A NEW ROLE
FOR ROMAN TAXONOMIES
IN THE FUTURE OF GOODS?
A NEW ROLE
FOR ROMAN TAXONOMIES
IN THE FUTURE OF GOODS?
Atti del convegno di Padova
(19 maggio 2022)
a cura di
Marco Falcon e Mattia Milani
JOVENE
Pubblicazione realizzata con i fondi STARS dell’Università di Padova, bando
2019, nell’ambito del progetto ANTARes – A New Thinking About Res.
Roman Taxonomies in the Future of Goods.
DIRITTI D’AUTORE RISERVATI
© Copyright 2022
ISBN 978-88-243-2773-2
JOVENE EDITORE
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I diritti di riproduzione e di adattamento anche parziale della presente
opera (compresi i microfilm, i CD e le fotocopie) sono riservati per tutti
i Paesi. Le riproduzioni totali, o parziali che superino il 15% del
volume, verranno perseguite in sede civile e in sede penale presso i
produttori, i rivenditori, i distributori, nonché presso i singoli
acquirenti, ai sensi della L. 18 agosto 2000 n. 248. È consentita la
fotocopiatura ad uso personale di non oltre il 15% del volume
successivamente al versamento alla SIAE di un compenso pari a quanto
previsto dall’art. 68, co. 4, L. 22 aprile 1941 n. 633.
Printed in Italy Stampato in Italia
INDICE SOMMARIO
Alvise Schiavon
Analisi economica del diritto romano dei beni pubblici: l’esempio di fiumi e strade . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag.
1
Francesca Rossi
Cura urbis, monumenta e patrimonio culturale nell’esperienza di
Roma antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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31
Andrea Capurso
The End of res communes omnium . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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59
Yaiza Araque Moreno
El cadáver como res . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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91
Henrik-Riko Held
Res sacrae in Romano-canonical Legal Tradition. Vicissitudes of a
Roman Legal Concept in Canon Law and Contemporary Legal
Systems . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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121
Giovanbattista Greco
Res derelictae: una categoria regressiva? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
149
Luca Cunial
Tra rinunzia abdicativa e derelictio delle res immobiles . . . . . . . . .
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167
Maria Kaczorowska
A Multi-layered Approach to Ownership of Immovable Property
Against the Background of the Roman Law Paradigm . . . . . . .
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187
Sofia Santinello
Universitas e beni produttivi. Per una valorizzazione unitaria del
patrimonio aziendale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
215
VI
INDICE SOMMARIO
Federica De Iuliis
Invecta et illata: una categoria di beni meritevole di tematizzazione fra passato, presente e futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag. 241
Paolo Costa
Pecunia e res. La posta in gioco ermeneutica di un’impasse semantica (a partire da C. 4.18.2) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
281
Laura Velázquez
Criptomonedas. Pecunia y bienes virtuales. Análisis desde la
perspectiva romana de res . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
315
Daniel Navarro Sánchez
De la res romana al pleno reconocimiento de la personalidad
jurídica: el avance imparable del derecho Animal . . . . . . . . . . . .
»
343
Carlos Amunátegui Perelló
Legal Status of Artificial Agents . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
375
Sono qui riuniti i saggi selezionati tramite la call for papers intitolata A New Role for Roman Taxonomies in the Future of Goods?,
successivamente presentati e discussi dagli autori in occasione di un
seminario tenutosi a Padova il 19 maggio 2022.
L’incontro si inserisce nel progetto ANTARes – A New Thinking
About ‘Res’. Roman Taxonomies in the Future of Goods, finanziato dall’Ateneo patavino nell’ambito del bando Stars@Unipd, edizione
2019.
Dal momento che, secondo le classificazioni dello European Research Council (ERC), si tratta di un progetto Starting, è sembrato
giusto e naturale invitare a contribuire giovani ricercatori di ogni nazionalità, disposti a confrontarsi con gli approdi della giurisprudenza
romana in tema di classificazione delle res.
La partecipazione è stata ampia, sia tra gli specialisti del diritto
romano, sia tra i cultori del diritto vigente: frutto del loro lavoro è il
presente volume, nel quale si affiancano approfondimenti dedicati ad
argomenti classici e indagini su temi di frontiera.
Non possiamo, dunque, che esprimere soddisfazione per la riuscita dell’iniziativa e profonda gratitudine a coloro che vi hanno preso
parte.
Alla professoressa Paola Lambrini, referente scientifico del progetto, va infine un ringraziamento particolare per l’entusiasmo infuso
alla ricerca sin dal suo avvio e per i preziosi suggerimenti che generosamente ci ha dispensato, nell’auspicio di essere riusciti, almeno in
parte, a raccoglierli.
Marco Falcon e Mattia Milani
Alvise Schiavon
ANALISI ECONOMICA
DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI:
L’ESEMPIO DI FIUMI E STRADE
1. Introduzione. – Questo contributo si prefigge l’obiettivo di valutare la possibile convergenza della metodologia storico-giuridica e
di quella comunemente indicata col nome di law and economics 1 nello
studio delle fonti giuridiche romane. In particolare, si tenterà di seguire l’intersecarsi di queste due prospettive con riferimento a uno
specifico problema, ovvero l’analisi degli strumenti a tutela dell’accesso dei membri della comunità ad alcuni beni sottratti all’appropriazione privata e lasciati al godimento collettivo: ancora più nello
specifico, lo sguardo sarà rivolto alla peculiare disciplina delle vie di
comunicazione in Roma antica.
Con riferimento al tema della disciplina dei beni pubblici o collettivi, infatti, le due discipline sembrano aver seguito un percorso di
avvicinamento: alcuni studiosi di diritto romano, infatti, hanno indicato nelle categorie giuseconomiche un possibile strumento euristico
per le fonti antiche in tema di beni pubblici; simmetricamente, ricercatori versati nella disciplina di law and economics sono stati spinti a
rivolgersi alla storia del diritto, e in particolare del diritto romano,
per rintracciare modelli di organizzazione e gestione della fruizione di
beni lasciati all’uso collettivo.
Una sintetica storia dell’emersione di questa metodologia di studi nel XIX e XX
secolo in Priest 2020 e in Gelter - Grechenig 2019. Una valutazione della ricezione
in Italia di tale approccio agli studi giuridici in Pardolesi 2015 e, in senso critico,
Mattei 2003.
1
2
ALVISE SCHIAVON
2. La svolta ‘storicistica’ dell’analisi economica del diritto: il caso dei
‘commons’. – Il punto di partenza della riflessione sulle forme collettive di appartenenza dal punto di vista della law and economics può a
buon titolo essere considerato il celebre articolo di Harold Demsetz
sulla teoria dei property rights 2.
Come noto, l’autore giunge a una valutazione fortemente negativa
di quelli che egli chiama (impropriamente, come vedremo in seguito)
regimi di common property: dal suo punto di vista, l’impossibilità per i
membri della comunità di escludere gli altri dal godimento del bene 3
conduce a una situazione di sovra-sfruttamento del bene stesso, poiché
ciascun membro sarà condotto a massimizzare l’uso individuale della
risorsa senza riguardo alla conservazione della destinazione d’uso della
stessa (cosiddetto free riding) 4. A questa situazione, assunta peraltro
come condizione originaria e paradigmatica di ogni essere vivente 5, l’evoluzione sociale farebbe fronte predisponendo regimi di proprietà
privata, in cui la decisione sull’accesso alla risorsa viene riservata al potere di un singolo individuo (ius ad alios excludendum).
Tale impostazione del problema, che pure negli anni ha trovato
larghi consensi tra i cultori di law and economics, è stata oggetto di
una profonda revisione critica: a partire soprattutto dai lavori di Elinor Ostrom, molti studiosi hanno cercato di mostrare l’esistenza di
2
Demsetz 1967, 347 ss. Viene peraltro spesso indicato come antecedente diretto
della riflessione demsetziana il lavoro di Gordon 1954, 124 ss. Una valutazione dell’impatto di questo lavoro sugli sviluppi della teoria dei property rights in Merrill
2002, 331 ss.
3
Demsetz 1967, 356: «because the owner of a communal right cannot exclude
others from enjoying the fruits of his efforts». Su questa caratteristica economica di
common e public goods (non escludibilità) ritorno brevemente infra nel paragrafo 3.
4
È evidente la consonanza di questa prospettiva col pensiero espresso in Hardin
1968, 1243 ss.: tra i molti studiosi che hanno notato come la ricerca di Demsetz si
ponga quasi come sviluppo dell’intuizione di Hardin, Dagan - Heller 2001, 560 sostengono che «although Garrett Hardin coined the term ‘the tragedy of the commons’
Harold Demsetz was the first theorist to conduct a cost-benefit analysis that aimed systematically to establish the long-run superiority of private property over commons
property».
5
Non è un caso che Garrett Hardin fosse un etologo che implicitamente mostrava
di riconoscere la stessa tendenza all’accumulo individualistico negli animali e negli uomini. Ricorda da vicino l’assunto giusnaturalistico dell’esistenza di uno stato di natura
in cui vige il principio per cui homo homini lupus. Sulle possibili ascendenze giusnaturalistiche della metodologia cosiddetta law and economics con specifico riferimento alla
dottrina dei property rights, v. Mattei 1998, 32 ss.
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
3
pratiche cooperative (collective actions) che garantiscono la fruizione
comune di risorse naturali 6.
In particolare, numerose ricerche si sono impegnate, a partire
dalla constatazione della confusione, nel pensiero di Demsetz, tra
open access e common property 7, a mettere a fuoco la struttura istituzionale di regimi di proprietà collettiva non coincidenti con la mera
assenza di regole per l’accesso 8.
Merita fin da ora notare come le critiche alla tesi di Demsetz
siano state condotte soprattutto attraverso il riferimento a concrete
esperienze storiche 9: la riconsiderazione di pratiche e istituzioni di
6
Ostrom 1990, ma un approccio simile era stato seguito già in Clawson 1974,
60 ss. Come messo in luce da Fennel 2011, 10, queste ricerche partono dal presupposto metodologico per cui «a resource arrangement that works in practice can work in
theory»; analogamente, nelle parole della Ostrom, «theoretical inquiry involves a search
for regularities. It involves abstraction from the complexity of a field setting, followed
by the positing of theoretical variables that underlie observed complexities» (Ostrom
1994, 24). Hanno particolarmente sottolineato questo aspetto delle ricerche della
Ostrom Acheson 2011, 319 ss. nonché, nella dottrina italiana, Marelli 2011, 233 ss.
7
Nella prospettiva di Demsetz infatti «communal ownership means that the community denies to the state or to individual citizens the right to interfere with any person’s exercise of communally-owned rights» (Demsetz 1967, 354). L’autore ha ribadito
tale impostazione in numerosi scritti successivi, ad esempio in Alchian - Demsetz
1973, 19 dove si legge che «communal rights mean that the working arrangement for
the use of a resource is such that neither the state nor individual citizens can exclude
others from using the resource except by prior and continuing use of the resource» e
che dunque «persons who own communal rights will tend to exercise these rights in
ways that ignore the full consequences of their actions». Significativo in questa prospettiva il fatto che in Alchian 1987 la «communal property» sia affrontata nel capitolo intitolato «non-existent property rights». Contro tale identificazione tra sistemi di
open access e regimi di common property si legga già Ciriacy-Wantrup - Bishop 1975,
713 ss. Di recente molto critici verso questa identificazione anche Smith 2002, 453 ss.,
Smith 2008, 450 ss. e Eggerston 2003, 75 dove si legge in particolare che «Hardin’s
paper has created something like a tragedy in itself»; analogamente Epstein 2002, 521.
Tale confusione sembra il portato di un’incomprensione più generale, insita nella metodologia della law and economics, tra caratteristiche economiche e regime giuridico del
bene studiato: sul punto si vedano in particolare le puntuali osservazioni di Ostrom Hess 2010, 53 ss.
8
In modo incisivo Stevenson 1991, 39 afferma che «private property is not the
only or necessarily the best solution to open access problem, however. Several other
ways to correct open access distortions exist, and a subset of them forms the class of
common property». Altrettanto significativamente Getzler 2009, 246, può affermare
che «property theory today has largely escaped from Hardin’s intellectual trap - the
stark triadic opposition of property/individualism versus no-property/anarchy versus
collectivism/state control».
9
Fu lo stesso Demsetz a individuare la necessità che la sua ricerca teorica fosse cor-
4
ALVISE SCHIAVON
fruizione collettiva di risorse si è sostanziata innanzitutto in numerosi
case studies sulle pratiche delle comunità tradizionali 10; anche per
quanto riguarda le indagini più strettamente tecnico-giuridiche, poi,
numerosi studiosi si sono rivolti a esperienze del passato come possibili modelli per la (ri)costruzione di un sistema giuridico di accesso
alle risorse collettive.
All’interno di questa rivalutazione del problema, assumono particolare significato – per il discorso che si intende qui sviluppare – alcuni lavori che mirano esplicitamente a rintracciare nel diritto romano i modelli per affrontare i problemi economici posti dalla fruizione collettiva di beni e risorse, con particolare riferimento alle vie di
trasporto e di comunicazione.
Mi riferisco in primo luogo ai lavori di Carol Rose, che analizza
alcune delle categorie di res conosciute dall’esperienza giuridica romana, mettendole in relazione con alcune questioni aperte del dibattito giuseconomico contemporaneo: appare particolarmente significativo il parallelo tracciato da questa autrice tra le esigenze alla base
della regolamentazione dell’accesso alle vie di comunicazione dell’antichità e delle moderne vie di comunicazione ‘digitali’ 11.
Ancora più radicale in questo senso appare la riflessione di un autore come David Berry, che non solo procede a un’analoga ‘mappatura’
delle categorie romanistiche alla ricerca di soluzioni ai problemi posti
dalla rete globale 12, ma giunge a proporre la creazione di licences (liroborata dall’analisi storica, posto che nel suo articolo egli porta solo l’esempio (piuttosto marginale) del commercio di pellicce presso gli indigeni americani (cfr. Demsetz
1967, 351 ss.); esigenza ribadita anche in Alchian - Demsetz 1973, 17. Tra gli studi
volti a mostrare concreti esempi storici di ‘privatizzazione’ dell’accesso a risorse prima
godute collettivamente (nel senso demsetziano di open access), si può segnalare Ault Rutman 1979, 163 ss. Una importante riflessione sul crescente ricorso alla storia negli
studi di law and economics si può leggere in Harris 2003, che alle pagine 680 s. si concentra in particolare al dibattito sui regimi proprietari individuali e collettivi.
10
Tra le più note e autorevoli ricerche in lingua inglese si possono ricordare Dahlman 1980 (volto a mostrare che il sistema dei commons precedente al movimento delle
enclosures non possa essere qualificato sic et simpliciter come un regime di open access) e
Clark 1998, 73 ss. Sul punto in generale si vedano Shaw-Taylor 2008, 22 ss. e Stevenson 1991, 48, dove si conclude che «open access has not been the modus operandi
of many historical commons. They at least limited the number of users and some of
them the amount of exploitation allowed by each individual user».
11
Rose 2003, 1 ss.
12
Berry 2008.
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
5
cenze d’uso) su prodotti da fruire nella ‘rete’ parametrate su categorie
romanistiche: le res divini iuris e le res communes omnium licences 13.
Da un diverso punto di vista, si segnala invece la autorevole presa
di posizione di Richard Epstein che, in un recente contributo, accenna all’efficienza della disciplina romana della proprietà sottolineando come la «durable distinction between common and private
property reflected a recurrent trade-off between costs of exclusion
and costs of coordination» e che le forme di proprietà collettiva su alcuni beni – in particolare su quelli che costituivano la rete di trasporti
del mondo romano – rappresenta una forma efficiente di gestione,
dal momento che «common ownership facilitates effective transportation and communication» 14.
3. Analisi economica del diritto romano? – Bisogna registrare un
simmetrico movimento di avvicinamento della dottrina storico-giuridica, specialmente romanistica 15, alla metodologia dell’analisi economica del diritto. Anche in questo caso, mi concentrerò in particolare
sul problema del regime dei beni di pertinenza collettiva.
In anni recenti, sono apparsi numerosi studi che hanno tentato di
applicare le categorie dell’analisi economica del diritto allo studio
delle fonti giuridiche antiche 16.
Numerose ricerche si sono concentrate sul problema dell’analisi
economica dei regimi di appartenenza, in particolare applicando all’esperienza giuridica romana la nozione di property rights 17.
Berry - Moss 2006.
Epstein 2016, 514.
15
Si consideri però che un parallelo movimento di avvicinamento verso la metodologia dell’analisi economica ha interessato pure gli studiosi di storia del diritto medievale e moderno: emblematiche in questo senso le pagine di Grossi 2001, 662 ss.
16
Pionieristico in questo senso Kehoe 1997; di recente hanno percorso questa
strada, applicando l’analisi economica del diritto a diverse branche del diritto romano,
tra gli altri Dari-Mattiacci - Plisecka 2012, 189 ss. e Abatino - Dari-Mattiacci Perotti 2011, 365 ss. Un tentativo di saggiare l’efficienza delle societas publicanorum
nella gestione ‘esternalizzata’ di servizi pubblici essenziali è stato operato da Malmendier 2002 (su cui Maganzani 2002, 216 ss.) Di recente questo movimento di studi è
culminato nei due importanti volumi collettanei curati proprio da Dari-Mattiacci Kehoe 2020.
17
V. in generale Libecap 1986 e con specifico riferimento all’antichità Hoofs
2010, 5 ss.
13
14
6
ALVISE SCHIAVON
Mi riferisco innanzitutto ai pionieristici lavori di Dennis Kehoe
sull’interazione tra economia rurale e istituzioni giuridiche all’epoca
del Principato, laddove questo autore indaga la politica economica di
quel periodo attraverso l’analisi degli incentivi forniti dai diversi regimi proprietari creati e definiti dalle istituzioni del tempo 18. Più di
recente, Cynthia Bannon 19 ha condotto un’approfondita ricerca in
tema di gestione dell’accesso alle risorse idriche, esplicitamente assumendo il problema dell’allocazione di private property rights da un
punto di vista di analisi economica del diritto.
Questi lavori, che rappresentano il punto di partenza della presente ricerca, si sono concentrati sull’analisi economica degli istituti
che garantivano un accesso individuale ed esclusivo alle risorse, fondiarie o idriche.
L’obiettivo dei paragrafi che seguono è quello di applicare il medesimo paradigma dei property rights allo studio delle forme non
esclusive di accesso ai beni.
Alcuni tentativi in questo senso sono stati peraltro già intrapresi.
Recentemente la stessa Bannon ha provato ad esportare la sua
analisi basata sul modello dei property rights alla gestione delle acque
pubbliche 20, esplicitamente ricollegandosi alla prospettiva ostromiana
di gestione dei commons 21, prendendo ad oggetto della sua analisi le
testimonianze epigrafiche relative alla disciplina dell’utilizzo dell’acquedotto di Venafrio 22 e quella concernente lo sfruttamento del
fiume Ebro rinvenuta nella cosiddetta lex rivi hiberiensis 23.
Nel contesto italiano si segnala un intervento di Mario Fiorentini,
che, in un articolo sul tema della qualificazione dell’acqua come res
communis omnium nelle fonti romane 24, giunge a mettere in relazione
In particolare Kehoe 2008.
Bannon 2009.
20
Bannon 2017a, 60 ss.
21
Bannon 2017b, 13 ss.
22
CIL, X, 4842.
23
Il testo è stato edito da Beltrán Lloris 2006, 147 ss. Questo documento offre
diversi spunti al romanista, per una ricognizione di quelli direttamente collegati al problema della gestione delle risorse idriche nelle comunità locali ispaniche di età adrianea
si può fare riferimento a Buzzacchi - Maganzani 2014.
24
Fiorentini 2010, 39 ss. Un’analisi simile era stata compiuta da due studiosi di
diritto pubblico internazionale in Schrijver - Prislan 2009, 168 ss.
18
19
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
7
tale categoria romanistica con alcuni problemi emergenti nel dibattito economico contemporaneo.
Tale tentativo, pur per molti versi avanguardistico, soffre a mio
avviso di due limiti: da un lato, ha concentrato tutta l’attenzione su
una categoria, quella delle res communes omnium, di difficile ricostruzione – stante l’assenza nelle fonti romane di una loro esplicita disciplina 25; dall’altro, l’analisi del dibattito giuseconomico non va oltre i
canonici riferimenti alla tragedy of the commons 26. Pertanto, ho deciso
di impostare la presente ricerca su binari parzialmente diversi.
Stante la varietà di forme proprietarie non individuali elaborate
dal pensiero giuridico romano 27 – e difficilmente riconducibili a una
classificazione appagante per l’interprete moderno 28 – mi concentrerò
sulla categoria delle res in usu publico 29, ovvero sui beni la cui pubblicità dipende – nella visione della giurisprudenza romana – più a fattori oggettivi di funzionalità e destinazione d’uso che a criteri soggettivi di appartenenza a un soggetto di diritto pubblico 30. La loro disciplina è caratterizzata 31 dall’applicabilità di un complesso di rimedi di
natura privatistica volti a reprimere una serie di condotte variamente
incidenti sull’utilizzabilità del bene stesso da parte dei cittadini, i cosiddetti interdetti de locis publicis tramandati nei titoli 8-15 del libro
25
La categoria ha conosciuto in anni recenti un rinnovato interesse da parte della
romanistica: tra i più importanti contributi apparsi di recente si segnalano Lambrini
2016, 85 ss. e Falcon 2016, 107 ss.; Dursi 2017. Nella dottrina tedesca si sono occupati del tema, tra gli altri, Beherends 1992, 3 ss. (= Beherends 2004, 599 ss.);
Schermeier 2009, 20 ss. Per una valutazione critica della storiografia Schiavon 2019,
112 ss.
26
Fiorentini 2010, 63 ss.
27
Una visione d’insieme in Zoz 1999.
28
Di ‘fluidità’ delle categorie romane di beni sottratti all’appropriazione privata
parla Pugliese 1991, 429. Sorprendentemente, usano la stessa espressione (‘fluidity’)
anche Rose 2003, 3 e Berry 2008, 81.
29
Tale categoria è sistematicamente ignorata dagli autori che hanno provato a
mappare le forme di allocazione ‘collettiva’ di property rights nell’esperienza romana: v.
Rose 2003; Hoofs 2010, 10 s.; Berry 2008, 85 ss. Sull’emersione di questa classe di
beni pubblici e sulle peculiarità degli strumenti di tutela approntati per essa mi permetto di rinviare a Schiavon 2019, 55 ss.
30
Sottolineano con forza questo profilo – che rende difficilmente applicabile il paradigma proprietario soggettivistico alla ricostruzione della disciplina di questa categoria di beni – Vassalli 1908 (oggi Vassalli 1960, 3 ss.) e Orestano 1968, 297 ss.
31
Scherillo 1947, 89 ss. (ma con specifico riferimento all’emersione della categoria delle res in usu publico 93 ss.), su cui si sofferma anche Pugliese 1994, 153 ss.
8
ALVISE SCHIAVON
43 ‘De interdictis’: prenderò in considerazione solo due coppie di essi
– de fluminibus e de viis – relativi alla tutela di fiumi e vie pubbliche
extraurbane come vie di comunicazione e di trasporto.
Questi rimedi saranno dunque indagati e valutati alla luce di alcuni orientamenti emersi nella dottrina di law and economics, al fine
di valutare se effettivamente, come suggerito da Richard Epstein, la
disciplina romana delle vie di comunicazione possa rappresentare un
modello efficiente di gestione di tali risorse.
4. ‘Collective property’, ‘open access’ e ‘individual property rights’. –
Occorre innanzitutto mettere a fuoco le caratteristiche economiche dei
beni oggetto della tutela interdittale. Dal punto di vista economico 32
strade e fiumi intese come vie di comunicazione – e dunque in quanto
siano considerati dal punto di vista delle utilità di trasporto che essi
possono offrire alla generalità degli agenti economici – possono essere
considerati common-pool resources o common goods 33. Il loro utilizzo è
infatti non esclusivo 34 ma potenzialmente rivale 35: l’esclusione dal godimento di quell’utilità di qualcuno è impossibile o estremamente costosa, ma lo sfruttamento individualistico del bene da parte di un
agente economico può pregiudicare la possibilità di un concorrente
sfruttamento da parte di un altro agente, perché vi è la possibilità che
questi si impossessi di una parte del bene stesso, congestionandolo e
impedendone la fruizione da parte degli altri membri della comunità 36.
32
Appare opportuno fin da ora sottolineare la differenza tra la nozione economica
di public good e il problema dell’individuazione dei regimi giuridici per governare tali
beni in senso economico. Sulla relazione tra concetto economico e giuridico di proprietà v. Cole - Grossman 2002, 317 ss.
33
Alcuni dei principali contributi che hanno definito la dottrina dei commons sono
stati raccolti in Heller 2009.
34
L’espresso riconoscimento di tale elemento della teoria dei public goods si fa tradizionalmente risalire al pensiero di Musgrave 1959.
35
Cfr. Nash 2008, 674.
36
I costi sociali dello sfruttamento di una risorsa di questo tipo sono anche chiamati esternalità negative e rappresentano gli effetti collaterali negativi di un’attività economica. La teoria delle esternalità (external economies) ha ricevuto una considerazione
organica a partire dalla riflessione di Marshall 1920, specialmente per quanto riguarda il tema delle esternalità positive (su cui Mattei 1987, 23 ss.), e del suo allievo
Pigou, specialmente con riferimento alle esternalità negative (su cui Mattei 1987, 33
ss.). Tale concetto è tanto onnipresente quanto discusso nelle scienze economiche: una
panoramica dei problemi, anche con riferimento al rapporto tra il tema delle esterna-
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
9
L’impossibilità di impedire o limitare fisicamente l’accesso ‘a
monte’ alla rete di trasporto (attraverso espedienti tecnologici quali,
ad esempio, i caselli autostradali), pone dunque il problema di regolare l’utilizzo del bene ‘a valle’, ovvero a posteriori rispetto all’utilizzo
del bene stesso, attraverso dispositivi giuridici in grado di sanzionare
un uso egoistico del bene (cosiddetto free riding) che impedisca o riduca la disponibilità del bene per il resto della comunità 37.
Nel linguaggio della scienza economica, così come in quello di
law and economics, si è soliti classificare le soluzioni giuridiche al problema del free riding in centralized e decentralized 38. Nel primo caso,
la gestione del bene è affidata ad un ente pubblico e la sanzione del
comportamento opportunistico è demandata all’intervento degli organi statali; nel secondo, all’iniziativa degli individui titolari di una
pretesa all’utilizzo del bene. È interessante notare che Arthur Cecil
Pigou, l’economista francese considerato alfiere della soluzione ‘centralizzata’ al problema del free riding, aveva sviluppato la sua teoria
sulla necessità dell’intervento del governo nel caso di esternalità positive con riferimento all’esempio delle strade 39. Contro tale soluzione,
ritenuta inefficiente a causa dell’imperfetta informazione da parte degli organi regolatori e della tendenza della politica a gestire tali beni o
servizi secondo logiche di patronato piuttosto che di efficienza 40, si è
proposto di risolvere il problema in modo ‘decentralizzato’, attraverso
il riconoscimento di diritti (o pretese) individuali all’uso della risorsa
a soggetti privati. In altre parole, gli studiosi hanno iniziato a concepire «the possibility that public goods could be provided without the
degree of centralized political control» considerato necessario da economisti come Pigou 41.
Tale soluzione ‘decentrata’ trova il suo fondamento teorico, come
noto, nella tesi esposta da Ronald Coase in uno degli articoli più
lità e quello dello sfruttamento di risorse comuni, in Cowen 1992, 1 ss. nonché l’utile
sintesi in lingua italiana in Mattei 1987, 41 ss.
37
V. in generale Shavell 2021, 109 ss.
38
V. una sintesi in Mattei 1987, 106 e Mattei 2000, 60 ss.
39
Pigou 1920, 194. Cfr. anche Mattei 1987, 33 e 51.
40
Coase a questo riguardo citava una famosa frase di Ambrose Pierce, in cui si dice
che un faro (qui inteso come esempio paradigmatico di public good in mano alla gestione del governo) sarebbe «a tall building on the seashore in which the government
maintains a lamp and the friend of a politician» (Coase 1974, 376).
41
Fische 2003, 351.
10
ALVISE SCHIAVON
influenti della storia della scienza economica: The Problem of Social
Cost 42. In esso viene avvallata l’idea, centrale per lo sviluppo di tutta la
teoria dei property rights, che si possa controllare il fenomeno del free
riding nello sfruttamento di una risorsa attraverso l’assegnazione di
individual property rights 43. Più in particolare, il cosiddetto ‘teorema
di Coase’ 44 può essere sintetizzato in questi termini: in condizioni di
costi transattivi 45 nulli, l’allocazione e precisa definizione di diritti individuali di esclusiva negoziabili conduce alla istituzione di un mercato efficiente in grado di tenere in considerazione i costi sociali prodotti dallo sfruttamento della risorsa, a prescindere dall’allocazione
iniziale dei diritti stessi. La creazione di diritti individuali di esclusiva
avrebbe in altre parole garantito uno sfruttamento non predatorio del
bene, evitando così la tragedia di un uso incontrollato della risorsa.
Come noto, un’interpretazione in senso normativo di tale ‘teorema’ 46, che ha di fatto tolto significato alla fondamentale condizione
dell’assenza di costi transattivi, ha condotto alcuni economisti ad attribuire una fiducia totale nella capacità di un sistema di diritti proprietari individuali di regolare in maniera efficiente l’accesso a risorse
comuni 47 a prescindere dal contesto economico di riferimento e dun42
Coase 1960. Stando a Shapiro - Pearse 2012, 1483 ss., sarebbe l’articolo di
materia giuridica più citato della storia (nord-americana).
43
Demsetz 1967, 348: «A primary function of property rights is that of guiding
incentives to achieve a greater internalization of externalities». Una disamina approfondita in Lueck - Miceli 2007, 231. Una sintesi in McChesney 2006, 179 ss. e in Mattei 1987, 76 ss.
44
Sul cosiddetto ‘teorema di Coase’ la letteratura è sconfinata, per cui mi limito a
rimandare al volume collettaneo Parisi - Posner 2013.
45
Il concetto di transaction cost è centrale nella dottrina di law and economics, specialmente nella tradizione post-coasiana: in esso viene assunta una nozione di transaction – derivata da Commons 1924 – a cavallo fra tradizione giuridica ed economica in
quanto tendente ad indicare qualunque relazione giuridica od operazione economica
(cfr. le precisazioni di Mattei 1987, 73); pertanto, la nozione di transaction cost può essere in prima approssimazione riassunta come qualsiasi sacrificio di risorse legato alla
preparazione e realizzazione di un’operazione economica (Mattei 1987, 74 s.), ovvero
– in termini più analitici – «search and information costs, bargaining and decision costs, policing and enforcement costs» (Dahlman 1979, 148).
46
Per una possibile ascendenza della teoria del decentramento decisionale attraverso allocazione di property rights dal pensiero economico ‘classico’ di Adam Smith, si
possono leggere le pagine di Mattei 1987, 15 ss. specialmente 20. Di ‘normative Coase
theorem’ parlano in particolare Cooter - Ulen 2012, 91 ss. Nello stesso senso si vedano anche Parisi 2008, 855 ss. e Eggerston 1990, 247 ss.
47
Così esplicitamente ad esempio Epstein 2002, 520.
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
11
que dei reali costi di transazione operanti 48. Proprio all’interno di
questo filone può essere inserita la riflessione di Demsetz da cui
siamo partiti. Attraverso il riconoscimento a un privato del monopolio dell’accesso alla risorsa, e così del potere di escludere ogni altro
soggetto dallo sfruttamento del bene, si concentrano le decisioni sull’uso della risorsa – e la valutazione dei costi e benefici ad esso connesso – nelle mani di un unico soggetto in grado di decidere il livello
efficiente di sfruttamento e così sventare il rischio di sovra-utilizzo 49.
L’efficienza della creazione di diritti privati di esclusiva sui common
goods è però messa in discussione proprio dall’esistenza dei costi di
transazione, considerati nel teorema di Coase ma obliati dagli studiosi
successivi. La presenza di costi di transazione comporta che l’efficienza
di diverse forme di allocazione di property rights non possa essere valutata in astratto – e dunque a-storicamente – ma sia invece da considerarsi nel quadro del più generale contesto sociale e tecnologico 50. La
considerazione dei costi di transazione, una delle ‘scoperte’ della New
Institutional Economics 51, è la porta attraverso cui la storia – ovvero le
condizioni materiali e limitate a cui si possono svolgere le operazioni
economiche a seconda del contesto sociale e tecnologico di riferimento – fa ingresso nella scienza economica 52.
48
Si può incidentalmente notare come tale approccio scientifico abbia trovato
un’importante sponda sul piano politico nella tendenza alla privatizzazione affermatasi
negli U.S.A. a partire dalla presidenza Reagan: per una critica strettamente politica del
fenomeno v. Mattei - Reviglio - Rodotà 2007.
49
Lueck - Miceli 2007, 192. Con specifico riferimento alle strade, tale conclusione favorevole al controllo delle esternalità negative attraverso il riconoscimento di diritti di esclusiva privati era stata già anticipata, contro le teorie pigouviane della necessità di un intervento statale, da Frank Knight in un famoso articolo del 1924 (Knight
1924, 582 ss.). Per una panoramica delle soluzioni prospettate per le strade, v.
Rouwendal - Verhofer 2006, 106 ss.
50
Lueck - Miceli 2007, 189; Eggerston 2003, 75 (ma già Eggerston 1990,
105); McChesney 2006, 182.
51
Si vedano le osservazioni di Klein 2000, 466 ss. e Klein 2010. Considerazioni
analoghe già in Fields 1991, 10 ss.
52
L’impatto dell’analisi dei transaction costs sugli studi di storia economica (specialmente romana) riconducibili alla New Institutional Economics può farsi risalire alle ricerche di Douglas North (e in particolare North - Thomas 1973). Tale fenomeno è
poi sottolineato tra gli altri da Kehoe 2007, 29 ss.; Frier - Kehoe 2007, 134 ss.; Bang
2009, 196 dove si legge che «one crucial implication of transaction costs analysis is that
frequently is too expensive to operate through the market and alternative forms of organization prove more efficient in allocating economic resources … These are ideas
that should resonate well with ancient historians».
12
ALVISE SCHIAVON
Pertanto, l’efficienza della scelta di risolvere i problemi di sovrasfruttamento di un common good in regime di open access attraverso la
creazione di diritti privati di esclusiva trasferibili può essere messa in
discussione in presenza di alcuni fattori: in particolare quando, a
causa della presenza di alti costi transattivi, risulta troppo costoso (relativamente ai benefici) assegnare, negoziare e implementare diritti
individuali di esclusiva sul bene 53.
Nel caso delle vie di comunicazione come strade e fiumi, l’estensione spaziale del bene rende difficili ed estremamente costosi sia il
controllo dell’accesso al bene che l’eventuale negoziazione dei titoli
proprietari per l’accesso al bene, specialmente quando la velocità
dello spostamento è necessariamente limitata per cause tecnologiche 54.
In questo caso, dunque, la massimizzazione dell’utilità legata alla rinegoziazione dei diritti di accesso tra i titolari del diritto esclusivo
non avviene. Al contrario, in questi casi potrebbe aversi piuttosto il
fenomeno icasticamente definito da Michael Heller, in un articolo divenuto altrettanto celebre di quello di Gardin, the Tragedy of the Anticommons 55. In presenza di una molteplicità di diritti individuali di
esclusiva non gerarchizzati, l’uso del bene viene inibito e si dà un’ipotesi di sottoutilizzo (underuse) del bene 56. Come nota lo stesso Heller, il problema del sottoutilizzo dei beni non viene percepito dagli
studiosi moderni, che cavalcano piuttosto il mantra dell’aumento
della produzione di beni e servizi, temendo pertanto l’opposto problema del sovrautilizzo di un bene.
Tale circostanza risulta ancora meno tollerabile in presenza di cosiddette esternalità di rete, o più precisamente network effects 57. Nell’analisi economica, con tale espressione ci si riferisce, in prima approssimazione, a quei casi in cui «the utility that a user derives from
consumption of a good increases with the number of other agents
Lo nota, proprio con riferimento a strade e fiumi, Rose 1986, 763 («the more
people, and the less specific their identities, the less likely it becomes that they can
afford the costs of arranging a consensual bargain»). Osservazioni analoghe in Merrill
1985, 26 ss. e già in Calabresi - Melamed 1972, 1107.
54
Rose 2003, 9.
55
Heller 1998. La tesi è stata poi sviluppata dal medesimo autore, e resa accessibile a un pubblico non specialista, in Heller 2008.
56
Heller 1998, 627 ss.
57
Lo notano in particolare Rose 2003, 10 e Eggerston 2003, 75.
53
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
13
consuming the good» 58. È questo, evidentemente, il caso di strade e
fiumi in quanto vie di comunicazione: proprio da questa osservazione
si sviluppa il tentativo già ricordato di Carol Rose 59 di indagare le
forme non individuali di accesso ai beni nell’esperienza giuridica romana al fine di trarre dei modelli istituzionali utili a regolare i problemi legati all’utilizzo della rete internet intesa come la grande intangible network dei nostri tempi.
Queste osservazioni, che conducono ad allontanarsi dal modello
dell’assegnazione di private property rights per gestire i problemi di
utilizzo delle vie di comunicazione come strade e fiumi, spingono al
contrario in questi casi verso forme di allocazione diffusa del diritto
di inibire comportamenti contrari alla destinazione pubblica dell’uso
del bene – ovvero verso sistemi di common property 60.
La dottrina tende a definire questo modello proprietario come una
forma intermedia tra open access e private property, ovvero come una
forma (giuridicamente) limitata di open access 61. Mentre nel regime di
open access «no individual has the right to stop someone else from
using the object», il termine proprietà collettiva «designates resources
that are owned or controlled by a finite number of people who manage the resource together» 62 e si riferirebbe a «complex structures …
that regulates exclusion and internal governance» 63. In particolare «a
simple and customary method of allocating use of common property
is a rule that grants equal access to all members of the group» 64.
Occorre però sottolineare come equal access in questo caso sia inteso non già come arbitraria possibilità di sfruttamento del bene da
Si tratta dunque di un caso in cui l’uso di una risorsa genera esternalità positive.
Sul tema delle esternalità di rete rimane fondamentale Katz - Shapiro 1985, 424 ss.;
ulteriori precisazioni in Lemley - McGowan 1998, 481 ss. Per una connessione tra il
tema delle esternalità di rete e la cosiddetta tragedy of the commons, Liebowitz - Margolis 1994, 141 ss.
59
In generale Rose 2003, 8 ss. (per il confronto con l’intangible space si leggano le
pagine 12 ss.).
60
Una connessione esplicita tra il problema dei transaction costs e quello della distinzione tra regimi di open access e di common property in Libecap 2005.
61
Tra i tanti, Lueck - Miceli 2007, 194; Eggerston 2003, 82 e Waldron 1985,
327 ss.
62
Dagan - Heller 2001, 556 s.
63
Eggerston 2003, 76.
64
Lueck - Miceli 2007, 195.
58
14
ALVISE SCHIAVON
parte di chiunque ma, piuttosto, come generale diritto di utilizzare il
bene in modo non opportunistico, ovvero senza comprometterne la
equivalente utilizzabilità da parte degli altri utenti: bisognerebbe dunque più propriamente parlare di selective access 65, nel senso che l’uso
della risorsa da parte di ciascuno è subordinato al rispetto della destinazione all’uso comune; e, parallelamente, di selective right to exclude,
nel senso che la possibilità di inibire comportamenti sul bene non è
arbitraria, ma subordinata alla condizione della contrarietà della condotta alla destinazione pubblica del bene 66. In questo regime di common property in altre parole, il diritto di escludere non opera tanto nei
confronti dell’esterno, verso i soggetti non appartenenti alla comunità 67, ma soprattutto all’interno del gruppo al fine di escludere comportamenti opportunistici dei commoners e garantire il proper use della
risorsa 68.
5. Gli ‘interdicta de locis publicis’ e la tutela diffusa di ‘viae’ e ‘flumina’. – Come già accennato, le fonti testimoniano l’esistenza nell’esperienza giuridica romana di un complesso di rimedi interdittali 69
variamente incidenti su una classe di beni denominati, nella riflessione giurisprudenziale, res in usu publico. Le formule di tali interdicta
de locis publicis ci sono tramandate attraverso il commento ulpianeo
all’Editto, ma la dottrina nettamente maggioritaria ritiene, sulla scia
di importanti intuizioni della dottrina ottocentesca, si tratti di previsioni molto antiche, risalenti probabilmente al pieno periodo repubGoldin 1977, 53 ss.
Una discussione della particolare configurazione del diritto di escludere nel caso
di common property in Fennel 2011, 14 ss.
67
Questa è la prima caratteristica individuata come discrimine tra sistemi open access e common property, ad esempio in Rose 2003, 106 dove i sistemi di proprietà collettiva sono definiti «property on the outside, commons on the inside».
68
È la strategia di gestione delle risorse che Carol Rose ha chiamato RIGHTWAY
in Rose 1991, 9 («regulate the way in which the resource is used or taken, effectively
prescribing the methods by which users may take the resource»); cfr. anche Smith
2002, 456.
69
In generale sulle caratteristiche tecniche di questi peculiari strumenti giudiziari si
può fare affidamento a Capogrossi Colognesi 1971, 901 ss. Si noti però che alcune
fonti epigrafiche sembrano attestare l’operatività di rimedi funzionalmente assimilabili
a quelli interdittali previsti nell’editto del pretore anche nel quadro degli ordinamenti
coloniari e municipali: cfr. Schiavon 2019, 95 ss.
65
66
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
15
blicano 70. Tra i beni oggetto di tale disciplina assumono particolare rilievo fiumi e strade pubbliche: per essi, infatti, sono previsti dei rimedi ad hoc che vanno ad aggiungersi a quelli volti a tutelare genericamente tutte le res in usu publico (o loca publica).
Nel complesso, tali rimedi interdittali tutelano un ampio ventaglio di interessi e posizioni giuridiche individuali rispetto a vie e
strade, come il diritto di uso esclusivo fondato su una concessione
dell’autorità pubblica (in particolare l’interdetto de loco publico
fruendo) 71 o l’interesse al mantenimento delle utilità individuali (commoda) tratte da una res in usu publico non in forza di un particolare
titolo giuridico legittimante lo sfruttamento del bene, ma in virtù del
semplice ius civitatis (interdetto ne quid in loco publico fiat) 72.
In particolare, però, voglio portare l’attenzione su due coppie di
interdetti, miranti a tutelare le condizioni di utilizzabilità rispettivamente di viae publicae (cd. interdetti de viis) e flumina publica (cd. interdetti de fluminibus). Per ciascuna di queste res in usu publico il pretore aveva approntato un interdetto proibitorio e uno restitutorio,
con cui era sanzionato ex ante (nel caso del rimedio proibitorio) o ex
post (nel caso di restitutorio) l’uso di questi beni contrario alla loro
destinazione pubblica, in quanto incidente sulla loro navigabilità o
percorribilità.
L’ambito applicativo, e così lo scopo di tutela di questi interdetti,
è infatti esplicitato nel commento ulpianeo alle formule edittali di tali
rimedi: così, per quanto riguarda gli interdetti de fluminibus, è affermato che rientra nella sfera di applicabilità di tale rimedio qualunque
comportamento che navigationem incommodet difficilioremve faciat
vel prorsus impediat 73; mentre per le viae si dice che sarà sanzionato
qualunque comportamento si usus eius ad commeandum corrumpatur,
hoc est ad eundum vel agendum 74. Tali rimedi, perlomeno nell’interpretazione che ne dà Ulpiano, erano dunque rivolti a inibire le condotte incidenti sulla generale utilizzabilità da parte del pubblico di
strade e fiumi come vie di comunicazione.
70
63 ss.
Questa in particolare l’opinione di Biscardi 1938, 84 ss. e di Labruna 1971,
Si leggano le osservazioni in Schiavon 2019, 366 ss.
