L’altra metà viene compensata dal dollaro più forte.
Una volta alzati i dazi, iniziano le trattative, paese per paese. Chi vuole l’eliminazione
dei dazi dovrà concedere qualcosa all’America (maggiori spese militari nel caso
europeo, investimenti industriali negli Stati Uniti per la Cina, rivalutazione del cambio
verso il dollaro), altrimenti si terrà i dazi, che potranno anche essere alzati
ulteriormente.
Si parla di due linee tra gli economisti trumpiani. Lighthizer sostiene i dazi permanenti.
Scott Bessent li vede come strumento di pressione temporaneo, in attesa di una
capitolazione che porterebbe a tanti riallineamenti valutari o a un grande accordo
globale, da firmare magari a Mar-a-Lago.
La misura estrema, al netto dell’uso della forza, sarebbe l’introduzione di un’imposta sugli
investimenti finanziari esteri in America, che scoraggerebbe l’afflusso di capitali negli Stati
Uniti e porterebbe a una discesa del dollaro. Per ora è solo un’ipotesi accademica.
Farebbe scendere la borsa e Trump non vuole questo. Vorrebbe un’industria forte, ma
anche una finanza forte.
Bessent e altri sostengono che sia possibile. Un dollaro indebolito aiuterebbe i profitti
delle società quotate e la borsa americana, in dollari, potrebbe continuare a crescere.
Economisti indipendenti come Michael Pettis sostengono che il riequilibrio richiede molto
più di un aggiustamento artificioso del cambio. L’intero modello cinese, basato sulla
compressione dei consumi, e l’intero modello americano, basato sull’indebitamento,
dovrebbero cambiare radicalmente.
Staremo a vedere. Per ora dollaro forte e Wall Street forte possono continuare a
convivere. Ma non per sempre.
NEWSLETTER N. 46 ANNO XVI 18 NOVEMBRE 2024
Insomma, tagliando corto: oltre a un’ulteriore escalation militare tra Israele e Iran dopo
gli attacchi incrociati di ottobre, si temono rappresaglie commerciali. Se tali timori
divenissero realtà, la conseguente risalita dei prezzi del greggio potrebbe complicare e
non di poco la vita alle banche centrali, in una fase in cui, alla luce della disinflazione in
corso, le autorità monetarie stanno finalmente allentando le briglie ai tassi. Non
dimentichiamo poi che persiste il rischio di un’intensificazione degli attacchi alle navi in
transito nel Mar Rosso da parte degli Houthi pro-Iran dallo Yemen (Stato che appunto
affaccia sul Mar Rosso): ciò creerebbe scompiglio nel commercio globale e nel trasporto
di greggio in particolare, un po’ come s’è visto qualche mese fa.
Recentemente, il segretariato dell’OPEC ha comunicato che gli otto Paesi OPEC+, ovvero
Arabia Saudita, Russia, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Kazakistan, Algeria e
Oman, hanno concordato di estendere gli aggiustamenti volontari della produzione di un
mese, fino a fine dicembre: rinviata, insomma, la revisione al rialzo della produzione. Non
è un caso, alla luce delle quotazioni e, appunto delle prospettive della domanda.
Più che sul petrolio, le ripercussioni per ora si sono viste sui record dell’oro
In queste settimane è stato soprattutto l’oro a suscitare interesse: per la prima volta il
metallo prezioso, nonché bene rifugio per definizione, ha superato i 2.800 dollari l’oncia,
in una corsa verso la sicurezza alimentata proprio dagli scenari geopolitici.
Non è così insolito, anzi. Generalmente, in tempi di incertezza, gli investitori cercano
sicurezza nell’oro. E, va detto, non è stato solo il Medio Oriente a pesare: un ruolo lo
hanno avuto anche i vari punti di domanda in vista del voto USA.
La consultazione elettorale per l’elezione del nuovo presidente si è poi svolta martedì 5
novembre e, nella sfida tra il Repubblicano Donald Trump e la Democratica Kamala
Harris, gli elettori statunitensi hanno optato per la discontinuità rispetto
all’amministrazione Biden, preparando così la strada ad altri quattro anni di presidenza
Trump (già presidente dal 2017 al 2021, se consideriamo non le date del voto ma quelle
dell’insediamento alla Casa Bianca).