Su cui mi permetto di rimandare ancora a Schiavon 2019, 145 ss.
73
Ulp. 68 ad ed. D. 43.12.1.15.
74
Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.32.
71
72
16
ALVISE SCHIAVON
Nella dottrina romanistica è discussa la natura dei rimedi interdittali e la qualificazione giuridica della situazione sostanziale sottostante protetta attraverso tali strumenti giurisdizionali. Le alternative
attorno cui si è polarizzato il dibattito sono note: da un lato, la tesi
che vede gli interdetti come strumenti di tutela di diritti soggettivi 75,
dall’altro quella che preferisce ricondurre tale forma di tutela piuttosto a una sfera amministrativistica di protezione di interessi non assurgenti al carattere di diritti veri e propri 76. L’alternativa, posta in
questi termini, rischia di diventare una questione puramente nominalistica, e il dibattito di coinvolgere più le categorie e gli schemi giuridici moderni che l’esatta comprensione dei fenomeni storici. In
questa sede si seguirà una strada alternativa, tentando di comprendere
la tutela approntata con gli strumenti interdittali – e in particolare
con gli interdetti de locis publicis – entro quello che è stato definito il
paradigma dei property rights 77.
La nozione di property rights affonda le radici nella scienza economica, che con questo termine non si riferisce tanto a un diritto formalizzato e sanzionato con precisi rimedi giurisdizionali, quanto
piuttosto al concreto potere di un soggetto di prevalere su un altro
soggetto nel caso di conflitto sull’utilizzo o l’accesso a una risorsa 78.
Questa nozione, che suggerisce una visione del property right come fascio di diritti essenzialmente relativi 79, è quella assunta pure nella riflessione di Harold Demsetz 80 ma rimane a un livello di analisi che
possiamo chiamare pre-giuridico, nel senso che non indaga la natura
degli strumenti predisposti per concretizzare su un piano giurisdizioBiscardi 1956.
Gandolfi 1955.
77
Circa l’utilità di questa nozione per comprendere alcuni istituti tipici del diritto
romano della proprietà, oltre ai già citati Kehoe e Bannon, Jakab 2015, 107 ss.
78
Una definizione canonica in Furubotn - Pejovich 1972, 1139: «property rights do not refer to relations between men and things, but, rather, to the sanctioned
behavioral relations among men that arise from the existence of things and pertain to
their use».
79
In consonanza, dunque, con la concezione anglosassone della ownership come
bundle of rights, delineata nel celeberrimo contributo di Honoré 1961, 113 ss. Per una
critica alla ‘relativizzazione’ del diritto di proprietà nella dottrina di law and economics,
v. Smith 2001, 357 ss. Un’utile comparazione tra la visione anglosassone e quella degli
ordinamenti di civil law in punto di concezioni proprietarie in Gambaro 2012, 62 ss.
80
Demsetz 1967, 347: «It is important to note that property rights convey the
right to benefit or harm oneself or others».
75
76
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
17
nale tale prevalenza nella controversia sull’uso di una risorsa. Un passaggio cruciale verso la definizione dei caratteri tecnico-giuridici della
tutela dei property rights è rappresentato dal lavoro di Guido Calabresi
e Arthur Douglas Melamed 81. In tale fondamentale contributo 82, l’attenzione non è infatti limitata all’allocazione di situazioni sostanziali
(poteri d’accesso al bene, definiti dagli autori entitlements), oggetto ad
esempio dell’approccio demsetziano al problema dei property rights,
ma si sposta sulle forme di protezione (remedies) di tali entitlements 83,
che prendono la forma di property rule (tutela inibitoria ex ante o
injuction), liability rule (tutela risarcitoria ex post o liability) e inalienability rule 84.
Gli interdetti a tutela della generale utilizzabilità come vie di comunicazione di strade e fiumi possono essere facilmente inquadrati in
questo schema concettuale, che rappresenta a tutt’oggi la base dell’analisi economica dei diritti proprietari. Essi, infatti, predispongono
un rimedio inibitorio e un rimedio risarcitorio, entrambi inalienabili,
che concretizzano il potere del postulante di prevalere sul convenuto
in una controversia relativa all’utilizzo di fiumi e strade come vie di
comunicazione.
I rimedi inibitori si concretizzano nella possibilità per il postulante di richiedere un interdetto cosiddetto proibitorio volto a bloccare preventivamente qualunque attività che pregiudichi l’utilizzabilità del bene nella sua veste di via di comunicazione. Le formule di
Calabresi - Melamed 1972.
Sesto nella già citata classifica degli articoli più citati nella storia americana stilata da Shapiro - Pearce 2012.
83
Entitlement può essere definito come la legittimazione di una parte a prevalere su
di un’altra nel caso di conflitto tra le due dovuto a interessi incompatibili: cfr. per tutti
Mattei 1987, 89.
84
Alla luce di questa classica ricostruzione, dunque, il modello cosiddetto ‘decentrato’ di controllo delle esternalità negative attraverso allocazione di diritti privati si arricchisce di sfumature, poiché la creazione di un sistema di diritti individuali non dipende solo dalla definizione di un certo asset di entitlements, ma anche dalla scelta dei
remedies posti a loro tutela. Così esplicitamente Calabresi - Melamed 1972, 1105:
«Whenever society chooses an initial entitlement it must also determine whether to
protect the entitlement by property rules, by liability rules, or by rules of inalienability». Analogamente Lueck - Miceli 2007, 231 (secondo cui la tesi per cui il modello
‘decentrato’ «suggests an expanded set of remedies for controlling externalities, which is
best exemplified by the choice between property rules and liability rules», come sostenuto appunto nell’articolo di Calabresi e Melamed); Mattei 1987, 106 e Mattei
2000, 62 ss.
81
82
18
ALVISE SCHIAVON
tali interdetti sono riportate nel commentario di Ulpiano all’Editto
del Pretore in Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.20 85 e D. 43.12.1 pr. 86. In essi
trova concretizzazione il diritto del legittimato attivo di inibire qualunque comportamento opportunistico contrario alla destinazione
del bene a fungere da via di comunicazione.
Accanto a tali forme di tutela preventiva, troviamo però anche dei
rimedi volti a sanzionare ex post, dunque per mezzo di una liability
rule, l’attività del soggetto che abbia violato la destinazione del bene
a via di comunicazione pubblica: si tratta in particolare delle versioni
restitutorie dei già citati interdicta de viis e de fluminibus. Ulpiano ne
riferisce le formule in Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2 87 e D. 43.12.1.19 88.
Si tratta di fattispecie identiche alle equivalenti proibitorie, tranne sul
punto del tipo di tutela accordata attraverso l’esperimento del rimedio: attraverso di esse il postulante richiede all’istanza giurisdizionale
la rimessa in pristino del bene, ovvero il pagamento di una somma a
titolo di risarcimento; possono essere dunque inquadrate tra i remedies a tutela di un property right basati su una liability rule.
Se gli interdetti a tutela di strade e fiumi possono essere definiti
come property rights, l’analisi del profilo della legittimazione consente
di verificare sul piano storico-giuridico l’operatività della regola di allocazione diffusa di property rights relativi a common goods.
La dottrina romanistica è infatti concorde nel riconoscere per gli
interdetti in questione la legittimazione del quivis ex populo 89, ovvero
una forma di legittimazione diffusa a tutti i cittadini senza la necessità di provare un interesse individualizzato all’esperimento del rimedio stesso. Tale conclusione è fondata su alcune considerazioni esegetiche. In primis, dall’assenza nella formula interdittale di qualsiasi ri85
Ulp. 68 ad ed. D.43.8.2.20: Ait praetor: ‘In via publica itinereve publico facere
immittere quid, quo ea via idve iter deterius sit fiat, veto’.
86
Ulp. 68 ad ed. D.43.12.1 pr.: Ait praetor: ‘Ne quid in flumine publico ripave eius
facias neve quid in flumine publico neve in ripa eius immittas, quo statio iterve navigio
deterior sit fiat’.
87
Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2: Praetor ait: ‘quod in via publica itinereve publico factum
immissum habes, quo ea via idve iter deterius sit fiat, restituas’.
88
Ulp. 68 ad ed. D. 43.12.1.19: Deinde ait praetor: ‘Quod in flumine publico ripave
eius fiat sive quid in id flumen ripamve eius immissum habes, quo statio iterve navigio
deterior sit fiat, restituas’.
89
Così tra gli altri Ubbelohde 1899, 418; Bruns 1864, 341 ss. anche nella traduzione in italiano, con prefazione e note di V. Scialoja, in Bruns 1882, 166 ss.;
Fadda 1894, 84 ss.; Branca 1941, 162; Scherillo 1947, 158.
ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO ROMANO DEI BENI PUBBLICI
19
ferimento testuale a una particolare condizione soggettiva: l’ordine è
costruito in modo del tutto impersonale, senza che il rimedio sia rivolto a qualcuno (come nelle formule ei interdictum dabo), né la fattispecie oggettiva contiene alcun elemento di individualizzazione
(come il ‘damnum illi’ nel caso del ne quid in loco publico) 90; in secondo luogo Ulpiano nel commentare gli interdetti de viis li qualifica
espressamente come populares 91, sebbene tale affermazione non possa
essere considerata decisiva al fine di stabilire il regime di legittimazione dei rimedi stante l’incertezza in cui ancora versa la dottrina romanistica in punto di ricostruzione della nozione di actio popularis 92.
Ciò significa che il potere di inibire i comportamenti opportunistici (free riding) incidenti sulla possibilità di usare il bene come via di
comunicazione è concesso ugualmente a tutti i cittadini, senza che
per l’accettazione della postulatio davanti al Pretore fosse necessario
dimostrare la lesione di un interesse particolarmente individualizzato
sul richiedente.
Alla luce di questa caratteristica, gli interdetti in esame possono
essere concepiti come rimedi posti a tutela di un uguale diritto di
tutti i cittadini all’utilizzo di viae e flumina come mezzi di trasporto.
Come si vede, sebbene non si tratti in senso proprio di esclusione di
un soggetto dall’accesso del bene, si tratta pur sempre di una forma
di tutela allocata in modo diffuso tra tutti membri della comunità, in
grado di affrontare in modo efficiente e decentrato, alla luce dei problemi messi fuoco dall’analisi economica del diritto, il problema del
free riding come questione centrale nella gestione delle risorse a fruizione collettiva 93.
Accorda un rilievo decisivo a questo profilo linguistico nella costruzione della
formula in particolare Berger 1916, 1621 ss.
91
Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.34: Hoc interdictum perpetuum et populare est condemnatioque ex eo facienda est, quanti actoris intersit.
92
Una valutazione critica dell’utilità di applicare la nozione di actio popularis – con
cui la dottrina tradizionale si riferisce ai rimedi a legittimazione diffusa – con riferimento agli interdetti de locis publicis con legittimazione del quivis e populo in Schiavon
2019, 64 ss.
93
Sulla proficuità di tale modello, basato sull’operatività di rimedi di tipo possessorio come gli interdicta, per la delineazione di un modello di tutela dei commons alternativo a quello basato sulla proprietà rinvio a dalla Massara - Schiavon 2021, 561
ss. Interessanti le riflessioni sull’esperienza nord-americana delle citizens suits e delle
azioni popolari come possibile strumento di partecipazione dei cittadini alle funzioni di
governo svolte da Gambaro 1996, 61 ss.
90
20
ALVISE SCHIAVON
6. Conclusioni. – Alla luce di quanto detto nei paragrafi che precedono, possiamo osservare come il sistema interdittale romano di repressione delle condotte contrarie all’utilizzabilità di strade e fiumi
come vie di comunicazione possa essere ricondotto entro l’orizzonte
concettuale della analisi economica del diritto.
La circostanza risulta ancora più degna di attenzione in quanto
tale metodologia rimane fortemente debitrice della tradizione giuridica di common law all’interno della quale essa è stata elaborata.
Attorno a tali categorie, come autorevolmente osservato, si potrebbero allora verificare la (ri)convergenza delle due famiglie del
pensiero giuridico occidentale (quella di common law e quella di civil
law) e il superamento di una serie di reciproche incomprensioni ormai tralatizie, sia tra gli studiosi continentali che anglosassoni 94.
A partire almeno dal giudizio formulato da Richard Posner nel
suo Economic Analysis of Law 95, è radicata tra gli studiosi anglo-americani l’idea di una maggior efficienza degli ordinamenti di common
law rispetto a quelli continentali a base (più strettamente) romanistica: è la cosiddetta common law efficiency hypothesis, basata prevalentemente sulla peculiare struttura del sistema giudiziario nei paesi di
common law. Lo studio dell’esperienza giuridica romana alla luce dell’armamentario concettuale dell’analisi economica del diritto ha invece mostrato come la soluzione romana al problema della gestione di
taluni beni a fruizione collettiva possa essere considerata efficiente.
Questo conferma, a mio avviso, la relatività dei giudizi in merito
alla caratterizzazione ‘ideologica’ dei due rami della tradizione giuridica occidentale: prima, la questione del cosiddetto individualismo
del diritto romano 96, poi quella – opposta e speculare – dell’ideologia
individualistica, filo-proprietaria e borghese che l’analisi economica
Così in particolare Mattei 1998, 69 ss. e Pardolesi 2015, 97 ss.
Che si fa risalire a Posner 1972, 98 ss. Si possono leggere anche le osservazioni,
pubblicate in occasione dell’uscita della seconda edizione del manuale di Posner, in cui
il tema della ‘tendency toward efficiency’ dei sistemi di common law copre uno spazio ancora maggiore, in Rubin 1977, 51 ss. e in Priest 1977.
96
Contro l’idea tralatizia di un carattere borghese e anti-sociale del diritto romano
e degli ordinamenti ad esso ispirati si era già pronunciato con forza De Martino 1941,
1 ss. (temi ripresi in De Martino 1979, 270 ss., con una preziosa Introduzione in cui
l’autore ricontestualizza alcune prese di posizione). Ugualmente critico verso questa caratterizzazione dell’ordinamento romano si è più di recente mostrato Maddalena
2012.
94
95
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21
del diritto avrebbe ereditato dalla concezione blackstoniana della proprietà 97.
Un’analisi più ravvicinata ha permesso di osservare come le due
tradizioni possano interagire, e difficilmente si facciano ri(con)durre
a etichette ideologizzanti. In particolare, una analisi delle fonti permette di rinvenire effettivamente nella disciplina delle antiche res in
usu publico – al di là di un generico e talvolta retorico rinvio al diritto
romano nella forma di una citazione di letteratura secondaria – un
possibile modello istituzionale per la gestione del problema del free
riding sulle vie di comunicazione.
Dalla riconducibilità delle fonti entro schemi concettuali tanto
distanti dalla tradizione romanista, lo studioso di diritto romano trae
innanzitutto conferma della legittimità di uno studio storico condotto con un armamentario concettuale proveniente da una tradizione non immediatamente riconducibile al modello romanistico 98:
purché, ovviamente, l’analisi sia sempre condotta con rigore specialmente al momento del confronto tra il modello euristico e le fonti
antiche 99.
Per quanto riguarda il differente piano dell’utilità di tali ricerche
per la miglior comprensione del diritto romano, mi pare che lo studio delle fonti relative agli interdicta posti a tutela delle res in usu publico alla luce del cosiddetto ‘property right paradigm’ possa contribuire a superare quegli ‘errori di impostazione’ che Orestano riconosceva nella dottrina tradizionale relativa al problema dell’imputazione
di situazioni giuridiche nel quadro dell’organizzazione pubblica romana 100. In particolare, l’utilizzo di strumenti concettuali estranei alla
tradizione romanistica potrebbe servire ad evitare quel ‘pregiudizio
statalista’ 101 alla base dell’annosa questione circa la qualificazione dogmatica del rapporto dello stato romano con le res in usu publico. Studiando il regime di tutela interdittale di tali beni alla luce del concetto di property rights, si può affermare che i soggetti cui è riconosciuto un entitlement di tipo proprietario sulle res in usu publico – e in
Si leggano ad esempio le considerazioni svolte in Mattei - Quarta 2018, 11 ss.
In questo senso mi sembrano importanti le riflessioni sviluppate nella Premessa
di C.A. Cannata a Vacca 1976.
99
Orestano 1989, 409 ss.
100
Orestano 1989, 185 ss.
101
Orestano 1989, 196 ss.
97
98
22
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particolare su strade e fiumi – sono i cives in quanto potenziali postulanti in un processo interdittale. Questa osservazione può condurre a riconsiderare la (apparentemente contraddittoria) affermazione di Ulpiano secondo cui le res in usu publico, pur non essendo
considerabili in patrimonio fisci 102, sunt alicuius 103. Tali beni, infatti,
pur non essendo annoverabili tra le res su cui gli apparati dello stato
possono vantare un rapporto di tipo proprietario, sunt alicuius perché, come affermato nelle Istituzioni di Gaio, ipsius universitatis esse
creduntur 104, nel senso che sono soggetti a un regime di protezione interdittale che concretizza sul piano tecnico-giuridico la loro appartenenza collettiva alla cittadinanza 105.
102
V. infatti Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.4: Hoc interdictum ad ea loca, quae sunt in fisci patrimonio, non puto pertinere: in his enim neque facere quicquam neque prohibere privatus potest: res enim fiscales quasi propriae et privatae principis sunt. igitur si quis in his
aliquid faciat, nequaquam hoc interdictum locum habebit: sed si forte de his sit controversia, praefecti eorum iudices sunt. 5. Ad ea igitur loca hoc interdictum pertinet, quae publico
usui destinata sunt, ut, si quid illic fiat, quod privato noceret, praetor intercederet interdicto
suo.
103
Come si desume dalla lettura di Ulp. 67 ad ed. D. 43.1.1: Videamus, de quibus
rebus interdicta competunt. et sciendum est interdicta aut de divinis rebus aut de humanis
competere. divinis, ut de locis sacris vel de locis religiosis. de rebus hominum interdicta redduntur aut de his, quae sunt alicuius, aut de his, quae nullius sunt. quae sunt nullius, haec
sunt: liberae personae, de quibus exhibendis ducendis interdicta competunt. quae sunt alicuius, haec sunt aut publica aut singulorum. publica: de locis publicis, de viis deque fluminibus publicis. quae autem singulorum sunt, aut ad universitatem pertinent, ut interdictum
quorum bonorum, aut ad singulas res, ut est interdictum uti possidetis, de itinere actuque.
104
Gai 2.11: Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse; ipsius enim universitatis esse creduntur.
105
Ho sviluppato questa ricostruzione in Schiavon 2019, 38 ss.
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Francesca Rossi
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
NELL’ESPERIENZA DI ROMA ANTICA
1. Premessa. – Nell’ambito di una riflessione che prenda in esame
le categorie dei ‘beni’ elaborate dalla scienza giuridica di Roma, interessanti elementi di analisi possono essere tratti dallo studio delle res
che compongono la città, intesa come complesso di spazi e cose destinato alla fruizione di tutti i cittadini. Dalle testimonianze in nostro
possesso emerge, infatti, come tali res – considerate come opere urbanistiche in senso lato e, dunque, comprensive sia di opere infrastrutturali sia di opere artistiche – abbiano da sempre svolto un ruolo
prioritario, non soltanto sotto il profilo ‘estetico’ legato all’aspetto
della città, ma anche con riferimento a finalità di tipo ‘sociale’ e ‘politico’.
Dal punto di vista estetico, è indubbio che il riflesso di Roma è
indissolubilmente legato al patrimonio culturale ed artistico che la
stessa seppe costruire nel corso dei secoli: gli innumerevoli monumenti (statue, edifici, teatri, templi, mosaici) consegnatici dal passato,
tanto quanto le opere letterarie e storiografiche, recano il racconto
della storia dell’Urbs, conservandone il ricordo e celebrandone in
eterno la grandezza.
Senza disconoscere questo fondamentale aspetto, occorre altresì
constatare l’utilizzo politico che ebbe ad oggetto l’edilizia e l’architettura, le quali, oltre a determinare l’affermazione della gloriosa immagine di Roma, furono spesso utilizzate dai protagonisti della scena politica per consolidare il proprio governo. Al riguardo, è emblematico
il fenomeno di espansione artistico-urbanistica realizzatosi soprat-
32
FRANCESCA ROSSI
tutto a partire dal principato augusteo e testimoniato dalle pagine degli autori del tempo 1.
Parimenti, le opere cittadine hanno nei secoli assolto anche una
funzione di tipo sociale, contribuendo alla costruzione della comune
identità del populus 2 e al riconoscimento dello stesso in un complesso
di beni che ne racchiudono la storia, tramandandola alle generazioni
future.
Il ruolo politico-sociale ricoperto da tali res e il loro valore estetico rappresentano le necessarie premesse per inquadrare e comprendere la centralità attribuita dall’esperienza giuridica romana alla città
– nella sua duplice manifestazione di urbs, da un lato, civitas, dall’altro – non solo attraverso l’attenzione riservata allo sviluppo urbano
come chiave di stabilizzazione del sistema politico, ma anche mediante la salvaguardia del patrimonio comune attraverso la predisposizione di appositi strumenti di tutela, volti a garantire la fruibilità di
tale patrimonio da parte dei cives e, in ultima analisi, l’utilitas publica,
considerata anche sotto il profilo artistico e culturale 3.
2. Il valore estetico della città: l’immagine di Roma come specchio
della sua potenza. – Come accennato, la consapevolezza circa l’importanza della ‘città’ a fini sociali e politici era già presente al pensiero antico, che nel corso dei secoli ne ha in più occasioni offerto conferma.
L’esperienza di Roma, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale e
1
Tra questi possiamo limitarci a menzionare due grandi nomi, Tacito e Svetonio,
di cui infra saranno esaminate alcune testimonianze.
2
Solidoro 2020, 102 sottolinea come «i raffinati strumenti di tutela dei beni culturali che già l’ordinamento giuridico romano aveva predisposto» siano conseguenza
dell’acquisita «convinzione che storia, cultura ed arte, nel loro insieme, costituiscono il
più formidabile fattore identitario di ogni popolo».
3
Così Vacca 2017, 259, la quale sottolinea come in effetti l’esigenza di tutela dei
beni culturali si manifesti «in tutte le civiltà», essendo il patrimonio artistico «considerato una ‘ricchezza’ della collettività, e quindi ‘protetto’ in varie forme e sottoposto a
vincoli di varia natura e di varia estensione». Sull’utilitas publica come elemento fondativo della tutela del patrimonio artistico e culturale v. anche Settis 2009, 4; Settis
2011, 52 s. A favore della fruibilità del patrimonio artistico da parte della collettività si
pronuncia Plinio il Vecchio, il quale ricorda un discorso di Agrippa recante la proposta
di rendere pubblici tutti i quadri e le statue; cosa che, secondo Plinio, sarebbe stata più
conveniente rispetto al loro ‘esilio’ nelle case private: Plin. nat. 35.26: M. Agrippa …
exstat certe eius oratio magnifica et maximo civium digna de tabulis omnibus signisque publicandis, quod fieri satius fuisset quam in villarum exilia pelli.
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
33
letteraria dei personaggi che ne scrissero la storia, ce ne consegna
molteplici testimonianze, che si prestano ad essere analizzate attraverso le due chiavi di lettura pocanzi menzionate (il profilo estetico e
quello socio-politico), dalle quali emerge una centralità della città in
ordine alla costruzione del concetto di romanità.
Con riferimento al valore ‘estetico’, l’esperienza romana si preoccupò di preservare l’immagine della città, cosciente che il modo in cui
si fosse presentata al mondo avrebbe costituito in certa misura uno
specchio del suo peso politico 4. Per questo, soprattutto a partire da
una certa epoca, all’interno degli organi di governo si diffuse la convinzione che alla grandezza politica dell’Urbs dovesse corrispondere
una pari magnificenza estetica. Tale consapevolezza sfociò, quindi, da
una parte in una tendenza all’abbellimento della città attraverso edifici monumentali e opere d’arte, dall’altra nella predisposizione di
una regolamentazione volta a garantire la cura del patrimonio cittadino. In verità, nonostante la spiccata sensibilità per il fenomeno ‘artistico’ e ‘culturale’ – e in generale per il ‘senso del bello’ 5 – maturata
da Roma nel corso dei secoli (certamente favorita dai contatti con il
mondo greco, essendo la Grecia «la vera patria dell’arte antica» 6), il
diritto romano non elaborò una risposta unitaria in ordine alla tutela
di ciò che l’esperienza contemporanea individua come ‘patrimonio
artistico e culturale’, né predispose organi pubblici deputati a «dichiarare un bene culturalmente interessante» 7. Questo non significa,
4
Nel discorso letto nella solenne inaugurazione dell’anno accademico 1893-94
Carlo Fadda affermava: «Le costruzioni romane riproducono fedelmente il carattere del
popolo. Maestose, gravi, severe, rispondenti al concetto della grandezza romana, si elevano quasi sfida a’ secoli a perpetua memoria di essa» (Fadda 1894, 18).
5
Solidoro 2020, 68. Secondo Cortese 2017, 13 la circostanza che il rapporto
con la cultura (in sé «di natura strettamente personale» e frutto di una «pulsione spontanea») si manifesti «in una civiltà così pragmatica» come quella romana, che appare
quasi «rude» se paragonata alle civiltà orientali (come quella greca e quella egizia), testimonierebbe «l’impulso connaturato dell’essere umano verso quello che Platone definiva il Bello, quale ei|do"». Cfr. anche Liva 2020, 120, il quale, attraverso l’analisi di alcuni brani ciceroniani, ritiene di poter rinvenire segnali di «un atteggiamento dei Romani nei confronti dell’arte capace di trascendere la mera contemplazione della
bellezza». Sul ‘sentimento del bello’ nell’universo culturale romano v. anche Corbo
2019, 147 ss.
6
Fadda 1894, 14.
7
Franchini 2016, 695. Cfr. anche Cortese 2020, 107, la quale rileva che «la
sensibilità per la cultura, soprattutto per le cose d’arte, è tema ben diverso dalla confi-
34
FRANCESCA ROSSI
però, che Roma nutrisse un assoluto disinteresse verso tali beni o che
non avesse contezza della loro importanza; al contrario, è possibile registrare rispetto ad essi una certa attenzione, che sfociò nell’adozione
di varie disposizioni destinate a preservare la città tanto in relazione al
decoro urbano (decus urbium) 8, quanto in rapporto al suo valore estetico. Al riguardo, è sufficiente pensare al complesso di regole edilizie
e paesaggistiche, che imponevano non solo limiti di gestione a tutela
degli edifici pubblici e privati con l’obiettivo di conservare l’estetica
dei palazzi e delle strade, ma anche limiti alla fruibilità delle risorse
comuni, come dimostra l’attenta regolamentazione delle acque 9.
Com’è noto, infatti, lo sviluppo urbanistico e le tecniche di costruzione edilizia erano disciplinate attraverso un complesso compendio normativo, di cui abbiamo dettagliate informazioni grazie alle pagine degli autori dell’epoca, in primis quelle di Vitruvio. Quest’ultimo
offre nel De architectura una sorta di trattato enciclopedico dell’architettura e dell’edilizia 10, celebrate nella loro natura scientifica 11. I dieci
gurazione tecnica di una tutela giuridica». In generale, l’opinione degli studiosi è concorde nel ritenere che la sensibilità di Roma per il fenomeno culturale ed artistico non
debba indurci a trapiantare nell’esperienza antica soluzioni proprie della modernità, anticipando nozioni e concetti che sono frutto di percorsi interpretativi che hanno impiegato secoli per giungere alla configurazione che attualmente possiedono. Per un
breve excursus storico sulla nascita della coscienza di tutela dei beni culturali cfr. Tosco
2014, 11 ss.
8
Al rapporto tra diritto e decoro urbano in Roma antica è dedicata la recente monografia di Chiara Corbo: Corbo 2019.
9
Vacca 2017, 259. Per uno studio dell’uso comune dell’acqua in età imperiale v.
Buzzacchi 2016, 743 ss.
10
In sostanza, l’opera vitruviana compendia il complesso delle conoscenze teoriche
e pratiche fino ad allora acquisite nel campo dell’architettura e dell’ingegneria. Per alcuni riferimenti a brani di Vitruvio e per la relativa bibliografia cfr. Franchini 2016,
698, nt. 24.
11
Per confermare la nobiltà dell’architettura come scienza, Vitruvio sottolinea che
gli architetti devono essere non solo ingegnosi, ma anche attenti alla disciplina, poiché
«né l’ingegno senza la disciplina né la disciplina senza l’ingegno può rendere un artefice
perfetto» (Vitr. arch. 1.1.3: Itaque eum etiam ingeniosum oportet esse et ad disciplinam
docilem; neque enim ingenium sine disciplina aut disciplina sine ingenio perfectum artificem potest efficere); anzi, per meglio dire, debbono essere attenti ‘alle discipline’: infatti,
la conoscenza dell’architetto è corredata da molte materie e vari saperi (Vitr. arch.
1.1.1: Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata), non soltanto di matrice scientifica (come il disegno, la geometria, l’aritmetica), ma anche letteraria (Vitr. arch. 1.1.4: Litteras architectum scire oportet, uti commentariis memoriam
firmiorem efficere possit), storica (Vitr. arch. 1.1.5: Historias autem plures novisse oportet,
quod multa ornamenta saepe in operibus architecti designant, de quibus argumenti ratio-
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
35
libri in cui è suddivisa l’opera contengono non solo elementi definitori in ordine ai concetti-chiave di ‘architettura’ e di ‘architetto’ e alla
nascita dell’edilizia, ma anche aspetti di dettaglio sui materiali, sulle
diverse tecniche di costruzione e, in generale, come lo stesso autore
afferma in apertura dei suoi volumi, su «tutti i princìpi che regolano
questa disciplina» (namque his voluminibus aperui omnes disciplinae
rationes) 12.
Oltre a contemplare una precisa regolamentazione dell’edilizia
con riferimento alle nuove costruzioni, l’esperienza di Roma antica
dimostrò attenzione anche alla cura e alla preservazione di quelle esistenti, predisponendo apposite regole di amministrazione con riferimento a categorie di beni di cui era evidentemente avvertita la peculiare rilevanza. Questo fenomeno si accrebbe in conseguenza del progressivo accentramento politico realizzatosi nei secoli dell’impero ed è
testimoniato dalla tendenza degli organi pubblici a limitare gli interventi dei privati sui beni artistici e sul patrimonio immobiliare urbano, o subordinandoli ad un’autorizzazione senatoria o imperiale, o
vietandoli in toto. Abbiamo notizia, infatti, di provvedimenti che sancivano il divieto non solo di demolire edifici di interesse artistico, ma
anche di asportare parti ad essi congiunte o annesse, come dipinti,
statue, colonne o marmi 13, in ossequio ad un principio di unità arnem, cur fecerint, quaerentibus reddere debent), filosofica (Vitr. arch. 1.1.7: Philosophia
vero perficit architectum animo magno et uti non sit adrogans, sed potius facilis, aequus et
fidelis, sine avaritia, quod est maximum; …) e naturalmente giuridica. Le nozioni giuridiche sono, infatti, indispensabili per assicurare il rispetto delle regole relative a misure,
distanze e luci, in modo da prevenire future controversie sulla costruzione degli edifici.
Cfr. Vitr. arch. 1.1.10: Iura quoque nota habeat oportet, ea quae necessaria sunt aedificiis
<locis> communibus parietum ad ambitum, stillicidiorum et cloacarum, luminum, item
aquarum ductiones et cetera, quae eiusmodi sunt.
12
Vitr. arch. 1.P.3. Nelle pagine vitruviane viene prestata attenzione sia all’edilizia
pubblica sia a quella privata. Relativamente alla prima sono descritte non solo le costruzioni religiose (con particolare riferimento ai templi e ai diversi ordini architettonici
ereditati dal modello greco), ma anche gli edifici civili come i teatri, i bagni, le palestre,
i porti, le carceri e naturalmente il luogo pubblico per elezione, in quanto centro della
vita civile, economica e giuridica, rappresentato dal Foro. Quanto poi all’edilizia privata, di questa sono presi in considerazione tanto gli aspetti tecnici, come le diverse tipologie di edifici e la loro organizzazione e disposizione (rispetto di precise misure, distanze, luci), quanto quelli estetici, relativi ai finimenti e ai decori esterni.
13
Cfr. Ulp. 21 ad Sab. D. 30.41.9, sul cui contenuto si sofferma Nasti 2019, 258;
Nasti 2017, 599. In quest’ultimo contributo l’autrice ricorda che con il senatoconsulto
Osidiano, emanato nel 47 d.C. dall’imperatore Claudio (come ricorda il successivo se-
36
FRANCESCA ROSSI
chitettonica e di inseparabilità delle partes aedium 14; nonché di disposizioni che proibivano la costruzione di nuovi edifici in Roma in assenza di un’autorizzazione imperiale o, ancora, che imponevano il
preventivo restauro di quelli preesistenti e fatiscenti 15.
Accanto a tali prescrizioni, la cura del patrimonio cittadino fu
realizzata, già in epoca repubblicana, attraverso l’affidamento di mansioni di tutela, controllo e repressione ad appositi magistrati, gli edili
(aediles), responsabili della cura urbis, nel cui ambito rientrava anche
la custodia del patrimonio artistico della città 16. Successivamente, nel
corso dell’età imperiale, questo compito fu delegato ad appositi funzionari, quali il praefectus vigilum e poi, in età severiana, il praefectus
urbi ed altri particolari soggetti, generalmente qualificati come curatores 17.
La tendenza da parte degli imperatori ad assegnare la cura della
città e dei suoi beni a funzionari particolarmente qualificati testimonatoconsulto Volusiano, che ne riprende le parti più significative), «furono vietate e dichiarate nulle le compravendite di immobili realizzate a scopo di speculazione, per guadagnare, cioè, dalla demolizione degli edifici più di quanto pagato al momento dell’acquisto» (Nasti 2017, 591 s.), mentre il senatoconsulto Aciliano del 122 vietò «di disporre legati aventi ad oggetto le cose unite agli edifici» (p. 594). Sui senatusconsulta
Hosidianum e Volusianum v. Corbo 2019, 85 ss.; cfr. anche Franchini 2016, 703 ss.;
sul senatoconsulto Osidiano cfr. Procchi 2001a, 659 ss. Ulteriori disposizioni in tema
di salvaguardia del patrimonio immobiliare pubblico furono poi emanate nel corso dell’età tardoimperiale, in conseguenza dell’inasprirsi nella parte occidentale dei fenomeni
di spoliazioni di marmi ed elementi decorativi dagli edifici pubblici. Infine, prima di
giungere alla compilazione giustinianea, l’ultimo imperatore a legiferare in materia fu
Giulio Valerio Maggioriano, mediante una costituzione dal titolo De aedificiis pubblicis. Sulla Novella Maioriani v. il recente contributo di Angeletti 2019, 1 ss.; e inoltre
le pagine di Corbo 2019, 19 ss.
14
Solidoro 2020, 97, la quale richiama Procchi 2001b, 431.
15
Per un’analisi di detti divieti e prescrizioni e per i relativi riferimenti all’interno
delle fonti giuridiche si rinvia a Solidoro 2020, 95 ss.; Cortese 2020, 109 s. Sugli
obblighi di restauro e sulla conservazione delle abitazioni nel contesto urbano v. Procchi 2020, 151 ss. Dello stesso autore si ricordano anche i precedenti contributi sempre
inerenti al tema della tutela urbanistica: Procchi 2001a, 659 ss.; Procchi 2001b, 411
ss. Considerazioni in merito alla legislazione e alla politica edilizia a Roma, nonché al
connesso fenomeno dell’evergetismo, sono contenute anche nel recente saggio di
Russo 2021, 51 ss., al quale si rinvia per ulteriore bibliografia. Infine, per l’analisi di
una disposizione del IV secolo d.C. avente ad oggetto un peculiare divieto di affissione
v. Greco 2020, 185 ss.
16
Franchini 2016, 697.
17
Per una recente analisi dei diversi funzionari addetti alla cura urbis v. Solidoro
2020, 93 s.
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
37
nia, dunque, una progressiva acquisizione di consapevolezza da parte
del potere pubblico circa l’importanza della tutela del patrimonio urbano, anche sotto il profilo artistico e culturale. Alla base di tale attenzione, tuttavia, non possiamo rinvenire la volontà – tutta moderna
– di preservare un bene di interesse pubblico 18 come patrimonio comune, ma piuttosto quella di sfruttare le «potenzialità propagandistiche e celebrative» 19 della grandezza di Roma, nonché del potere personale dell’imperatore. La predisposizione di strumenti volti alla cura
dei beni della città (compresi quelli di interesse culturale ed artistico)
può infatti rivelarsi preziosa, da un lato, per il consolidamento del
potere politico, dall’altro, per l’acquisizione del consenso popolare,
attraverso il contributo che tali beni apportano al benessere dei cives 20.
Il riferimento alle finalità sociali e politiche sottese alla cura della città
consente, dunque, di esaminare un secondo profilo connesso alla tutela del patrimonio cittadino, legato non tanto al fattore estetico,
quanto ad obiettivi di tipo sociale e politico.
3. La funzione politica delle ‘res’ della città: urbanistica e opere
d’arte nella costruzione del sistema di governo. – Volendo esaminare le
diverse finalità che indussero il potere pubblico a preoccuparsi della
cura urbis, occorre considerare che, se l’effetto immediato dell’attività
di tutela del patrimonio cittadino fu certamente la salvaguardia dell’immagine e del decoro urbano, è pur vero che attraverso le opere di
‘costruzione’ edilizia fu altresì perseguito l’ulteriore obiettivo di ‘costruzione’ del sistema politico e sociale; nonché, per suo tramite, di
‘costruzione’ dello stesso concetto di romanità, garantendo così il riconoscimento e l’identificazione del corpo cittadino nell’immagine di
Roma.
18
Franchini 2016, 693 ricorda che nel diritto moderno l’interesse pubblico alla
preservazione dei beni culturali non viene meno neanche quando siano nella proprietà
dei privati, potendo tali beni essere sottoposti a vincolo mediante un provvedimento
ministeriale che, dichiarando la sussistenza dell’interesse pubblico, limiti sensibilmente
i poteri del proprietario.
19
Solidoro 2020, 92.
20
Solidoro 2020, 100, sottolinea come lo splendore della città divenga «il simbolo celebrativo della maestà imperiale, il segno della forza e della magnificenza del potere», essendo conseguenza «dell’effetto positivo del publicus adspectus sugli umori popolari».
38
FRANCESCA ROSSI
Con particolare riferimento alla ‘cura’ della città, intesa come
complesso di spazi e di beni destinati alla fruizione dei cives, dalle
fonti in nostro possesso risulta come attraverso la salvaguardia dei
‘beni pubblici’, complessivamente considerati, siano state portate
avanti finalità di tipo al contempo politico e sociale, volte in ultima
analisi a garantire la ‘tenuta del sistema’. Ad esempio, dalle testimonianze di Svetonio e Tacito emerge una forte connessione tra politica
ed immagine cittadina, che trova una prima importante manifestazione nella propensione da parte dei protagonisti della scena politica
a ‘curare’ la città anche a fini ‘strategici’. In questo senso, a partire dagli ultimi secoli della repubblica, e poi soprattutto nel corso del principato, si diffuse una progressiva attenzione al patrimonio cittadino,
nel senso non solo della sua salvaguardia, ma anche della sua implementazione, che coinvolse sia le opere infrastrutturali (strade, ponti,
acquedotti) sia quelle artistiche (edifici, monumenti, statue) 21. A partire dal principato di Ottaviano Augusto si affermò infatti una tendenza, accolta anche dai successivi imperatori, ad «usare la cultura
come strumento politico» 22: in sostanza la politica, attraverso un rinnovamento dell’aspetto della città (che da ‘latericiam’ divenne così
‘marmoream’) 23, mirava ad offrire una rappresentazione aurea dell’amministrazione della cosa pubblica e della persona dello stesso imperatore, con il quale i monumenta e le opere d’arte finivano per identificarsi 24.
21
La rapidità dei ritmi di espansione edilizia ha indotto gli studiosi a parlare di una
«smania del costrurre» (Fadda 1894, 18), ossia di «frenesia di costruire», che coinvolge
sia il settore pubblico sia quello privato «non soltanto nell’ambito dell’edilizia popolare,
ma anche in quella del lusso» (Franchini 2016, 697). Cfr. anche Solidoro 2020, 69
dove afferma che «l’esplosione del lusso» conseguente alla vittoria su Cartagine «si concretò, tra l’altro, nella febbrile costruzione di dimore eleganti ed ornate, nell’acquisto di
opere d’arte e manufatti pregiati, tra cui arredi, vesti e gioielli» sottolineando come tali
nuovi interessi «contribuirono ad alimentare il gusto per il bello e l’apprezzamento dell’arte, che presto divenne uno status symbol per gli uomini di elevata condizione sociale», confermando la sussistenza di un preciso rapporto tra «l’istruzione e l’apprezzamento del bello», da un lato, e il potere, dall’altro (p. 73).
22
Cortese 2017, 13 s. rileva, infatti, come «con Augusto si diede il via ad un ‘monumentalismo’ pubblico senza precedenti, che divenne carattere tipico della civiltà romana, come anche i suoi successori dimostrarono».
23
Svet. Aug. 28. Per il brano di Svetonio cfr. infra.
24
Cortese 2020, 110 sottolinea come a partire dal principato l’attenzione per
l’arte sveli «anche un profilo strategico, così che le opere d’arte scultorea, monumentale,
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
39
Peraltro, questo obiettivo di miglioramento dell’immagine della
città, che non a caso prese avvio soprattutto a partire dal principato
augusteo (in questo senso collocandosi in perfetta armonia con l’appellativo scelto dal princeps, che rimanda alla radice del verbo augeo 25)
fu perseguito sia attraverso un ampliamento del patrimonio cittadino,
arricchito da costruzioni nuove, sia mediante la salvaguardia di quelle
già esistenti. Al riguardo, possiamo ricordare l’ammonimento rivolto
da Vitruvio alla classe politica, attraverso l’invito a preoccuparsi non
soltanto del rinnovamento dei beni della città, ma anche della tutela
di quelli presenti 26.
Vitr. arch. 1.P.3: … haec tibi scribere coepi, quod animadverti
multa te aedificavisse et nunc aedificare, reliquo quoque tempore et
publicorum et privatorum aedificiorum, pro amplitudine rerum gestarum ut posteris memoriae traderentur curam habiturum.
L’importanza di prestare attenzione alla cura della città e delle res
urbane rinviene la propria motivazione nella funzione che queste
svolgono: la storia della città è racchiusa nei suoi beni e, per loro tramite, potrà trovare eterna sopravvivenza attraverso il ricordo tramandato alle generazioni future (pro amplitudine rerum gestarum ut posteris memoriae traderentur curam habiturum).
Questo spiega dunque anche la propensione alla munificenza a
vantaggio dello Stato – testimoniata dagli Annales tacitiani come una
pratica ancora in uso (tum in more publica munificentia) – ossia la
pittorica venivano identificate con la figura dello stesso imperatore e quindi con Roma»
(cfr. anche Cortese 2017, 13 s.). L’identificazione dell’imperatore con le opere d’arte
che lo raffiguravano trova, peraltro, conferma nella nuova configurazione assunta in età
imperiale dal crimen maiestatis. Se in epoca repubblicana era punita sotto questo titolo
«ogni attività posta in essere contro il popolo romano e la sua sicurezza», nel corso dell’età imperiale «caddero progressivamente sotto questa figura, oltre agli attentati alla
vita dell’imperatore» anche «le offese alla dignità di lui» realizzate non solo «con parole
o scritti oltraggiosi o diffamatori», ma pure attraverso «la violazione delle statue e delle
immagini che lo raffiguravano» (Santalucia 1998, 256 s.).
25
In ordine al titolo di Augustus e alla sua derivazione dal verbo augeo, tra i contributi più recenti, ai quali si rinvia per ulteriore bibliografia, si segnalano: Santi 2016,
119 s.; Todisco 2007, 443, nt. 6, e 452 s.
26
Vitruvio, rivolgendosi alla classe politica, afferma di aver scritto un trattato sull’architettura perché si è reso conto che coloro che governano, oltre a costruire nuovi
edifici, debbono anche prendersi cura di quelli esistenti, siano essi pubblici o privati, affinché questi e il ricordo delle imprese che contengono siano tramandati ai posteri.
40
FRANCESCA ROSSI
prassi, diffusa tra gli strati più alti della società, di impiegare le proprie ricchezze (exundantis opes), in particolare i proventi di guerra (hostilis exuvias) 27, al fine di abbellire la città (ornatum ad urbis), con l’obiettivo di guadagnarsi non solo il consenso della cittadinanza 28, ma
anche una gloria imperitura presso i posteri (posterum gloriam conferre). Tra i molti esempi, Tacito riporta quello di Lepido, il quale,
dopo aver chiesto al senato di restaurare ed abbellire a proprie spese
la basilica Emilia, ne rinnovò l’antico splendore (avitum decus recoluit).
Tac. ann. 3.72: Isdem diebus Lepidus ab senatu petivit ut basilicam
Pauli, Aemilia monimenta, propria pecunia firmaret ornaretque.
Erat etiam tum in more publica munificentia; nec Augustus arcuerat
Taurum, Philippum, Balbum hostilis exuvias aut exundantis opes ornatum ad urbis et posterum gloriam conferre. Quo tum exemplo Lepidus, quamquam pecuniae modicus, avitum decus recoluit. …
Peraltro, una simile tendenza non era propria soltanto dei protagonisti della scena politica, ma anche di cittadini facoltosi, i quali esibivano la propria generosità attraverso il compimento di ‘buone
azioni’ – che evocano il fenomeno dell’evergetismo 29, tipico della
Grecia e dei regni ellenistici – quali la ristrutturazione di strade ed
Sull’utilizzo del bottino di guerra a fini celebrativi ed ornamentali v. anche la testimonianza di Livio relativa alla conquista di Siracusa del 212 a.C.: … ornamenta urbis, signa tabulasque quibus abundabant Syracusae, Romam deuexit, hostium quidem illa
spolia et parta belli iure. Livio individua in tale momento l’inizio dell’ammirazione romana per le opere dell’arte greca, che indusse a spogliare ogni luogo, sacro e profano:
… ceterum inde primum initium mirandi Graecarum artium opera licentiaeque hinc sacra profanaque omnia uolgo spoliandi factum est … (Liv. 25.40). Sullo spoglio di opere
d’arte operato dal generale Marcello in occasione dell’assedio di Siracusa cfr. anche
Plut. Marc. 21.
28
Solidoro 2020, 99 sottolinea come «le iniziative imperiali, così come i finanziamenti privati di abbellimento della città, siano in larga parte operazioni demagogiche, utili all’acquisizione di consensi mediante munificenza e liberalità».
29
La pratica dell’evergetismo civico rappresenta il contesto nel quale si inserisce il
fenomeno della dicatio ad patriam, per la quale si rinvia a Falcon 2020, 3 ss. In merito alle incerte origini di questo moderno istituto e ai possibili rapporti di derivazione
rispetto alla prassi romana consistente nell’offerta e destinazione (dedicatio) di beni privati alla perenne fruizione pubblica, si vedano anche le osservazioni di Solidoro 2020,
80 ss. Un riferimento a dicatio e legatum ad patriam è presente pure in Settis 2009, 4;
Fasolino 2020, 7; Cortese 2020, 108.
27
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
41
edifici pubblici, o più in generale l’elargizione di doni alla comunità,
come statue, dipinti o altre opere d’arte, destinate all’abbellimento
dello spazio pubblico (quae ornamenta rei publicae sunt futurae) 30.
Un’ulteriore conferma di tale attenzione alla cura del valore estetico della città proviene dalle pagine di Svetonio, il quale nel celebrare
la Vita di Ottaviano Augusto afferma che il princeps, poiché l’immagine e la struttura dell’Urbe non corrispondevano alla grandiosità dell’impero che aveva in mente di realizzare (essendo tra l’altro il territorio esposto ad inondazioni ed incendi 31), intervenne con opere di abbellimento tali che, giustamente (iure), si vantò di aver ricevuto una
«città di mattoni» (latericiam) e di averla trasformata in una «città di
marmo» (marmoream).
Svet. Aug. 28: … Urbem neque pro maiestate imperii ornatam et
inundationibus incendiisque obnoxiam excoluit adeo, ut iure sit gloriatus marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset.
Peraltro, la cura per l’estetica e la pratica di sfruttare l’arte a fini
ornamentali non connotò esclusivamente gli edifici e le vie pubbliche; al contrario, anche i privati «gareggiavano in questo genere di
sfarzo», adornando ville e palazzi con collezioni dall’immenso valore
artistico 32, tanto che poteva accadere che si acquistasse un’abitazione
«non per sé stessa, ma per le opere d’arte che ne facevano parte» 33.
Accanto agli interventi volti a migliorare l’immagine della città,
pari importanza dal punto di vista della «strategia urbana» ricoprirono gli strumenti predisposti per assicurare l’integrità delle opere inPaul. 5 sent. D. 43.9.2: Concedi solet, ut imagines et statuae, quae ornamenta rei
publicae sunt futurae, in publicum ponantur. Cfr. Solidoro 2020, 83; Falcon 2020, 48
s. e 65 s.
31
Le catastrofi naturali, pur foriere di devastazione, rappresentarono un’occasione
per rinnovare e potenziare l’immagine di Roma: «incendi e terremoti con le loro distruzioni davano largo campo a sostituire il nuovo al vecchio, a migliorare l’edilizia»
(Fadda 1894, 19).
32
Solidoro 2020, 99 s. afferma la precisa consapevolezza delle élite culturali romane «dell’amenità del patrimonio abitativo e della decorazione dei luoghi pubblici
con orpelli e oggetti d’arte quali elementi fondamentali per la gradevolezza della vita
umana».
33
Le parole citate sono di Fadda 1894, 23, il quale fa riferimento a Paul. 33 ad ed.
D. 18.1.34: … plerasque enim res aliquando propter accessiones emimus, sicuti cum domus
propter marmora et statuas et tabulas pictas ematur.
30
42
FRANCESCA ROSSI
frastrutturali (vie, strade, ponti) ed urbanistiche (teatri, acquedotti,
cloacae) 34, in quanto beni destinati ad essere fruiti dalla totalità dei
cittadini. Nell’impossibilità di approfondire in questa sede una tematica tanto ampia, ci limitiamo a ricordare che, in ragione della connessione ad un interesse privato, per quanto esistente in capo a ciascuno, il diritto romano individuò la risposta rispetto a tali esigenze
all’interno degli istituti privatistici, configurando ad esempio appositi
interdicta 35 o ammettendo talora l’esperibilità dell’actio iniuriarum 36.
4. Il rilievo sociale dei beni della città: ‘monumenta’, memoria collettiva ed identità comune. – Come anticipato, oltre a favorire la stabilizzazione del potere politico, le res della città (monumenti, infrastrutture, ma anche biblioteche, terme, teatri, spettacoli) 37 svolsero altresì una funzione di tipo sociale, rappresentando uno straordinario
Sulle cloacae e sul sistema fognario nell’esperienza giuridica romana si vedano gli
studi di Giagnorio 2016, 575 ss.; Giagnorio 2020b.
35
Il principale strumento era l’interdictum ne quid in loco publico fiat, con cui il
singolo cittadino poteva chiedere la rimozione dell’ostacolo che impediva o limitava la
sua fruizione del bene pubblico. Si trattava quindi di un provvedimento volto alla tutela di un interesse individuale: esso si fondava, infatti, analogamente ai più famosi interdetti possessori, sulla relazione materiale tra il soggetto e la res, che consentiva di
usufruire di quel bene; la peculiarità, però, era rappresentata dal fatto che, trattandosi
di un godimento non esclusivo ma generale (poiché rivolto alla comunità), altrettanto
generale doveva essere la possibilità di richiederne la tutela. Tale strumento, dunque,
avrebbe potuto essere richiesto da qualunque privato (quivis de populo, quilibet de populo) che non avesse potuto fruire del commodum o dell’utilitas (il godimento dei luoghi pubblici) a causa dell’attività o dell’opera realizzata da un altro privato in un luogo
pubblico. Solidoro 2020, 91 nega che si trattasse di un interdetto popolare, in quanto
«la legittimazione spettava soltanto al civis danneggiato»; a suo avviso, dunque, «la locuzione quilibet ex populo va intesa come riferita a chiunque ricevesse un danno dall’impedimento all’uso del luogo pubblico»; su tale interdetto v. anche Fasolino 2020,
24 ss.; Cortese 2020, 114; Procchi 2016, 530 ss.; Ziliotto 2016, 696 ss. Sulle
azioni popolari come strumento di tutela delle res in usu publico: Sanna 2006, 1 ss.;
Giagnorio 2012, 1 ss.; Giagnorio 2013, 1 ss.; Giagnorio 2020a, 36 ss.; Saccoccio
2013, 1 ss. e il precedente Saccoccio 2011, 713 ss.; Schiavon 2019, 145 ss. Si vedano
anche le riflessioni che, a partire dal concetto di actio popularis, svolge Settis 2011, 52
s. Per le caratteristiche generali della tutela interdittale si rinvia alla bibliografia offerta
da Palma 2020, 214, nt. 16.
36
V., ad esempio, quanto affermato da Ulpiano in Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.9 e
Ulp. 57 ad ed. D. 47.10.13.7, per l’analisi dei quali si rinvia a Fasolino 2020, 27 s.
37
Sulle biblioteche: Scognamiglio 2020, 167 ss.; Scognamiglio 2016, 1 ss.;
sulle terme: Scevola 2016, 33 ss.; sull’attività teatrale: Fargnoli 2020, 127 ss.; sugli
spettacoli e i giochi: Fasolino - Palma 2018; Pasquino 2016, 81 ss.
34
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
43
strumento di inclusione e contribuendo alla creazione di una ‘comune identità romana’, che nei beni e nei luoghi rinveniva in certo
modo le proprie radici 38. Anche da questo punto di vista assume rilievo, anzitutto, il ruolo ricoperto dalla politica di espansione urbana
rispetto all’affermazione dell’immagine e della potenza di Roma. Attraverso l’edilizia e l’architettura fu, infatti, possibile celebrare non
solo la gloria dei personaggi di volta in volta presenti sulla scena politica, ma anche la grandezza dell’intero popolo romano. In questo
senso, la realizzazione di monumenti ed infrastrutture costituì un fortunato espediente di ‘riconoscimento’ non soltanto del loro autore
materiale, ma pure di coloro a cui tali res erano destinate.
Di questo fenomeno offre una chiara testimonianza Cicerone,
che attraverso la voce di Attico (nel De legibus) descrive il sentimento
di emozione e commozione che riescono a suscitare «quei luoghi che
conservano le tracce di coloro che amiamo o ammiriamo»:
Cic. leg. 2.4: … Movemur enim nescio quo pacto locis ipsis, in quibus eorum quos diligimus aut admiramur adsunt vestigia.
Il medesimo concetto, peraltro, è rinvenibile anche nel libro
quinto del De finibus bonorum et malorum, dove, nell’ambito di un
dialogo che si svolge nei giardini dell’accademia di Atene, il protagonista (Piso) afferma che, per frutto di una disposizione naturale (natura) o di un’illusione (errore), talvolta quando vediamo quei luoghi
(ea loca), che sappiamo essere stati frequentati e vissuti da uomini degni di memoria (memoria dignos viros), siamo maggiormente commossi (magis moveamur) rispetto a quando sentiamo parlare delle loro
azioni o leggiamo qualcuno dei loro scritti.
Cic. fin. 5.2: Tum Piso: Naturane nobis hoc, inquit, datum dicam
an errore quodam, ut, cum ea loca videamus, in quibus memoria dignos viros acceperimus multum esse versatos, magis moveamur, quam
si quando eorum ipsorum aut facta audiamus aut scriptum aliquod
legamus?
38
Cortese 2017, 11 osserva come l’attenzione al concetto di patrimonio culturale
nasca «dalla convinzione che la consapevolezza del proprio background culturale per
ogni popolazione costituisce il presupposto imprescindibile per generare le spinte sociali dirette alla riappropriazione della tradizione dei popoli», dal momento che «senza
cultura non c’è coscienza; senza cultura non c’è identità».
44
FRANCESCA ROSSI
Emerge dunque dai passi ciceroniani la grande ‘forza di insegnamento’ insita nei ‘luoghi’ (tanta vis admonitionis inest in locis) 39, che
consegnano alle generazioni testimonianza delle vicende ivi intervenute e delle personalità che li hanno frequentati e plasmati 40. Nella
connessione tra luogo fisico e ricordo 41 si delinea così il ruolo imprescindibile svolto dalla città, dai suoi spazi e dai suoi monumenti ai
fini della conservazione della storia di una determinata comunità, la
cui «memoria collettiva» 42 è affidata anche e soprattutto alla salvaguardia delle opere e dei luoghi di appartenenza.
Anche per questo già nel pensiero antico era presente la consapevolezza di dover preservare tali res, dal momento che la loro sottrazione o il loro danneggiamento avrebbe comportato la perdita non
39
Cic. fin. 5.2: … tanta vis admonitionis inest in locis; ut non sine causa ex iis memoriae ducta sit disciplina, su cui Marconi 1994, 281 ss.; Conterno 2015, 3 ss. Cfr.
anche: Isid. etym. 15.11.1: … Monumenta itaque et memoriae pro mentis admonitione
dictae.
40
Sul «valore atmosferico ed esistenziale che assumono i luoghi in cui sono ambientati i dialoghi ciceroniani» e, in particolare, sul locus amoenus, che, «oltre a costituire l’ambientazione privilegiata per il dialogo filosofico, si fa anche spazio vissuto,
luogo di memoria, ricettacolo affettivo» v. Calcò 2018, 207 s. Come rileva l’autrice,
l’ambientazione e la descrizione dei luoghi nella letteratura non rappresenta «un topos
retorico, ma ha una portata esistenziale». Essa, infatti, «non è soltanto un prodotto estetico, un’e[kfrasi~, una poivhsi~», ma «ha a che fare con una privxi~, con l’esperienza
di vita che in un luogo si radica».
41
Al riguardo Assmann 1997, 33 s. parla di «mnemotopo» per riferirsi alla possibilità che gli spazi possano «fungere da medium della memoria culturale», allorquando
vengano «semiotizzati», ossia «elevati globalmente essi stessi al rango di segni». La memoria, infatti, tende alla «spazializzazione» e alla «localizzazione»: essa ha bisogno di
luoghi che costituiscano «dei simboli della sua identità e dei punti di aggancio per il
suo ricordo» (p. 14). Sul tema v. anche Miano 2009, 361 s., il quale sottolinea il valore ricoperto da luoghi, monumenti e fenomeni culturali nella «formazione di una memoria e di una coscienza civica nella Roma repubblicana», rilevando come la memoria
culturale operi «semiotizzando determinati spazi, generalmente contrassegnandoli tramite monumenti» (constatazione, quest’ultima, a suo avviso «debitrice del concetto di
lieu de mémoire, teorizzato ed elaborato da Pierre Nora»). Alla stretta connessione tra
spazio topografico e memoria accenna anche Nocchi 2016, nt. 15.
42
Per la relazione tra memoria collettiva e memoria individuale si rinvia alla spiegazione di Assmann 1997, 11, secondo il quale il discorso sulla memoria collettiva
«non va inteso metaforicamente». Infatti, anche se le collettività non hanno una memoria, «esse determinano la memoria dei loro membri; i ricordi, anche i più personali,
nascono solo mediante la comunicazione e l’interazione entro il quadro di un gruppo
sociale». La memoria, dunque, «si innesta e cresce nell’uomo solo nell’ambito del suo
processo di socializzazione». Su memoria individuale e memoria collettiva cfr. anche
Lussana 2000, 1050 ss. Per un’analisi del concetto di monumento in rapporto al problema filosofico della memoria, individuale e collettiva, v. Atzori 2019, 487 ss.
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
45
soltanto «della ‘bellezza’ rappresentata dal patrimonio artistico, ma
anche della loro memoria storica» 43.
D’altra parte, l’etimologia della parola monumentum è intimamente connessa al ricordo, come spiega Varrone, che la pone in correlazione con il verbo moneo: i monumenta ci rammentano ciò che è
stato e dunque possono essere definiti tali non solo i sepolcri, che
hanno tipicamente una funzione commemorativa 44, ma anche tutte le
altre cose scritte o fatte per fissare la memoria (cetera quae scripta ac
facta memoriae causa monimenta dicta) 45. Il monumento, in sostanza,
è un segno del tempo, «è tutto ciò che può richiamare il passato»,
perpetuandone il ricordo 46: in quanto tale assolve una funzione di «rimembranza e attualizzazione della memoria» 47, che guarda sinotticamente a ieri e a domani, secondo una logica che è ad un tempo «retrospettiva» e «prospettiva», poiché consente non soltanto di recuperare e ricostruire il passato, ma anche di strutturare l’esperienza del
presente e del futuro 48.
43
In questi termini si esprime Liva 2020, 122 nel commentare Cic. Verr. 2.4.123
con riferimento al comportamento proditorio di Verre nei riguardi dei Siciliani.
44
Per un’analisi del fenomeno della commemorazione dei morti cfr. Assmann
1997, 34 ss.
45
Varro ling. 6.6.49: Meminisse a memoria, cum in id quod remansit in mente rursus movetur; quae a manendo ut manimoria potest esse dicta. Itaque Salii quod cantant:
Mamuri Veturi, significant memoriam veterem. Ab eodem monere, quod is qui monet,
proinde sit ac memoria; sic monimenta quae in sepulcris, et ideo secundum viam, quo praetereuntis admoneant et se fuisse et illos esse mortalis. Ab eo cetera quae scripta ac facta memoriae causa monimenta dicta. Sulla memoria in Varrone v. Leonardis 2017, 5 ss. e
Leonardis 2018, 516 ss. In linea con la definizione varroniana di monumentum appare
anche quella di Ulpiano contenuta in Ulp. 25 ad ed. D. 11.7.2.6: Monumentum est,
quod memoriae servandae gratia existat. Sul significato della parola monumentum (monimentum) cfr. anche Fest. voce Monimentum (Lindsay 123): Monimentum est, quod et
mortui causa aedificatum est et quicquid ob memoriam alicuius factum est, ut fana, porticus, scripta et carmina. Sed monimentum quamvis mortui causa sit factum, non tamen significat ibi sepultum. Sulla «radice indoeuropea men» della parola latina monumentum,
«che esprime una delle funzioni fondamentali della mente (mens), la memoria (memini)», v. anche Le Goff 1978, 38 (= Le Goff 1982, 443).
46
Le Goff 1978, 38 (= Le Goff 1982, 443).
47
Miano 2009, 369. L’autore richiama la teoria di Jan Assman, nel sottolineare
come «la memoria culturale tenda soprattutto alla riattualizzazione continua del passato, che diventa in tal modo un passato-presente».
48
Secondo Pucci 2012, 210 la memoria ha «sia una dimensione retrospettiva,
nella quale il gruppo costruisce un’immagine della propria unità e interezza, sia una dimensione che si potrebbe definire prospettiva», la quale «propone dei modelli di comportamento tali da rendere i membri del gruppo degni di essere ricordati ed emulati».
46
FRANCESCA ROSSI
Tale collegamento tra monumentalità e memoria 49 permette, inoltre, di spiegare l’ampiezza di significato riscontrabile all’interno delle
fonti, che, oltre ad utilizzare questo termine in merito ad edifici ed
opere architettoniche 50 – in particolar modo a carattere funebre, come
i sepolcri, costruzioni finalizzate a ricordare ai posteri il defunto 51, ossia a «tramandare il ricordo in un campo in cui la memoria ha un valore particolare, la morte» 52 – lo riferiscono anche a documenti 53 ed
opere letterarie, come dimostra la celebre ode di Orazio che definisce
La necessità di volgere lo sguardo al passato per poter immaginare la costruzione del futuro evoca, inoltre, l’immagine dell’Angelo della Storia (Engel der Geschichte) di Walter
Benjamin (cfr. Benjamin 2007, 35 ss.), ispirato al quadro di Paul Klee dal titolo Angelus Novus (p. 59).
49
Il collegamento tra monumentalità e memoria emerge indirettamente anche
dalla cd. damnatio memoriae, espressione moderna con cui si designa la pena consistente nell’eliminazione di ogni ricordo del condannato (attraverso, ad esempio, la cancellazione del nome dalle iscrizioni, la distruzione di statue e ritratti, l’abbattimento di
monumenti) per impedire che la sua memoria fosse tramandata ai posteri. Sulla
damnatio memoriae cfr. Bianchi 2014, 33 ss.; Farinella 1991, 183 ss.
50
Un esempio di utilizzo del termine monumentum nel significato concreto di ‘edificio’ è contenuto in Cic. fam. 1.9.15: idemque postea non meum monumentum (non
enim illae manubiae meae, sed operis locatio mea fuerat), monumentum vero senatus hostili
nomine et cruentis inustum litteris esse passi sunt, per la cui interpretazione si rinvia a
Zevi 2013, 138 ss.
51
Flor. 7 inst. D. 11.7.42: Monumentum generaliter res est memoriae causa in posterum prodita: in qua si corpus vel reliquiae inferantur, fiet sepulchrum, si vero nihil eorum
inferatur, erit monumentum memoriae causa factum, quod Graeci kenotafion appellant.
Sul brano di Florentino: Padovan 2016, 125 s.; Zavadil 2001, 253 ss. Per ulteriori riferimenti a monumentum si vedano anche: D. 11.7.6 pr.-1; D. 11.7.11; D. 11.7.37; D.
11.8.1.6-7; D. 11.8.3; D. 11.8.5. Merita ricordare anche la definizione di Isidoro di Siviglia: Isid. etym. 15.11.1: … Monumentum ideo nuncupatur eo quod mentem moneat ad
defuncti memoriam testantur …
52
Le Goff 1978, 38 (= Le Goff 1982, 443). Cfr. anche Assmann 1997, 9, il
quale rileva che la morte è «il luogo dove si pone la scelta decisiva tra lo scomparire e
il conservare».
53
Le Goff 1978, 46 (= Le Goff 1982, 454): «Il documento è monumento. È il
risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o
nolenti – quella data immagine di se stesse». Il medesimo concetto è ripreso in Le
Goff 1979, 1074 (= Le Goff 1982, 356): «ogni documento ha in sé un carattere di
monumento e non esiste una memoria collettiva bruta». Nello stesso scritto, inoltre,
l’autore si sofferma sul valore della scrittura rispetto alla memoria collettiva: «La comparsa della scrittura è legata a una trasformazione profonda della memoria collettiva …
La scrittura consente alla memoria collettiva un duplice progresso, lo svolgersi di due
forme di memoria. La prima è la commemorazione, la celebrazione di un evento memorabile per opera di un monumento celebrativo. La memoria assume allora la forma
dell’iscrizione, e ha condotto, in epoca moderna, alla nascita di una scienza ausiliaria
della storia, l’epigrafia». Cfr. Le Goff 1979, 1073 (= Le Goff 1982, 354 s.).
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
47
la propria opera come un monumentum 54. Poesia e letteratura, infatti,
così come edifici, statue, sculture ed iscrizioni, racchiudono in sé la
memoria di eventi, di personaggi, finanche di intere città e civiltà, essendo tutte parimenti res che contribuiscono a narrarne e tramandarne la storia, la quale – in quanto «forma scientifica» della memoria collettiva 55 – finisce quasi per identificarsi con tali monumenta 56.
D’altra parte, la storia altro non è che il racconto del nostro passato:
e il passato, come insegna Assman, «nasce solo nel momento in cui ci
si riferisce ad esso»; ma perché questo accada, «esso non deve essere
scomparso del tutto: devono esserci delle testimonianze» 57, potremmo
aggiungere delle «testimonianze aventi valore di civiltà», secondo la
definizione di bene culturale coniata dalla Commissione Franceschini, recepita dal nostro legislatore solo alla fine degli anni Novanta
e poi confluita nel vigente codice dei beni culturali e del paesaggio 58.
5. Considerazioni conclusive. – Gli esempi appena proposti, se non
consentono di individuare nel pensiero romano tracce di una rifles54
Hor. carm. 3.30.1: Exegi monumentum aere perennius. Sul significato ampio di
monumento, riferito non solo ai sepolcri e ai monumenti funebri, ma ad ogni ‘testimonianza’ di memoria, v. anche Porph. ad Hor. carm. 1.2.15: monumentum non sepulcrum tantum dicitur, sed omne quidquid memoriam testatur. Sul commento oraziano di
Pomponio Porfirione: Formenti 2018, 88 ss.; Tosco 2014, 59 s., il quale sottolinea
come il termine monumentum sia entrato nel linguaggio della tutela per indicare «un
deposito ricevuto dal passato, un pignus memoriae».
55
Le Goff 1978, 38 (= Le Goff 1982, 443). Sul rapporto tra memoria e storia
cfr. anche Assmann 1997, 17 ss., il quale accorda un posto di rilievo al pensiero di
Maurice Halbwachs.
56
V. Miano 2009, 369, secondo il quale «Livio stesso sembra descrivere la storia
come un inlustre monumentum, la cui funzione è quella, tramite il ricordo, di fornire
exempla da seguire sia all’individuo sia allo stato». Cfr. Liv. praef. 10: Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri
posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum
inceptu foedum exitu quod vites. Sulla narrazione liviana e sulla possibilità di considerare
«the history as a monument» v. anche Jaeger 1997, 15 ss.
57
Assmann 1997, 7.
58
La cd. Commissione Franceschini (Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose d’interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio), istituita con la legge 26 aprile 1964, n. 310, terminò i propri lavori nel 1967, ma la definizione di bene culturale fu recepita soltanto con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (art.
148, comma 1, lett. a). La stessa fu poi accolta, con temperamenti, dal d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (art. 4), ossia il testo unico per i beni culturali ed ambientali, al quale
seguì il codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato con d.lgs. 22 gennaio 2004,
48
FRANCESCA ROSSI
sione, né compiuta né in nuce, in ordine alla categoria di ‘beni culturali’ – il cui inquadramento, peraltro, ancora oggi manifesta margini
di problematicità 59 – offrono tuttavia interessanti spunti per lo studio
del fenomeno lato sensu ‘artistico’ e ‘culturale’, in particolare per
quanto concerne la posizione del privato relativamente a ‘beni’ ed ‘interessi’ che riguardano la collettività.
In tale ottica, queste brevi pagine hanno provato a dimostrare
come la città e le strategie volte alla sua cura e al suo sviluppo abbiano nei secoli ricoperto un ruolo centrale rispetto all’affermazione
del peso e del ruolo di Roma in rapporto agli altri popoli (oggi diremmo nel contesto ‘internazionale’), contribuendo al rafforzamento
della sua grandezza non solo artistica (e dunque estetica), ma anche
politica. L’attenzione all’integrità cittadina sotto questo duplice profilo (esterno ed interno) è la chiave che ha consentito a Roma di
mantenere per secoli l’egemonia sui territori progressivamente conquistati, anche grazie al parziale inserimento dei ‘vinti’ nel corpo sociale, secondo un sistema costruito su più livelli di cittadinanza e giocato su un bilanciamento tra dinamiche esclusive ed inclusive.
n. 42 (art. 2, comma 2). Cfr. Bartolini 2013, 94 s.; Cortese 2017, 11; Solidoro
2020, 66.
59
Cortese 2020, 118 rileva l’«inadeguatezza dello schema pubblico-privato applicato al bene culturale nel panorama attuale». Cfr. anche Fasolino 2020, 8 s. Il bene
culturale, in particolar modo quello artistico, non sembra infatti inquadrabile nelle nostre categorie moderne, poiché è un bene che deve sfuggire non solo alle regole dell’economia di mercato che governano gli scambi, ma più in generale alla logica dell’appartenenza, per approdare piuttosto alla logica della fruizione collettiva, intesa come facoltà di godimento in capo a ciascuno. Per un’analisi del bene culturale come res in usu
publico cfr. Fasolino 2020, 111 ss. Sempre con riferimento alle difficoltà di inquadramento di tali beni Vacca 2017, 260 sottolinea «il problema di definire in concreto e
come categoria giuridicamente rilevante» il ‘patrimonio culturale’, trattandosi di una
nozione a prima vista intuitiva, ma in verità labile e suscettibile di diverse interpretazioni. Il primo problema che si pone è legato alla possibilità di inquadrare o meno i
‘beni culturali’ all’interno della categoria dei ‘beni comuni’, dovendosi poi stabilire, in
caso di risposta affermativa, se si tratti di beni di ‘interesse comune’ o di beni di ‘appartenenza comune’. L’autrice esclude che si possa fare ricorso alla categoria dei ‘beni
collettivi’, se intesi in un’accezione assimilabile alle res communes omnium dei Romani
(tra cui rientrano, ad esempio, l’aria e l’acqua), dal momento che «questi beni fanno
parte di un patrimonio indistinto, privo di tutele», fintantoché non siano oggetto di
appropriazione da parte del singolo. Nell’ambito della ricchissima letteratura in tema di
res communes omnium e beni comuni, ci limitiamo qui a citare i seguenti recenti lavori,
menzionati in base all’ordine alfabetico dei loro autori: Dursi 2016; Dursi 2017; Falcon 2016, 107 ss.; Falcon 2019, 1 ss.; Lambrini 2016, 85 ss.; Palma 2020, 209 ss.
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
49
Alla luce di ciò, in un momento in cui il nostro mondo sta conoscendo drammatiche fratture, che incrinano pericolosamente i delicati obiettivi di armonizzazione perseguiti a livello sovranazionale, lo
studio dell’esperienza giuridica romana appare oggi quanto mai prezioso. Pur dovendosi respingere i tentativi di sterile recupero delle ‘soluzioni del passato’, esportate in contesti storici e giuridici da esse
lontani, occorre tuttavia riconoscere l’utilità di una loro riconsiderazione complessiva, al fine di orientare la modernità verso l’adozione
di scelte normative ed istituzionali maggiormente consapevoli, le
quali, nel ricercare nuovi assetti organizzativi per la gestione della vita
comune 60, non dimentichino l’influenza che la dimensione greco-romana, apparentemente tanto distante da noi, ha avuto «nel processo
di costruzione di atteggiamenti politici, progetti e narrazioni che riguardano il presente e il futuro» 61.
Questo spiega l’opportunità di una rinnovata riflessione intorno
alle res che compongono la città, che tenga conto del ruolo da esse
svolto in ordine alla creazione dell’identità e del senso di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Peraltro, le problematiche
legate alla tutela di questo patrimonio comune divengono tanto più
urgenti durante le stagioni che vedono i popoli in guerra tra loro. Al
conflitto, infatti, si accompagna inevitabilmente la conseguenza della
distruzione, non soltanto di vite umane, ma anche di città e, con esse,
dei patrimoni culturali che rimandano alle radici di un popolo: d’altra parte, la storia (più o meno recente) ci insegna che alle strategie
belliche non sono estranei i tentativi di cancellazione della cultura e
delle identità locali, compresi i monumenti che di esse costituiscono
il simbolo 62. Per questo nei momenti di conflitto, accanto al dramma
umano, non possiamo dimenticare anche il profilo, egualmente
drammatico, legato alla dimensione urbana ed artistica, che, come la
vita delle persone, rischia di svanire in un attimo senza possibilità di
essere ricostruita. Emerge così l’incessante necessità di preservare quei
luoghi e quei beni che rappresentano il patrimonio di intere nazioni,
o meglio di intere civiltà, e che – in quanto monumenta – hanno il
Fasolino 2020, 4; Palma 2020, 209.
Settis 2011, 52.
62
Cfr. Cortese 2017, 11, laddove afferma che «senza cultura non c’è coscienza;
senza cultura non c’è identità».
60
61
50
FRANCESCA ROSSI
compito di mantenere e di trasmettere la memoria, l’identità e il
senso di appartenenza alle generazioni future. L’esito, altrimenti, non
potrà che essere la dispersione, non soltanto della vita, ma anche della
memoria e della ‘monumentalità’, che travolge l’ultima occasione per
l’uomo di lasciare una testimonianza di sé – un monumentum – capace di dialogare con le generazioni future, come un ‘muto maestro’
di gelliana memoria 63. Distruggere questi monumenta significa estinguere ogni possibilità di dialogo e, così, emettere una condanna definitiva e senza appello all’unica prospettiva che l’uomo ha di proiettarsi oltre la finitezza della sua esistenza, di spingersi al di là della propria individualità per contribuire, attraverso la sua testimonianza, al
processo di costruzione della civiltà. Il riferimento alla testimonianza
riecheggia, ancora una volta, la definizione del nostro legislatore del
2004 di beni culturali come «testimonianze aventi valore di civiltà» 64,
dove il vocabolo ‘testimonianza’ è evocativo della capacità di tali beni
di essere da un lato «produttivi e portatori di cultura», dall’altro «garanti e custodi della sua esistenza» 65. Queste res, infatti, nel loro complesso formano un patrimonio che non appartiene né ad un singolo
individuo, né ad una sola comunità, bensì alle generazioni che nei
millenni si susseguono e che devono poter continuare a fruirne al fine
di riconoscersi nella loro identità comune.
In conclusione, attraverso queste brevi considerazioni è forse
emerso come un’analoga attenzione non fosse estranea all’esperienza
latina, che, pur legandola a finalità spesso di natura squisitamente po63
Il riferimento al mutus magister proviene dall’opera di Aulo Gellio (Gell. 14.2.1:
… quoniam vocis, ut dicitur, vivae penuria erat, ex mutis, quod aiunt, magistris cognoscerem …). Sul celebre brano gelliano si segnala il recente contributo di Manfredini
2020, 599 ss.
64
L’art. 2 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (cd. Codice dei beni culturali e del
paesaggio) al comma 2 definisce i beni culturali come «le cose immobili e mobili che,
ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in
base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà».
65
Cortese 2020, 105. La stessa autrice in un precedente scritto aveva rilevato, con
riferimento alla definizione nata in seno alla Commissione Franceschini, la capacità del
termine ‘testimonianza’ di rendere «in modo mirabile il duplice aspetto dell’essere soggetti ed oggetti del rapporto con la cultura tout court» e, inoltre, di «coniugare efficacemente entrambi i principi della ‘conservazione’ della tradizione e della sua ‘valorizzazione’ in chiave futura che costituiscono i cardini della tutela del patrimonio culturale»
(Cortese 2017, 11 ss.).
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
51
litica, aveva intuito l’importanza non solo di implementare ma anche
di preservare le res rappresentative di Roma e della romanità, nella
consapevolezza che distruggere l’immagine della città avrebbe significato cancellarne l’identità. Non sarà un caso, allora, se a farsi portavoce di un simile monito sia stato proprio un autorevole professore di
diritto romano, ricordato non solo per il suo ruolo accademico, ma
anche per quello amministrativo di sindaco fiorentino, nonché per
quello politico-istituzionale di padre costituente: Giorgio La Pira. Il
suo messaggio, contenuto nel discorso inaugurale del Congresso dei
Sindaci delle capitali del mondo, pronunciato a Firenze in Palazzo
Vecchio il 2 ottobre 1955, quasi settant’anni or sono, manifesta tutta
la sua straordinaria attualità:
«E la questione è la seguente: quale è il diritto che le generazioni
presenti possiedono sulle città da esse ricevute dalle generazioni
passate? La risposta, è chiaro, non può essere che questa: è un diritto di usare, migliorandolo e non distruggendolo o dilapidandolo, un patrimonio visibile ed invisibile, reale ed ideale, ad esse
consegnato dalle generazioni passate e destinato ad essere trasmesso – accresciuto e migliorato – alle generazioni future. Usare,
migliorare e ritrasmettere la casa comune! Si tratta di una eredità
fedecommissaria, direbbero i giuristi romani: le generazioni presenti ne sono gli eredi fiduciari; quelle venture, gli eredi fedecommissari» 66.
Questo, secondo La Pira, rappresentava il «nodo del nuovissimo e
massimo problema» della storia, un «problema che è insieme, inscindibilmente, teologico, morale, giuridico, politico, militare e storico»,
al quale il Sindaco all’epoca rispose con fermezza e convinzione con
66
La Pira 1955a, 10, riportato anche in La Pira 1955b, 3. La Pira, rivolgendosi
agli ospiti internazionali, rappresenta come la «radice» e lo «scopo» dell’incontro siano
«riscoprire il valore ed il destino delle città» e «affermare il diritto inalienabile che
hanno sopra di esse le generazioni venture». Le città, infatti, «non sono cose nostre di
cui si possa disporre a nostro piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture:
delle quali nessuno può violare il diritto e l’attesa»; perciò «le generazioni presenti non
hanno il diritto di dilapidarle o di distruggerle», ma piuttosto il compito di migliorarle
e accrescerle. Secondo La Pira «nessuno, per nessuna ragione, ha il diritto di sradicare
le città dalla terra ove fioriscono»: egli paragona infatti la città ad una «casa comune»,
che va «usata e migliorata», ma «distrutta mai» (La Pira 1955a, 11; La Pira 1955b, 3).
52
FRANCESCA ROSSI
parole che, per la loro semplicità e lungimiranza, sono divenute una
sorta di manifesto: le città non possono morire 67. La perentorietà di
tale affermazione e l’urgenza con cui essa richiama i protagonisti della
scena mondiale ad un’assunzione di responsabilità sono il frutto degli
insegnamenti che La Pira aveva appreso non solo dalle relazioni internazionali, ma anche (e forse soprattutto) dall’esperienza di Roma
antica, nella quale era già forte la convinzione che «le città non possono essere destinate alla morte: una morte, peraltro, che provocherebbe la morte della civiltà intiera» 68.
Questo è il titolo dell’articolo pubblicato su Il Focolare del 16 ottobre 1955 (La
Pira 1955b), ove vengono riportati alcuni brani del discorso tenuto da La Pira in occasione del Congresso dei Sindaci delle capitali (La Pira 1955a).
68
La Pira 1955a, 10; La Pira 1955b, 3.
67
CURA URBIS, MONUMENTA E PATRIMONIO CULTURALE
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Andrea Capurso
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
1. Introduction. – We are returning to the Moon.
By the end of this decade, we will look at our satellite knowing
that humans are there. In the next few years, astronauts, rovers and
robots will start populating the rocky surface of the Moon with a
clear aim: creating the first stable and long-lasting province of Earth
in the Solar System.
Unlike in the past, this time the ‘New Moon Race’ is not going to
be the effort of one Nation opposed to another. This time, multiple
entities, public and private, from different parts of the world, are
pointing their fingers at the Moon, investing in lunar projects and
spurring a competitive international endeavor.
China, Russia, India, South Korea, Japan, Israel, UAE, USA and
a coalition of European States have set up ambitious plans to reach
our satellite 1. But all this excitement and agitation around the Moon
1
The Moon program that is stealing most of the limelight is NASA’s Artemis Program, thanks to which we will see a new boot print on the Moon in the second half of
this decade. A number of European States are also participating in the program under
the umbrella of specific agreements, called Artemis Accords. At the same time, the European Space Agency is joining forces with NASA for the development of the Orion
and Lunar Gateway projects. In the Eastern part of the world, China is successfully
moving forward its Moon program with the Chang’e missions. Moreover, the Red
Dragon has set up a collaboration with Russia for the development of the International
Lunar Research Station. Russia, however, has also reinstated its own Moon program,
with new Luna landers set for launch in the next years. South Korea’s Korean
Pathfinder Lunar Orbiter, Japan’s Smart Lander for Investigating the Moon, UAE’s
Emirates Lunar Mission, India’s Chandrayaan and Israel’s Beresheet are all projects
aiming at demonstrating the capacity of the respective Nations to take part in the ex-
60
ANDREA CAPURSO
raises the question: why going back? Why returning to a place where
we have already been more than 50 years ago and that we left with no
apparent interest in visiting again 2?
The Moon is not just a place where we can study the origins of
life, the formation of Earth or the primordial conditions of the Solar
System. The Moon is also a giant deposit of minerals 3.
Locked under its surface lay some of the most important resources for our technological needs: rare earth elements (REE) 4. They
consist of a group of 17 metals used in smartphones, laptops, electric
vehicles and solar panels. Without them, the digital and ecological
revolution of modern societies would not be possible 5.
On Earth, these metals can be found in a limited number of locations and only very few Nations own most of the quarries from which
they can be extracted. Moreover, mining and processing them has a
significant environmental impact and a high risk of health hazards 6.
On the Moon, however, the current problems related to exploiting REE on Earth will not be a concern, thanks to the fact that our
celestial neighbor is a vast and mineral-rich body without atmosphere
or life.
With that in mind, the ‘New Moon Race’ may appear much more
similar to a ‘New Gold Rush’.
Spacefaring Nations will search for the most advantageous areas
where they can set their bases, build their infrastructures and exploit
lunar resources. Once found, they will try to stabilize their presence
there, unhampered and undisturbed. But how will they coordinate
their respective interests over the lunar environment? What will happen if two different Nations will identify the same area as the most
advantageous one where to settle?
ploration and colonization of the Moon. If successful, they will set the basis for a
stronger involvement of each of them in Moon matters.
2
In 1972 the American astronaut Eugene Cernan – commander of the Apollo 17
mission – became the last man who walked on the Moon.
3
For a comprehensive and influential account of lunar mineralogy see: Levinson
- Ross Taylor 1971. See also: Papike - Taylor - Simon 1991, 121 ff. For a recent
study on lunar samples see: Li et al. 2022, 14 ff.
4
The presence of REE on the Moon has been analyzed extensively by McLeod
2018, 110 ff. See also Balaram 2019, 1285 ff.
5
See Raimondi 2021.
6
See Nayar 2021.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
61
An internationally agreed set of rules on the exploitation of lunar
resources is yet to be established 7 and – without it – the next Moon
missions may be a prelude to tensions and conflicts there and on
Earth. In order to avoid this scenario, the international community is
called to find new legal and political solutions. The success or failure
of such effort will make the difference between a future of peace or
war for humans beyond the atmosphere.
In April 2022, the ‘Working Group on Legal Aspects of Space Resources Activities’ – established under the auspices of the UN Committee on the Peaceful Uses of Outer Space (COPUOS) – proposed
a five year work plan to formulate a set of principles on space resources activities. The latter is meant for the consideration of and
consensus agreement by the UN COPUOS, followed by possible
adoption by the UN General Assembly as a dedicated resolution or
other action 8.
Through the Working Group, the international community is
addressing some of the most impellent issues related to the exploitation of resources on the Moon and other celestial bodies. Namely, the
legal risk and uncertainty for private investments in commercial projects; the equitable access to space resources for all States without discrimination; the mechanisms to avoid conflicts between actors; the
sustainability of space exploration missions (public and private); the
development of an independent international framework to govern
space resources activities 9.
In sum, at the center of the Working Group’s mandate is one crucial task: the attempt to provide the basis for an international lunar
governance regime 10.
This ambitious effort will be conducted building upon the existing legal framework and trying to adapt it to the needs of the ‘New
7
The only treaty on the regulation of lunar activities is the Agreement Governing
the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, or ‘Moon Agreement’,
A/RES/34/68, 1979. However, it only has 18 parties as of June 2022, none of which is
a major spacefaring Nation. It is therefore considered a failed treaty at the international
level.
8
Co-Chairs’ Proposed Five Year Workplan and Methods of Work for the Working
Group on Legal Aspects of Space Resource Activities (2022).
9
Report of the Committee on the Peaceful Uses of Outer Space, Sixty-fourth session (25 August - 3 September 2021), A/76/20, 25.
10
For the mandate of the Working Group see above at 9: Report, 53 ff.
62
ANDREA CAPURSO
Moon Race’. The starting point will be the Outer Space Treaty (OST)
of 1967 and, in particular, the three core principles applicable to the
Moon: freedom of access, freedom of use and prohibition to appropriate it 11. With these fundamental rules the international community attributed to our celestial neighbor the legal status of a res communis omnium, analogous to the high seas or the international airspace 12.