Nei lunghi mesi della campagna elettorale, Harris e Trump non si sono sbilanciati troppo
sulla politica estera, limitandosi, per quanto riguarda il Medio Oriente, a ribadire,
ciascuno in base al suo stile, il sostegno a Israele. Va comunque detto che gli Stati Uniti
sono un alleato storico di Israele (e viceversa), e questo dato di fatto assai difficilmente
avrebbe subito modifiche, comunque fosse andata la competizione.
Ciò premesso, Trump potrebbe supportare molto più convintamente Tel Aviv (una buona
notizia per Israele, molto meno buona per Teheran), comunque nell’ottica di una rapida
risoluzione del conflitto. Anche a beneficio dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita
(come abbiamo visto, il maggior produttore di petrolio della regione).
Dopo il taglio dello 0,50% alla precedente riunione di settembre, la Federal Reserve (Fed)
americana ha abbassato i tassi d’interesse dello 0,25% il 7 novembre, portando il tasso
sui fed fund nell’intervallo del 4,50%-4,75%.
Mercati e investitori tendono a focalizzarsi sulle mosse a breve della Fed ma per i
portafogli d’investimento conta molto di più il livello di approdo dei tassi di politica
monetaria a più lungo termine. Nel percorso di riduzione dei tassi dai livelli ai quali la
banca centrale li aveva portati per combattere l’inflazione, indipendentemente
dall’evoluzione dell’economia americana verso uno scenario di soft landing o di hard
landing, ci aspettiamo che il livello di approdo dei tassi sarà ben al di sopra dei livelli di
prima della pandemia, il che favorisce decisamente l’obbligazionario.
La Fed ha riconosciuto il livello più elevato del tasso neutrale, rivedendo al rialzo la sua
stima del tasso di equilibrio per ben tre volte quest’anno sino all’attuale 2,9%. Ci
aspettiamo che la banca centrale riveda ulteriormente al rialzo la sua stima nel corso del
2025.
Con la riduzione del tasso sui fed fund nei prossimi mesi, si allenterà la morsa
sull’economia non più attanagliata dalla minaccia imminente di inflazione fuori controllo.
Trovare il giusto equilibrio nel ritmo di allentamento monetario è il compito più difficile
per tutti i banchieri centrali. Un ritmo troppo lento accresce il rischio di hard landing, un
allentamento troppo rapido quello di ripresa dell’inflazione. Di certo la Fed esercita la
massima attenzione per trovare quel giusto equilibrio e ottenere un atterraggio morbido.
Utilizzando il Vanguard Capital Markets Model® (VCMM), i nostri strategist per gli
investimenti hanno elaborato le proiezioni sulla possibile evoluzione dei tassi d’interesse
per il 2025 nei diversi scenari per valutare gli aspetti di maggior rilievo per la solidità dei
portafogli a lungo termine, analizzando le implicazioni per i rendimenti dell’azionario e
dell’obbligazionario americani delle traiettorie evolutive dei tassi di politica monetaria
della Fed in scenari sia di soft landing sia di hard landing. Per entrambi gli scenari, l’analisi
ha tenuto conto della nostra stima di tasso neutrale nominale più alto e pari al 3,5% in
confronto a uno scenario di tassi più bassi, vicini ai livelli pre-COVID, con un tasso
neutrale nell’intervallo del 2,0%–2,5%.
Implicazioni di un tasso neutrale più alto per i rendimenti degli investimenti a lungo
termine
Con il procedere del ciclo di allentamento monetario della Fed, diventerà evidente per
investitori e mercati che il livello di approdo dei tassi è più importante dell’entità del
taglio a ogni singola riunione.
Non ci aspettiamo un ritorno a un tasso neutrale basso. Inoltre, negli scenari sia di soft
landing sia di hard landing, le nostre stime sui rendimenti dell’azionario americano a
lungo termine indicano livelli più contenuti.
NEWSLETTER N.46 ANNO XVI 18 NOVEMBRE 2024