However, nothing in the mandate of the Working Group precludes it from recommending to the UN COPUOS a modification
of such status, either through a revision of the Outer Space Treaty or
through the development of new rules on the possibility to exercise
jurisdictional powers over the Moon. It is significant, in this regard,
that the amendment of the non-appropriation principle (Art. II,
OST) has actually been submitted by Greece as an element of discussion in the five-year work plan 13.
Will the legal status of the Moon change? Will its free and common nature be modified in view of the arrival and settlement of
spacefaring Nations on our satellite?
The answer to these questions will come only in five years from
now when the Working Group will produce its final report. However,
from an historical perspective, it is interesting to notice that the legal
issues posed by future lunar missions and the discussions that they
have raised today represent the last example of an old and recurring
debate over international domains.
It is not the first time in the history of res communes omnium that
the principle of non-appropriability and the principle of free and
common use appear unsuitable to the context in which they have to
be applied. As it will be shown, in several occasions jurists were
forced to rethink the communes omnium regime, either extending sovereignty over common areas or creating an international authority to
control the activity of users therein.
11
See: Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration
and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies, or ‘Outer
Space Treaty’, A/RES/2222(XXI), 1967, Articles I, II and III.
12
See Capurso 2019.
13
See Questionnaire related to the discussion of item 15 on potential legal models
for the exploration, exploitation, and utilization of space resources (Working Paper
submitted by Greece), A/AC.105/C.2/2022/CRP.13, 2022, 2.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
63
Therefore, the following sections of the present paper will shed a
light on the most significant instances in history where res communes
omnium became the object of a legal debate, focusing in particular on
the factors and the reasons that imposed a reconsideration of the
original regime codified in Roman times. The aim is to provide useful insights on how, through the centuries, the principles of res communes omnium evolved and changed, as they need to do again with
regard to the Moon.
Starting from a brief analysis of the main features of res communes
omnium in Latin documents (Section II), the discourse will then
move on to investigate three pivotal moments in the legal history of
such res: the disgregation of the Roman Empire (Section III); the Age
of Discovery at the time of the so-called ‘battle of the books’ (Section
IV); the 20th century in international conventions (Section V). A final section will be dedicated to some conclusory remarks.
2. The original regime of ‘res communes omnium’. – For more than
a century, Roman scholars have studied the category of res communes
omnium. At times, with a sense of despise for its evanescence. At
times, with renovated interest for its social and economic value in
Roman societies. Two aspects, more than others, captured the interest of those who dedicated their work to outline the true meaning
and function of such res: firstly, their moment of birth in Roman legal theories; secondly, the precise extent of the regime applicable to
the areas considered common to everyone 14.
Despite the various theories developed on both aspects, scholars
have agreed on a few general concepts, which can be summarized as
follows.
The perception that certain domains were open for access and use
to everyone is quite old. It existed in the minds of Romans many
centuries before it became a proper legal principle. We have proof of
that in the literary sources of the Republic era: the comic dramatist
14
Among the various contributions on the topic, it is possible to mention the
monograph of Dursi 2017. At the beginning of 20th century, eminent romanists investigated this category of res: Bonfante 1926 and Scialoja 1928. Other relevant
works are the ones of Dell’Oro 1963, 237 ff., Grosso 2001, 1 ff., Sini 2008, 2 ff.,
Dani 2014, 1 ff., Fiorentini 2019, 153 ff. and Falcon 2016, 114 ff.
64
ANDREA CAPURSO
Plautus (250-184 BC) in his Rudens talks about the ‘common sea’
and the appropriability of its resources (namely, the fish) 15; the statesman Cicero (106-43 BC) refers to the sea and the seashore as common domains 16; and so does, later on, the poet Ovidius (43 BC-18
AD) with regard to the air 17. Therefore, there was a general understanding – rooted in philosophical and logical reasons – that the use
of environments like the sea, the seashore and the air was common to
all and the resources contained therein were appropriable 18.
Only a few centuries later, between the II and III century BC,
these principles assumed the form of a proper legal theory. The long
process of trying to include ‘common domains’ in a specific category
of res was brought to maturity by the works of the jurists Ulpian and
Marcianus 19.
Ulp. 57 ad ed. D. 47.10.13.7: Et quidem mare commune omnium est et litora, sicuti aer.
Marcian. 3 inst. D. 1.8.2.1: Et quidem naturali iure omnium
communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora
maris.
The Rudens (211 BC) tells the story of a great storm at sea caused by the star
Arcturus. In the storm, a ship is wrecked, its passengers swept away by the water and
all the objects carried on board are lost in the sea. Among those objects, there is also an
old and precious chest. The day after the storm, a young man sees it from the shore,
floating not far away in the water, still intact. In that moment, however, a fisherman
sails by and catches the chest with his net. But the young man waits and, as soon as the
fisherman returns, he approaches him and grabs an end of the net, claiming the property of the chest: «You took it from the sea – the young man says to the fisherman –
and the sea is common to all. Hence, we should at least share the content». The fisherman refuses to be deprived of what he took with his net, because «indeed the sea is
common to all, but the product of fishing is the property of fishermen. If the opposite
was true – he argues – and any person could claim a share of their work, poor fishermen! No one would buy their fish at the public market. In fact, everyone could pretend a quota simply because the fish was taken from the ‘common’ sea. And that
cannot be». Through the arguments of his fisherman, the author Plautus provides us a
clear and practical description of the rationale behind the principles of free access, free
use and prohibition to appropriate res communes omnium: the essential economic/
commercial value of the activities conducted in such res.
16
Cic. Rosc. 26.
17
Ov. met. 6.349.
18
See Dell’Oro 1963, 242. See also Ortu 2017, 160 ff.
19
Many Roman jurists before them investigated the regime applicable over
domains considered communes omnium by Ulpian and Marcian: namely, Celsus, Papinian, Scevola, Giovenzio and Paulus.
15
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
65
The air, the flowing waters, the sea and the seashore became
known in the III century as res communes omnium and were characterized by three specific features: free access, free use and the prohibition to permanently appropriate entire parts of them 20. In practical
terms, this meant that Romans had to be free to access and exploit
the resources contained in them and they could not be excluded from
such right by others 21. The rationale was that activities like fishing,
sailing or hunting had a fundamental economic and commercial
value for the society of the time. Hence, the environments where
they were conducted had to be freely accessible and freely usable 22.
Moreover, it was established that the actual res – intended in its
entirety – was not subject to appropriation: no Roman citizen could
own the entire sea or the whole airspace for obvious physical, other
than legal, reasons. However, Roman jurists recognized the possibility to occupy pro parte and temporarily res communes omnium 23. This
was possible not only with simple constructions like beach huts for
fishermen or wooden stands for their nets, but also with much more
durable buildings and infrastructures, like waterfront villas, sea pillars, fish farms and piers 24.
The general principle was that a building – or any infrastructure,
from the simplest to the grandest – could be erected in the ‘common
domains’ under the condition that it did not interfere with the activities of other users 25. Once the building was finalized, the owner became dominus of the area occupied, but only as long as the building
stood 26. If the building collapsed, the occupied area returned to its
original state as communes omnium.
20
For a comprehensive analysis of the features of each common domain under
Roman law see: Dursi 2017.
21
Marcian. 3 inst. D. 1.8.4 pr.
22
The same activities were conducted also on land and in inland waters, but the
latter (like lakes, forests or rivers) were confined within borders, unlike the open sea or
the air. As for the seashore, the regime of res communes omnium applied to it only ‘per
hoc’, as Marcianus specifies in D. 1.8.2.
23
See Marcian. 3 inst. D. 1.8.6 pr. See also Pomp. 6 ex Plaut. D. 1.8.10, Ner. 5
membr. D. 41.1.14, Pomp. 34 ad Sab. D. 41.1.30.4.
24
On the regime of buildings over res communes omnium see for all: Lambertini
2020, Fiorentini 2010.
25
Scaev. 5 resp. D. 43.8.4.
26
Ner. 5 membr. D. 41.1.14.
66
ANDREA CAPURSO
Clearly, this system was ideal for simple and small constructions,
but it was quite problematic in practice with regard to those constructions, which – as the archeological studies show – were erected
to endure solidly through the passing of time 27. The ‘non-interference’ and the ‘until-it-collapses’ rules were unable to cope with the
fact that certain uses – especially large-scale commercial ones – required stable and long-lasting infrastructures, which rendered de facto
other activities (e.g. fishing and sailing) in the same spot almost impossible.
Thus, not surprisingly, the legal sources of the time talk about
frequent controversies between Romans on the activities conducted
in ‘common domains’ 28. The problem was that there were different
and opposing economic interests at stake: the ones of fishermen, the
ones of merchant-sailors, the ones of fish farmers, the ones of villas
owners. And the principles which regulated them were not enough to
provide adequate answers or to balance all positions involved 29.
The solution found was to allow Romans to access specific legal
remedies in front of a judicial authority in order to settle their disputes over res communes omnium.
In particular, Roman jurists recognized the possibility to use the
actio iniuriarum against those who unjustly impaired the use of certain common areas for the purpose of fishing or sailing 30. A classic example was the situation in which the dominus of a villa – in force of
its ownership over the occupied area – prohibited access to parts of
the sea and the exploitation of the resources therein. With the actio
iniuriarum fishermen and sailors could obtain a judicial order to
stop the illegitimate restriction of their rights over the common domain 31.
Another important legal remedy was the interdictum ‘ne quid in
loco publico facias’, which was granted to those who feared that cerSee Pringle 2016.
See Ulp. 6 opin. D. 8.4.13 pr. But also Ulp. 68 ad ed. D.43.8.2.9, and Ulp. 57
ad ed. D.47.10.13.7.
29
Erdkamp - Verboven - Zuiderhoek 2015, 187 ff. offers a thorough analysis of
the different interests involved in the use of res communes omnium.
30
Ulp. 57 ad ed. D. 47.10.13.7.
31
For a comprehensive study of the judicial remedies available in case of controversies over the use of res communes omnium see: Schiavon 2019.
27
28
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
67
tain activities could interfere with the enjoyment of their rights 32. In
other words, it was a judicial remedy that could be activated only in
front of potentially damaging situations. For instance, if an angler
deemed the construction of a sea-front villa detrimental to his fishing
activities, he could request the interdictum, but only if the construction was not yet finalized and if there was an actual risk of being
damaged by such construction. As a corollary to this condition, not
only such legal remedy was inadmissible once the building or infrastructure was completed, but it could be used in reverse by the dominus of the villa to stop any interference with its peaceful enjoyment
of the building 33.
From this brief outline of the main features of res communes omnium, it can be concluded that Roman jurists developed a legal theory which was much more elaborated than the simple recognition of
a common use over certain environments. It allowed the erection of
buildings and infrastructures of various forms and functions. It envisaged the temporarily occupation of entire portions of the sea and
of the seashore. But, most importantly, it created a system which ensured that Romans could protect their rights, accessing legal remedies
in front of a judicial authority.
This last aspect was pivotal in the feasible application of the principles of free access, free use and non-appropriation. The whole system revolved around the power of a judicial authority to settle disputes and to enforce its judgments. It should not be forgotten, in
fact, that the interactions and relationships between Romans in common domains fell under the umbrella of private law. Any controversy
over the activities conducted in res communes omnium was under the
jurisdiction of the Roman public power.
This conception was reflected in the way jurists saw common domains at the public level: they were deemed to be under the ‘protection’ of the Roman Empire. A condition best described by the words
of the jurist Celsus with regard to the seashore:
Cels. 39 dig. D. 43.8.3 pr: Litora, in quae populus Romanus
imperium habet, populi Romani esse arbitror.
Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2 pr.
See Lambertini 2020, 75 ff., Schiavon 2019, 126 ff. and Fiorentini 2010,
267 ff.
32
33
68
ANDREA CAPURSO
In sum, the legal system of res communes omnium worked because
behind it (and above it) there was a public power. And that is also
why – when that power entered into crisis – the system started failing.
3. Seashore and adjacent waters in Medieval legal sources. – The
year 476 AD conventionally signs the end of the Western Roman
Empire. The centuries which followed were marked by profound
changes in the Mediterranean basin: barbarians, Arabs and auto-proclaimed independent entities redefined the map of powers in the
area, dividing it among different populations 34.
In this period of transformation, Roman law continued to represent the pillar of legal discussions among jurists. However, many theories and principles required to be adapted to the new context.
Among them, the category of res communes omnium was the object of
a substantial alteration, determined by two factors: one technological;
the other political.
The first was connected to one of the most profitable activities
conducted in the sea: fishing tunas 35.
In Roman times, their capture involved a complex technique,
which can be summarized as follows. A system of nets was stationed
in the open sea where migratory fluxes of tunas were known to pass
by. Once a school of fish was spotted from wooden towers placed on
the seashore, the nets worked as a barrier that re-directed the course
of the school toward a bay or a cove. At that point, fishermen on the
seashore used seine nets to pull tunas toward the beach, aided by
small boats who pushed the fish from the open water. Once stranded
on the beach, tunas either died of asphyxiation or were killed with
sticks and harpoons. Next, they were placed in specific tanks made of
stone where they were cleaned, salted and treated, in view of their
consumption and commercialization 36.
See Fondazione Cisam 2011.
The practice of fishing tunas has been extensively analyzed from a legal perspective by Purpura 2007, and Purpura 2008.
36
For a comprehensive study on fishing activities in ancient times see: Marzano
2013.
34
35
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
69
This technique – commonly used for centuries in the Mediterranean 37 – became however obsolete between the IX and the X century with the invention in the Eastern Empire of the so called ‘death
chamber’ 38.
The latter consisted of a sophisticated maze of underwater nets,
which conducted tunas into an artificial ‘pool’ installed in the open
sea. As the tunas swam in, the entrance to the pool was sealed behind
them creating a cage from which they were unable to swim out again.
One by one fish were pulled out of the water and collected onboard
of boats moored around the pool.
Unlike the old system, the death chamber did not need the
seashore for the capturing phase, but relied on fixed installations in
the sea, which ensured, with less effort and less manpower, much
greater results in terms of fish caught. Therefore, as it can be imagined, the death chamber rapidly became the ordinary method of fishing tunas.
What is particularly interesting for the purpose of the present paper is that the change in technology brought not only larger profits
for fishermen, but also frequent legal disputes. The main controversial points were the occupation of parts of the sea to the detriment of
others (e.g. sailors) and the coordination between different fishermen
who wanted to install death chambers in the same portion of the sea.
The disputes became so relevant and so controversial that the
Emperor Leo VI the Wise had to intervene. Between 886 and 912
AD, he issued a set of rules (Novellae) which revolutionized the legal
principles of res communes omnium.
The most significant norm was contained in his Nov. 56:
«Just like on land nobody can take the fruits of one’s property
without the permission of the owner – and if that happens it is
only because the owner allows it or because the owner is being
paid – we decide that the same shall happen on the sea» 39.
37
Evidence of the diffusion of this method of fishing tunas comes also by the fact
that the compilers of the Digest decided to include a passage on the legal problems
connected to it in Ulp. 6 opin. D. 8.4.13 pr. For a commentary of the latter, see Lambertini 2020.
38
See Purpura 2008.
39
The text of Nov. 56 has been translated by the author, based on the passages reported by Purpura 2008, 544.
70
ANDREA CAPURSO
And further below referring to the seashore:
«There is a law [D. 47.10.13.7; Bas. 60.21.13] which appears
unjust. It is the one that deprives a dominus of his property
rights on the seabed, or on the seashore, and it recognizes the
possibility to recur to the actio iniuriarum against such dominus
when he hinders the use of the shore for fishing purposes».
The Novella concluded establishing that every coastal owner shall
be considered the undisputed dominus over his property and shall
have the right to ban all others who wished to access it without his
authorization.
It is clear that with this Novella the ancient regime of res communes omnium was radically altered. The owners of coastal properties
were equated to land owners, with the right to exclude others from
the seashore and the adjacent sea. The natural corollary of this right
was that they could legitimately install death chambers and other
structures in the sea without the risk of legal actions against them. In
other words, the regime evolved from ‘access and use common to all’
to ‘exclusive rights in favour of coastal owners’.
However, the legislative intervention of Leo VI the Wise was not
limited to recognizing property rights over what was once considered
a res communis omnium. It also dealt with the consequential issues
brought by the presence of multiple subjects who could advance exclusive claims over entire areas of the sea in front of their properties.
In four other Novellae (57, 102, 103 and 104), he established the
necessary rules to coordinate the exploitation of tunas by neighbouring coastal owners. He set a conventional distance of 700 meters between death chambers and – in case it was not possible to respect that
distance – he envisaged a system of mandatory ‘communal use’ by
those owners who had to share adjacent waters 40.
It can be said that behind this legislative choice, there was a clear
intention to legitimize and stabilize the growing economic interests
around the exploitation of marine resources. As Scearce summarizes
it: «The development of a thriving trade in preserved marine products pushed shipbuilders to build higher capacity boats, navigators to
40
See Purpura 2008, 534.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
71
explore well beyond the limits of their shores, and fishermen to develop more sophisticated gear» 41. All this determined a change of paradigm in the governance of res communes omnium. Those who invested in commercial fisheries could not accept anymore a shared and
common use of the sea and the seashore. They did not want to have
the risk of conflicts over the occupation of portions of the sea.
Hence, they demanded the recognition of private and exclusive rights
over the areas used for their activities.
For these reasons, the regime of res communes omnium – for the
first time in history – was ‘shrunk’. The principles envisaged by
Ulpian and Marcian ceased to be applied to the seashore and to the
part of the sea in front of coastal properties.
From a first point of view, the effect of the Novellae was internal:
it changed the management of domains within the jurisdiction of the
Emperor and it affected the position of ‘citizens of the Empire’ with
regard to their use of res communes omnium.
However, it also had an implicit external effect: it facilitated the
creation of entities with exclusive powers over entire coastal areas of
the Empire’s territory. It was, in other words, a contributing factor in
the formation of self-governing actors who eventually started to play
an autonomous role in the political scene of the time.
In fact, as it was mentioned at the beginning of the present section, the technological innovations in fishing activities were not the
only factor that reshaped the scope of application of res communes
omnium: a significant and concurrent role was played by the evolving
political context of the time.
Undoubtedly, – as Vismara observes – the recognition by the
Emperor of property rights over entire portions of the seashore and
of the sea entailed an implicit idea of ‘sovereignty’ over such domains
in his hands 42.
However, the fact that the Emperor granted such extensive rights
to coastal owners was symptomatic also of the development of new
41
Scearce 2009, 5. See also Hoffmann 2005, 22, where – with regard to the
higher demand of fish in the Middle Ages – he finds a justification also in the diffusion of Christian culture in Europe, which required long periods of abstinence from
meat during the year.
42
Vismara 1978, 689 ff.
72
ANDREA CAPURSO
centres of power (not only in the Byzantine Empire, but in the rest of
Europe as well). They revolved around strong and influential subjects
such as religious institutions, great lords, landowners and marine
cities, who were growing in autonomy from the central power and in
control over their territory 43.
In the centuries which followed, their status as independent actors became stronger and their authority in the Mediterranean basin
more solid. A condition best described by the words of Fenn: «The
long continued and uninterrupted practice of enclosing portions of
the coastal waters culminated in the claim to jurisdiction over those
waters, a claim which was inevitably followed by the assertion of sovereignty. The possession by the great lords of vast domains, many of
which must have had an extended frontage on the sea; the possession
of private fisheries in the sea; the grant of privileges and immunities
by virtue of a royal or imperial grant; the right to levy customs and
taxes on foreigners in ports. All of these rights and powers would naturally produce in the mind of the ruler possessing them a sense of
proprietorship of the things over which he exercised them» 44.
The reality described here was very different from the one of the
II and III century, when the category of res communes omnium came
to light. With the Roman Empire firmly ruling the Mediterranean,
the idea of ‘jurisdiction’ or ‘sovereignty’ over the seas was not a matter of concern. But when the control of Rome declined, the coasts
were fragmented into a mosaic of areas governed by different actors,
who needed to protect their interests at sea and to defend the zones
of waters under their direct control.
The best example of this can be found in the treaty signed between
Venice and the Emperor Frederick I in 1177 45. In that occasion, the
latter recognized a limit in the free access to the Adriatic Sea 46. A
43
In general, on the various public powers present in Europe in the Middle Ages
and on their relations see: Padoa-Schioppa 2011, 1 ff. See also Fedele 2021, 168 ff.
On the role of religious entities in the Middle Ages, especially with regard to fisheries,
see: Monteleone 2013, 57 ff.
44
Fenn 1926, 466.
45
The original text of the Treaty can be found in the work of Kandler 1850, 301.
46
A similar concession was made in favor of Pisa by the Emperor Frederick I in
1162 with his Diplomata, n. 356. With that, he gave as ‘feodum’ to Pisa the ‘litum
maris’ from Civitavecchia to Portovenere together with the part of the sea in front of
the relative coast. For more on this, see Cortese 2017, 59.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
73
limit called ‘Veneticorum fines’ 47, where only Venetian ships could
freely sail. With that, Venice was officially acknowledged as having
‘sovereign powers’ on the sea in front of the laguna 48.
From a legal perspective, the prerogatives of Venice (and in similar ways the ones of the other maritime republics, such as Genoa, Pisa
and Amalfi) were the expression of a principle which became widely
accepted between the XI and the XIV century: the extension of city
jurisdiction over the waters adjacent to coasts 49.
It is self-evident that this was in clear contradiction with the res
communes omnium principle according to which the sea and the
seashore were common to all by natural law. A principle which was
still widely accepted in the Middle Ages 50. In order to find a coherent
solution, medieval jurists sought to interpret classic Roman law in
the light of contemporary practice, using arguments based on custom, prescription and analogy with territorial jurisdiction.
For instance, in his treatise Tiberiadis, the jurist Bartolus de Saxoferrato argued that the maritime city of Pisa rightly extended its jurisdiction to an island in the open sea where pirates were hiding. He
based such extension of jurisdiction on the fact that analogous powers were exercised by cities on land: «Just as the governor of the
province has to purge the province of wicked men on land, so must
he do at sea. From this it appears that he also possesses jurisdiction
over the sea, and, much more so, over the islands that lie in the
sea» 51.
Another example is provided by the jurist Angelus de Ubaldis,
who in order to support the position of the Republic of Genoa with
respect to the Ligurian Sea, affirmed that Genoa had acquired ‘ownership’ (dominium) of its gulf by time immemorial (prescriptione longi
temporis) 52.
Cortese 2017 see in particular footnote 297.
See de Vivo 2003, 159 ff.
49
Fedele 2021, 249.
50
Fedele 2021, 249.
51
See Bartolus de Saxoferrato’s Tiberiadis as reported and translated by Fedele
2021, 250.
52
See Angelus de Ubaldis’ Ad Dig. 41.3-45, f- 34v, n. 1 as reported and translated
by Fedele 2021, 253.
47
48
74
ANDREA CAPURSO
Thus, using various legal instruments, medieval jurists started to
provide the legal basis for the new reality which was unfolding in
front of their eyes.
New maritime powers were appearing all over Europe. They
sailed and fished the seas not anymore as Roman citizens, but as ‘autonomous’ entities. They could not rely on the administrative powers
of a central authority to regulate their controversies over the use of a
common sea (as Romans did with the recourse to legal actions in
front of the praetor), but they had to defend by themselves their right
to use and access the waters in front of their territories 53. Their fortune and strength depended on the sea. Hence, they had to protect
their activities therein, imposing their exclusive use of littoral waters,
unhampered by foreign ships or pirate vessels. All this forced them to
exercise powers which were de facto contrary to the principles considered applicable by natural law. With time, the factual situation that
they created became permanent. The old Roman principles were definitely bended to reflect the new conditions on the use of the
seashore and of coastal waters.
Reduced and narrowed, the scope of application of the res communes omnium regime was irreversibly affected by technological and
political developments. Building upon them, later jurists combined
the customs and legal arguments of this period into a theory which
paved the way for the modern principle of the territoriality of the waters adjacent to a State 54.
4. The consolidation of the concept of territorial waters in the Age of
Discovery. – By the end of the Middle Ages, the idea that the seashore
and the adjacent sea belonged to coastal powers was not a matter of
discussion anymore. The principle was well consolidated and commonly recognized.
However, res communes omnium did not stop to be debated
among European jurists. They returned at the center of international
legal disputes during the ‘Age of Discovery’ 55. Two aspects were parA similar conclusion is reached by Vismara 1978, 691.
Fenn 1926, 470.
55
The expression ‘Age of Discovery’ refers to a period which spans from the XV to
the XVII century.
53
54
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
75
ticularly controversial: 1) the possibility to claim sovereignty over the
oceans; 2) the extent of territorial waters.
As for the first, the legal debate stemmed from a combination of
factors.
Europe was in that period divided between different kingdoms.
The ones with maritime borders had secured their exclusive rights
over the belt of waters surrounding their territory, at least from a legal perspective. However, they were expanding their ambitions over
the open oceans, which were still considered a common domain.
They discovered new maritime routes, circumnavigating Africa,
reaching south Asia and sailing through the Atlantic Ocean towards
the Americas. Through them, Europe was connected to the rest of
the globe.
Having access to oceanic routes meant having access to the abundant resources contained in foreign continents, which was translated
in economic wealth, military power and a stronger political position
in Europe 56.
Thus, one of the main interest of European kingdoms became
the right to sail those routes on an exclusive basis, obtaining a monopoly over the trade of the resources taken from the other parts of
the world. However, all this was contrary to the legal status of the
oceans: res communues omnium.
To overcome that obstacle, the two major colonial powers of the
world – Spain and Portugal – tried to use different instruments. In
1493, they obtained from Pope Alexander VI, who – as the Vicar of
Christ – was deemed to have plenitudo potestatis over the world, the
papal bull Inter caetera 57. The latter stated a general prohibition on
sailing without the king’s permission to any of the overseas territories bestowed to the Spanish and Portuguese crowns 58. This papal
concession was followed in 1494 by the signing of the Treaty of
Tordesillas between the two Iberian reigns 59. With it, they defined
the zones of the world under their respective control, dividing the
56
On the historical and geopolitical developments of the Age of Discovery see:
Arnold 2002.
57
For the original text of the bull see Davenport 1917, 56 ff.
58
Benton - Straumann 2010, 19.
59
For the original text of the Treaty see Davenport 1917, 84 ff.
76
ANDREA CAPURSO
Atlantic Ocean vertically in two. They also envisaged the possibility
for Spanish ships to sail through the Portuguese zone, but with restrictions on their course 60. Finally, in 1529, with the Treaty of
Saragossa, Spain and Portugal established exclusive zones of navigation and trade in the East 61.
In sum, through these documents the two kingdoms tried to
eliminate the conception of the high seas as res communes omnium,
justifying their authority over the oceans on the basis of discovery,
papal donation and acquisition by prescription for long use 62.
All this represented the most concrete attack to the Roman conception of the common sea.
The reason behind it was clearly economical. As Walter Raleigh,
a famous English explorer of the time, put it: «Whosoever commands
the sea commands the trade; whosoever commands the trade of the
world commands the riches of the world, and consequently the world
itself» 63.
However, the positions advanced by Spain and Portugal met the
opposition of other maritime powers. The most notable objection
was made by Queen Elizabeth I in an official letter to the Spanish
ambassador Mendoza in 1580 64. She rejected the legality of the Spanish claims over the Atlantic Ocean adducing different reasons: the
disavowal of the Pope’s authority, the inapplicability of a bilateral
agreement to third parties and the impossibility to acquire by prescription what is by natural law non-appropriable. Therefore, she
concluded asserting the freedom of both sea and air: «The use of the
sea and air is common to all; neither can any title to the ocean belong
to any people or private man, forasmuch as neither nature nor regard
of public use permits any possession thereof» 65.
In addition to the Queen’s arguments, the idea of the freedom of
the seas received the support of eminent legal scholars. In particular,
See Benton - Straumann 2010, 19.
Benton - Straumann 2010. For the original text of the Treaty see Davenport
1917, 146 ff.
62
See the text of the above-mentioned treaties. See also the opinion of Fiorentini
2001, 323.
63
Raleigh 1965, 325.
64
The original text in Latin can be found in the work of Camden 1616, 325.
65
Camden 1616, 325. On the role of Elizabeth I in the development of the Law
of the Sea see Colombos 1967, 74.
60
61
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
77
the Dutch jurist Hugo Grotius wrote some of the most memorable
and quoted pages in defense of that idea. In his Mare Liberum, published in 1609, the author offered his legal opinion on why his country had the right to access South East Asia through the Indian Ocean
and trade with its peoples disregarding the claims of monopoly expressed by Portugal 66. He used various arguments based on legal,
philosophical and historical sources. His dissertation supported the
idea that the common sea could not legally be the object of any
claims of sovereignty. As he summarized it: «There appears to be
nothing truer than what our learned jurists have enunciated, namely,
that since the sea is just as insusceptible of physical appropriation as
the air, it cannot be attached to the possessions of any Nation» 67.
However, at the center of Mare Liberum was not just the legal defense of the non-appropriability of the oceans. The work of Grotius
revolved around the idea of free trade and free access to oceanic
routes 68. It is to that end that the author built all his arguments, including the ones against the occupation of the Indian Ocean. The
centrality of such idea emerges constantly in the author’s trail of
thought: «Every Nation is free to travel to every other Nation and to
trade with it … All that which has been so constituted by nature that
although serving some one person it still suffices for the common use
of all other persons, is today and ought in perpetuity to remain in the
same condition as when it was first created by nature» 69. And again:
«If a man were to enjoin other people from fishing, he would not es66
Countless pages have been written on Grotius’ Mare Liberum. For a comprehensive analysis of the text highlighting the importance of trade in his dissertation see:
Borschberg 2005. The text analyzed and used for citations is the one edited by R.
Van Deman Magoffin in 1916 (as published in 2000), hereinafter cited as Grotius
1609.
67
Grotius 1609, 31. In order to confute the appropriability of the oceans he also
turned his attention to medieval legal theories, observing that: «the opinion held by Johannes Faber, Angeli, Baldus, and Franciscus Balbus» on the possibility to acquire common domains by custom «would be contrary to natural equity … And far from justifying itself by any lapse of time, it rather becomes worse, and every day more injurious» (p. 42). Moreover, he defined the opinions in support of Genoese and Venetians
claims on their acquisition by prescription of sovereign rights over the sea to be «extravagantly foolish» and «delusions» (p. 41).
68
This appears evident by simply looking at the full title of the book: Dissertation
on the Right which belongs to the Hollanders to Engage in the Indies Trade.
69
Grotius 1609, 23.
78
ANDREA CAPURSO
cape the reproach of monstrous greed. But the man who even prevents navigation, a thing which means no loss to himself, what are we
to say of him? … Why then, when it can be done without any prejudice to his own interests, will not one person share with another
things which are useful to the recipient, and no loss to the giver?» 70.
Finally, citing the work of the Spanish jurist Fernando Vazquez: «The
same primitive right of Nations regarding fishing and navigation
which existed in the earliest times, still today exists undiminished and
always will, because that right was never separated from the community right of all mankind» 71.
With these words, Grotius defended the Roman principles of res
communes omnium.
He did not contest the possibility to occupy foreign lands and exploit their resources, but the idea that the possibility to do so – sailing through the oceans – was the exclusive right of a manifold of
colonial powers. Free trade and free use of the high seas were too important for the European societies of the time. Thus, he demonstrated that the access to the richness of other continents through
maritime routes had to be equal, common and unrestricted.
Eventually, the theory of Mare Liberum prevailed 72: the positions
of those kingdoms who advocated the closure and appropriation of
the oceans were abandoned.
However, another question remained open: how far could maritime powers extend their own territorial jurisdiction over the waters
adjacent to the coast?
The answer to this question was the object of a long debate
which kept jurists discussing for centuries.
Already in medieval times, various theories were put forward to
assert the extension of a city’s jurisdiction over its littoral waters. Bartolo de Saxoferrato, for instance, proposed the limit of two days of
navigation: because on land two days of travel corresponded to apGrotius 1609, 30 ff.
Grotius 1609, 42.
72
Before becoming widely accepted, the theories of Grotius saw the contention of
other influential jurists of his time. Most notably, the English John Selden wrote a
treatise called Mare Clausum, in strong opposition with the Dutch. For more on the
work of Selden and his theories, see: Ziskind 1973, 537 ff.
70
71
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
79
proximately 100 miles, he fixed at that distance the limit of jurisdiction over the adjacent sea 73.
Such fixed limit became more vague in the following centuries.
Grotius in his Mare Liberum acknowledged a criterion connected
to the reach of the human eye, stating with regard to the freedom of
the seas: «The question at issue does not concern the expanse of sea
which is visible from the shore» 74.
Later, in his De Iure Belli ac Pacis he suggested a limit connected
to the ‘effective control’ of the coastal power: «Jurisdiction or Sovereignty over a Part of the Sea is acquired … when those that sail on
the Coasts of a Country may be compelled from the Land, for then
it is just the same as if they were actually upon the Land» 75.
In 1702, Cornelis van Bynkershoek in his De Dominio Maris
Dessertatio translated Grotius’ theory in practical terms, proposing a
very empiric solution: the range of a cannon shot 76.
All these theories had behind them a defensive rationale. They
were the result of the necessity to protect the coast from external
threats vis-à-vis a multitude of maritime actors sailing the seas often
in conflict with one another.
Yet, they reflected also another necessity: the protection of the
economic activities conducted in the zone of waters next to the
seashore.
This is apparent from the quarrel between British and Dutch
fishermen over the exploitation of the North Sea at the beginning of
XVII century. In 1609, King James I proclaimed the sovereign power
of England over the North Sea and prohibited foreigners «to fish
upon any of our coasts and seas … until they have orderly demanded
and obtained licenses from us» 77. The underlying consideration of the
73
See Bartolus de Saxoferrato’s Tiberiadis as reported and translated by Fedele
2021, 250.
74
Grotius 1609, 30.
75
Grotius 1625, 470 (the text analyzed and used for this citation is the one
edited by R. Tuck in 2005). The idea of connecting the limit of jurisdiction to the
(military) control of the sovereign power reflected the Roman maxim ‘Terrae potestas
finitur ubi finitur armorum vis’.
76
Van Bynkershoek 1702, 104 (the text analyzed and used for this citation is the
one edited by Van Deman Magoffin in 1923).
77
See Fulton 2002, 165 ff.
80
ANDREA CAPURSO
Netherlands was therefore to find an argument that would allow their
seamen to keep on sailing to such fishing grounds as unrestricted as
possible. Against this background, the Dutch delegation in London
thus claimed: «For that it is by the law of nations, no Prince can challenge further into the sea than he can command with a cannon except gulfs within their land from one point to another» 78.
This short account of the long contentious claims between England and the Netherlands over the use of the North Sea provides a
perfect example of the importance of protecting exclusive fishing
rights for the development of the idea of territorial waters.
In sum, during the Age of Discovery, the complete abandonment
of the principles of res communes omnium was advocated and supported strongly (e.g. by Spain and Portugal). However, in the end, the
theory of free access, free use and non-appropriation of the high seas
resisted and was actually exalted as an uncontestable truth. In the
words of Fulton: «As maritime commerce extended and the security
of the sea became established, it was felt more and more that claims
to a hampering sovereignty and jurisdiction were incompatible with
the general welfare of nations; and as the states interested in this
commerce had the greatest power, the assertion of a wide dominion
was gradually abandoned, surviving only in remote regions or in enclosed seas like the Baltic» 79.
At the same time, defensive and economic reasons pushed maritime powers to extend their jurisdiction as far as they could exercise
their control from the coast. The idea of excluding a portion of the
sea from the part considered communes omnium continued to evolve,
finding new legal grounds and assuming in this period a more concrete conceptualization. However, it was only in the XX century that
it arrived at its final codification.
5. The decline of ‘res communes omnium’ in the XX century. – For
more than three centuries, States and scholars debated the limit of
territorial waters. The criteria proposed in the XVII century were
eventually translated in a precise length. It was the Italian jurist Fer78
79
Fulton 2002, 165 ff.
Fulton 2002, 557 ff.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
81
dinando Galiani who proposed in 1782 the limit of three nautical
miles 80.
By the XX century, the major maritime powers of the time – led
in primis by Great Britain – recognized such limit as a rule of international law. However, – as Admiral Schachte explains it – by the
outbreak of World War I many believed that the breadth of the territorial sea should have expanded in direct correlation to the increasing
range of artillery fire. Contentions over the three nautical mile rule
continued and at the Hague Convention of 1930 the rule was subjected to increasing criticism, and its significance became diminished
by the rapid development of the concept of the contiguous zone: sixteen of the thirty-five states that voted, claimed a contiguous zone
adjacent and seaward of the territorial sea to satisfy the interests of security, neutrality, sanitation, customs, overfishing 81.
The concept of territorial waters flourished in the next years with
the most common claim being twelve nautical miles. Behind this
larger concept of adjacent sea, there were different motives. The
USSR wanted to keep foreign powers distant from its shores. At the
same time, the extension to a maximum of twelve miles was favored
by smaller coastal States and those which depended a great deal upon
fishing. On the other hand, the United States of America was still
supporting the old three-mile limit. The reason can be found in
America’s ‘National Security Strategy’ (NSS), which had for long emphasized deterrence, forward defense, and allied solidarity. From the
perspective of the United States, therefore, it was of critical importance that the sea lines of communication remained open 82.
Only in the 1980s, during the cold war, the United States changed
its stance over the maximum breadth of territorial waters. On December 27, 1988, President Reagan proclaimed that the American
territorial sea extended to twelve nautical miles. Of key importance
to the United States was that the new limit would force all vessels not
engaged in innocent passage, particularly those collecting intelligence, to maintain a distance nine nautical miles further seaward.
While the limit of the US territorial sea remained at three nautical
Galiani 1782.
See Schachte 1990, 150 ff.
82
Schachte 1990, 155 ff.
80
81
82
ANDREA CAPURSO
miles, foreign intelligence vessels could (and did) park 3.1 nautical
miles off many of American major naval ports 83.
Eventually, the twelve nautical mile rule was codified in article 3
of the United Nations Convention on the Law of the Sea of 1982
(hereinafter UNCLOS) 84 becoming a generally accepted rule of international law.
As it can be seen from this historical account of the territorial
sea’s codification process, the factors that determined the extension of
territorial jurisdiction over adjacent waters were a combination of
economic interests and security needs.
However, coastal States deemed it necessary to exercise different
powers also over the waters beyond the adjacent sea. This necessity
found fertile ground during the negotiations of UNCLOS, which resulted in the recognition of extensive powers over large portions of the
open sea. The Convention created various areas where coastal states
could control the activities conducted therein: the contiguous zone,
the continental platform, the exclusive economic zone and the high
seas. In the end, only in the latter area the United Nations recognized
the applicability of the principles of res communes omnium.
This process of reducing the Roman category to a residual concept in the system of the international law of the sea, found a similar
development in the regulation of the airspace.
Until humans invented the airplane, the skies belonged to the
Roman category of res communes omnium. In 1906, the Institute of
International Law on the subject of the ‘regime juridique des aerostats’
affirmed this idea with three simple words: ‘L’air est libre!’.
However, the following events of the XX century rendered necessary to rethink that stance. When airplanes started to be used intensively for military and commercial purposes the principles of res communes omnium could not be used anymore as the pillars determining
the utilization of the sky around the world. This happened mainly
between 1915 and 1920. Great Britain, for example, possessed only
twelve military aircraft in 1914. By the end of the War, it possessed
twenty-two thousand 85.
83
84
1982.
85
Schachte 1990, 164 ff.
United Nations Convention on the Law of the Sea, U.N. Doc. A/CONF.62/122,
See Sand 1960, 24 ff.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
83
The principles of res communes omnium left their place to a new
general dogma: sovereignty. Thus, when the first international convention of air law entered into force in 1922, the freedom of the air
became residual: it applied only where States did not have complete
and exclusive sovereignty. In other words, everywhere but in the airspace over their territory, including territorial waters 86. Notably, the
report of the drafting committee at the 1919 Paris Conference said:
«It is only when the column of air rests on a res nullius or communis,
the sea, that freedom becomes the rule of the air» 87.
The same approach was restated in what is considered today the
Magna Charta of international aviation: the United Nations Convention on International Civil Aviation of 1944 (hereinafter Chicago
Convention) 88. Its articles 1, 2 and 12 limit the freedom of flight to
the international airspace.
However, that freedom is not absolute. The Chicago Convention
envisages the attribution to coastal States of air traffic management
(ATM) prerogatives over the international airspace. These States perform their duties by extending the relevant regulations applicable to
their sovereign airspace to that part of the sky where they have to
provide the air traffic service 89. Accordingly, foreign aircraft have to
fly in this assigned portion of the international sky in a manner consistent with the rules adopted for the State’s own airspace. This represents a form of extension of one State’s control over a portion of a
common domain.
Moreover, two practices connected to security purposes can be
mentioned: the creation of Air Defense Identification Zones (hereinafter: ADIZ) and the establishment of ‘restricted airspaces’ over the
high seas 90.
National security considerations may lead a coastal State to ensure that approaching aircraft are identified long before they peneSee the Convention Relating to the Regulation of Aerial Navigation, adopted in
Paris by the International Commission of Air Navigation on 13 October 1919 and entered into force in 1922, Article 1: «The High contracting Parties recognize that every
Power has complete and exclusive sovereignty over the air space above its territory».
87
See Soloveva 2022, 112.
88
United Nations Convention on International Civil Aviation, adopted on 7 December 1944 and entered into force on 4 April 1947, Chicago, Articles 1, 2 and 12.
89
See Grief 1994, 63.
90
The Chicago Convention is silent on both practices.
86
84
ANDREA CAPURSO
trate its sovereign airspace 91. Thus, although aircraft above the high
seas are subject to the exclusive jurisdiction of their State of registry,
some coastal States claim the right to exercise control over foreign aircraft flying in ADIZ beyond the limits of their sovereign airspace 92.
In practice, this means that aircraft on a course to penetrate a coastal
State’s airspace may be requested to identify themselves and failing
voluntary identification may be intercepted 93.
As for restricted zones over the international airspace, they are
generally established by States that want to use a portion of the sky
for the training of military pilots, for firing exercises or for combined
air-naval operations 94. This entails the occasional exclusive use by
States of parts of the international airspace. But the temporary nature
of such zones can be stretched for long periods, challenging the principles of common use and free access.
In view of the rules and practices described here, it is possible to
identify a specific rationale inspiring the whole system of international air law: the concept of ‘safety’.
This is evident if we look at the Preamble and at article 44 of the
Chicago Convention. The former indicates that the Chicago Convention was drafted in order to ensure that international civil aviation
may be developed in a safe and orderly manner. The latter establishes
as the first objective of the International Civil Aviation Authority the
safe and orderly growth of international civil aviation throughout the
world. All the other provisions of the Convention are meant to realize that aim.
In conclusion, it can be said that the treaties and practices of contemporary international law have demised the purpose of res communes omnium. The principles of free and common use of the sea
and the air have been sacrificed on the altar of security, economic interests, environmental protection and safety. Each of these needs have
The United States’ ADIZ, for example, stretches for about 400 miles off the US
West Coast. See Grief 1994, 146.
92
More than 20 States have now established ADIZ over the high seas. Among
them: USA, China, Russia, Japan, and Turkey. Grief 1994, 147.
93
This is based on the so-called ‘protective principle’. However, there is no legal
basis in international law for prosecuting the operator of a foreign aircraft which operates in a coastal ADIZ without the intention of entering the airspace of the respective
State. Grief 1994, 151.
94
Grief 1994, 58.
91
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
85
prevailed over the idea of a common domain, allowing the progressive expansion of sovereign powers, in a long and steady process
which from the fall of the Roman Empire has never stopped.
6. Conclusory remarks. – The historical analysis conducted in the
present paper unveils a legal evolution of the Roman category of res
communes omnium characterized by a continuous attempt to find exceptions and exclusions to its applicability.
With time, the domains that were originally meant to be used in
common under natural law saw the expansion of sovereign entities,
which progressively extended their presence beyond their territories
with exclusive rights and absolute prerogatives. This slow and steady
process was the result of precise factors: 1) the lack of a central authority controlling and settling disputes over the use of res communes
omnium; 2) the presence of a multitude of independent actors; 3) the
need to prevent the use of common domains for the purpose of accessing one’s own territory – or interfering with it; 4) the technological advancements in the exploitation of the resources contained in res
communes omnium; 5) the necessity to protect such economic activities by excluding foreign competitors; 6) the urgency to ensure a secure and sustainable use of common areas adjacent to one’s own borders.
For all these reasons, through the centuries, jurists have elaborated legal theories that justified the disapplication of res communes
omnium’s principles in areas once part of common domains. The sovereign entities that were accessing and using such res disfavored the
system of commonality envisaged by Romans and preferred to see bestowed upon themselves the control and management of the activities
conducted therein.
In other words, the history of res communes omnium can be seen
– from a legal point of view – as a history of slow decline and regression, indirectly connected to the rise of sovereignty.
The class of res imagined by Ulpian and Marcian has been progressively reduced to a residual concept of international law. Few areas on Earth are still regulated by the principles of free access, free use
and non-appropriation (e.g. international waters) and, yet, they continue today to see new limitations to their scope of application.
86
ANDREA CAPURSO
Nonetheless, the communis omnium regime survives almost intact
in one last large domain: beyond the atmosphere, on the Moon, the
principles of Roman law continue to live codified in the Outer Space
Treaty of 1967. The question is: for how long?
It is already possible to see in the ‘New Moon Race’ some of the
factors that marked the historical de-evolution of res communes omnium: technological advancements, opposing economic interests, security and safety needs. They will all be inevitable elements of the
colonization of the Moon. Thus, it is not absurd to predict that also
on our satellite the arrival of lunar-faring Nations will trigger a
process that will result in the affirmation of exclusive powers and in
the creation of areas under the control of one State.
In conclusion, the present paper calls the attention to the history
of a legal category that has returned at the center of the international
legal debate with regard to space exploration. The relationship between sovereignty and common domains has always followed a unidirectional trend, where the former expanded while the latter were
scaled down. Such trend has not stopped and continues to erode areas of Earth from their common legal nature. In view of the circumstances behind this process – as described in the previous pages – and
considering their reappearance in similar terms with regard to Moon
missions, it seems only probable to conclude that sovereignty and
borders will follow humans also in their exploration and expansion
on the Moon and the other celestial bodies. If that is true, then it is
the responsibility of the present international community to focus
not on the preservation of a common regime, but on the establishment of clear rules that will allow the exercise of sovereign powers by
spacefaring Nations in the spirit of transparency, cooperation and
collaboration.
THE END OF RES COMMUNES OMNIUM
87
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Yaiza Araque Moreno
EL CADÁVER COMO RES
1. Introducción. – ¿Es posible que un acreedor retenga el cadáver
de su deudor hasta que la deuda que tenía contraída quede satisfecha?
¿Puede una persona exonerarse de responsabilidad si entrega el
cuerpo inerte del delincuente sobre el que ostenta su potestad a la víctima que ha sufrido el daño causado por éste?
No son pocos los testimonios que han llegado a mis manos en
los que se describen ambas situaciones: casos en los que se da en
noxa el cadáver de una persona o en los que se impide su sepultura
reteniendo sus restos a la espera de que los herederos abonen sus
deudas.
Estos hechos, cuanto menos asombrosos, me han llevado a querer reflexionar sobre la naturaleza jurídica que tiene el cadáver y no
sólo bajo el prisma del Derecho Romano ya que en pleno siglo XXI
se siguen produciendo eventos similares, por sorprendente que
pueda parecer. Ello, unido al debate existente en la actualidad sobre
la disposición que tiene una persona sobre su propio cuerpo (incluso
una vez fallecida) hace que entienda razonable el estudio de esta
cuestión.
2. Consideración del cadáver en Derecho Romano. – Gayo comienza el comentario segundo de sus Instituciones con una exposición detallada de las cosas quae uel in nostro patrimonio sunt uel extra
nostrum patrimonium habentur (Gai 2.1).
Según el jurista, la primera diferencia a tener en cuenta versa sobre las cosas que provienen del derecho divino y las que derivan del
92
YAIZA ARAQUE MORENO
derecho humano (nam aliae sunt diuini iuris, aliae humani). Las res
sacrae – consagradas a los dioses superiores – y las res religiosae – confiadas a los dioses Manes – pertenecen precisamente al primer grupo
y, en este sentido, se ha considerado tradicionalmente como res religiosa el cadáver de una persona, pero ¿podemos afirmarlo con total
seguridad?
2.1. El cadáver no debe ser considerado como ‘res religiosa’. – La noción del cadáver como res religiosa tiene su origen en el fragmento que
nos transmite Gayo 1:
Gai 2.6: Religiosum uero nostra uoluntate facimus mortuum inferentes in locum nostrum, si modo eius mortui funus ad nos pertineat.
Según este fragmento el sepulcro se convierte en res religiosa una
vez ha acogido el cuerpo del difunto en su interior. Y en D. 11.7.44.1
se establece que cuando se trasladan los restos de un lugar a otro el terreno en el que estaba enterrada la persona deja de ser religioso (ut reliquiae transferantur, desinit locus religiosus esse).
Asimismo, Cicerón en leg. 2.22.57 señala al describir el ritual que
se debía realizar para la sepultura de una persona que nam prius quam
in os iniecta gleba est, locus ille ubi crematum est corpus, nihil habet religionis, esto es, el lugar en el que introducimos el cuerpo nada tiene
de religioso, antes de meter el cuerpo.
Se podría considerar, por tanto, que el cadáver sería una res religiosa que transmite su carácter al sepulcro una vez ha sido inhumado.
Así lo ha entendido parte de la doctrina como D’Ors 2 o GiménezCandela 3 y es una teoría aceptable, pero veremos que las fuentes no
son tan claras y por ello no existe una posición unánime al respecto.
En sentido contrario y siendo muy críticos se encuentran, por ejemplo, De Visscher 4 o Rodríguez Martín 5.
1
De manera similar lo describe Ulpiano en su lib. XXV ad edictum cuando manifiesta que Scriptus heres prius quam hereditatem adeat patrem familias mortuum inferendo
locum facit religiosum … (D. 11.7.4).
2
D’Ors 2016, 91 s.; Rodríguez Martín 1998, 296, nt. 631.
3
Giménez-Candela 1981, 207.
4
De Visscher 1963, 49 ss.
5
Rodríguez Martín 1998, 294 ss.
EL CADÁVER COMO RES
93
Conviene por ello acotar los términos de la discusión. No cabe
duda alguna de que sepulcro y cuerpo una vez enterrados son res religiosae. En el momento en el que se introduce el cuerpo en el interior
del sepulcro conforme los ritos adecuados se entiende que ha sido entregado a los dioses Manes, pero ¿qué condición ostenta entonces antes de su sepultura?
Por un lado, sabemos que el cadáver tenía un carácter impuro y
sólo tras el funeral se podía decir que tanto el fallecido como su familia quedaban limpios. Éste era un tema de vital importancia para
los romanos ya que para ellos la sepultura de un cuerpo se debía realizar de una determinada manera: no bastaba con su inhumación si
no que el entierro debía desarrollarse conforme al ritual que establecían las costumbres 6, de lo contrario, la persona se convertía en un
alma errante capaz de causar desdichas y atormentar a los vivos 7.
Por otro, son bastantes los fragmentos que versan sobre aspectos
funerarios y en ninguno de ellos se menciona expresamente qué carácter tenía el cadáver antes de ser enterrado:
– Ulpiano indica en D. 11.7.2 pr. locum in quo servus sepultus est
religiosum esse Aristo ait, es decir, si la persona que fallece es un esclavo de igual manera será religioso el lugar en el que se le entierre.
– El mismo jurista nos plantea el problema al que se enfrenta el
dueño de un fundo que desea desenterrar los restos humanos que
tiene en su propiedad y no puede hacerlo si no es con la autorización
del pontifex o princeps. Este pasaje (D. 11.7.8 pr.) no versa tampoco
sobre la condición del cadáver, sino que indica la sanción que puede
obtenerse en caso de que se profane una res religiosa sin permiso (alioquin iniuriarum fore actionem adversus eum qui eiecit).
– En D. 11.7.38 se establece que no se deben detener ni injuriar
a los cadáveres neve prohiberentur quo minus via publica transferrentur
aut quominus sepelirentur. Se alude así a ciertas normas sobre transporte y protección, pero no hay ningún dato que se refiera a él como
res religiosa. Y tampoco encontramos premisa alguna en el texto de
Ulpiano 25 ad ed. praet. D. 47.12.3.4 que también versa sobre esta
cuestión.
6
7
En este sentido, v. Cic. leg. 2.22.57.
Sobre ello, v. Castaing 1953, 98; Guerrero 2002, 421.
94
YAIZA ARAQUE MORENO
– Marciano y Paulo abordan ciertas cuestiones relativas al traslado
y remoción del cadáver llevado a sepultura legítima en D. 11.7.39 y
D. 11.7.40, respectivamente. En ellos se señala que el cuerpo no debe
ser removido del lugar en el que se enterró –aunque es posible su traslado a un lugar más conveniente– y que en aquellos casos en los que
se le hubiera depositado de forma temporal en un lugar, pero con la
intención de trasladarlo posteriormente a otro, el primero manebit …
profanus.
Podemos apreciar que ninguno de estos fragmentos indican que el
cadáver sea una res religiosa. De hecho, no lo dicen y las normas a las
que se refieren las podríamos extrapolar perfectamente a la actualidad
dado que aluden al respeto que se le debe conceder a un difunto.
¿Podría ser entonces que si las fuentes no lo expresan pueda deberse a que simplemente el cadáver no tiene ese carácter 8?
La doctrina no ha tratado la cuestión directamente. Por ejemplo,
Talamanca considera que «fra le cose connesse col culto dei Mani è,
poi, il sepolcro a costituire, da solo, la categoria delle res religiosae» 9.
Por su parte, Fernández de Buján entiende que «son cosas religiosas
… las dedicadas a los dioses familiares, como los sepulcros y los objetos destinados al culto de los muertos» 10, pero no entra en la cuestión
como tampoco lo hacen Biondi 11, Paricio y Fernández Barreiro 12, Del
Valle Aramburu 13 o Hernández Canelo 14. De las Heras niega el carácter religioso del cadáver y considera que es una «cosa en sentido am-
8
Como en mi opinión aduce correctamente Rodríguez Martín 1998, 296,
nt. 631.
9
Talamanca 1990, 380 s.
10
Fernández de Buján 2013, 367.
11
Para él, son «religiosi i sepolcri, e gli oggetti destinati alla conservazione ed all’ornamento del cadavere» (Biondi 1972, 158).
12
Ellos entienden que las res religiosae son las afectadas a una finalidad de enterramiento (Paricio - Fernández Barreiro 2021, 183).
13
Según ella, las res religiosae eran «aquellas destinadas al culto de los dioses inferiores (manes), el terreno situado en el ager romanus privatus, en el que su propietario
enterró a un hombre, sea libre o esclavo, … y en que se construía su monumento funerario» (Del Valle Aramburu 2020, 340).
14
Considera que «los romanos llamaron res religiosae a los terrenos y los monumentos unidos a las sepulturas, que estaban dedicados a los dioses Manes (dii Manes),
es decir a los muertos que los antiguos divinizaban» (Hernández Canelo 2014,
374).
EL CADÁVER COMO RES
95
plio» 15 y Kaser manifiesta que «res religiosae sind die rechtmäßig mit
einem Leichnam belegten Grabstätten» 16.
A la vista todo ello, considero con las mismas reservas que el cadáver no parece ser una res religiosa. Más aún cuando existen testimonios en los que se detalla la existencia de acreedores que, de manera
consciente y voluntaria, obstaculizaban e impedían la sepultura de sus
deudores reteniendo sus cadáveres ante el impago de deudas 17. Si tuviera la condición de res religiosa, ¿no se estaría actuando directamente
en contra de los dioses Manes y del derecho divino al que representan?
El más antiguo de estos pasajes lo encontramos en una fuente literaria de finales del siglo IV d.C. Estamos hablando de la obra De
Tobia 10.36-37 de San Ambrosio de Milán 18 en la que se pone de
manifiesto la actividad ejecutiva de los funeratores:
Ambr. Tob. 10.36-37: Quotiens vidi a foeneratoribus teneri defunctos pro pignore et negari tumulum dum foenus reposcitur? Quibus ego acquievi libenter, ut suum constringerent debitorem, ut electo
eo, fideiussor evaderet; haec sunt enim feneratoris leges. Dixi itaque:
De las Heras 1987, 86 ss.
Kaser 1971, 378.
17
Interesante debate se inicia a su vez con estos testimonios en torno a la supervivencia de la ejecución personal por deudas. Recordemos que su supresión en Roma –
salvo para casos muy determinados – se produjo como consecuencia de la legislación
procesal de Augusto (a través de la lex Iulia iudiciorum privatorum del 17 a.C.). A partir de este momento, la ejecución ya no recaía sobre la persona del deudor, si no sobre
sus bienes. Sin embargo y a pesar de esta concepción tan generalizada, han llegado a
nuestros días una gran cantidad de testimonios – a través de fuentes epigráficas, literarias y sobre todo papirológicas – que atestiguan el mantenimiento de la práctica de la
ejecución personal por deudas durante el Alto y Bajo Imperio, tanto en Occidente
como en Oriente. En ellos podemos ver que la persona del deudor todavía puede ser
susceptible de ejecución, lo que le ofrece al acreedor una vía adicional y, en cierto sentido más eficaz, para la satisfacción de su crédito.
18
San Ambrosio de Milán, considerado como uno de los Padres de la Iglesia, ocupó
el cargo de gobernador de las provincias de Emilia y Liguria y ejerció la abogacía antes
de ser nombrado obispo de Milán en el 374 d.C. Para la doctrina no está claro si los hechos de este testimonio se produjeron durante su periodo como gobernador o ya como
obispo. A pesar de ello cabe destacar – tal y como apunta Guerrero – que San Ambrosio no era una persona ajena al mundo del Derecho por lo que «debía gozar de la instrucción jurídico-administrativa conforme al nivel cultural de su tiempo» (Guerrero
2002, 428, nt. 58). Sobre la vida de San Ambrosio y el cargo que posiblemente ocupaba
en el momento que relata este episodio, v. Esmein 1885, 233 ss.; Palanque 1933; Aru
1935, 293 ss.; Vismara 1987, 53 ss.; Maurice 1992, 367 ss.; Purpura 2009, 54.
15
16
96
YAIZA ARAQUE MORENO
Tenete reum vestrum; et ne vobis possit elabi, domum ducite, claudite
in cubiculo vestro, carnificibus duriores; quoniam quem vos tenetis,
carcer non suscipit, exactor absolvit; peccatorum reos post mortem
carcer emittit, vos clauditis; legum severitate defunctus absolvitur, vobis tenetur. Certe hic sortem suam iam memoratur implesse; non invideo tamen, pignus vestrum reservate. Nihil interest inter funus et
foenus, nihil inter mortem distat et sortem: personat, personat funebrem ululatum foenoris usura. Nunc vere capite minutus est quem
convenitis; vehementioribus tamen nexibus alligate, ne vincula vestra
non sentiat: durus et rigidus est debitor, et qui non iam noverit erubescere. Unum est quod non timere possitis, quia poscere non novit
alimenta. 37. Iussi igitur levari corpus, et ad foeneratoris domum exsequiarum ordinem duci: sed etiam inde clausorum mugitus ad alta
personabant. Ibi quoque funus esse crederes, ibi mortuos plangi putares: nec fallebat sententia, nisi quod plures constabat illic esse morituros. Victus religionis consuetudine foenerator (nam alibi suscipi
pignora etiam ista dicuntur) rogat ut ad tumuli locum reliquiae deferantur; tunc tantum vidi humanos foeneratores gravari me; tamen
ego eorum humanitatem memorabam prospicere, ne postea se quererentur fraudatos esse, donec feretro colla subiecti, ipsi defunctum ad
sepulcra deducerent, graviori moerore deflentes pecuniae suae funus.
En efecto, el texto comienza aludiendo a la práctica habitual por
la que los acreedores podían retener el cadáver de sus deudores hasta
que se les pagara la correspondiente deuda (foeneratoribus teneri defunctos pro pignore).
Es un fragmento que sorprende por la crueldad de los hechos que
nos transmite, pero son los términos ‘Quotiens vidi’ los que atrapan
de forma inminente mi curiosidad ya que gracias a ellos no sólo se
denota la frecuencia con la que parece que se llevaba a cabo esta conducta en la práctica sino también que San Ambrosio fue testigo de
ello en no pocas ocasiones 19. Tal es así que el Padre de la Iglesia explica que él mismo lo permitía para que, una vez retenido el cuerpo
inerte del deudor, al menos el fiador quedara exento de responsabili19
La doctrina no alberga duda de la veracidad del testimonio y de que el Padre de
la Iglesia fue un testigo ocular: Esmein 1885, 232; Aru 1935, 294; Mitteis 1891, 454
s.; Rodríguez Martín 1998, 302; Purpura 2009, 55; Navarra 2016, 99.
EL CADÁVER COMO RES
97
dad (Quibus ego acquievi libenter, ut suum constringerent debitorem, ut
electo eo, fideiussor evaderet).
Esta retención se ejercía entonces por el acreedor como modo de
presión, pero a su vez se concebía como medio extraprocesal de garantía hasta que la deuda quedara saldada. Si no se abonaba la cantidad debida por los herederos o fiadores no se devolvía el cuerpo del
deudor y, por consiguiente, no podía ser enterrado.
Por suerte, el pasaje tiene un final feliz. Según el texto, el acreedor vencido por sus costumbres religiosas rogó que el cadáver fuera
trasladado a su lugar de entierro (victus religionis consuetudine … rogat ut ad tumuli locum reliquiae deferantur). Se aprecia así que el
acreedor solicita al Padre de la Iglesia la sepultura de su deudor como
acto de respeto hacia sus restos, pero sólo debido a sus creencias cristianas, no porque entendiese que su cuerpo era una res religiosa, ni
mucho menos una cosa que quedara fuera del comercio de los hombres, como él y otros acreedores demostraban al usarlo como prenda.
Y este testimonio no es el único sobre esta práctica que ha llegado
a nuestros días. Durante los dos siglos siguientes parece que se mantuvo e incluso fue in crescendo. Así nos lo transmite por ejemplo Sidonio Apolinar, que ostentó el cargo de obispo de Clermont a finales
del siglo V d.C., al narrar cómo un deudor fue atormentado por sus
deudas por agentes públicos en su lecho de muerte 20 o el capítulo 75
del Edicto de Teodorico de entorno al 512 d.C., que también se refiere a esta práctica 21.
Asimismo, cabe decir que ninguna disposición legal del siglo IV
d.C. prohíbe la retención del cadáver de un deudor por su acreedor 22
20
Sidon. epist. 24.2: sed cum pater tuus morti propinquae morbo incumbente succumberet atque ob hoc ipsum publica auctoritas male valentem patremfamilias violentius
ad reformandum debitum artaret … Sobre este fragmento, Esmein 1885, 227, nt. 2;
Rodríguez Martín 1998, 302.
21
Este edicto, por su parte, ha suscitado un gran debate entre la doctrina debido a
la ambigüedad de la frase ‘quasi debitorem suum adserens’. Sin entrar en detalle debido
a que ello excedería del ámbito del presente trabajo, cabe apreciar que la discusión
doctrinal se debe a que dependiendo de la interpretación de la mencionada oración se
puede afirmar que Teodorico prohibió o reconoció esta práctica en el occidente
bárbaro. Sobre ello, Gaudenzi 1884, 18; Aru 1935, 298 ss.; Rodríguez Martín
1998, 304 s.; Purpura 2009, 56.
22
En la lex Iulia de vi privata se aborda la cuestión de aquellos que impedían el
funeral de una persona, pero no parece que las penas que esta ley imponía estuvieran
98
YAIZA ARAQUE MORENO
y es que debemos esperar hasta la primera mitad del siglo VI d.C.
para encontrar normas encaminadas a perseguir y penalizar estas actuaciones.
La primera de ellas es una constitución del emperador Justino del
año 526 d.C. (C. 9.19.6). Lo primero que hace el emperador es reconocer que el hecho de que un acreedor se oponga a la sepultura de
su deudor exigiendo para ello el pago de su deuda constituye una
conducta injusta y muy lejana a su tiempo (‘Cum sit iniustum et nostris alienum temporibus’). Por ello, establece varias medidas como la
restitución de las cosas al estado en el que se encontraban antes de
que el fallecido fuera conducido a la tumba y una condena pecuniaria de cincuenta libras de oro o, en caso de que el acreedor no pudiera
pagarla, una pena corporal (‘qui in huiusmodi deprehensus fuerit flagitio, quinquaginta libras auri dependere vel, si minus idoneus sit ad persolvendum, suo corpore sub competenti iudice poenas luere’).
Lamentablemente y a pesar de las sanciones establecidas, todo
apunta a que no se obtuvo el éxito que se esperaba. El emperador Justiniano tuvo que promulgar una segunda constitución en el 537 d.C.
(Nov. 60.1.1), teniendo que repetir la prohibición de esta práctica tan
sólo cinco años después, en el 542 d.C. (Nov. 115.5.1). De ambos
textos se desprende con claridad que esta conducta no se había erradicado, todo lo contrario, los acreedores continuaban reteniendo el
cuerpo inerte de sus deudores impidiendo su sepultura y para ello llegaban a comportarse de manera agresiva y violenta.
Así lo pone de manifiesto el testimonio que nos transmite Justiniano en el comienzo de Nov. 60.1.1: un acreedor que aprovechó que
su deudor estaba en su lecho de muerte para invadir su casa junto con
hombres armados, esclavos y otras personas (‘dum hominem in morte
cognovisset esse constitutum, milites congregans et servos alios plurimos
ingressus est super morientem’). Según el texto, el acreedor no temía ultrajar el cadáver del deudor y se opuso al principio a que le dieran sedirigidas a los acreedores que secuestraban el cadáver del deudor hasta ver satisfecho su
crédito. El decretum Divi Marci tampoco es de mucha ayuda ya que en él hay un
completo silencio sobre esta cuestión a pesar de versar sobre los actos ilícitamente
cometidos por un acreedor contra un deudor. Y tampoco lo son los textos de Ulpiano
que encontramos en D. 11.7.38 y D. 27.12.3.4 sobre la conducción del cadáver desde
un lugar de sepultura a otro. En este sentido, Esmein 1885, 229 s.; Aru 1935, 295 s.;
Purpura 2009, 57.
EL CADÁVER COMO RES
99
pultura, siendo capaz incluso de detener el convoy fúnebre y apoderarse del cuerpo declarando que no lo dejaría ir a menos que se le pagara lo que le correspondía.
Al igual que en los testimonios anteriores, ninguno de estos pasajes alude al cadáver como res religiosa. Los emperadores Justino y Justiniano persiguieron esta práctica ferozmente porque entendían que
era poco civilizada para su tiempo, priorizando el respeto con el que
se le debía honrar a una persona fallecida sobre la deuda que pudiera
tener a favor de su acreedor. Coincido así con la conclusión a la que
llega Rodríguez Martín tras el análisis que realiza sobre esta cuestión:
«en la época de los testimonios estudiados, el sentimiento que nos
transmiten los textos no es tanto el de la religión antigua ni en del
miedo supersticioso, como el de un respeto por los restos del difunto
que deben ser enterrados» 23.
2.2. El cadáver como ‘res extra commercium’. – Aún si el cadáver no
es res religiosa, otro aspecto importante a considerar es si de todos
modos tiene carácter de res extra commercium, pues en ese caso, no
podría ser objeto de negocios jurídicos.
Así se desprende de una constitución de Graciano, Valentiniano y
Teodosio del año 386 d.C. en la que nos transmiten que estaba expresamente prohibido comerciar con cadáveres. Nos referimos al fragmento CTh. 9.17.7, que dice:
CTh. 9.17.7: Nemo martyrem distrahat, nemo mercetur.
Esta disposición también se recoge en el Código de Justiniano (C.
1.2.3 24) y, como podemos apreciar, indica que no está permitido el
comercio de reliquias de santos. Según Burdese, este tráfico se daría
en el siglo IV d.C. debido al auge del cristianismo y considera este
texto como el primero en manifestar expresamente el carácter extracomercial del cadáver 25.
Además de esta disposición, podemos extraer que el cadáver tiene
la condición de res extra commercium si nos remitimos tanto al fragRodríguez Martín 1998, 307.
Y con el mismo tenor literal, Impp. Gratianus, Valentinianus, Theodosius AAA.
Cynegio pp. C. 1.2.3: Nemo martyres distrahat, nemo mercetur (a. 386).
25
En este sentido, Rodríguez Martín 1998, 311, nt. 660 siguiendo a Burdese
1959, 763.
23
24
100
YAIZA ARAQUE MORENO
mento que nos ofrece Gayo en Gai 3.97 como al texto de Modestino
en D. 45.1.103.
Por un lado, en Gai 3.97 se dispone lo siguiente:
Gai 3.97: Si id quod dari stipulamur tale sit, ut dari non possit,
inutilis est stipulatio, uelut si quis hominem liberum, quem seruum
esse credebat, aut mortuum, quem uiuum esse credebat, aut locum
sacrum uel religiosum, quem putabat humani iuris esse, dari stipuletur.
Tal y como podemos leer, si lo que estipulamos que nos sea dado
es de tal naturaleza que no puede serlo, dicha estipulación es nula.
Gayo nos proporciona varios ejemplos siendo el que nos interesa el de
aquel esclavo muerto que se cree que aún vive (‘aut mortuum, quem
uiuum esse credebat’). Se aprecia así que el cuerpo inerte – en este caso
de un esclavo, aunque se puede extender también al de un hombre libre – no puede ser objeto de stipulatio. Para Gómez-Carbajo ello
prueba la no comerciabilidad del cadáver y según Rodríguez Martín
de este texto se infiere que este carácter extracomercial se daría a todos los efectos 26.
Por otro lado, es interesante el texto que nos ofrece Modestino en:
Mod. 5 pand. D. 45.1.103: Liber homo in stipulatum deduci non
potest, quia nec dari oportere intendi nec aestimatio eius praestari
potest, non magis quam si quis dari stipulatus fuerit mortuum hominem aut fundum hostium.
Lo primero que nos transmite es que un hombre libre no puede
ser objeto de estipulación, pero acudamos al final del fragmento, que
dice: ‘non magis quam si quis dari stipulatus fuerit mortuum hominem
aut fundum hostium’. Modestino compara la entrega de un cadáver
con la entrega de un fundo enemigo; les está dando el mismo valor.
Para él, es tan claro que no se puede comerciar con un mortuum
hominem tanto como con un fundum hostium 27.
Gómez-Carbajo 1984, 39; Rodríguez Martín 1998, 309, nt. 657.
Rodríguez Martín entiende que lo que invalida la promesa es el propio hecho de
estipular respecto de un cadáver y que su extracomerciabilidad se plantea en este texto
como una imposibilidad casi física de enajenar (Rodríguez Martín 1998, 310).
26
27
EL CADÁVER COMO RES
101
Hasta este punto parece que la situación es clara: todo parece indicar que un cadáver es una res extra commercium. Entonces, ¿cómo
podemos explicar la existencia de testimonios en los que se entrega en
noxa un cadáver?
Para ello debemos remitirnos a Gayo, que nos proporciona una
visión muy completa y detallada del régimen de las acciones noxales
a partir de Gai 4.75. Nos explica la teoría básica sobre esta institución, su origen legislativo u honorario, la regla noxa caput sequitur…
Sin embargo, nos encontramos con una laguna bastante extensa 28 entre Gai 4.80-81; justo cuando va a finalizar su exposición.
De hecho, el fragmento concluye así:
Gai 4.81: Quid ergo est? et … diximus … non permissum fuerit ei
mortuos homines dedere, tamen etsi quis eum dederit qui fato suo
uita excesserit, aeque liberatur.
Según el texto, parece que no está permitida la entrega en noxa de
cadáveres, pero esta afirmación decaería cuando la muerte del delincuente haya sido fato suo. Se podría entender entonces que una persona no puede entregar un cadáver en noxa a menos que la muerte se
haya producido de forma natural, «según su destino». En ese caso, la
entrega podría llevarse a cabo y la persona que la realiza quedaría libre de toda responsabilidad. Pero, teniendo en cuenta el texto perdido, ¿realmente esta interpretación es la correcta?
La respuesta la hallamos en los Gai Fragmenta Augustodunensia 29,
un palimpsesto que recoge los comentarios que un anónimo maestro 30
28
Rodríguez Martín explica que según Dareste esta laguna abarcaría unas 23 líneas, aunque otros autores como Krüger y Studemund consideran que faltarían «13
hasta [XII] tabul[arum], más 7 a continuación» (Rodríguez Martín 1998, 267).
29
El descubrimiento de esta fuente en 1898 fue una gran noticia para el mundo de
la romanística ya que inicialmente se pensó que se trataba de una copia de las Instituciones de Gayo. Sin embargo, cuando Chatelain editó las primeras líneas se pudo comprobar que era un comentario postclásico a las Instituciones. Este hecho adormeció el
interés de los investigadores y como apunta Rodríguez Martín «la obra fue encasillada
como una más de las pruebas del bajo nivel jurídico y cultural en el Occidente postclásico» (Rodríguez Martín 1998, 8). A pesar de ello, considero que es una obra de
vital importancia que arroja luz sobre ciertas lagunas de las Instituciones, tal y como veremos en este epígrafe.
30
Tradicionalmente, se ha considerado que los Fragm. Gai August. tiene fines didácticos; de ahí que su autor fuera posiblemente un profesor (entre otros Chatelain
1899, 176 o Guarino 1968, 488). Sin embargo, hay autores como Bianchi o McGinn
102
YAIZA ARAQUE MORENO
de Autún (probablemente en torno al siglo IV d.C. 31) realiza a las Instituciones de Gayo.
Los textos que encontramos entre Fragm. Gai August. 79-114
contienen las explicaciones relativas al comentario cuarto de las Instituciones y, en concreto, son los pasajes Fragm. Gai August. 81-87 los
que exponen el desarrollo del sistema de las acciones noxales.
Para el autor del texto no cabía duda alguna de que el cadáver de
un hijo o siervo se podía entregar en noxa:
Fragm. Gai August. 82: Sed interest utrum serui filiiue nomine noxalis actio propo[natur, an] animalium. Nam si serui filiiue nomine
condemnatus fuerit do[minus uel] pater, poterunt in noxam dare
etiam mortuum: condemn[atus dominus] noxali actione potest seruum etiam mortuum in noxam dare 32.
La afirmación es tan concluyente que el maestro decide repetir los
términos etiam mortuum y, como vemos, no hace alusión a que la
muerte tuviera que producirse fato suo, que era el requisito que se establecía en Gai 4.81. Y no sólo eso, para el autor no hacía falta que
se entregara la totalidad del cuerpo para que el padre o dueño del delincuente quedara exonerado de responsabilidad. Era suficiente con
que se entregara alguna parte del mismo 33:
Fragm. Gai August. 83: [Et non solum si] totum corpus det liberatur, sed etiam si partem aliquam corporis. Denique tr[actatur de] capillis et unguibus, an partes corporis sint. Quidam enim dicunt <ea
additamenta corporis esse; sunt enim> foris posita. Animal m[ortuum uero] dedi non potest.
El hallazgo de los Fragm. Gai August. es esclarecedor, pero no
deja de ser una fuente de la que surgen numerosas dudas, entre ellas:
que consideran que la obra, debido a la cantidad de aspectos procesales que aborda, se
orientaría hacia la práctica (Bianchi 2015 o McGinn 2017, 220, nt. 3).
31
Chatelain 1899, 169 s.; Lowe 1953, 8.
32
Según la edición de Krüger 1923, 53 ss., revisada por Rodríguez Martín
1998.
33
El texto se plantea incluso la cuestión de si ‘capillis et unguibus, an partes corporis sint’ y ello ha provocado que la doctrina se pronuncie sobre si el cabello o las uñas
(i) deben ser considerados como partes del cuerpo y, por consiguiente, (ii) pueden ser
entregados en noxa. Sobre ello, v. Rodríguez Martín 1998, 270, nt. 589.
EL CADÁVER COMO RES
103
¿realmente existió la noxae deditio del cadáver? ¿La descripción que se
realiza sobre ella era una mera exposición narrativa por parte del maestro de Autún de lo que ocurría en tiempos clásicos o su explicación se
debe a que en su época – probablemente el siglo IV d.C. – todavía se
llevaba a cabo?
La doctrina se ha pronunciado al respecto y una gran parte de ella
reconoce que la noxae deditio del cadáver existió 34. Siendo así, debemos reiterar la pregunta que en origen nos planteábamos: si el cadáver es una res extra commercium, ¿cómo es posible que se pueda entregar en noxa?
Rodríguez Martín considera que no se deben confundir dos esferas que, aunque normalmente viene unidas, se refieren a ámbitos diferentes. Una cosa considerada extra commercium debe sustraerse del
tráfico jurídico, pero ello no impide que pueda ser enajenada si es por
algún motivo diferente al económico 35.
Veamos un ejemplo: los sepulcros son res religiosa, pero pueden
ser transmitidos mortis causa de padres a hijos para que permanezcan
en la familia. El bien se transfiere de una esfera de poder a otra y no
se vulnera su carácter extracomercial. Con la noxae deditio del cadáver
ocurriría lo mismo: el cadáver mantiene su condición de res extra
commercium, pero pasa de la esfera de poder de un pater familias o dominus a otro porque con esta entrega se libera de la responsabilidad a
la que debe enfrentarse por el daño causado por su hijo o esclavo.
Vemos así que la transmisión no se debería a un interés patrimonial, sino a motivos muy distintos. Sobre ello, Biondi aduce que la
Rodríguez Martín ha estudiado esta fuente en profundidad en aras de determinar si las afirmaciones que el maestro vierte sobre este tema pueden considerarse ciertas. Sin embargo y a pesar de las valiosas conclusiones a las que llega, finaliza diciendo
que ningún texto de los que ha consultado permiten contrastar con certeza la versión
que nos proporcionan los Fragm. Gai August. ni aclarar las contradicciones con la laguna de Gayo en Gai 4.80-81. Aun así y con base en argumentos fundamentados en la
lógica y sentido común, acepta la noxae deditio del cadáver y no duda de la veracidad
de los comentarios del maestro de Autún (Rodríguez Martín 1998, 272 ss.). En contra de la opinión mayoritaria se encuentran, por ejemplo, Giménez-Candela o D’Ors.
Ambos se postulan como defensores del carácter religioso del cadáver y entienden que
la entrega del éste es una idea errónea planteada por el ‘Gayo de Autún’ pues siguen la
línea crítica de Mommsen en cuanto al valor de los testimonios transmitidos en los
Fragm. Gai August. (Giménez-Candela 1981, 203 ss.; D’Ors 2016, 211 s.).
35
Rodríguez Martín 1998, 314.
34
104
YAIZA ARAQUE MORENO
ceremonia de la noxae deditio – conservada por fuerza de la tradición
– no tendría ningún contenido real 36.
Por consiguiente, podemos concluir que a pesar de que el cadáver
tenga la consideración de res extra commercium puede ser objeto de
transmisión en aquellos casos en los que el motivo subyacente no sea
comercial o económico, como es el de su entrega en noxa.
3. La naturaleza jurídica del cadáver en la actualidad. – «Uno de
los hechos más importantes y que más repercusiones tiene en diversas
esferas del Derecho es, ha sido y será la muerte de la persona, sobre el
que giran toda una serie de relaciones jurídicas, calificadas de mortis
causa» 37. Así se expresa De las Heras al inicio de su exposición sobre
la consideración del cadáver en la Roma Antigua.
La discusión sobre su naturaleza jurídica ha sobrevivido durante
siglos y hoy día todavía es un tema de gran interés debido a los avances producidos en el ámbito de la medicina, como los trasplantes de
órganos, la donación de restos humanos para fines científicos o las
técnicas de criogenización.
Es cierto que la muerte pone fin a nuestra existencia. Es un suceso que no sólo provoca un sentimiento de pérdida en nuestros seres
queridos, sino que tiene profundas implicaciones a nivel de la percepción religiosa, filosófica y antropológica del ser humano, y a nivel
jurídico comporta el nacimiento de una variedad de efectos legales.
Por un lado, nos transforma de persona en cadáver y, por otro, es la
causa de la extinción de nuestra personalidad 38. Si bien en algunos ordenamientos jurídicos no se regula de manera expresa 39 en otros sí y
de manera similar. Por ejemplo:
– los artt. 29 y 30 cód. civ. español disponen que «el nacimiento
determina la personalidad …», ésta «se adquiere en el momento del
nacimiento con vida…» y «se extingue por la muerte de las personas»
(art. 32 cód. civ.).
Biondi 1925, 250; Rodríguez Martín 1998, 313, nt. 664.
De las Heras 1987, 9.
38
Lete del Río 1996, 53; Verdera 2019, 20.
39
Este es el caso, por ejemplo, del BGB austríaco. El BGB alemán, por su parte,
sólo hace alusión al nacimiento de la capacidad jurídica en su art. 1.
36
37
EL CADÁVER COMO RES
105
– el art. 31 cód. civ. suizo indica que «la personnalité commence
avec la naissance accomplie de l’enfant vivant; elle finit par la mort».
– los artt. 2 y 6 cód. civ. brasileño establecen que «a personalidade civil da pessoa começa do nascimento com vida» y «a existência
da pessoa natural termina com a morte».
– el art. 61 cód. civ. peruano dice que «la muerte pone fin a la
persona».
Pero, ¿qué consideración tiene en sí el cadáver de una persona? La
doctrina no es unánime. Para algunos, «una vez que la persona fallece, se convierte de sujeto en objeto de derecho» 40 mientras que para
otros la personalidad subsiste y se extiende más allá de la muerte.
3.1. Teorías en torno a la consideración jurídica del cadáver.
3.1.1. Teoría de la semipersonalidad y teoría de la personalidad residual. – Los autores que se postulan a favor de estas teorías defienden
que el cadáver no es una cosa. Entienden que es algo distinto y más
cercano a la categoría de sujeto de derecho 41.
A. Teoría de la semipersonalidad. Demogue es su principal defensor. Para este jurista francés de primeros del siglo XX, las personas fallecidas podían ser consideradas semipersonas. Entendía que la personalidad no se extinguía tras el deceso y basaba su opinión en la existencia de normas que tendían a (i) proteger la memoria defuncti y (ii)
castigar la profanación de sus restos 42.
A día de hoy esta postura carece de defensores. Mendoza se postula en contra por entender que el fundamento de Demogue no es lo
suficientemente convincente y coincide con ella Malicki, que considera que el autor se contradice a sí mismo porque no es posible admitir «una categoría que importe la existencia de personas a medias,
“se es o no persona”» 43. Desde mi punto de vista, no puedo estar más
que de acuerdo con ambas.
B. Teoría de la personalidad residual. Para Gierke el cadáver de una
persona «es un resto o residuo de la personalidad, sujeto a la decisión
Cárdenas 2020, 175.
Mendoza 2013, 53.
42
Demogue 1909, 631; Malicki 1987, 111 s.
43
Mendoza 2013, 53; Malicki 1987, 112.
40
41
106
YAIZA ARAQUE MORENO
de los deudos» 44 y en términos afines se pronuncia Kipp al sostener
que la personalidad residual permite a los deudos decidir sobre el destino del cuerpo 45. Ante este planteamiento, Cifuentes y Mendoza entienden que se conformaría una suerte de «derecho de familia» cuya
finalidad sería la de gestionar los trámites correspondientes al entierro, determinar el epitafio y excluir las intromisiones que puedan producirse 46.
Asimismo, Guzmán comenta que Antunes Varella y Pires de
Lima respaldan la idea de que existe una personalidad jurídica parcial
post-mortal y ello porque «el difunto permanece con un residuo de su
personalidad, sugiriendo que su capacidad repercute más allá de la
vida en algunos aspectos» 47. Y Migliore matiza esta postura al considerar que «no es la personalidad jurídica la que subsiste a la muerte,
pero sí la personalidad bioafectiva. Es eso lo que sobrevive a la muerte
para siempre, porque nadie será igual al otro y todos serán unidades
diversas de una misma especie. Esa parte de nosotros no perece. Entonces, de hecho, sí existe una personalidad parcial post-mortal» 48.
A pesar de estos autores, esta teoría ha obtenido muchas críticas y
no goza del respaldo suficiente entre la doctrina. Si bien parece ser
que hay una postura intermedia (defendida por Nuta y criticada
igualmente por Bertoldi 49), la idea predominante es que «la personalidad no es susceptible de gradaciones: “Se es o no persona”» 50.
Malicki nos transmite que «la muerte pone fin a la existencia de
las personas físicas, siendo impropio hablar de un resto o residuo de
la personalidad, idea abstracta y jurídicamente irrelevante. Por lo demás, cuando se protege la memoria y honor de los muertos se lo
hace en miras de los parientes vivos y de la sociedad toda, no en el
44
Enneccercus - Kipp - Wolf 1955, 533, nt. 8; Malicki 1987, 112; Gúzman
2018, 225.
45
Malicki 1987, 112.
46
Cifuentes 1995, 406; Mendoza 2013, 53.
47
Guzmán 2018, 225.
48
Migliore 2006, 228.
49
Según nos explica Mendoza, Nuta piensa que el cuerpo humano - tanto vivo
como muerto - tiene la misma naturaleza jurídica. Entiende que el cadáver no es una
cosa y propone que sea considerado como «objeto corporal». Sin embargo, Bertoldi no
está de acuerdo ya que para él no es posible que cuerpo vivo y cadáver tengan la misma
consideración (Mendoza 2013, 53).
50
Llambías 1975, 220; Guzmán 2018, 226.
EL CADÁVER COMO RES
107
respeto de una personalidad residual, en última instancia habrá un
respeto póstumo a quien fue persona. En otro sentido estas ideas
contrariarían la noción misma de persona y de los derechos personalísimos» 51.
De forma similar se pronuncia Cifuentes, que considera que «extinguiéndose la persona, es impropio hablar de un resto de la personalidad, como algunos autores afirmaron para oponerse a la teoría de
la res» ya que ésta contradiría – como adelantaba Malicki – el concepto de derechos personalísimos 52. Y para Tobías el cadáver no
puede ser titular de derecho alguno porque la personalidad se extingue con la muerte 53.
3.1.2. Teoría de la ‘res’. – Esta teoría profundiza en la idea del cadáver como cosa y abre un debate en torno a su comerciabilidad. En
contraposición con las anteriores, en ésta el cadáver es considerado
objeto de derecho. Así lo ponen de manifiesto, por ejemplo, Messineo 54 o Ramos. Ésta última, citando a Puig Brutau y Puig Ferrol, señala que tras la muerte se produce una transformación en el entorno
del fallecido: «por un lado queda extinguida su personalidad y por
otro se transforma en cosa, el cadáver, donde pasa a ser objeto, es decir, tendrá la condición de objeto de las relaciones jurídicas» 55.
A. El cadáver como ‘res’. Esta teoría es la más aceptada por la doctrina. Lacruz, Castiella y Verdera consideran que tras la muerte de la
persona su patrimonio se convierte en herencia y su cuerpo «en una
cosa (mueble): el cadáver» 56. De manera similar Lledó e Infantes señalan que la personalidad se extingue como consecuencia del fallecimiento y que el cuerpo deja de ser persona para convertirse en cosa.
Gordillo, por su parte, declara que la persona cuando fallece «de elemento personal, pasa a ser jurídicamente cosa» 57.
Malicki 1987, 113; Mendoza 2013, 53.
Cifuentes 1995, 406; Cifuentes 2008, 420.
53
Tobías 2009, 642.
54
Messineo considera que con la muerte dejamos de ser persona y nos transformamos en objeto (Bertoldi - Bergoglio 1983, 177; Mendoza 2013, 54).
55
Ramos 2012, 68, nt. 239.
56
Lacruz 2004, 20; Castiella 2003, 89; Verdera 2019, 221.
57
Gordillo 1987, 24 ss.
51
52
108
YAIZA ARAQUE MORENO
Sin embargo, debemos tener en cuenta varias matizaciones. La
primera es que hay autores – como Albadalejo, Cifuentes y Orgaz –
que alegan que no es posible considerar al cadáver como cosa porque
los restos de una persona no son susceptibles de valoración económica. El término cosa debe ser susceptible de estimación patrimonial
y el cadáver no tiene tal carácter 58. Este planteamiento se ha reflejado
además en algún ordenamiento jurídico, como el argentino: su art.
2311 cód. civ. establece que una cosa es un objeto material susceptible de tener un valor. No se especifica que éste tenga que ser económico y por eso Malicki y Bertoldi realizan una interpretación más
amplia al sostener que el valor puede referirse a una función social o
humanitaria 59.
La segunda es que parte de la doctrina da un paso más allá 60.
Aceptan que el cadáver es una cosa, pero le dotan de un significado
especial: no estaríamos ante una cosa cualquiera si no ante una cosa
sui generis. Según Ramos el cadáver estaría sujeto a un régimen jurídico peculiar debido al respeto a su dignidad 61. De Castro, por ejemplo, considera que «en el momento de la muerte, el ser terrestre de la
persona se convierte en especial cosa mueble» y «merece un trato más
digno que el que corresponde a las vulgares cosas comerciales» 62. Corral manifiesta que el cadáver es una cosa a la que no puede dársele
cualquier uso, ya que «el hecho de haber sido el cuerpo de una persona le transmite algo de la propia dignidad de ésta, y lo transforma
en una cosa especialísima, que está fuera del comercio y que es inapropiable» 63. Y coincidiendo con ellos se encuentran Leonfanti 64, Sal-
Albaladejo 1985, 86 ss.; Mendoza 2013, 54, nt. 20. A pesar de esta idea,
Orgaz considera que el cadáver sí que sería considerado una cosa si es entregado para
fines de estudio o enseñanza (Orgaz 1961, 135 s.; también citado por Cárdenas
2019, 186).
59
Por ejemplo, si mediante testamento se manifiesta que el cuerpo se destine a
trabajos de investigación o trasplantes (una clara función humanitaria) sí que podría ser
considerado como una cosa susceptible de valor (Mendoza 2013, 54).
60
Guzmán denomina esta posición como «teoría resolutiva», por su tenor de
resolución y acto de resolver (Guzmán 2018, 230).
61
Ramos 2012, 72.
62
De Castro 1952, 146; Ramos 2012, 70, nt. 247.
63
Corral 2018.
64
Considera el cadáver como cosa sui generis a la que se le debe respeto y la correspondiente sepultura (Mendoza 2013, 54; Guzmán 2018, 231).
58
EL CADÁVER COMO RES
109
vat y López Olaciregui 65, Solá 66, Fadda y Bensa 67, Guzmán 68, Espinoza 69 y Cárdenas 70.
Asimismo, esta consideración es la que le otorgan varios ordenamientos jurídicos. Según Cavada, la doctrina chilena parece haber alcanzado un consenso y entiende que el cadáver es una «cosa mueble,
de naturaleza jurídica especialísima que está fuera del comercio humano, es inapropiable y por tanto no tiene dueño ni pueden ejercerse
sobre él facultades de dominio» 71. En España, la SAP Pontevedra
445/2003, de 11 de diciembre (JUR/2006/18440) declara que desde
el momento de la muerte la persona pasa de ser sujeto del derecho a
«simple objeto jurídico, aunque de naturaleza especial» 72 y de forma
análoga se pronuncia la SAP Alicante 348/2003, de 2 de julio
(JUR/2008/159293) que, citando a Gordillo, dispone que «el cadáver
es cosa, pero cosa extra commercium, o lo que es muy parecido: cosa,
pero no objeto de derechos patrimoniales; cosa sui generis, por su condición de huella y residuo de la personalidad, pero cosa al mismo
tiempo, objeto más de respeto y de culto que de poder o dominio».
B. Sobre la extracomerciabilidad del cadáver. Una vez admitido el
cadáver como cosa, el debate principal es saber si es posible su comerciabilidad.
La opinión mayoritaria es que el cadáver no es comerciable. En
este sentido, Castán Tobeñas señala que «el cadáver no es una cosa
susceptible de apropiación y comercio, sino res extra commercium suAtribuyen al cadáver el carácter de cosa especial (Guzmán 2018, 231).
Para Solá «la muerte extingue la personalidad, y el cadáver en sí adquiere la categoría legal de una cosa, se trata de una cosa sui generis, que debe considerarse fuera
del comercio y de toda especie de contratación» (Solá 1967, 188; Guzmán 2018,
231).
67
Ramos 2012, 72, nt. 264; Guzmán 2018, 231.
68
Guzmán considera que el cadáver no es resto de persona ni cosa a secas. Es algo
novedoso, único y no comparable con ningún elemento existente. El cuerpo inerte contiene la dignidad de una vida vivida y a su vez es también resto inerte, «eso lo convierte
en cosa, pero no en cualquier cosa, sino en una cosa sin parangón en el universo»
(Guzmán 2018, 232 s.).
69
Espinoza 2012, 975.
70
Cárdenas 2019, 175.
71
Cavada 2020, 1.
72
En términos similares, la SAP Pontevedra 665/1998, de 9 de diciembre
(AC/1998/2483).
65
66
110
YAIZA ARAQUE MORENO
jeta a normas de interés público y social» 73. De igual manera lo entienden De Cupis 74, Enneccerus 75, Gangi 76, Sordo 77 y Borrell 78 y así
se contempla también en la legislación y jurisprudencia de distintas
jurisdicciones. Por un lado, la SAP Barcelona de 23 de marzo de
2004 (JUR/2004/122616), la SAP Cádiz de 14 de abril de 2000 y la
SAP Alicante de 7 de junio de 1995 (AC/1995/1280) 79 se pronuncian sobre el carácter no comercial del cadáver. Por otro, el art. 346
L. General de Salud mexicana establece que «los cadáveres no pueden
ser objeto de propiedad y siempre serán tratados con respeto, dignidad y consideración» y el art. 116 L. General de Salud peruana señala
la prohibición de comerciar con cadáveres y restos humanos.
En la misma línea de pensamiento, De las Heras afirma que el
hecho de considerar al cadáver como res in commercio «menoscabaría
la dignidad humana y entraría en contradicción con la esencial del
cadáver, como residuo e impronta del hombre vivo» 80. Y precisamente
Castán Tobeñas citado por Ramos 2012, 71.
Para él, «il corpo umano, colla morte, diviene una cosa … la quale, non potendo
essere oggetto di diritti privati patrimoniali, è da classificarsi tra quelle extra commercium. Non essendo il vivente oggetto di diritti patrimoniali, non può esserlo nemmeno
il cadavere» (De Cupis 1950, 77; Ramos 2012, 71, nt. 257).
75
Para él, el cuerpo inerte de una persona se convierte en cosa, pero ésta no pertenece al heredero ni es susceptible de apropiación.
76
Gangi 1948, 170.
77
Sordo 2017, 81.
78
Borrell consideraba que había que hacer una distinción entre los cuerpos que
iban a destinarse a la investigación y los que iban a ser enterrados y llegó a la conclusión de que los primeros no tendrían la consideración de res extra commercium mientras
que los últimos sí. Ramos se opone al entender que ambos son portadores de un residuo de dignidad y por eso deben sustraerse del comercio de los hombres (Borrell
1954, 127 ss.; Ramos 2012, 71, nt. 254).
79
En esta sentencia se determina además que el cadáver es un mero residuo de la
personalidad y que nadie puede ostentar un derecho de propiedad sobre él. De igual
manera se aborda en la decisión de la Tercera Sala Suprema de la Corte de Justicia de
la nación mexicana 2435/70, de 29 de octubre de 1970. En ella se establece que el «cadáver es extracomercial y no puede ser objeto de derecho de propiedad … debido a que
los más elementales principios de orden público, de sanidad pública, de moral social,
están en directa oposición con el concepto de una propiedad sobre el cadáver, pues el
destino normal del cadáver humano es … el de ser dejado a la paz del sepulcro» (citado
a su vez por Sordo 2017, 37, nt. 31).
80
De las Heras 1987, 22; Ramos 2012, 71, nt. 258. Sobre esta cuestión, Martínez de Aguirre y Díez-Picazo-Gullón sostienen que la dignidad de una persona persiste
tras su muerte y queda impregnada en sus restos mortales (Martínez de Aguirre
2000, 341; Ramos 2012, 72, nt. 260).
73
74
EL CADÁVER COMO RES
111
la supervivencia de esta dignidad tras la muerte (que debe ser respetada 81) es la que, según Ramos, fundamenta al cadáver como res extra
commercium 82.
De hecho, esta consideración es evidente a la vista de los sucesos
que se han estado produciendo en Latinoamérica en los últimos años
y que tienen un sorprendente parecido con las prácticas de la Antigüedad Tardía romana arriba descritas. Los casos son múltiples, pero
en esencia todos se resumen a los mismos hechos: un centro hospitalario que retiene el cadáver de su paciente debido a una deuda contraída y no satisfecha.
Varias son las noticias que encontramos sobre esta práctica, pero
remitiéndonos a las más recientes podemos afirmar que hasta mediados de 2021 el Viceministerio de Defensa de los Derechos del Usuario y Consumidor de Bolivia sancionó a seis clínicas privadas por llevar a cabo esta actuación 83. Su viceministro, Jorge Silva, indicó que
retener a los fallecidos como objeto de garantía está totalmente prohibido y constituye un delito penal.
En Ecuador nos encontramos con el caso de Marianita de Jesús
Flores. Sus restos fueron retenidos por la clínica privada del norte de
Guayaquil en abril de 2020, la cual se negaba a devolver el cadáver
hasta que quedara cancelada su factura.
Supuesto parecido ocurrió también en junio de 2021 en Perú, en
donde el cuerpo de un joven fallecido fue retenido por una clínica local debido a la suma que tenía adeudada. La Superintendencia Nacional de Salud tuvo que intervenir y fundamentó su decisión en el
art. 70 del Reg. de Establecimientos de Salud y Servicios Médicos de
Apoyo aprobado por el Decreto Supremo nº 013-2006-SA que establece que «queda terminantemente prohibido que el establecimiento de
salud retenga o pretenda retener a cualquier usuario o cadáver para gaEste respeto se desprende también del art. 16.1.1 cód. civ. francés.
Ramos 2012, 72, nt. 262. En este sentido igualmente Fayos 2016, 57 s.
83
Uno de estos casos es el de Margarita Dorado, cuyos restos fueron retenidos en
marzo de 2021 por el Hospital Metodista de la Paz porque debía un importe aproximado de Bs 170.000. Y se han producido eventos similares en 2020 (la Defensoría
Pueblo tuvo que mediar para que el Hospital Agramont entregase el cuerpo de un fallecido a sus familiares, retenido por la deuda médica acumulada) y en 2019 (los familiares de C.M.S. tuvieron que firmar un acta de compromiso para recuperar su cadáver,
retenido por el Hospital Universitario Nuestra Señora de La Paz).
81
82
112
YAIZA ARAQUE MORENO
rantizar el pago de la atención médica prestada, o cualquier otra obligación». Y esta prohibición se ha dado de forma recurrente en las últimas décadas. El Tribunal Constitucional de Perú se pronunció en
2002 sobre esta cuestión con motivo del denominado «Caso Francia»
(Exp. nº 0256-2003-HC/TC-LIMA) 84 y la Defensoría del Pueblo ha
tenido que emitir varios comunicados confirmando la ilegalidad de
esta práctica desde 2018 85.
Hay jurisdicciones que son mudas respecto a la regulación de esta
situación, ni el cód. pen. ni la ley de salud abordan esta cuestión (v.
República Dominicana 86). Sin embargo, hay otras en las que esta
práctica está expresamente contemplada. En México, por ejemplo,
esta conducta está tipificada como delito. Los artt. 85 y 244 reg. de
la l. general de salud en materia de prestación de servicios de atención
médica tratan sobre ello remitiéndose a la legislación penal. En este
sentido, el art. 230 (iii) del cód. pen. federal dispone que a juicio del
juzgador se podrá imponer a los directores, encargados o administradores de cualquier centro de salud una «pena de prisión de tres meses
a dos años, hasta cien días multas y suspensión de tres meses a un
año» cuando retrasen o retengan la entrega de un cadáver 87.
Por su parte, los artt. 198 y 200 del cód. de salud de Honduras
establecen que el director de un centro hospitalario debe entregar el
cadáver a sus familiares si transcurridas 24 horas desde el deceso no se
ha practicado la autopsia y el art. 330 de la l. general de salud de
Costa Rica señala que, salvo que la autoridad de salud lo autorice,
ningún cadáver puede permanecer insepulto por más de 36 horas
desde su fallecimiento.
Este caso versa sobre la retención de los restos de Francisco Javier Francia en el
Hospital Dos de Mayo hasta que fuera cancelada la suma de dos mil soles que los
familiares adeudaban por los servicios que le proporcionaron.
85
La prohibición de retener, tanto pacientes vivos como fallecidos, por la falta de
pago de servicios hospitalarios se ha declarado constantemente por la Defensoría del
Pueblo. En este sentido, v. las notas de Prensa nº 001/DP/2021, nº 824/OCII/
DP/2020 y nº 358/OCII/DP/2018.
86
Si bien se han dado casos de retención de cadáveres por deudas no satisfechas,
no hay normativa específica más allá del art. 360 cód. pen., que versa sobre la profanación de cadáveres. Para Trujillo «el hecho de retener un cadáver impidiendo su debida
sepultura o de ejecutar acciones sobre él, aún cuando no estuviere inhumado, obviamente que constituye una profanación» ya que se trata «sin el debido respeto una cosa
o alguien que se considera sagrada o digna de ser respetado» (Trujillo 2020, 1).
87
De manera similar, el art. 327 (iii) del cód. pen. para la ciudad de México.
84
EL CADÁVER COMO RES
113
La retención de un cadáver debido a las deudas que en vida pudo
contraer con el centro hospitalario es, por tanto, una conducta penalizada. Estamos ante una «cosa especial» que está fuera del comercio
de los hombres. Por ello se establece un límite máximo para su entrega a los familiares o se sanciona fuertemente a aquellas personas
que retengan los restos, sin la correspondiente autorización.
3.2. Actos de libre disposición sobre el cadáver. – Tal y como hemos
podido observar la doctrina acepta que el cadáver es una cosa no comerciable. Entonces, ¿qué ocurre cuando una persona decide que su
cuerpo se destine a labores sociales o científicas?
La inenajenabilidad del cadáver se da, entiende Guzmán, cuando
su destino es la inhumación o cremación, pero puede ostentar una
inenajenabilidad relativa cuando se destina a determinadas metas sociales como la investigación, enseñanza, trasplantes o cuando reviste
valor histórico-social 88. Para Gatti, según Mendoza, «un cadáver
puede ser objeto de derechos reales por el uso de sus partes para la curación de enfermedades» 89 y Díez-Díaz alega que «la venta del propio
cadáver no tendría por qué considerarse inmoral cuando el fin que se
propone alcanzar el comprador … es altamente humanitario» 90.
Esta facultad de disposición del cuerpo post mortem se recoge además en la legislación de varios países de forma expresa:
– los artt. 146-148 cód. sanitario chileno señalan que una persona puede disponer de su cadáver, o de partes de él, con el objeto de
que sea utilizado en fines de investigación científica, docencia, elaboración de productos terapéuticos o realización de injertos. Asimismo,
se podrán destinar a estas labores aquellos restos que no sean reclamados y se faculta al cónyuge o parientes para autorizar la utilización
de tejidos de cadáveres en injertos con fines terapéuticos;
– los artt. 320-322 de la l. general de salud mexicana establecen
88
Guzmán considera que la comerciabilidad del cadáver se da cuando los «despojos se han ‘desindividualizado’ del sujeto», tal y como ocurre con los esqueletos, cráneos
o momias (Guzmán 2018, 234). Varsi está conforme y Cifuentes entiende que en
estos casos la naturaleza jurídica del cadáver da un vuelco debido a que hay no es
posible identificar a la persona y, por tanto, no hay memoria que guardar (Varsi 2019,
17).
89
Mendoza 2013, 54.
90
Díez-Díaz 1983, 340.
114
YAIZA ARAQUE MORENO
que toda persona podrá donar su cuerpo, total o parcialmente, para
que se utilicen para trasplantes;
– el art. 8 cód. civ. peruano declara la validez de los actos de una
persona que dispone «altruistamente de todo o parte de su cuerpo
para que sea utilizado, después de su muerte, con fines de interés social o para la prolongación de la vida humana»;
– el art. 14 cód. civ. brasileño dispone que «é válida, com objetivo
científico, ou altruístico, a disposição gratuita do próprio corpo, no
todo ou em parte, para depois da morte»;
– el capítulo IV cód. civ. de Québec, bajo la rúbrica «respect of
the body after death», determina que «a person of full age may determine the nature of his funeral and the disposal of his body».
Como vemos, la propia persona es la que decide qué va a pasar
con su cuerpo tras su deceso. Ello es aceptado por la doctrina 91, que
discute sobre si estamos o no ante un derecho de la personalidad. A
diferencia de Lacruz 92 y Cifuentes consideran que existiría un derecho
personalísimo sobre una cosa futura (el cadáver) limitado por los intereses públicos; Albadalejo coincide con ellos y Lasarte puntualiza
que los trasplantes post mortem se integrarían también dentro de los
derechos de la personalidad en relación con la integridad física 93.
Por otro lado, esta disposición sólo se admite a título gratuito. La
mencionada Tercera Sala Suprema de la Corte de Justicia de la nación
mexicana 94 así lo dictaminó al considerar (i) admisibles los contratos
gratuitos sobre el propio cuerpo para fines científicos; y (ii) nulos los
contratos onerosos con semejante contenido. Ello se corrobora también en Perú, cuyo cód. pen. (art. 318-A) tipifica el delito de intermediación onerosa de órganos y tejidos. La disposición de éstos debe
ser a título gratuito de conformidad con el art. 7 L. de trasplante de
órganos y art. 17 de su Reg.
Podemos apreciar entonces que a pesar del carácter extracomercial
del cadáver se puede disponer de él, aunque de manera limitada:
única y exclusivamente cuando el objetivo que se pretenda conseguir
sea de índole científico, pedagógico o humanitario.
Díez-Picazo y Gullón 2012, 335.
Lacruz 2002, 62 s.
93
Cifuentes 1995, 414; Albadalejo 2013, 346 s.; Lasarte 2015.
94
V. nt. 79.
91
92
EL CADÁVER COMO RES
115
Para ello, la persona debe dar su consentimiento inequívocamente
por escrito y puede revocarlo en cualquier momento (art. 9 cód. civ.
peruano). Este derecho puede ser ejercido igualmente por los familiares del fallecido a falta de voluntad en vida, pero llama la atención el
art. 10 cód. civ. peruano, que introduce un derecho de occisión social: el Estado puede disponer de un cadáver no identificado o abandonado y utilizarlo en fines de interés social. Varsi estudia en mayor
profundidad esta cuestión y concluye que el Estado puede utilizar
parcialmente un cadáver identificado para fines terapéuticos y totalmente aquellos no identificados para fines científicos o pedagógicos 95.
Esta situación, contemplada también en el art. 44 cód. civ. de Québec, se basaría en la tesis de la socialización del cadáver «mediante el
cual el Estado puede disponer libremente del cadáver de sus ciudadanos para salvar vidas».
4. Conclusiones. – Teniendo en cuenta todo lo expuesto, lo primero a resaltar es que la calificación jurídica del cadáver permanece
apenas sin alteraciones desde los primeros siglos de nuestra era: tanto
en Derecho Romano como en la actualidad nos encontramos ante
una res extra commercium.
Este carácter extracomercial no impedía, por ejemplo en Derecho
Romano, que el cadáver se transmitiera de una esfera de poder a otra
cuando el fin perseguido no era económico. A la vista de los testimonios analizados, se darían dos supuestos y la diferencia entre ellos radica en que en el primero (noxae deditio) no hay duda de la legalidad
de la práctica; mientras que en el segundo, sí.
En aquellos casos en los que un acreedor retiene los restos de su
deudor hasta la satisfacción de su crédito se da un enfrentamiento entre práctica y legalidad. Este choque ocurría tanto en la Antigüedad
Tardía en la que, como hemos visto, los cristianos romanos intentaron limitar y perseguir esta conducta, como sorprendentemente en la
actualidad. En ambas épocas se sanciona fuertemente esta actuación,
pero cabe enfatizar que es ilegal no porque el cadáver sea considerado
res religiosa si no porque vulnera el debido respeto con el que se le
debe honrar a una persona tras su fallecimiento. Estas retenciones po95
Varsi 2019, 15 ss.
116
YAIZA ARAQUE MORENO
drían interpretarse como una intimidación ya que, para poder recuperar el cadáver y darle sepultura, los acreedores obligan a los familiares a hacer algo en contra de su voluntad; ello además bajo la existencia de normas que expresamente prohíben esta actuación.
Asimismo, en la actualidad esta res extra commercium ha evolucionado ya que se considera res sui generis. En los restos mortales persiste
la dignidad de la persona que fue, de ahí que se le otorgue una condición especial, y ésta es la que se ofendería si aceptáramos su comerciabilidad.
Finalmente, tampoco podemos aceptar que exista un derecho de
propiedad sobre el cadáver. Una persona puede disponer en vida de lo
que ocurrirá con su cuerpo en el futuro, pero no porque sea su propietaria si no porque – como bien apunta Gordillo – es un acto de
voluntad que la persona realiza como acto de disposición sobre su
propio cuerpo 96; disposición a su vez limitada únicamente para fines
científicos, docentes o sociales.
96
Gordillo 1987, 35 ss.
EL CADÁVER COMO RES
117
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Henrik-Riko Held
RES SACRAE
IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION.
VICISSITUDES OF A ROMAN LEGAL CONCEPT
IN CANON LAW AND CONTEMPORARY LEGAL SYSTEMS
1. Introduction. – The term res sacrae in Roman law in its developed form denotes a category of objects to which particular rules apply due to their association with sacredness. The category of res sacrae
thus forms part of the well-known classification of res extra commercium, or objects exempted from regular commerce 1. In basic terms,
the issue is in the manner in which an object becomes a res sacra and
in the particular rules regarding its administration and regulation of
its special position in the legal system, i.e. the restriction or outright
prohibition of it being subject to a legal transaction or regular means
of acquiring ownership. These matters have been recently extensively
dealt with in literature 2.
However, both terminologically and conceptually the importance
of res sacrae stretches beyond the confines of the Roman law proper.
The concept is relevant historically and contemporarily in canon
law 3. Roman and canonical concept of res sacrae had such an influence throughout history that protection and special regulation
thereof became a well-known and widely accepted principle in contemporary legal systems 4. Thus a concept stemming from RomanoKaser 1971, 377 f.; Kaser 1975, 243.
Ramon 2017; Ramon 2016.
3
Kramis 1963; more in the following analysis.
4
More in further text.
1
2
122
HENRIK-RIKO HELD
canonical legal tradition has permeated contemporary legal systems
and exists both in legislation and in legal discourse.
Essentially, the main issue in this context is the establishment,
control, administration and termination of an object being sacred
throughout history. This problem has been analysed in the context of
Roman law 5, regarding the clash and eventual amalgamation of corresponding pagan and Christian concepts in the first centuries of
Christianity 6, regarding differences between the pagan and Christian
concept of res sacrae 7 and finally in the context of the shift in the Roman imperial legislation from addressing pagan to addressing Christian worship in the context of res sacrae, along with certain changes of
the pertinent regulation 8.
The aim of this paper is to analyse Roman legal concept of res
sacrae particularly from the perspective of canon law throughout different phases of its history. In that way the analysis may help to determine in which measure did the original Roman concept of res
sacrae influence the corresponding canonical concept, and the other
way around, or in which measure did the Christian and canonical
concept of a sacred object influence the Roman template, albeit while
being subsumed under it terminologically and retaining a similar regulatory framework. Finally, the analysis addresses the general influence of such an amalgamated concept of res sacrae from the Romanocanonical legal tradition in contemporary context. In that way the
analysis deals with the vicissitudes of res sacrae which have shifted
both from the ancient Roman pagan religion to Christianity and
Catholicism, and from Roman law to contemporary legal systems.
2. ‘Res sacrae’ in Roman law. An outline. – The notion that an object might be sacred (sacer), with the accompanying consequences in
the religious and legal sphere, stems from the more ancient periods of
Roman law. According to the extant sources, the earliest known reference to it is found in an inscription on the so-called Lapis niger
Latte 1960, 38 f., 199 ff.; Kaser 1971, 377 ff.; Rives 2012.
Rüpke 2014; Ando 2008; Ando - Rüpke 2006; Ando 2003.
7
Gaudemet 1971.
8
Ramon 2017, 94 ff.
5
6
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
123
found under the Forum in Rome. The inscription stems approximately from the 6th century BC, and it mentions an adjective sakros 9.
The context and the exact meaning are not entirely clear, but it seems
that the inscription stated how a violator of that sacred place would
be made sakros (which in later Latin became sacer) 10. That means that
this transgressor would be dedicated or forfeited to the gods, in a
sense that he will no longer be considered a member of the community, under the protection of human society and legal order, and that
therefore anyone could kill him without punishment 11. It could be
said that this inscription establishes a dual meaning of the term
sakros. One denotes a general connection of an object with the divine, and the other a person’s forfeiture to gods and disconnection
from fellow citizens and the protection contained therein because of
a transgression against the said object 12. In any event, the same meaning of the term sacer can be found in the famous leges regiae and in
the lex duodecim tabularum 13.
Apparently, the term sacer originally had a meaning of general sacredness, or a connection with divine matters, without reference to a
type of sacredness or different means of acquiring that status 14. It
seems that around the time of the Roman Republic, most likely in its
late period, the term sacer obtained the specific meaning of an object
to which the quality of sacredness was attributed by the proper authority 15. It has been convincingly argued that the categories of sacer
and sanctus, both having the same root *sak-, after first having a general association with the divine, were in time appropriated by the
elite and put under their control as a means of controlling the category of the sacred. The term religiosus thus became a sort of residual
category for objects which were generally considered as sacred in a
sense, but without the sanction of a proper authority (for example a
grave or a place struck by lightning - fulguritum). This is said to be a
Beek 2012, 17 ff.; Rives 2012, 177 ff. and nt. 39; Malenica 2014, 8.
The complete text of the inscription, with the accompanying interpretation,
may be found in Beek 2012, 19 ff.
11
Wessner 1920, 1627 f.; Ramon 2017, 44 ff.; Kaser 1948, 48 f.
12
Latte 1960, 38 f.; Malenica 2014, 8.
13
Beek 2012, 26 ff.
14
Rives 2012, 179; Malenica 2014, 8.
15
Rives 2012, 169, 176.
9
10
124
HENRIK-RIKO HELD
basis for the tripartition of the res extra commercium divini iuris on res
sacrae, religiosae and sanctae 16.
In any case, this division was taken over to the imperial period. It
is most famously defined by Gaius in his Institutiones, Gai 2.3-8 17.
According to this definition, res sacrae are objects consecrated to the
dii superi, or celestial gods, and the consecration had to be done under the authority of the Roman people (such as a lex or a senatus consultum passed to that effect) 18. Specifically, a consecration would involve both a Roman magistrate and a priest; the latter would recite
the required formulas and the former would then pronounce the
consecration, both would subsequently touch the object of consecration 19. In the imperial period the authority to consecrate a public
place (locus publicus) or to permit a consecration thereof passed to the
emperor 20. Examples of res sacrae include temples, land with sacral
purposes, columns, altars, utensils used for worship in temples etc. 21.
Such objects were extra commercium, or exempted from commerce,
which means that they could not be subject to a transaction or acquired in ownership. They were, to use Gaius’ term, nullius in bonis,
or in nobody’s property 22. Specific praetorian interdict was provided
as a protection against a violation of a locus sacer 23. When a building
has been made a res sacra, even if it were destroyed, the place on
which it was built would still remain sacred 24. If a place was taken
over by the enemy it would cease to be a res sacra, similarly as a free
man would become a slave by capture. However, if such a place were
freed from the enemy, its prior sacred status would be restored 25.
Rives 2012, 177 ff.
Cf. Marc. 3 inst. D. 1.8.6.2-5; cf. Ulp. 25 ad ed. D. 11.7.2.4.
18
Res religiosae are objects which have been made such by an act of a private person, such as a burial of a human corpse on your own land, while res sanctae belong to
res divini iuris ‘in a manner’ (quodam modo), and only examples are named – walls and
gates of a city (Kaser 1971, 377 ff.; Guarino 2001, 325 f.; Jörs - Kunkel - Wenger
1987, 84).
19
Latte 1960, 200 f.; Rives 2012, 170; Watson 1992, 55 f.
20
Ulp. 48 ad ed. D. 1.8.9.1.
21
Kaser 1971, 378; Jörs - Kunkel - Wenger 1987, 84; Ramon 2017, 18 ff.;
Ramon 2016.
22
Gai 2.9.
23
D. 43.6; Gai 4.159; cf. Rives 2012, 174.
24
Marc. 3 inst. D. 1.8.6.3 (Ramon 2016, 251).
25
Pomp. 26 ad Q. Muc. D. 11.7.36; cf. Rives 2012, 167 f.; Watson 1992, 57;
Ramon 2017, 72 ff.
16
17
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
125
In Justinian’s law the tripartition of res divini iuris was retained,
along with the category of res sacrae 26. However, already in late postclassical period preceding the Justinian’s codification it was established
that the authority to consecrate does not belong to Roman people or
the secular government any more, but exclusively to the Church 27. Res
sacrae were still in principle exempted from regular legal commerce,
since they could not be alienated or pledged, except if the proceeds of
the transaction were to be used for the redemption of captives 28. It
could be said that the main changes in this field were caused by the
influence of Christianity, while in other respects, generally speaking,
rules for res sacrae in the legal system maintained the same arrangement as previously explained 29. This was in short the system of res
sacrae in Roman law, which was a basis for further development of
their conceptual and legal formulation in Roman legal tradition.
3. Sacred objects and ‘res sacrae’ in canon law. – The aim of this part
is to offer an analysis of the legal development of the concept of sacred
objects, which in time became res sacrae and thus attained a terminological and conceptual link with Roman law, exclusively from the perspective of canon law. In this sense the focus of the analysis is not on
the previously mentioned influence of Christianity on the Roman system of res sacrae, which may be explained as an application of definitions originally created for pagan objects on ecclesiastical property 30.
Rather, objective is to try to trace the original canonical legal concept
of sacred objects, notwithstanding that it may have been in different
periods under a certain degree of influence of Roman law or civilian
doctrine and legislation. Of course, in a methodological sense, a strict
separation between civilian and canonical historical legal development
may not be possible, as they overlapped and mutually influenced one
another in numerous areas 31. However, the outlined approach may
still help in clarifying different degrees of influences on the creation of
I. 2.1.
I. 2.1 (pontifices); Leo A. Viviano pp. C. 1.3.26 (a. 459) (episcopi).
28
Iust. A. Demostheni pp. C. 1.2.21.2 (a. 529).
29
Kaser 1975, 243 f.; Ramon 2017, 94 ff.
30
Cf. Farag 2021, 11.
31
Cf. Musselli 2007, 10.
26
27
126
HENRIK-RIKO HELD
the concept of res sacrae in Romano-canonical legal tradition, which in
turn influenced contemporary legal systems.
In the history of canon law there are different ways of periodisation of its development 32. The division assumed in this part roughly
tries to establish three periods according to the subject matter. Therefore, the first part deals with the period before the Decretum Gratiani,
in which a fragmentary and casuistic approach to legal matters existed.
Decretum Gratiani and other canonical collections in which rules for
res sacrae were relatively systematised and fixed, are treated separately.
Finally, res sacrae in canonical codifications are analysed last.
3.1. Early canon law (prior to ‘Decretum Gratiani’). – Strictly
speaking, there was no particular legal system of the Church, and
thus no canon law, previously to the 2nd century, since the small but
burgeoning Christian community in that period relied almost exclusively on the Holy Scripture 33. In the following period there is a rise
in doctrinal, liturgical and disciplinary regulations 34. Afterwards, a
very important source are council decisions, where gatherings of
Church officials on a universal, regional or local level delivered legislation on particular important issues 35. Although there were other
sources of canon law in this period 36, council decisions, as it will be
seen, form the backbone of the regulation regarding sacred objects.
Before the analysis of the sources, several contextual remarks are
in order. In legal matters as well as in other areas, the context from
which the Church emerged and in which she operated in this period
was manifold, the most important elements of which may be Judaism
and Latin culture (Hellenistic in the East) 37. Therefore, an overall
sense of sacredness in Christianity obviously had to have a significant
link with Judaism, in which the temple was considered a sacred ob32
Musselli 2007, 8 ff., 17 ff.; Arroba Conde - Riondino 2019, 1 ff.;
Gaudemet 1991, 9 ff.
33
Cf. Gaudemet 1991, 9 f.
34
Arroba Conde - Riondino 2019, 4 f.; Gaudemet 1991, 10; Musselli 2007,
21 f.
35
Arroba Conde - Riondino 2019, 5; Gaudemet 1991, 10; Musselli 2007, 25
f.; MacMullen 2006, 7; Farag 2021, 13.
36
Arroba Conde - Riondino 2019, 6; Gaudemet 1991, 10; Musselli 2007, 26
ff.
37
Cf. Arroba Conde - Riondino 2019, 4; Gaudemet 1991, 9.
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
127
ject of sorts, as well as any object that housed the Torah, the Word of
God, alongside sacred vessels used in liturgy 38. In further development Christian religious idiosyncrasies influenced the canonical concept of sacred objects. Most important in that sense may be Eucharistic theology according to which the Word of God became flesh
and is present in the accidents of bread and wine during the Eucharist, as well as in the sacred vessels and tabernacles in churches 39.
The Latin influence obviously included Roman law, however,
originally there was an emphatic aversion towards Roman law alongside other manifestations of the pagan Roman Empire 40. This began
to change with Christianity becoming first religio licita in 313 and
then the official religion of the Empire in 380 AD, and it could be
said that from then onwards the influence of Roman law on the
Church and her law generally rose 41. However, as it will be seen, influence of Roman law in the relevant area in this whole period was
still meagre.
Finally, canon law (especially council decisions) was in this period
in a significant part dependent on internal dogmatical strifes in the
Church and suppression of heresies on the one hand, and the external struggle with secular powers on the other. In that sense individual
rules were often an answer to particular problems 42. Therefore, it is
perhaps not possible to reconstruct a complete and dogmatically defined concept of sacred objects in this period (nor is it definite that
such a concept existed).
The sources which may help in delineating the concept of sacred
objects in early canon law deal with various matters. As early as ca.
340 AD was contempt of churches punishable by anathema, and
around 363 AD it was expressly forbidden to hold so-called agape
38
More about the concept of sacredness and holiness in Judaism in Shapiro 1965.
Sacred objects in Jewish law of property are called hekdesh (more about Jewish law of
property in Webber 1928).
39
More on Eucharistic theology generally in Feingold 2018, and particularly regarding the Eucharist in early Christianity Cardó 2019; Mazza 1999.
40
This Christian sentiment is very aptly expressed in the words of Saint Jerome
(ca. 347-420 AD): Aliae sunt leges Caesarum, aliae Christi: aliud Papinianus aliud Paulus
noster praecipit (One thing are Cesar’s laws, another Christ’s: one thing commands Papinian, another our Paul) (Hier. epist. 77.3; Jacobs 2006).
41
Arroba Conde - Riondino 2019, 5; Gaudemet 1991, 11; Musselli 2007, 25.
42
Cf. Arroba Conde - Riondino 2019, 7 f.; Farag 2021, 15, 42.
128
HENRIK-RIKO HELD
feasts in churches, or eat and put couches there 43. This indicates a
particular protection of the churches, reinforcing their apartness and
sacredness. Further on, as early as 353 AD there is indication that the
practice of consecrating churches was already well spread. Athanasius,
the bishop of Alexandria, celebrated the Eucharist on Easter that year
in a church that was not yet completed and consecrated. This caused
a great controversy, reaching even the emperor, Constantius II, with
whom the authority to consecrate churches formally rested 44. In 441
AD a rule was established according to which the right to consecrate
a church belongs to the bishop of a diocese, and not to any other
bishop, even if he was the founder of the church 45. According to a
canon from 451 AD, once consecrated monasteries could not have
been reverted back to secular use 46. In the 9th century, more precisely
858 AD, the rule was expressly established according to which no
Mass could be celebrated for any reason whatsoever in buildings not
consecrated by the bishop 47.
Although there are indications that altars were consecrated already near the end of the 4th century AD, clear rule to that effect can
be traced to 506 AD 48. The altars had to be consecrated (the exact
term used is sacrari) with the anointing of chrism and with the blessing of a priest 49. Objects used in liturgy, especially those closely associated with the Eucharist such as sacred vessels and vestments, were
also particularly protected and held in high regard as sacred objects.
For example, a canon from the 4th century prohibited a subdeacon to
43
Council of Laodicea, Canon 28 (Hefele 1896, 315); Council of Gangra,
Anathema V (Joannou 1962, 91).
44
Athanasius defended himself by claiming that his celebration of Eucharist did
not amount to consecration, but was only a sort of purification of the place as a preparation for the future consecration which should be done under the authority of the emperor in his function of pontifex maximus (Athanasius, Apologia ad Constantium, 18
[Schaff - Wace 1892]). Emperor’s authority regarding the consecration of churches
(temples) is a feature of Roman law mentioned earlier (it replaced the authority of
magistrates), which perhaps may be considered a pagan atavism which entered Christianity when the ruling elite embraced the religion (Farag 2021, 11, ntt. 1, 2; Kramis
1963, 6).
45
Council of Orange (Arausicum), Canon 10 (Hefele 1883, 161).
46
Council of Chalcedon, Canon 24 (Hefele 1883, 408).
47
Capitula Herardi, archiepiscopi Turonensis, Canon 34; Migne 1832, 766.
48
Kramis 1963, 7 f.
49
Council of Agde (Agatha), Canon 14 (Mansi 1762, 327).
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
129
touch vasa sacra, and he was not allowed to wear a stole 50. In the socalled Canones Apostolorum it is stated that gold and silver vessels and
linen dedicated for sacred use (Latin translation from the Greek original reads sanctis usibus dicatum) should not be used for private ends
under the threat of a penalty 51. According to a canon from 527 AD,
vasa sacra had to be kept in church and were supposed to be preserved by the archpriest 52.
Certain miscellaneous objects associated with Christian liturgy
and worship also had a sacred status of sorts. For example, in 400 AD
a canon declared that only a bishop could consecrate (the exact Latin
verb used was confacio) holy chrism, and that only deacons and subdeacons could carry it 53. In 393 AD it was decreed that the catechumens should not receive anything consecrated (sacramentum) besides
the customary salt 54.
Cemeteries were also considered sacred and, interestingly, there
was no distinction analogous to the Roman differentiation between res
sacrae and res religiosae to which graves belonged. In early Christian
catacombs inscriptions were found which indicate that burial grounds
therein were considered a locus sacer or sanctus et religiosus locus 55.
From the 6th century stems a clear indication that cemeteries had to
be consecrated by a priest (sacerdotali benedictione sacratus) 56.
Finally, certain objects seem to have possessed the characteristic
of sacredness by themselves, without a particular consecration or dedication having been undertaken. To this category belong sacred images (depictions of Christ, Virgin Mary etc.), which were, amongst
Council of Laodicea, Canons 21 and 22 (Mansi 1759a, 568).
Canones Apostolorum, Canon 73 (Greek and Latin text were consulted from a
publication from 1856, which is without an indication of an editor or the place of
publication – The Canons of the Holy Apostles). Canones Apostolorum are usually traced
back to the 5th and 6th century, but this particular rule seems to be even older, going
back perhaps even to the second half of the third century (Hefele 1872, 487).
52
Council of Dvin, Armenia, Canon 15 (Hefele 1908, 1079).
53
Council of Toledo, Canon 20 (Mansi 1759b, 1002). Cf. Hefele 1896, 421;
Kramis 1963, 16.
54
Council of Hippo, Canon 3 (Mansi 1759b, 919). Cf. Hefele 1896, 397;
Kramis 1963, 15.
55
Kramis 1963, 8.
56
Gregory of Tours, Liber in Gloria Confessorum, c. 104 (Waitz 1885, 815); cf.
Kramis 1963, 9.
50
51
130
HENRIK-RIKO HELD
lively iconoclastic debates and conflicts of the time, in the 8th century
explicitly defined by pope Gregory II as something sanctum 57. Relics
of the saints, also, must have had a certain sacred status, since from
the 8th century at least it was necessary to include a relic in a consecration of a church 58.
All things considered, in this period the concept of a sacred object definitely did exist in canon law. It was perhaps unspecific in nature, and designated an overall association with the transcendental elements of Christianity. Consequently, churches and altars were sacred
as they were places where the Eucharist took place, and sacred vessels
and vestments had the same quality since they were used in liturgy.
Other sacred objects (holy chrism, salt, sacred images, relics, cemeteries) also had a certain connection with the liturgy and divine matters. Certain objects acquired the sacredness through means of a particular procedure – a consecration (most importantly churches and
the altars), and others were considered sacred by themselves. Sacred
objects enjoyed particular protection, and this status entailed restrictions regarding their administration and alienation. There are indications that the status of sacredness, once acquired, was in principle
perpetual.
The concept of a sacred object in early canon law was by all accounts derived from the theological context of Christianity and sociological and political circumstances in which Church operated. The
only apparent association with Roman law may be the issue of the
competent authority for the consecration of churches. The Latin language was used generally and therefore also to denote sacred objects,
but not in a technical legal sense. Different terms for sacredness
(sacer, sanctus, religiosus) were used indiscriminately, while Roman legal term res sacrae is not to be found in the canon law of this period.
3.2. From ‘Decretum Gratiani’ to the first codification (12th-20th
century). – Creation of Decretum Gratiani or Concordantia discordantium canonum in ca. 1140 AD may be considered the beginning of
Council of Nicaea, Epistola Gregorii sanctissimi (Mansi 1767, 94 ff., especially
98: Omne namque opus quod in nomine Domini sit, pretiosum et sanctum est). More
about the iconoclastic struggles in Kramis 1963, 9 ff.
58
Council of Nicaea, Canon 7 (Mansi 1767, 751); cf. Kramis 1963, 16.
57
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
131
the classical period or the golden age of canon law 59. It was a work
which systematised the existing large body of disarrayed sources of
canon law and became its cornerstone for centuries to come. Decretists
and decretalists formed the canon law in the following period 60,
before the rise of canonical collections. These include Liber Extra of
Gregory IX (1234), Liber Sextus of Boniface VIII (1298) and Constitutiones Clementiae of Clement V (1317). These official papal collections, alongside two private collections (Extravagantes Johannis XXII
from 1325 and Extravagantes communes from 1500) formed the Corpus iuris canonici, which was the official source of canon law up until its first codification in the 20th century 61. After the Council of
Trent in the 16th century legislative activity of the Church was concentrated in the passing of individual papal bullae and breves (apostolic constitutions, encyclicals, motus proprii etc.) 62. In addition, all of
those sources were extensively commented in doctrine by numerous
canonists throughout the centuries 63. Generally, from the beginning
of this period canon law is increasingly influenced by Roman law as
commented and taught at the universities and applied on secular
courts 64.
Within this framework, various references to sacred objects and
res sacrae can be found. To begin with, the whole third part of the Decretum Gratiani deals with the consecration (Decreti pars tertia de consecratione, hereinafter: de cons.) 65. Altars, sacred vessels, vestments and
all the various utensils used in worship had to be consecrated by a
bishop 66. The consecration of a church could be done only with the
permission of the pope 67. Also, permission from the local bishop beSee Winroth 2004; cf. Hartmann - Pennington 2008; Brundage 1995, 44 ff.
Arroba Conde - Riondino 2019, 9; Musselli 2007, 43 ff.
61
More in Pennington 2012, 757 ff.
62
Gaudemet 1991, 16; Musselli 2007, 69 ff.
63
Musselli 2007, 55 ff., 59, 75 ff.
64
For an analysis of the influence of Roman law on Decretum Gratiani see Winroth 2004, 146 ff. and in further periods De˛biński 2010, 65 ff. Generally about the
sometimes varying in degree but generally present influence of Roman law on canon
law, aptly expressed by the famous adage Ecclesia vivit lege romana, in Robleda 1971;
Fürst 1975.
65
This part is said to have been added later on by someone other than Gratian,
and was apparently not part of the original Decretum (Winroth 2004, 7, 12).
66
De cons., D. I, c. 2.
67
De cons., D. I, c. 3-5.
59
60
132
HENRIK-RIKO HELD
fore the building of a church was needed 68. Mass could be celebrated
only in consecrated places (in locis sacratis) 69. Church once consecrated retained that status, but certain acts done therein (such as the
spilling of blood) caused the need for a reconsecration 70. This was
also needed if there was doubt as to whether a consecration did or
did not take place 71. Monasteries once consecrated could not be reverted back to secular use 72. Altars were consecrated with the holy
chrism and a blessing of a priest 73. Timber as part of construction of
a consecrated church, once removed from that church could not be
reverted back to secular use, but had to be used for another church or
monastery or else burned in fire 74. Sacred vessels and vestments rendered unusable due to old age had to be burned and their ashes disposed properly 75. They were also not to be touched by anyone except
ordained men (sacratis hominibus) 76. Holy chrism could be consecrated only by a bishop 77. Relics were initially considered res sacrae,
but were in the 12th century redefined as res spirituales in the context
of the problems associated with simony 78. Finally, in Gratian’s Decretum there is the first explicit mention of res sacrae – it is stated that
they could be sold only for the help of the poor and for the redemption of captives 79.
This arrangement was retained in further canon law, with the
adding of emphasis on certain elements and an elaboration of various
specific cases that arose in practice. Liber Extra of pope Gregory IX
decreed that the Eucharist, holy chrism and various church furnishings (suppelectilia), among them many sacred objects, had to be kept
under lock 80. Damaged altars had to be reconsecrated, and churches
De cons., D. I, c. 9.
De cons., D. I, c. 12, 14.
70
De cons., D. I, c. 20-24.
71
De cons., D. I, c. 18.
72
C. 4, C. XIX, q. 3.
73
De cons., D. I, c. 32.
74
De cons., D. I, c. 38.
75
De cons., D. I, c. 39.
76
De cons., D. I, c. 41-42.
77
De cons., D. I, c. 124.
78
Pazos 2020, 24; Kramis 1963, 25, 29 f., 40 f.; Boiron 2005.
79
C. 70, C. XII, q. 2.
80
Liber Extra, lib. III, tit. XLIV, cap. I-II.
68
69
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
133
or cemeteries in which an excommunicated person was buried had to
be aspersed with the solemnly blessed water by a priest 81. Vestments
of a schismatic priest had to be blessed again, and altars where he
held the Eucharist had to be reconsecrated 82. Regula iuris 7 included
in Liber Extra stated that any damage done to a sacred object (in
sacratis Deo rebus) is a sacrilege 83. Regula iuris 51 from the Liber Sextus of pope Boniface VIII explicitly instituted the rule that anything
once dedicated to God cannot be transferred back to human (secular)
ends 84. Finally, Liber Extra also decreed that objects that could not be
possessed by the laity (spiritualia) could also not be acquired by laity
by means of prescription 85.
The doctrine of canon law accepted the established rules and
elaborated on them both casuistically and systematically, bringing
about more details as well as further systematisation in the regulation 86. Sacred objects in time increasingly assumed the technical designation of res sacrae. For example, the term can be found in the work
of Augustinus Barbosa (1589-1649), Iuris ecclesiastici universi libri tres,
lib. III, cap. II (De vasis sacris, et vestibus, ac aliis rebus sacris in communi) 87. The same author defines consecration as nothing other than
dedication to God, thus equating terminologically consecration with
dedication 88. Famous canonist Reiffenstuel (1642-1703) defined sacred objects as those dedicated to God by means of a consecration or
a blessing 89. He numbers among them various movables such as sacred vessels and images, altars, vestments etc., alongside anything directly or indirectly used for divine cult, as well as loca sacra as places
were sacred objects are kept (churches, chapels, oratories etc.) 90.
Canonical legal doctrine seems to have accepted a definition of res
Liber Extra, lib. III, tit. XL, cap. I, VII.
Liber Extra, lib. I, tit. XVI, cap. I.
83
Liber Extra, lib. V, tit. XLI, cap. VII.
84
Liber Sextus, lib. V, tit. XIII, cap. LI.
85
Liber Extra, lib. II, tit. XXVI, cap. VII.
86
Musselli 2007, 69 ff.
87
Barbosa 1660, 109.
88
Barbosa 1660, 114.
89
Jus canonicum universum, tomus sextus, cap. II, reg. LI, 2 (Reiffenstuel 1742, 78).
90
Jus canonicum universum, tomus sextus, cap. I, reg. VII, 3-4 (Reiffenstuel 1742,
81
82
10).
134
HENRIK-RIKO HELD
sacrae as objects having a general association with divine matters.
Schmalzgrueber (1663-1735) was one of the few authors who took
up the Roman tripartition on res sacrae, religiosae and sanctae 91.
According to Reiffenstuel, a consecration could have influence on
the issues of property. For example, if a bishop would unknowingly
consecrate a chalice belonging to a lay person, he was forbidden to
restore it, but had to keep it and reimburse the (previous) owner. The
exception was provided if the lay person owned a private consecrated
chapel where a Mass could be celebrated, because then the chalice
could be put to use by the priests there 92. On the other hand, if by
chance Church lost ownership and a layman became the owner of a
res sacra, it would retain its sacred status 93.
According to Barbosa, sacred objects not only could not be alienated by sale, it was also forbidden to make them an object of pignus,
except in a case of utmost just necessity (nisi iustissima necessitate urgente) 94. Reiffenstuel maintained that chalices and other vasa sacra
could be sold only in great necessity and for the redemption of captives 95.
Regarding prescription, Schmalzgrueber held that a layman could
acquire a res sacra by those means only if it lost its sacred status 96. According to Reiffenstuel, clerics and other ecclesiastical persons, contrary to laymen, could acquire res sacrae by means of prescription 97.
Contrary opinion was held by Santi (1830-1885), who held that sacred objects are excluded from prescription altogether 98. This was
supported in earlier doctrine already by Maschat (1692-1747) 99.
91
Jus ecclesiasticum universum, tomus secundus, pars II, tit. XVI, n. 25-26
(Schmalzgrueber 1844, 333 f.).
92
Jus canonicum universum, tomus sextus, cap. II, reg. LI, 7 (Reiffenstuel 1742,
79); cf. Kramis 1963, 41 f.
93
Kramis 1963, 35 f.
94
Barbosa 1660, 113.
95
Jus canonicum universum, tomus sextus, cap. II, reg. LI, 7-8 (Reiffenstuel 1742,
79).
96
Jus ecclesiasticum universum, tomus secundus, pars II, tit. XVI, n. 25 (Schmalzgrueber 1844, 333).
97
Jus canonicum universum, tomus secundus, lib. II, tit. XXVI, n. 34 (Reiffenstuel
1832, 439).
98
Praelectiones juris canonici, lib. II, tit. XXVI, n. 6 (Santi 1898, 213).
99
Institutiones canonicae, pars I, lib. II, tit. XXVI, n. 12 (Maschat 1757, 781); cf.
Kramis 1963, 44, nt. 32.
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
135
3.3. Codifications of Canon Law (1917, 1983 and 1990). – Due
to various circumstances throughout the centuries, especially in the
19th century, a codification of canon law was deemed necessary and
thus a Codex Iuris Canonici was passed in 1917 (CIC 1917) 100.
Changes brought about by the Second Vatican Council necessitated a
recodification, so a new Codex was delivered in 1983 (CIC) 101. Additionally, in the recodification it was reasoned that the canons of the
Eastern Catholic Churches should be codified separately, so a particular Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO) was created
in 1990 102. In those codices numerous aspects of the regulation on res
sacrae as developed in previous centuries were finally systematised.
The first Codex had a whole section dedicated to locis sacris, or sacred places, which included consecration and blessing of churches 103.
According to one provision, a church could not lose its consecration
or blessing unless it was completely destroyed, or most part of its
walls were destroyed, or it was reduced to secular use by the decision
of the ordinary 104. However, such a decision by the ordinary was only
possible if a church could not practically be used for divine cult any
more, and is without any possibility of repair, while the new secular
use could not be disreputable (usus profanus non sordidus) 105. Certain
acts done in the church (such as murder) could violate its sacredness,
thus necessitating a reconciliation before further use 106. Veneration of
sacred images and relics was also regulated 107. Altars had to be consecrated before use, but they would lose this consecration if any significant damage or change of construction was done to it 108. Church
bells also had to be consecrated or blessed 109. Sacred vessels (sacra supellex) were defined as blessed or consecrated vessels designated for
100
More in Musselli 2007, 85 ff.; cf. Gaudemet 1991, 16 ff.; Arroba Conde Riondino 2019, 9 ff.
101
More in Arroba Conde - Riondino 2019, 11 ff. and Musselli 2007, 101 ff.
102
More in Musselli 2007, 115 ff.
103
CIC 1917, cann. 1154 ff., 1165.
104
CIC 1917, can. 1170.
105
CIC 1917, can. 1187.
106
CIC 1917, cann. 1172 ff.
107
CIC 1917, cann. 1276 ff.
108
However, a violation of an altar’s sacredness (exsecratio) did not influence the
sacred status of the church and vice versa (CIC 1917, cann. 1199 and 1200).
109
CIC 1917, can. 1169/2.
136
HENRIK-RIKO HELD
cultic purposes according to liturgical laws and were regulated in detail as well 110. They would lose the blessing or consecration if they
were damaged or substantially disfigured, used indecorously or exposed for public sale 111. Cemeteries had to be blessed in order to be
properly used 112. Generally, consecrated or blessed objects were to be
treated with reverence and were not to be put to profane use, even if
they were in private property 113.
The term res sacrae is explicitly mentioned in several canons. Regarding prescription, it is stated that res sacrae in private property can
be acquired by those means but still cannot be used for secular (profane) ends. Only when they lose consecration or blessing can they be
put to a profane use, but never for disreputable ends 114. Res sacrae
which are Church property can only be acquired by another legal
person of the Church by means of prescription 115. It is not allowed to
lend res sacrae for purposes which are contrary to their nature 116. The
term is also mentioned in a canon which prohibits taking into account the consecration or blessing of an object when assessing its
price 117. Finally, CIC 1917 contained very extensive regulation regarding sacrilege and general violation of sacred objects 118.
The Codex from 1983 essentially retained this canonical regulation on res sacrae and sacred objects, adding certain changes or simplifying the rules 119. It still contains traces of a differentiation between loca sacra and res sacrae 120. In the new Codex it is much easier
to lose the sacred status than before. Loca sacra attain sacredness by
means of dedication or blessing, and lose this status if they are in major part destroyed, or if they are permanently reduced to profane use
CIC 1917, cann. 1296 and ff.
CIC 1917, can. 1305.
112
CIC 1917, can. 1205.
113
CIC 1917, can. 1150.
114
CIC 1917, can. 1510/1.
115
CIC 1917, can. 1510/2.
116
CIC 1917, can. 1537.
117
CIC 1917, can. 1539.
118
CIC 1917, cann. 2325, 2326, 2328, 2329, 2345, 2346, 2347.
119
Generally on res sacrae in the Codex from 1983 in De Paolis 2019, 56, as well
as in the following references alongside pertinent canons.
120
CIC, can. 397, 1205 ff. (Chiappeta 2011a, 396; Chiappeta 2011b, 481 ff.;
Beal - Corriden - Green 2000, 533, 1425 ff.).
110
111
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
137
by decision of a local ordinary or in fact 121. Altars can lose their sacred status the same way; however, if a church or a sacred place is reduced to profane use, this fact by itself does not lead to a loss of dedication or blessing of an altar 122.
In a canon mandating reverent use of res sacrae and prohibiting
profane or inappropriate use even when they are in private property,
there is an implied definition of res sacrae. They are defined as objects
designated for divine cult by means of dedication or blessing 123. Contrary to the previous Codex, there is no explicit rule regarding the loss
of a consecration or a blessing of a sacred vessel 124. Veneration of sacred images and relics is again particularly addressed 125. Sacred objects (bona sacra) should be preserved and kept securely 126. There are
detailed rules regarding restrictions of the alienation of Church property, which would sometimes affect certain res sacrae 127. Rules restricting prescription on res sacrae, again mentioned explicitly in this instance, can also be found 128. Finally, sacrilege and general violation of
res sacrae are in the new codification regulated in a single canon 129.
CCEO has much fewer references to res sacrae. It also contains a
reference to res sacrae and loca sacra 130. Res sacrae are again implicitly
defined as objects dedicated or blessed for the divine cult in a canon
restricting prescription of ownership on them 131. Profanation of res
sacrae (mentioned explicitly) is also a punishable offense 132.
121
1428).
CIC, can. 1212 (Chiappeta 2011b, 486; Beal - Corriden - Green 2000,
122
CIC, can. 1238 (Chiappeta 2011b, 512; Beal - Corriden - Green 2000,
1439 f.).
123
CIC, can. 1171 (Chiappeta 2011b, 451 f.; Beal - Corriden - Green 2000,
1404 f.).
124
Cf. Klappert 2016, 862.
125
CIC, cann. 1186 ff. (Chiappeta 2011b, 467 ff.; Beal - Corriden - Green
2000, 1413 ff.).
126
CIC, can. 1220/2 (Chiappeta 2011b, 493; Beal - Corriden - Green 2000,
1431).
127
CIC, cann. 1291 ff. (Chiappeta 2011b, 590 ff.; Beal - Corriden - Green
2000, 1493 ff.).
128
CIC, can. 1269 (Chiappeta 2011b, 546 f.; Beal - Corriden - Green 2000,
1471).
129
CIC, can. 1376 (Chiappeta 2011b, 710; Beal - Corriden - Green 2000,
1585).
130
CCEO, can. 205/2.
131
CCEO, can. 1018.
132
CCEO, can. 1441.
138
HENRIK-RIKO HELD
4. ‘Res sacrae’ from Romano-canonical legal tradition in contemporary context. – The concept of res sacrae from Romano-canonical legal
tradition made a decisive impact in various ways in numerous contemporary legal systems. Comprehensive analysis would require
much more space and would need to be separately addressed. The
aim of this part is to provide only an overview, or an insight into several ways in which this influence is most strongly manifested. First, in
several contemporary legal systems the term res sacrae is explicitly employed to denote sacred objects, the legal status of which is essentially
determined by the canonical regulation. Second, historically many
canonical res sacrae attained the status of cultural goods, by which
they acquired another level of protection, both on a national and international level. Finally, in a case study of Croatian law, an example
is given in which canonical status of res sacrae entails legal consequences beyond those already present traditionally.
4.1. ‘Res sacrae’ in contemporary national legal systems. – The term
res sacrae may be employed in contemporary legal context in a general
sense, denoting objects defined as sacred or intended for religious purposes by any given religious organisation, and thus attaining particular legal status (which may or may not be recognised by the state) 133.
However, the term is most often used to denote sacred objects from
Christian religious communities generally, or Catholic Church specifically, in the secular legal systems. In the latter case, the issue of
canonical regulation thereof naturally becomes important. For example, in art. 831, second comma, cod. civ. (Italian Civil code), it is
stated that buildings designated for public exercise of catholic worship cannot lose this function not even if they are alienated, unless
this was done according to respective applicable legal norms. In other
words, only if a church loses its consecration or blessing according to
canon law can the building be relegated to a different use 134. Accordingly, in one case from 2018, the problem was the removal of iron
and glass structure installed in a church building of San Paolo Converso in Milan. The church was not used for public worship since
1808, and was used as an architectural studio. It was decided that the
133
134
For example, in Tsivolas 2014, 105 ff.
More in Roversi Monaco 2019, 353 ff.
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
139
structure had to be removed, since there was no canonical decision
which reduced the church to profane use 135.
Similarly, German constitutional law imparts public legal status
on certain religious organisations, among them Catholic Church 136.
Consequently, the state in principle cannot change the status of a res
sacra. This is possible only when res sacrae need to be repurposed in
public interest (for example, when an old church or a graveyard has
to be demolished or removed to protect public health and safety,
build a road etc.). However, this cannot be done by a simple decision
of a court as in other cases, but an administrative act (Verwaltungsakt)
is required beforehand 137. The matters in which res sacrae are particularly protected in this way range from seemingly trivial to potentially
economically significant. For example, if church bells are used for
liturgical uses and neighbours deem them to be too loud, an injunction cannot be issued simply by a court as in other cases of noise
emissions 138. In one case, the problem was a chapel built alongside a
house, used as a sacristy for a neighbouring church of St. Peter. All of
the three buildings were damaged in WW2, and the house with the
chapel was acquired and repaired by a private owner afterwards.
However, the chapel was continued to be used as a sacristy by the
church. Although the church offered to reimburse the cost of repair,
the owner of the house brought the issue before the court, requesting
the chapel to be transferred to him. The court denied the request, arguing that the chapel did not lose its status of res sacra according to
canon law (this fact was known to the owner), and thus he had to
tolerate the continued sacred use of a chapel as a limitation of his
ownership 139. This limitation or a burden on ownership is considered
to be a sort of public legal servitude (servitus, Dienstbarkeit) 140.
In both mentioned jurisdictions there is a reference to res sacrae as
defined by canon law. However, in at least one example of contemporary legal relevance res sacrae of Roman law are directly referenced.
Roversi Monaco 2019, 359, with further references.
The basis for this is a provision of the Weimar Constitution (art. 137, par. 5),
still applicable today (more in Pulte 2016, 144 ff.).
137
Klappert 2016, 863.
138
Schlink 1987, 639 f.
139
Schlink 1987, 638.
140
Klappert 2016, 863.
135
136
140
HENRIK-RIKO HELD
In Scotland a problem arose regarding the legal status of graves and
graveyards. Previously to Reformation in Scotland, graveyards were
blessed as per canon law, thus attaining the status of a sacred object,
violation of which constituted a crime. After the Reformation, of
course, canon law of the Catholic Church was no longer applied.
Therefore, the graveyards were accordingly not blessed, and seemingly lost the sacred status. However, the doctrine took the view that
graves were still res religiosae as per Roman law, due to the sheer fact
that they were burial places 141. This is one example of an application
of the Roman trichotomy of res sacrae, religiosae and sanctae in contemporary context, in which canonically broadly defined and all-encompassing concept of res sacrae seems to be bypassed. Of course, this
is a consequence of the fact that Roman law is a contemporary source
of law in Scotland 142.
4.2. ‘Res sacrae’ and cultural goods. – Res sacrae of the Catholic
Church, particularly when they are older and culturally or aesthetically significant, can sometimes attain the status of cultural goods,
thus acquiring another level of protection, be it on a national or international level 143. This is particularly important in countries which
were historically marked by a strong presence of the Catholic
Church 144. In this sense a particular object (for example, a church, an
altar, a sacred vessel or a painting) may be protected by canon law
within the Church, by the secular law of a state which recognises relevance of the canon law in this context, and by the secular law – national or international – which protects this object as a cultural good.
Brown 2018, 356 ff.
Gordon 1995.
143
On an international level, there are numerous conventions of importance, such
as the 1954 Hague Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of
Armed Conflict (https://en.unesco.org/protecting-heritage/convention-and-protocols/1954-convention), the 1970 UNESCO Convention on the Means of Prohibiting
and Preventing the Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural
Property (https://en.unesco.org/fighttrafficking/1970), the 1972 UNESCO Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage
(https://whc.unesco.org/en/conventiontext/), the 1995 UNIDROIT Convention on
Stolen or Illegally Exported Cultural Objects (https://www.unidroit.org/instruments/
cultural-property/1995-convention/) etc. Legal problems regarding religious cultural
heritage in Europe are extensively treated in Tsivolas 2014.
144
For example in Italy (more about this in Roversi Monaco 2019).
141
142
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
141
However, protection of cultural goods within the Church has been
recognised by the canon law itself. They are explicitly mentioned in
can. 1283/2, whereby administrators of ecclesial property are obliged
to make an inventory of cultural goods, among other objects, before
they begin their function 145. Further canons detail rules for the administration and protection of cultural goods in the Church 146.
Besides that, one canon prescribes permission of the Holy See before artistically or historically precious objects (some of which may be
classified as cultural goods) are alienated 147, and this category will oftentime include res sacrae. Actually, there are various canons throughout the CIC dealing with Church property that will have influence
when said property is numbered among res sacrae as cultural goods 148.
In order to coordinate these regulations and vast amount of cultural
goods, a commission was founded in 1988 by pope Saint John Paul
II, Pontificia commissione per la conservazione del patrimonio storico e
artistico della Chiesa. This commission was integrated with the Pontificio consiglio della cultura by pope Benedict XVI in 2012 149.
Finally, pope Francis reformed the system in 2022 by establishing
Dicastero per la Cultura e l’Educazione as an administrative unit of the
Roman Curia, in which a section exists dedicated exclusively to the
matters of culture and cultural goods (Sezione per la Cultura) 150.
4.3. Canonical ‘res sacrae’ in Contemporary Civil Law. Case study of
Croatia. – There may be one additional way in which res sacrae from
Romano-canonical tradition may be relevant in contemporary legal
context. That is by means of concordatarian law, or law governing international treaty law between the Holy See and sovereign states. To
take a minor but an illustrative example of Croatian law, this may be
realised by the Treaty between the Holy See and the Republic of Croatia
Chiappeta 2011b, 576 ff.; Beal - Corriden - Green 2000, 1484 ff.
Dimodugno 2018, 9 ff.
147
CIC, can. 1292/2 (Chiappeta 2011b, 593; Beal - Corriden - Green 2000,
1499).
148
An extensive list may be found in Dimodugno 2018, 11.
149
Dimodugno 2018, 15 ff., 17 ff.
150
This reform was introduced with the apostolic constitution Praedicate Evangelium. Tasks of the Sezione per la Cultura associated with cultural goods are defined in
the article 155 (https://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_constitutions/documents/20220319-costituzione-ap-praedicate-evangelium.html).
145
146
142
HENRIK-RIKO HELD
regarding legal matters from 1997 (hereinafter: Treaty) 151. In art. 10 of
the Treaty, it is stated that legal persons of the Church (persone
giuridiche ecclesiastiche) can acquire or alienate objects in accordance
with both canon law and Croatian law. With this, previously mentioned canonical regulation regarding the acquisition or alienation of
Church property, including res sacrae, will be generally applied.
Most intriguing in this context may be rules regarding the prescription of res sacrae. In the already mentioned can. 1269 of CIC it
is stated that private persons can acquire res sacrae by means of prescription only from another private person (profane use is prohibited
regardless). However, if a res sacra belongs to a public legal person of
the Church (such as a parish or a diocese), it can be acquired only by
another such person. This will probably not be an issue when such an
object is acquired by a legal person of the Church, since it is expected
that in such circumstances canon law is respected.
Problems may arise if this canon is deemed to be applicable in situations when any other person outside the Church attempts to acquire ownership of a res sacra owned by a public legal person of the
Church. This would be the case if the term alienare from art. 10 of
the Treaty is interpreted to involve losing of ownership of the legal
person of the Church to any other person 152. In that way, this article
would prescribe application of canon law, more precisely can. 1269
of CIC, when somebody tried to acquire a res sacra owned by a public legal person of the Church by means of prescription.
This argumentation rests on including prescription or usucapio as
a type of alienatio or alienazione. In Roman law, for example, the term
alienatio sometime did include usucapio or prescription by another
person 153. Such an interpretation would mean that res sacrae owned by
public legal persons of the Church could not at all be acquired by
151
This treaty is one of four which comprehensively cover all the relevant matters
regarding the status of the Catholic Church in Croatia. Text of the treaties in both official languages (Italian and Croatian) may be found in Bozanić - Eterović 2001.
The matters associated with concordatarian and canon law in Croatian legal system are
comprehensively analysed in Petrak - Staničić 2020 (language of the book is Croatian; book in English by the same authors dealing with the matter [Religion and Law in
Croatia], to be published by Wolters Kluwer, is forthcoming).
152
More detailed argumentation may be found in Held 2020.
153
Paul. 21 ad ed. D. 50.16.2; Gai 2.65; Ven. 6 interd. D. 41.1.66. More about
this issue in Brasiello 1964, Brasiello 1949, Pugliatti 1958.
RES SACRAE IN ROMANO-CANONICAL LEGAL TRADITION
143
means of prescription by any other person outside of the Church.
This would definitely be a completely novel element of the canonical
regulation on res sacrae entering a contemporary legal system.
5. Conclusion. – The concept of res sacrae in Romano-canonical
legal tradition may be said to be a product of an amalgamation of
Roman terminology and peculiarities of canonical regulation
throughout history. When canon law is analysed separately, in fact, it
becomes clear that its concept of sacredness is heavily dependent on
religious idiosyncrasies of Christianity, specifically Catholicism. This
sacredness revolves around basic religious tenets of Christianity, such
as the belief in the presence of God in the Eucharist, and the fact that
authority associated with sacred objects rests with clerical hierarchy.
Roman legal influence – and only regarding terminological occurrence of the term res sacrae – comes comparatively late, not before
Decretum Gratiani in the 12th century. Before that there is a whole
millennium in which canon law, mostly council decisions, struggled
to delineate basic rules about sacred objects in the Church. But even
in further development of canon law influence of Roman law seems
to go not much farther. Contrary to Roman classical tripartition on
res sacrae, religiosae and sanctae, canonical res sacrae are prevailingly
broadly defined, and are an all-encompassing concept including all
the sacred objects in a general sense (similar, perhaps, to the original
Roman concept of sakros).
Essentially, of course, there are obvious parallels between the Roman and canonical concept, most importantly in the context of consecration and the resulting exclusion from regular legal commerce.
However, even here technical details reveal certain crucial differences,
as in canon law authority to consecrate does not rest with secular
powers, it is possible to alienate res sacrae if the proceeds are used for
charitable ends, and de-consecration is a viable option.
To a degree, Roman concept of res sacrae did influence the corresponding canonical concept historically. However, in the end canonical element seems to have been more poignant. Therefore, in various
ways in which res sacrae exist in legal systems contemporarily, one can
speak about an exemplary presence of a fused Romano-canonical legal concept.
144
HENRIK-RIKO HELD
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Giovanbattista Greco
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
Ulpiano, nel dodicesimo libro di commento all’editto, riferisce,
in termini concisi ma inequivoci, che se una cosa è fatta oggetto di
derelizione cessa immediatamente di appartenerci e diventa subito di
chi la occupa 1.
La possibilità di disfarsi di un bene, perdendo su di esso qualunque forma di signoria, trova quindi esplicito riconoscimento già nel
diritto di Roma antica.
L’apparente paradosso secondo il quale privarsi di una cosa può
risultare, in alcuni casi, più conveniente che mantenerla nel proprio
patrimonio 2 è ben lontano dal costituire un retaggio della modernità.
Anzi, a voler dare credito ad un convincimento risalente, l’impianto
dogmatico e la disciplina di dettaglio che il diritto civile italiano ha
riservato al fenomeno dell’abbandono di cose e al loro acquisto da
Ulp. 12 ad ed. D. 41.7.1: Si res pro derelicto habita sit, statim nostra esse desinit et
occupantis statim fit, quia isdem modis res desinunt esse nostrae, quibus adquiruntur. In
polemica con tale opinione, di ascendenza sabiniana, la scuola proculiana avrebbe proposto, con minor fortuna, di posticipare l’effetto ablativo della proprietà in capo al derelinquente al momento in cui un terzo avesse occupato la res (Paul. 54 ad ed. D.
41.7.2.1: Sed Proculus non desinere eam rem domini esse, nisi ab alio possessa fuerit: Iulianus desinere quidem omittentis esse, non fieri autem alterius, nisi possessa fuerit, et recte).
2
Nelle trattazioni di diritto vigente, il tema della derelizione non è esaminato autonomamente ma nell’ambito dei presupposti necessari a consentire che la proprietà di
un bene mobile possa acquistarsi a titolo originario attraverso l’occupazione, ai sensi di
quanto stabilito dall’art. 923 cod. civ. Cfr., ad esempio, Vescia 1886; Brugi 1918;
Deiana 1958; Girino 1965; Albano 1968; Tabet - Ottolenghi 1968; De Martino
1976; Trabucchi 1980; Tabet - Ottolenghi - Scaliti 1981; Salaris 1982; Comporti 1988; La Torre 1993; Quarta 2016.
1
150
GIOVANBATTISTA GRECO
parte di terzi costituirebbero la fedele riproposizione di modelli romani 3.
Ipotizzare una continuità tanto marcata tra soluzioni normative
presenti e passate è operazione non priva di fascino e dalle implicazioni significative, dovendosi presupporre che la regolamentazione di
una fattispecie abbia raggiunto livelli di efficienza, efficacia e stabilità
tanto elevati da acquisire valore paradigmatico per i secoli successivi.
In verità, la disciplina della derelizione nello ius privatum non sembra
aver conosciuto simili conquiste ed è stato condivisibilmente messo
in luce già da qualche decennio come le opinioni continuiste formulate in tema trascurino la difficoltà dei prudentes di pervenire ad un
inquadramento unitario e definitivo del fenomeno 4.
Difatti, la materia non sembra tollerare approcci semplicistici,
che finiscono per distorcere la realtà resa oggetto di osservazione nel
momento stesso in cui si propongono di agevolare la lettura dei materiali antichi per ricavarne definizioni e principi astratti.
I richiami all’occupazione, all’invenzione, all’usucapione e alla
traditio in incertam personam presenti nelle testimonianze riguardanti
le res pro derelicto habitae costituiscono una complicazione non trascurabile quando voglia ricostruirsi la storia di tali oggetti e documentano lo stratificarsi nei secoli di plurime sensibilità, tutte bisognose di specifica contestualizzazione e considerazione 5.
Ridimensionare l’impressione che il ius sia stato in grado di trasferire in eredità al tempo presente un impianto di norme lineare e
coerente non deve però indurre a rinnegare qualunque forma di continuità tra esperienze giuridiche. Alcune delle acquisizioni su cui riposano saldamente l’odierna legislazione e giurisprudenza sono
senz’altro frutto di un lungo processo di gestazione, a cui hanno contribuito, talora in modo decisivo, anche i giureconsulti romani.
Si pensi, ad esempio, alla circostanza per cui la derelizione può riguardare, indistintamente, cose di genere mobile ed immobile, benDeiana 1958; De Martino 1976.
Vacca 1984, VII s.
5
In opposizione alla prospettiva indicata si collocano alcune proposte interpretative che tendono a ricostruire l’istituto in termini monodimensionali. Così Bonfante
1968, 257 ss., il quale esamina la derelizione prediligendo l’ottica della traditio in incertam personam con risultati i cui limiti si trovano accuratamente discussi in Vacca
1984, 51 ss.
3
4
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
151
ché, per consuetudine, tali tipologie di oggetti si trovino normalmente ad avere valore differente e siano destinatarie di una diversa
considerazione sociale.
La derelizione delle res mobiles è presa in considerazione, nel nostro codice civile, all’art. 923 6; quella delle res immobiles non trova
una regolamentazione espressa ma la sua configurabilità è fatta discendere dalla lettura degli artt. 882, comma secondo 7, 1104, comma
primo 8, 1118, comma secondo 9, 1350, comma primo, n. 5) 10 e 2643,
comma primo, n. 5) 11.
Le opere giurisprudenziali romane di età classica menzionano
ipotesi di derelizione riguardanti, invariabilmente, entrambe le categorie di beni, nonostante i mutamenti del quadro economico e del
modo di concepire lo sfruttamento delle risorse lascino ipotizzare che,
6
Art. 923 cod. civ.: «Le cose mobili che non sono proprietà di alcuno si acquistano
con l’occupazione. Tali sono le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di
caccia o di pesca».
7
Art. 882, comma secondo, cod. civ.: «Il comproprietario di un muro comune
può esimersi dall’obbligo di contribuire nelle spese di riparazione e ricostruzione, rinunziando al diritto di comunione, purché il muro comune non sostenga un edificio
di sua spettanza».
8
Art. 1104, comma primo, cod. civ.: «Ciascun partecipante deve contribuire nelle
spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese
deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà di
liberarsene con la rinunzia al suo diritto».
9
Art. 1118, comma secondo, cod. civ.: «Il condomino non può rinunziare al suo
diritto sulle parti comuni».
10
Art. 1350, comma primo, cod. civ.: «Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata, sotto pena di nullità: 1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni
immobili; 2) i contratti che costituiscono, modificano o trasferiscono il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di superficie, il diritto del concedente e dell’enfiteuta;
3) i contratti che costituiscono la comunione di diritti indicati dai numeri precedenti;
4) i contratti che costituiscono o modificano le servitù prediali, il diritto di uso su beni
immobili e il diritto di abitazione; 5) gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri
precedenti».
11
Art. 2643 cod. civ.: «Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione: 1)
i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili; 2) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di
superficie, i diritti del concedente e dell’enfiteuta; 2-bis) i contratti che costituiscono,
trasferiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale; 3) i contratti che costituiscono la comunione dei diritti menzionati nei numeri precedenti; 4) i
contratti che costituiscono o modificano servitù prediali, il diritto di uso sopra beni immobili, il diritto di abitazione; 5) gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei
numeri precedenti».
152
GIOVANBATTISTA GRECO
in altri frangenti storici, abbiano potuto trovare accoglimento soluzioni diverse 12.
In D. 3.5.9.1 13, discorrendo di negotiorum gestio, Ulpiano richiama l’ipotesi di un’insula derelitta dal proprietario di cui un estraneo si prenda cura; in D. 41.7.5.1 14 Pomponio parla, invece, del lancio di monete e della liberazione di volatili.
La stessa idea che la derelizione si perfezioni quando vi sia la contestuale presenza di un elemento materiale e di uno di ordine psicologico risulta espressa in forma matura già nei contenuti raccolti ed
elaborati dai commissari giustinianei.
Rispetto al profilo materiale, il cd. corpus, non vi è dubbio che
questo possa essere integrato indifferentemente da condotte commis12
Donatuti 1949, 510; Deiana 1958, 9; Branca 1958, 3; Comporti 1988, 2
ss.; Romano 2002, 120 s. Vi è la ragionevole probabilità che a Roma il risultato di ritenere abbandonabile qualunque tipo di res materiale sia stato raggiunto in tempi non
particolarmente remoti. Per l’età arcaica è stata prospettata l’esistenza di una proprietà
collettiva, facente capo alle gentes, che avrebbe impedito alla derelizione di operare, almeno in relazione agli immobili, dal momento che gli effetti ablativi del derelinquere
appaiono modellati sull’idea che i beni siano in proprietà piena e, soprattutto, individuale (cfr. Perozzi 1928, 376 ss.). Il fenomeno dell’abbandono degli immobili, specie
dei terreni, assumerà dimensioni degne di nota in età post-classica, quale reazione all’incremento della pressione fiscale sulla proprietà. Su tali vicende, v. Solidoro Maruotti 1989. Forme di proprietà comune e collettiva sarebbero ritornate di attualità
nel primo medioevo, con una rinnovata contrazione degli ambiti in cui poteva trovare
esplicazione la derelizione (cfr., da ultimo, Marchese 2020, 11, nt. 6).
13
Ulp. 10 ad ed. D. 3.5.9.1: Is autem qui negotiorum gestorum agit non solum si
effectum habuit negotium quod gessit, actione ista utetur, sed sufficit, si utiliter gessit, etsi
effectum non habuit negotium. Et ideo si insulam fulsit vel servum aegrum curavit, etiamsi
insula exusta est vel servus obit, aget negotiorum gestorum: idque et Labeo probat. Sed ut
Celsus refert, Proculus apud eum notat non semper debere dari. Quid enim si eam insulam
fulsit, quam dominus quasi inpar sumptui deliquerit vel quam sibi necessariam non putavit? Oneravit, inquit, dominum secundum Labeonis sententiam, cum unicuique liceat et
damni infecti nomine rem derelinquere. Sed istam sententiam celsus eleganter deridet: is
enim negotiorum gestorum, inquit, habet actionem, qui utiliter negotia gessit: non autem
utiliter negotia gerit, qui rem non necessariam vel quae oneratura est patrem familias adgreditur. Iuxta hoc est et, quod Iulianus scribit, eum qui insulam fulsit vel servum aegrotum
curavit, habere negotiorum gestorum actionem, si utiliter hoc faceret, licet eventus non sit secutus. Ego quaero: quid si putavit se utiliter facere, sed patri familias non expediebat? Dico
hunc non habiturum negotiorum gestorum actionem: ut enim eventum non spectamus, debet utiliter esse coeptum.
14
Pomp. 32 ad Sab. D. 41.7.5.1: Id, quod quis pro derelicto habuerit, continuo
meum fit: sicuti cum quis aes sparserit aut aves amiserit, quamvis incertae personae voluerit eas esse, tamen eius fierent, cui casus tulerit ea, quae, cum quis pro derelicto habeat, simul intellegitur voluisse alicuius fieri.
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
153
sive o omissive, purché il risultato perseguito sia quello di provocare
il distacco del bene da chi lo ha in dominio.
In I. 2.1.47 15, definendo le caratteristiche che una res deve presentare per reputarsi ‘derelicta’, viene espressamente impiegato il
verbo ‘abicere’, la cui presenza non sembra casuale, perché se nel significato principale designa l’azione positiva di buttare via, proiettare
lontano da sé un oggetto, in subordine identifica l’atto di trascurarlo,
lasciarlo da parte, quale sinonimo di ‘negligere’ 16.
Analoga ampiezza di senso sembra potersi associare al richiamo
alle ‘cose abbandonate’ svolto, per i beni mobili, all’art. 923 cod. civ.,
dal momento che le modalità, attive od omissive, con cui ne è eseguito l’abbandono non assumono rilievo discriminante ai fini dell’applicazione della norma.
Quanto agli immobili, il parallelo lessicale è spezzato dal sistema
di pubblicità attualmente in vigore, che impone di vincolare l’effetto
ablativo della proprietà alla formulazione di una dichiarazione di rinuncia corredata da speciali formalità 17.
L’elemento psicologico, il cd. animus derelinquendi, è integrato
invece dalla volontà consapevole del dominus che la cosa fuoriesca
formalmente e definitivamente dal suo patrimonio.
A riguardo, nel Digesto è espressamente affrontato il problema
del getto di merci in mare e della possibilità per colui che le ritrovi di
15
I. 2.1.47: Qua ratione verius esse videtur et si rem pro derelicto a domino habitam
occupaverit quis, statim eum dominium effici. Pro derelicto autem habetur quod dominus
ea mente abiecerit ut id rerum suaram esse nollet, ideoque statim dominus esse desinit.
16
Cfr. Forcellini 1940. Contra, Berger 1922 sostiene invece che la parola ‘abiecerit’ riportata nelle istituzioni giustinianee si confaccia solo ai beni mobili. Lo studioso
giustifica la sua posizione assumendo che il consolidarsi di un sistema di imposizione
tributaria incentrato sulla proprietà degli immobili abbia comportato, in età postclassica, una grave limitazione della facoltà di abbandonarli, ottenuta per mezzo di interventi legislativi diretti a contrastare il fenomeno dell’elusione fiscale.
17
In ragione di ciò, La Torre 1993, 22, muovendo dall’art. 923 cod. civ., si mostra contraria all’idea che la rinunzia alla proprietà di un immobile possa correttamente
descriversi alla stregua di un ‘abbandono’. L’autrice sostiene che soltanto le «cose mobili» sono suscettibili di occupazione (art. 923, comma primo, cod. civ.) e solo esse,
dunque, possono essere o diventare «vacue domini». Allo stesso tempo, qualifica l’abbandono come una mera situazione di fatto, corrispondente con l’interruzione del possesso, mentre per i beni immobili l’atto ablativo presenterebbe una struttura chiaramente negoziale, sicché rispetto ad essi sarebbe preferibile esprimersi nei termini di ‘rinunzia’ (pp. 80 ss.).
154
GIOVANBATTISTA GRECO
farle legittimamente proprie 18. In simili casi è previsto che il carico
non possa aversi per derelitto qualora chi lo lanci in acqua non lo faccia per libera scelta ma spinto dalla necessità di alleggerire il peso
dello scafo, magari nel corso di una tempesta, e comunque coltivando
la speranza di poterlo recuperare successivamente 19.
Integra il reato di furto, per la giurisprudenza severiana, l’azione
di colui che raccolga e faccia propri gli oggetti restituiti dal mare
quando sia realizzata con la consapevolezza che il legittimo titolare
non desiderasse privarsene in modo risolutivo 20.
In D. 47.2.42.4-5 21 Ulpiano osserva che colui che porti via una
cosa che giace abbandonata è punibile come fur sia che sappia a chi
appartenga sia che lo ignori, non incidendo sulla punibilità del suo
comportamento l’esatta conoscenza dell’identità del titolare dell’oggetto prelevato. Se, invece, la cosa sia stata derelitta, non ricorre alcun
illecito neppure se chi se ne impossessa lo faccia con l’intenzione di
delinquere.
La necessità di accertare con precisione le circostanze obiettive e
l’atteggiamento psicologico che hanno accompagnato l’abbandono
Su cui v. Arnò 1941.
Iul. 2 ex Min. D. 14.2.8: Qui levandae navis gratia res aliquas proiciunt, non hanc
mentem habent, ut eas pro derelicto habeant, quippe si invenerint eas, ablaturos et, si suspicati fuerint, in quem locum eiectae sunt, requisituros: ut perinde sint, ac si quis onere
pressus in viam rem abiecerit mox cum aliis reversurus, ut eandem auferret. Iav. 11 ex Cass.
D. 41.1.58: Quaecumque res ex mari extracta est, non ante eius incipit esse qui extraxit,
quam dominus eam pro derelicto habere coepit. Iav. 7 ex Cass. D. 41.2.21.1-2: Quod ex
naufragio expulsum est, usucapi non potest, quoniam non est in derelicto, sed in deperdito.
2. Idem iuris esse existimo in his rebus, quae iactae sunt: quoniam non potest videri id pro
derelicto habitum, quod salutis causa interim dimissum est. Iul. 2 ex Min. D. 41.7.7: Si
quis merces ex nave iactatas invenisset, num ideo usucapere non possit, quia non viderentur
derelictae, quaeritur. sed verius est eum pro derelicto usucapere non posse.
20
Ulp. 41 ad Sab. D. 47.2.43.11: Si iactum ex nave factum alius tulerit, an furti teneatur? Quaestio in eo est, an pro derelicto habitum sit. Et si quidem derelinquentis animo
iactavit, quod plerumque credendum est, cum sciat periturum, qui invenit suum fecit nec
furti tenetur. Si vero non hoc animo, sed hoc, ut, si salvum fuerit, haberet: ei qui invenit
auferendum est, et si scit hoc qui invenit et animo furandi tenet, furti tenetur. enimvero si
hoc animo, ut salvum faceret domino, furti non tenetur. quod si putans simpliciter iactatum, furti similiter non tenetur.
21
Ulp. 41 ad Sab. D. 47.2.43.4-5: Qui alienum quid iacens lucri faciendi causa sustulit, furti obstringitur, sive scit cuius sit sive ignoravit: nihil enim ad furtum minuendum
facit, quod cuius sit ignoret. 5. Quod si dominus id dereliquit, furtum non fit eius, etiamsi
ego furandi animum habuero: nec enim furtum fit, nisi sit cui fiat: in proposito autem nulli
fit, quippe cum placeat Sabini et Cassii sententia existimantium statim nostram esse desinere rem, quam derelinquimus.
18
19
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
155
della res, in ragione delle vicende successive che questa può trovarsi ad
affrontare, resta centrale anche per gli attuali operatori del diritto.
Riscontri pervengono in modo significativo da alcune recenti
pronunce giurisprudenziali.
Secondo la posizione espressa dalla IV Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3910 del 17 dicembre
2020, in tema di reati contro il patrimonio, l’abbandono di una cosa
da parte del proprietario è prospettabile solamente quando, per le
condizioni o per il luogo in cui essa si trovi, risulti chiaramente la volontà dell’avente diritto di disfarsene definitivamente.
Al contempo, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il delitto di furto è integrato anche dalla condotta di colui
che sottragga una cosa già rubata. Essa, nonostante sia stata abbandonata dal ladro, non costituisce infatti res derelicta, suscettibile di appropriazione da parte di chiunque, dal momento che non vi è abbandono
senza una conforme volontà dell’avente diritto, tale non potendo essere
considerato chi l’ha illecitamente portata via al proprietario 22.
Se quelli passati in rassegna costituiscono alcuni dei punti di contatto più significativi tra l’esperienza giuridica presente e quella romana, l’evolversi delle relazioni economiche, l’affermarsi della categoria dell’abuso del diritto, stringenti esigenze di finanza pubblica e una
nuova sensibilità verso i valori ambientali sembrano tuttavia aver drasticamente ridotto le occasioni in cui un soggetto ha piena facoltà di
disfarsi della cosa propria.
Preclusioni sono progressivamente venute in rilievo al cospetto di
decisioni individuali in grado di produrre esternalità negative tanto
nella sfera giuridica di soggetti terzi preventivamente individuabili
quanto dell’intera collettività, secondo un giudizio di disvalore che
non sembra trovare corrispondenza nell’approccio al problema adottato dagli antichi.
In D. 39.2.6 23 e D. 39.2.7.2 24, ad esempio, tanto Gaio quanto
22
Cass., Sez. IV, 17 ottobre 2018, n. 2299; Cass., Sez. V, 15 maggio 2012, n.
30321.
23
Gai. 1 ad ed. prov. D. 39.2.6: Evenit, ut nonnumquam damno dato nulla nobis
competat actio non interposita antea cautione, veluti si vicini aedes ruinosae in meas aedes
ceciderint: adeo ut plerisque placuerit nec cogi quidem eum posse, ut rudera tollat, si modo
omnia quae iaceant pro derelicto habeat.
24
Ulp. 53 ad ed. D. 39.2.7.2: Unde quaeritur, si ante, quam caveretur, aedes deciderunt neque dominus rudera velit egerere eaque derelinquat, an sit aliqua adversus eum
156
GIOVANBATTISTA GRECO
Ulpiano, affrontano il caso della rovina di un edificio pericolante che
avvenga prima che sia prestata la cautio damni infecti e le cui macerie
finiscano sulla costruzione del proprietario confinante, danneggiandola. L’opinione unanime è quella per cui al danneggiato non spetti
alcuna azione contro il dominus delle aedes ruinosae quando questi,
avvenuto il crollo, decida di non recuperare alcuna delle macerie,
operandone la derelictio.
Analogamente, quando un albero piantato su un fondo privato
contiguo alla via pubblica sia caduto sulla stessa in modo da ostruire
il passaggio, in D. 43.8.2.40 25 si dice che il ricorso all’interdictum ne
quid in loco publico vel itinere fiat contro il proprietario del fusto è
circoscritto al caso in cui il medesimo non lo abbia derelitto, salvo
che l’attore si sia fatto carico di rimuovere a sue spese l’ingombro.
Nell’odierno assetto ordinamentale, al libero abbandono di cose
mobili frappone ostacoli, per finalità senza dubbio meritorie, l’ampia
nozione di ‘rifiuto’ delineata dall’art. 183, comma 1, lett. a) del d.lgs.
n. 152/2006, il cd. Codice dell’Ambiente, i cui termini rilevano anche ai fini dell’applicazione dell’apparato sanzionatorio penale: «si intende per: … rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle
categorie riportate nell’Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di
disfarsi». L’art. 192 dello stesso testo legislativo stabilisce che «L’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono
vietati», «è altresì vietata l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo
stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee» 26.
actio. Et Iulianus consultus, si prius, quam damni infecti stipulatio interponeretur, aedes
vitiosae corruissent, quid facere deberet is, in cuius aedes rudera decidissent, ut damnum
sarciretur, respondit, si dominus aedium, quae ruerunt, vellet tollere, non aliter permittendum, quam ut omnia, id est et quae inutilia essent, auferret, nec solum de futuro, sed et de
praeterito damno cavere eum debere: quod si dominus aedium, quae deciderunt, nihil facit,
interdictum reddendum ei, in cuius aedes rudera decidissent, per quod vicinus compelletur
aut tollere aut totas aedes pro derelicto habere.
25
Ulp. 68 ad ed. D. 43.8.2.40: Si ex fundo tuo arbor in viam publicam sic ceciderit,
ut itineri sit impedimento, eamque pro derelicto habeas, non teneri Labeo scribit: si tamen,
inquit, actor sua impensa arborem tollere paratus fuerit, recte tecum acturum interdicto de
via publica reficienda. Sed si pro derelicto non habeas, recte tecum agi hoc interdicto.
26
Gambaro 2017, 378 ss. evidenzia che, rispetto al paradigma codicistico, «la
prima esclusione che si riscontra esaminando la disciplina positiva relativa allo smaltimento e trattamento dei rifiuti, è quella relativa alla operatività dell’antica figura della
derelizione in base alla quale … il proprietario di beni mobili poteva distaccarsi dalla
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
157
Perseguendo una chiara finalità antielusiva del precetto normativo, la Suprema Corte di Cassazione ha tenuto a chiarire che dalla
nozione di ‘rifiuto’ non devono escludersi sostanze e oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, non rilevando, in tal senso, l’interesse che altri possa avere allo sfruttamento del bene inservibile e non
più utile al suo detentore, poiché tale interesse non trasforma il rifiuto in qualcosa di diverso 27.
Per valutare se un residuo debba essere designato come ‘rifiuto’
occorre dunque porsi nell’ottica esclusiva del detentore o produttore
del medesimo, non in quella di chi ha interesse a reimpiegarlo.
Quanto alla proprietà immobiliare, si è fatta strada l’opinione che
debba ritenersi radicalmente inefficace, perché viziata da nullità, la rinuncia abdicativa a diritti dominicali quando abbia per unico effetto
il trasferimento nella sfera giuridica di terzi, siano essi soggetti pubblici o privati, dell’obbligo di affrontare spese e costi altrimenti non
di loro spettanza.
In particolare, il Parere di Massima dell’Avvocatura dello Stato n.
37243/2017 ha preso in considerazione il caso dell’abbandono di terreni franosi o immobili pericolanti da parte dei proprietari, in conseguenza del quale, per effetto dell’art. 827 cod. civ., questi sono
immessi, in via immediata e automatica, a titolo originario, nel patripropria posizione di appartenenza semplicemente abbandonandoli con l’intenzione
(animus) di disfarsene. A tale esclusione ne fa seguito un’altra, la quale costituisce il nucleo essenziale dei profili civilistici della disciplina concernente i rifiuti, e cioè la esclusione dell’efficacia traslativa dei contratti mediante i quali i rifiuti vengono alienati a
soggetti diversi da coloro che sono legittimati ad acquistarli essendo inseriti negli elenchi di coloro che assicurano il loro corretto trattamento finale». Federici 2005, 1079,
è dell’opinione che i rifiuti non sono beni, perché «se fossero beni sarebbero oggetto di
diritti, mentre nei confronti dei rifiuti la situazione giuridica del titolare è quella (opposta) di voler rinnegare (o meglio) di volersi privare di ogni diritto e così anche di
ogni responsabilità in relazione ad una certa cosa che non è più bene». Nel fare questo
il soggetto si assume tutti gli obblighi relativi alla corretta dismissione della cosa, «acquisendo il vantaggio di liberarsi non tanto dei diritti (che probabilmente erano diventati irrilevanti), ma soprattutto degli obblighi relativi alla corretta conservazione della
cosa». Contro una simile posizione sembra però militare la possibilità, contemplata dal
legislatore e già riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, che del rifiuto, in
quanto tale, possa farsi commercio (art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006), per cui lo
stesso può figurare quale oggetto di un contratto traslativo. A mente di ciò, Resta
2018, 278 non ha difficoltà a considerare i rifiuti come beni, sia pure «di secondo
grado».
27
Cass., Sez. III, 15 ottobre 2014, n. 50309.
158
GIOVANBATTISTA GRECO
monio dello Stato, con assunzione in capo all’Erario della responsabilità per gli interventi necessari a metterli in sicurezza e per i danni
eventualmente occorsi a terzi in caso di loro rovina 28.
Per l’Avvocatura, dal punto di vista negoziale, una rinuncia a queste tipologie di beni sarebbe da reputarsi invalida «in ragione della
non meritevolezza e/o illiceità della causa in concreto ex artt. 1322 e
1343 cod. civ. perché in palese contrasto con le istanze immanenti
nella funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost., e (comunque)
con gli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’art.
2 Cost., nonché con il limite del rispetto della sicurezza dei consociati
ex artt. 41, comma 2, Cost., l’una e gli altri costituenti limite inderogabile delle prerogative dominicali ex art. 832 cod. civ.». L’atto ablativo, benché a struttura unilaterale, potrebbe dirsi ulteriormente
nullo in quanto sorretto unicamente da motivi illeciti quando questi
siano evincibili dal suo contenuto o dalle circostanze che ne hanno
preceduto e/o accompagnato la formulazione.
Alle conclusioni rassegnate dall’Avvocatura dello Stato si è affidato il Tribunale di Lecce, nella sentenza n. 3482 pubblicata in data
11 novembre 2019, per motivare contro l’ipotesi che il multiproprietario possa formulare una valida dismissione del diritto di godimento
turnario di cui è titolare. L’abbandono avrebbe l’effetto di incrementare, in capo agli altri multiproprietari, la quota dei costi di gestione
da sostenere per garantire la manutenzione e il funzionamento del
complesso turistico in cui si situa l’unità interessata, atteso che uno
dei contributori verrebbe meno. I maggiori oneri prodotti in capo ai
superstiti non sarebbero però controbilanciati da alcun beneficio, non
potendo questi ultimi subentrare nella fruizione dell’alloggio per il
periodo di spettanza del rinunziante.
L’impressione è che stia acquistando rilevanza una nozione di
‘proprietà responsabile’ suscettibile di assegnare, nel futuro della disciplina dei beni, un ruolo marginale alla res derelicta, quale testimonianza tangibile di un dominium le cui facoltà erano tanto estese da
poter arrivare alla sua stessa negazione.
La crescente vitalità del fenomeno ha indotto a numerosi approfondimenti nell’ultimo quinquennio, tra cui si segnalano: Bona 2017; Brizzolari 2017; Quadri
2018; La Porta 2018; De Mauro 2019; Giorgianni 2019; Pasquino 2019; Meglio
2019; Colonna 2020; Orlando 2021.
28
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
159
Quella delle res derelictae è dunque una categoria regressiva? All’interrogativo dovrebbe darsi risposta affermativa quando si prendano
in considerazione i consueti ambiti di rilevanza della derelizione.
In una prospettiva de iure condendo, però, il patrimonio della tradizione romanistica potrebbe conoscere nuove occasioni di valorizzazione nel campo della regolamentazione di fattispecie di recente
emersione.
È il caso del settore informatico nel quale, da qualche anno, si registra il fenomeno per cui alcuni prodotti coperti da diritto di autore,
quindi riproducibili solo su licenza, cessano di essere disponibili in
commercio, anche in presenza di una discreta domanda di mercato.
In gergo si parla di ‘orphan works’ quando si voglia fare riferimento a quei programmi i cui diritti di sfruttamento appartengono
ad entità inattive che, per effetto di complesse vicende societarie e
commerciali o non sono più identificabili o, pur essendo astrattamente note, sono divenute irreperibili.
‘Abandonware’ sono invece quei software apparsi in circolazione
da almeno quattro o cinque anni che non sono più in vendita o rispetto ai quali non vengono più rilasciati aggiornamenti, in ragione
di scelte commerciali adottate dalle case produttrici. Le società di settore possono infatti ritenere che la distribuzione di un prodotto sia
divenuta antieconomica o vada interrotta perché suscettibile di interferire con la capacità del mercato di assorbire altri loro programmi 29.
In entrambi i casi, il pubblico dei potenziali acquirenti, la cui domanda resta insoddisfatta, sconta il disallineamento tra la durata della
protezione garantita alla proprietà intellettuale e la vita media delle
creazioni informatiche, con la prima pari ad alcuni decenni 30, la seconda di regola non superiore ad un lustro o due.
Per un’introduzione al fenomeno, v. Khong 2007 ed ivi ampia bibliografia.
Nel sistema italiano i software che presentino carattere di originalità rispetto a
quelli preesistenti sono protetti dal diritto di autore ai sensi della legge n. 633/1941 fino
al settantesimo anno solare successivo alla morte del creatore (art. 25). Quando il programma informatico fornisca una soluzione tecnica ad un problema tecnico, è possibile
ricorrere al brevetto, che ne garantisce l’utilizzazione esclusiva fino a venti anni dalla data
di deposito (art. 60 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30). Anche il copyright previsto dall’ordinamento statunitense ha una durata estesa a settant’anni dalla morte dell’autore, se
persona fisica (17 U.S. Code § 302). In forza del Sonny Bono Copyright Term Extension
Act le imprese usufruiscono di tutela per un tempo pari a novantacinque anni dalla pubblicazione o centoventi dalla creazione dell’opera, in base al termine di maggior favore.
29
30
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Peraltro, alcuni programmi informatici irreperibili sul mercato, in
ragione della fortuna conosciuta all’epoca in cui sono stati lanciati,
sono entrati a far parte a pieno titolo della memoria comune degli
utenti, talora perfino dell’immaginario collettivo, divenendo parte integrante del patrimonio culturale delle comunità. Prendere atto di ciò
significa emanciparsi dall’idea che la loro circolazione e disponibilità
possano dipendere esclusivamente da valutazioni di convenienza degli
operatori economici.
Nella direzione di preservare il bagaglio di cultura immateriale
costituito dai prodotti informatici si pone senza dubbio l’iniziativa
‘Software Heritage’, promossa dall’UNESCO per raccogliere e conservare codici sorgente 31.
Nel 2012 l’Unione Europea è pervenuta ad adottare la Orphan
Works Directive 32 nella quale è previsto, in deroga alla normativa che
tutela il diritto di autore, che le istituzioni impegnate a tutelare il patrimonio culturale possano riprodurre e rendere disponibili al pubblico diversi tipi di orphan works presenti nelle loro collezioni, come
libri e altri scritti, prodotti cinematografici ed audiovisivi nonché fonogrammi.
Il contributo fornito da tale disciplina alla soluzione delle problematiche proprie del settore dei software è però apparso sinceramente
scarso 33. L’apparato di definizioni che apre il provvedimento e si occupa di tracciarne l’ambito di applicazione non opera alcuna menzione diretta ai programmi informatici. Ad essi la Direttiva sembrerebbe applicabile solo all’esito di un faticoso e delicato processo di interpretazione estensiva. La facoltà di riprodurre contenuti orfani è
comunque riconosciuta dal Legislatore europeo ad un ristrettissimo
novero di enti, ai quali resterebbe in ogni caso preclusa la possibilità
di intervenire su dati a cui il produttore ha associato meccanismi
informatici di protezione dalla copia.
31
Sull’implementazione del progetto, v. Di Cosmo 2017, 69 ss. Il portale di accesso alla base di dati è disponibile all’indirizzo internet https://www.softwareheritage.org/.
32
Direttiva 2012/28/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre
2012 su taluni utilizzi consentiti di opere orfane, attuata in Italia con il d.lgs. 10 novembre 2014, n. 163.
33
In termini assai critici si esprime a riguardo Maier 2015.
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
161
Negli Stati Uniti d’America, con una proposta legislativa del
2006 conosciuta come Public Domain Enhancement Act, si è tentato
di introdurre l’obbligo per il titolare di copyright di versare una tassa
periodica, di importo simbolico, durante il tempo di vigenza della
protezione dell’opera, quale dimostrazione del permanere di un interesse al suo sfruttamento economico 34. L’espediente avrebbe condotto
a considerare di pubblico dominio tutte le creazioni per le quali non
fosse intervenuto alcun pagamento.
L’iniziativa non si è tradotta in provvedimenti concreti.
Nel frattempo, la circostanza che alcune creazioni più datate continuino a riscuotere interesse presso il pubblico ha comportato che
prendesse spontaneamente vita sul web una catena di distribuzione di
orphan works e abandonware parallela a quella delle software house, alimentata anche da portali e siti specializzati. L’esistenza del fenomeno
si deve alla tolleranza di chi potrebbe inibirne la prosecuzione e non
vi provvede perché stima controproducente sopportare i costi necessari a tutelare i propri diritti rispetto a programmi informatici da cui
non ritiene di poter trarre adeguata remunerazione.
Un ripensamento della disciplina di settore pare ostacolato dalla
preoccupazione di avallare deroghe che possano compromettere l’architettura degli strumenti di protezione esistenti, interferendo in
modo indesiderato con il diritto del creatore di un’opera di godere
dei vantaggi economici derivabili dalla sua commercializzazione e dal
suo sfruttamento.
Quando tuttavia le possibilità di profitto oggettivamente manchino o siano stimate come insufficienti, l’obiettivo di impedire che
di alcuni software si perda irrimediabilmente la disponibilità e la memoria potrebbe forse essere perseguito adottando una prospettiva differente da quella tradizionale, incentrata sulla dialettica tra norma ed
eccezione.
34
«§ 306. Maintenance fee for published United States works. (a) Fee. – The Register of Copyrights shall charge a fee of $1 for maintaining in force the copyright in
any published United States work. The fee shall be due 50 years after the date of first
publication or on December 31, 2006, whichever occurs later, and every 10 years
thereafter until the end of the copyright term. Unless payment of the applicable maintenance fee is received in the Copyright Office on or before the date the fee is due or
within a grace period of 6 months thereafter, the copyright shall expire as of the end of
that grace period …».
162
GIOVANBATTISTA GRECO
Un approccio alternativo al problema potrebbe prendere spunto
proprio dallo statuto delle res derelictae tracciato dal diritto romano.
A confortare lungo questa direzione soccorre il processo di reificazione che, sul piano giuridico, sta interessando i dati informatici.
Superando riserve che si ritenevano consolidate, la Suprema
Corte di Cassazione, nella sentenza n. 11959/2020, ha qualificato i
file come cosa mobile ai fini dell’applicazione della legge penale, ritenendone possibile l’appropriazione indebita. A tale conclusione i giudici di legittimità sono pervenuti sottolineando come tali entità, pur
non essendo passibili di percezione sensoriale, posseggano una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che li compongono, che è misurabile e incide sulla diversa capienza dei supporti in
cui vengono immagazzinati ed elaborati. Inoltre, sebbene non possa
procedersi alla loro apprensione fisica, i dati informatici sono trasferibili da un supporto all’altro senza perdere le proprie caratteristiche
strutturali e hanno caratteristiche che consentono loro di viaggiare
sulla rete internet o essere custoditi in ambienti virtuali.
Il pregio del risultato ermeneutico consegnato dalla Cassazione è
inconfutabile, pur se, nel coordinamento con la norma incriminatrice
costituita dall’art. 646 cod. pen., si è posto un problema di conformità al principio di tassatività della fattispecie 35.
Sul versante giusprivatistico, coevo alle indicazioni giurisprudenziali di cui si è detto è il tentativo di inquadrare i contratti di servizi
i-cloud, sottoscritti per alloggiare file in spazi di memoria virtuali,
nella categoria del deposito, nonostante il bene che vi venga riposto
abbia consistenza immateriale 36.
Pur senza trascurare il delicato contemperamento di interessi richiesto dalla regolazione del fenomeno degli orphan works e degli
abandonware, la riflessione giuridica sembra avviarsi verso un livello
di sviluppo tale da rendere lecita una riflessione sulla possibilità che i
file, oltre che divenire oggetto di appropriazione indebita o di deposito, possano anche essere derelitti.
Si potrebbe quindi stabilire in quali termini la mancanza di sviluppo e commercializzazione di un programma per console o elaboratore possano interpretarsi come rinuncia del titolare a mantenerlo
35
36
Carani 2020; Grillo 2020; Cappitelli 2021; Scarcella 2021.
Sicchiero 2018.
RES DERELICTAE: UNA CATEGORIA REGRESSIVA?
163
nella propria disponibilità giuridica, allo stesso modo in cui i giureconsulti romani si sono posti il problema del significato da dare a
condotte omissive del dominus quali la mancata difesa del servus in un
giudizio capitale 37 o la negazione degli alimenti 38.
Per questa via, con un approccio casistico, si potrebbe giungere
alla definizione, a livello legislativo, di una serie di elementi sintomatici che, valendo quali presunzioni di un animus derelinquendi della
casa produttrice del software, possano, quantomeno in via di eccezione, scriminare la condotta di chi ne faccia copia, lo utilizzi o lo migliori a propria cura e spese, fatto salvo il diritto morale di autore.
In tal modo si potrebbe privare di tutela determinati oggetti che
non ne necessitano ulteriormente senza dover incidere sulla disciplina
generale del diritto di autore, scongiurando in radice il rischio di interventi che potrebbero indebolirne l’impianto e sminuire la protezione di beni inestimabili per ogni comunità quali sono la creatività e
l’ingegno.
In un cortocircuito tra presente, passato e futuro, l’acume e il
senso pratico che traspaiono dalla conoscenza giuridica antica potrebbero impiegarsi per affrontare le sempre più complesse sfide poste dal
progresso tecnologico.
37
Marc. 1 de iud. publ. D. 48.1.9: Sciendum est, si in capitali causa suum servum
reum crimine factum quis non defenderit, non eum pro derelicto haberi, et ideo, si absolutus fuerit, non liberum fieri, sed manere domini.
38
Paul. 18 resp. 41.7.8: Sempronius Thetidi status quaestionem facere temptabat,
quasi de serva sua nata sit. Qui iam testato conventus a Procula nutrice Thetidis in solvendis alimentis respondit non se habere, unde alimenta eiusdem exsolvat, sed debere eam patri suo restituere Lucio Titio: idque ex illa in testationem redegisset, ut postea nullam quaestionem pateretur ab eodem Sempronio, Lucius Titius Seiae Proculae solutis alimentis puellam vindicta manumisit: quaero, an possit rescindi libertas Thetidis. Paulus respondit,
quoniam dominus ancillae, ex qua Thetis nata est, Thetidem pro derelicto habuisse videtur,
potuisse eam a Lucio Titio ad libertatem perduci.
164
GIOVANBATTISTA GRECO
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Luca Cunial
TRA RINUNZIA ABDICATIVA
E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
1. Rinunzia abdicativa al diritto reale immobiliare. – Il tema che
con questo sia pur breve contributo si vuole affrontare è quello relativo alla ammissibilità o meno, nel nostro ordinamento, di una rinunzia ai diritti reali immobiliari e, nello specifico, al diritto di proprietà su di un bene immobile 1.
Si tratta di una tematica che, fino a poco tempo fa, si era soliti ritenere rivestisse un interesse puramente teorico e dottrinale, ma che,
con l’avvento di quello che è stato definito anche come diritto civile
della crisi economica 2, sembra acquistare una sempre maggiore rilevanza anche da un punto di vista pratico 3.
Sono infatti numerose le ragioni che possono spingere un soggetto
a rinunziare al proprio diritto di proprietà su un bene immobile. Si
pensi, a titolo esemplificativo, a chi si ritrovi nell’impossibilità di continuare a sostenere gli oneri tributari collegati alla proprietà immobiliare; a chi non riesca a far fronte a ingenti spese di manutenzione
1
Si tratta di un tema oggetto di vivace dibattito all’interno della dottrina civilistica
italiana. Se ne sono occupati, tra gli altri, Perlingieri 1968a, 345 ss.; Macioce 1989,
923 ss.; Quadri 2018, 1 ss.
2
Si tratta di una espressione coniata da D’Amico 2015, 1030.
3
Il rilievo più che mai pratico della tematica che forma oggetto delle presenti riflessioni è testimoniato anche dal fatto che ad essa è stato dedicato un apposito studio
del Consiglio Nazionale del Notariato (Bellinvia 2014, 1 ss.), in ragione dei molteplici quesiti indirizzati all’Ufficio studi del notariato circa la possibilità, da parte del notaio, di ricevere atti di rinunzia ai diritti reali, nonché sulla disciplina e gli effetti dei
medesimi.
168
LUCA CUNIAL
straordinaria ormai non più rinviabili a causa dello stato di degrado e
pericolo in cui versa un immobile; allo scarso interesse che immobili
poco appetibili sul mercato possono presentare per il loro proprietario;
ovvero, ancora, alla frequente litigiosità tra comproprietari che rende
difficoltosa e problematica l’amministrazione di un certo bene.
Ad ogni modo, deve essere sin d’ora rimarcato come quelle appena elencate rappresentano solo talune possibili ipotesi esemplificative, giacché – per quanto difficilmente probabile in un contesto in
cui gli operatori economici agiscono secondo un principio di razionalità nelle scelte economiche –, non si può escludere che, almeno in
linea teorica, l’atto di rinunzia alla proprietà inerisca ad un bene immobile che esprime un valore economico positivo per il suo titolare.
Prima di procedere, pare opportuno brevemente premettere quale
sarà l’oggetto precipuo della presente indagine.
La questione su cui qui ci si intende soffermare è soltanto quella
relativa alla eventuale ammissibilità, nel nostro ordinamento, di una
rinunzia unilaterale – quella che in dottrina viene anche comunemente definita come rinunzia ‘abdicativa’ – da parte dell’unico titolare al diritto di proprietà che questi vanti su un certo bene immobile.
Non costituiranno dunque oggetto delle presenti riflessioni quelle
ipotesi in cui la rinunzia si inserisca all’interno di un più ampio
schema contrattuale – ovvero le ipotesi di rinunzia cd. traslativa.
D’altronde, in dette ipotesi è pure dubbio che di rinunzia vera e propria si possa parlare 4.
Parimenti non verrà analizzato il caso tutt’affatto particolare in
cui la rinunzia al diritto di proprietà immobiliare consegua alla occupazione illegittima da parte della P.A. del fondo di un privato che
venga irreversibilmente trasformato a seguito della realizzazione su di
esso di un’opera pubblica 5.
4
Così Perlingieri 1968a, 356, a detta del quale «non si ha rinunzia là dove la
perdita del diritto si giustifica nell’ambito di un altro effetto, o perché parte di un effetto (negoziale) più ampio, o perché inscindibilmente e funzionalmente legato ad altro effetto (negoziale)».
5
Tale ipotesi involge la questione relativa alla configurabilità, nel nostro ordinamento giuridico, di una rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente. Tale tesi, per la prima volta ammessa dalla giuri-
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
169
Com’è noto, non esiste all’interno del nostro codice civile una disciplina compiuta dell’atto di rinunzia al diritto reale 6. Esistono invece soltanto principi e regole che però, in quanto non riconducibili
ad un sistematico disegno normativo, non consentono di individuare
la figura generale dell’atto di rinunzia al diritto reale 7.
Ciò nonostante, cercando di fornire dei contorni per quanto possibile più nitidi alla nostra figura, l’atto di rinunzia al diritto reale può
essere definito come l’atto unilaterale 8 per mezzo del quale il titolare
di una tale situazione giuridica soggettiva dismette il suo diritto 9, con
ciò determinandone la fuoriuscita dal suo patrimonio 10.
È invece dibattuto se un tale atto di rinunzia presenti o meno carattere recettizio. La dottrina prevalente e la giurisprudenza tendono
ad escluderlo 11, argomentando dalla natura degli effetti tipici del nesprudenza amministrativa con la sentenza Cons. giust. amm. Sicilia 25 maggio 2009,
n. 486, a cui ha fatto eco la giurisprudenza della Corte di cassazione – con la sentenza
a Sezioni Unite del 19 gennaio 2015, n. 735 – per i casi devoluti alla giurisdizione del
giudice ordinario nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della l. 21 luglio
2000, n. 205, è stata recentemente criticata dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato con le sentenze nn. 2 e 4 del 2020. In occasione di tali arresti si è infatti affermato che, per le fattispecie regolate dall’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,
l’applicazione del principio di legalità – in tale materia peraltro ribadito dall’art. 42
Cost. – richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della
proprietà in capo all’espropriante. Sul tema, cfr. Marseglia 2021, 890.
6
Così Macioce 1989, 923. La rinunzia al credito viene invece sovente identificata
con la remissione del debito. Così Bianca 1998, 461. Si v. però, in senso contrario,
Perlingieri 1968b, 20 ss.
7
Si esprime in questi termini Quadri 2018, 2.
8
Secondo Benedetti 1962, 1316, l’atto di rinunzia avrebbe una struttura senz’altro unilaterale. Va comunque rilevato che una parte della dottrina più risalente escludeva che la rinunzia avesse carattere necessariamente unilaterale. In questo senso, cfr.
Piras 1940, 2.
9
Secondo Cariota Ferrara 1966, 124, la rinunzia avrebbe carattere negoziale
poiché con essa si esercita un potere di tipo dispositivo. In dottrina vi è però anche chi,
come Piras 1940, 15, ne contesta la natura negoziale.
10
Così Piras 1940, 73. Sul punto, si v. anche le considerazioni di Perlingieri
1968a, 348, secondo il quale «l’effetto essenziale e costante che caratterizza la rinunzia
è la perdita del diritto da parte del soggetto rinunziante, mentre l’estinzione dello stesso
è effetto secondario, riflesso, eventuale». Nello stesso senso, più di recente, Macioce
1989, 926. Si pone in una diversa prospettiva Santoro Passarelli 1966, 218, a detta
del quale «la rinunzia, come negozio essenzialmente abdicativo, non ha in nessun caso
altra conseguenza che l’estinzione del rapporto, per uscita del medesimo dal soggetto
attivo».
11
Ciò che, secondo Macioce 1992, 181, precluderebbe in radice la possibilità di
configurare una eventuale revoca della rinunzia. In realtà, come rilevato anche da Mes-
170
LUCA CUNIAL
gozio di rinunzia, che, esaurendosi nella sfera giuridica del dichiarante, non richiederebbero, per la loro compiuta realizzazione, la necessaria comunicazione a terzi 12. In dottrina non sono mancate tuttavia talune voci contrarie 13.
Se ci si interroghi poi sulla questione relativa alla forma che tale
atto deve rivestire, è agevole constatare come questa problematica risulti strettamente collegata all’oggetto della rinuncia medesima. Da
ciò consegue che quando la rinunzia abbia ad oggetto un diritto reale
immobiliare, essa deve necessariamente rivestire, secondo quanto previsto dall’art. 1350, n. 5, cod. civ., la forma scritta a pena di nullità.
Inoltre – sempre per quel che qui interessa –, attenendo a diritti reali
immobiliari, la rinunzia è altresì soggetta a trascrizione ai sensi dell’art. 2643, n. 5, cod. civ.
Quanto invece agli effetti della rinunzia ad un diritto reale immobiliare, come si è già anticipato, essa ha quale unico effetto diretto
e immediato quello di provocare la fuoriuscita della situazione giuridica soggettiva attiva che ne costituisce oggetto dalla sfera giuridica
del rinunziante 14.
Eventuali ulteriori effetti che ne dovessero conseguire non discenderebbero direttamente da essa, ma ne costituirebbero invece delle
conseguenze soltanto mediate o riflesse, inderogabilmente previste
dalla legge. Così, in caso di rinunzia al diritto di proprietà su un bene
immobile da parte dell’unico proprietario di esso, tale bene – almeno
sineo 1957, 172, l’inammissibilità della revoca di un negozio di rinunzia abdicativa ad
un diritto reale immobiliare deriva non tanto dal carattere non recettizio del negozio
stesso, bensì dalla circostanza che la modifica della situazione venutasi a creare per effetto della rinunzia non sarebbe più limitata alla sola sfera giuridica del rinunziante, di
talché risulterebbe altresì necessaria la sussistenza dei presupposti di volta in volta richiesti per l’acquisto del diritto rinunziato. Una revoca della rinunzia risulterà invece
ammissibile allorché la stessa presenti carattere recettizio, sempreché la revoca giunga a
conoscenza del destinatario prima della rinunzia. In tal senso La Torre 1993, 156.
12
Così Cariota Ferrara 1966, 145. Tale conclusione non risulta pertanto estendibile alle ipotesi di rinunzia ‘liberatoria’ – su cui v. oltre –, nelle quali l’atto, incidendo
anche sulla sfera giuridica di soggetti diversi dal rinunziante, deve essere portato a conoscenza di questi per poter produrre i suoi effetti. In tal senso Giampiccolo 1959,
66, per il quale «quell’effetto diretto verso terzi» (corsivi dell’autore) giustificherebbe il
carattere recettizio della dichiarazione del rinunziante.
13
Conclude nel senso di ritenere che il carattere recettizio o meno della rinunzia
debba essere accertato caso per caso Sicchiero 1998, 655.
14
V. sopra, nt. 10.
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
171
secondo l’opinione fino ad ora prevalente in dottrina e in giurisprudenza –, divenuto nel frattempo ‘vacante’, verrebbe acquistato – a titolo originario – dallo Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ. 15. In caso
di rinunzia proveniente dal comproprietario ed avente ad oggetto la
sua quota di comproprietà, si assisterà invece all’accrescimento della
quota degli altri comunisti 16. Ancora, in caso di rinunzia ad un diritto
reale limitato su cosa altrui, il diritto di proprietà del nudo proprietario tornerà ad espandersi in virtù del principio cd. dell’elasticità del
dominio.
2. La ‘derelictio’ delle ‘res immobiles’ nel diritto romano. – Pare però
opportuno preliminarmente chiedersi, prima di analizzare la tematica
della rinunzia al diritto reale immobiliare alla luce delle coordinate
dell’ordinamento giuridico attuale, quale fosse sul punto l’atteggiamento assunto da parte dei giureconsulti romani.
Nel fare ciò, non bisogna certo cadere nel pregiudizio, come pure
si è detto, di proiettare categorie per noi ormai familiari – quale
quella di una proprietà piena e individuale, che funge quasi da presupposto logico prima che giuridico rispetto ad ogni analisi sul nostro
tema – su realtà istituzionali profondamente diverse dalla nostra 17.
Così, si può forse persino dubitare della stessa configurabilità di
una rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare così come
oggi la conosciamo rispetto ad epoche, quale quella del diritto ro15
Dal carattere non recettizio del negozio di rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare deriverebbe peraltro l’impossibilità di ravvisare in capo al privato rinunziante un obbligo giuridico di notiziare lo Stato dell’avvenuta dismissione del suo
diritto. Ciò non toglie che, come sottolineato anche nella nota ai Consigli Notarili del
Direttore Generale dell’Ufficio Centrale degli Archivi Notarili del Ministero della Giustizia del 15 marzo 2018, una tale notizia non si riveli comunque opportuna in un’ottica di reciproca correttezza.
16
Negli stessi termini Cass., Sez. II, 9 novembre 2009, n. 23691, in Nuova giur.
civ. comm., 2010, 579, secondo cui, in tal caso, l’accrescimento della quota degli altri
comproprietari opererebbe ipso iure in forza del principio dell’elasticità del dominio. In
dottrina si v. invece Benedetti 1962, 1295, che, in ragione della automatica operatività delle regole sull’accrescimento, di quelle sull’acquisto, da parte dello Stato, della
proprietà del bene immobile oggetto di rinunzia abdicativa, nonché del principio di
elasticità del dominio, sottolinea come in questi casi «il rifiuto non è neppure prospettabile».
17
Lo rileva Bona 2017, 16.
172
LUCA CUNIAL
mano arcaico, in cui la proprietà delle res immobiles avrebbe presentato, a detta di chi si è occupato del tema, carattere collettivo o familiare 18.
Solo in prosieguo di tempo, e, in particolare, in età classica, i romani giunsero a configurare una situazione dominicale tendenzialmente piena e individuale, il mancipium 19.
Ed è proprio in quest’epoca, stando ad alcuni frammenti contenuti nel Digesto che trattano appositamente della derelictio 20, che
deve essersi posto all’attenzione dei giuristi romani il problema relativo alla dismissione delle res immobiles.
Secondo autorevole dottrina, nel diritto romano classico si sarebbero potute derelinquere sia le res mancipi che le nec mancipi, mobili
o immobili che fossero 21.
Per derelinquere una res sarebbe stato necessario sia il cd. animus
derelinquendi, ossia la volontà del proprietario della cosa di spogliarsene, che – a differenza dell’idea moderna di abbandono negoziale –
l’abbandono materiale di essa 22.
Quanto agli effetti dell’abbandono, è da rilevare come in età classica si sarebbe assistito ad una disputa tra sabiniani e proculeiani. A
detta dei primi, a seguito della derelictio la cosa sarebbe senz’altro divenuta una res nullius, in virtù di un effetto che – mutuando un concetto moderno – potremmo definire come diretto della derelizione;
per i secondi, invece, la res derelicta sarebbe rimasta di proprietà del
rinunziante sino a che un terzo non ne avesse acquistato il relativo
possesso 23. Con il tempo, tuttavia, come peraltro testimoniato anche
Ci si riferisce qui alle tesi elaborate da Perozzi 1928, 376, secondo il quale sulle
res mancipi avrebbe insistito un dominio della gens avente natura collettiva, e Bonfante 1926, 303, che si espresse invece nel senso di una proprietà comune della gens,
quasi una sorta di proprietà familiare.
19
Bonfante 1926, 241.
20
Deve essere qui segnalato che la ricostruzione della disciplina dell’istituto in
esame presenta non poche difficoltà in ragione del fatto che le fonti non ne trattano in
maniera sistematica. Nello specifico, nel Digesto vi è un titolo (41.7) dedicato all’usucapio pro derelicto all’interno del quale sono presenti alcuni passi che trattano della derelictio in generale, mentre gli altri testi sul tema si rinvengono in altri titoli o in altre
fonti. Sul punto, cfr. Romano 1964, 545.
21
Branca 1958, 1.
22
Branca 1958, 2.
23
Sul punto, cfr. Bonfante 1926, 284; Branca 1958, 2.
18
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
173
dalle fonti, la soluzione propugnata dai sabiniani avrebbe finito con il
prevalere 24.
Con riguardo all’acquisto del bene derelitto da parte dei terzi, si
sostiene che soltanto le res nec mancipi si sarebbero potute acquistare
per occupazione, mentre con riguardo alle res mancipi si sarebbe richiesto il perfezionamento della fattispecie dell’usucapione.
L’assetto del nostro istituto avrebbe però subito un’evoluzione nel
periodo giustinianeo. In effetti, come si evince non solo dal passo
delle Institutiones (I. 2.1.47) che configura l’acquisto delle res derelictae ricorrendo allo schema dello iactus missilium (ossia il getto di
cose alla folla affinché qualcuno se ne appropri), ma anche dalla stessa
collocazione nel Digesto del titolo pro derelicto tra quelli pro donato e
pro legato, sarebbe stata ravvisabile, da un punto di vista strutturale, la
tendenza ad accostare la derelizione ad una sorta di rinunzia traslativa 25.
Quanto agli effetti 26, invece, la derelizione avrebbe continuato ad
avere, quale effetto diretto e immediato, la perdita del diritto da parte
del rinunziante, mentre, sparita ormai la distinzione tra res mancipi e
res nec mancipi, i terzi avrebbero sempre potuto acquistare la proprietà delle cose derelitte per occupazione 27.
3. La rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare: la tesi
tradizionale. – Occorre però ora chiedersi se, nel nostro ordinamento
giuridico, sia o meno ammissibile una rinunzia ai diritti reali immobiliari e, nello specifico, una rinunzia abdicativa al diritto di proprietà
su di un bene immobile.
24
Si cfr. i frammenti Ulp. 12 ad ed. D. 41.7.1: si res pro derelicto habita sit, statim
nostra esse desinit et occupantis statim fit, quia isdem modis res desinunt esse nostrae, quibus adquiruntur; Paul. 54 ad ed. D. 41.7.2 pr.: pro derelicto rem a domino habitam si
sciamus, possumus adquirere.
25
Branca 1958, 3.
26
Branca 1958, 3.
27
Per il vero in dottrina vi è anche chi, come Romano 1964, 545 ss., propone una
ricostruzione parzialmente differente dell’istituto in esame. L’autore, trattando degli effetti della derelictio, afferma che essi sarebbero sempre consistiti nella immediata estinzione del diritto di proprietà sulla res derelicta. Secondo tale opinione, la disputa tra
proculeiani e sabiniani non avrebbe infatti avuto portata generale, ma avrebbe riguardato unicamente il caso, tutt’affatto particolare, dell’eventuale riacquisto della cosa derelitta da parte del soggetto rinunziante.
174
LUCA CUNIAL
Si può per ora constatare come la dottrina tradizionale ha generalmente ritenuto che una tale rinunzia fosse ammissibile. Per il vero,
numerosi sono gli argomenti che avrebbero deposto a favore di una
simile impostazione.
In primo luogo, si è sostenuto che l’ammissibilità di una rinunzia
abdicativa al diritto di proprietà immobiliare sarebbe stata una semplice conseguenza del carattere disponibile di una tale situazione giuridica soggettiva. In questo senso, la rinunzia non sarebbe che uno dei
possibili modi – estremo, come si è pure detto 28 – attraverso il quale
il soggetto dispone del suo diritto 29, così dismettendolo una volta per
tutte.
In secondo luogo, si dice che all’interno del cod. civ. vi sono alcune
norme che espressamente riconoscono l’atto di rinunzia ai diritti reali
immobiliari. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 1350, n. 5, cod. civ.,
il quale prevede che debbano farsi per atto pubblico o per scrittura privata, sotto pena di nullità, «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti», ovvero dai nn. 1, 2, 3 e 4. Se appena si considera che
l’art. 1350, n. 1, cod. civ. fa proprio riferimento alla ‘proprietà di beni
immobili’, ne deriverebbe allora un espresso riconoscimento a livello
normativo dell’atto di rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari.
Tale disposizione trova peraltro un corrispondente nell’art. 2643,
n. 5, cod. civ., in base al quale si devono rendere pubblici col mezzo
della trascrizione «gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei
numeri precedenti», tra cui, per l’appunto, il diritto di proprietà su
beni immobili. E tanto al fine – ciò che ha suscitato non poche perplessità in dottrina – della loro opponibilità ai terzi ai sensi dell’art.
2644 cod. civ. 30.
Sicchiero 1998, 664.
Secondo Biondi 1961, 402, «che il titolare di un diritto reale, come di ogni diritto, possa rinunciarvi a titolo sia oneroso che gratuito, è sicuro: la rinuncia, in qualunque modo voglia concepirsi è atto di disposizione del diritto, e per conseguenza è
sempre consentita … nessuno è costretto a conservare il proprio diritto; come può non
esercitarlo, con la conseguente estinzione per prescrizione, così può rinunciarvi con effetto immediato, naturalmente sempreché si tratti di diritto disponibile». In senso contrario De Mauro 2018, 86.
30
In dottrina è stata sottolineata l’incongruenza del richiamo, quanto agli effetti
della formalità pubblicitaria, all’art. 2644 cod. civ., in quanto l’acquisto in capo al terzo
– in ragione della natura abdicativa della rinunzia – non avviene a titolo derivativo,
bensì a titolo originario. Sul punto, cfr. Gazzoni 1991, 230.
28
29
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
175
Va detto poi che il legislatore si preoccupa di disciplinare talune
fattispecie tipiche di rinunzia al diritto di proprietà. Ci si riferisce
qui, in particolare, agli artt. 882 e 1104 cod. civ. La prima norma attribuisce al comproprietario di un muro la facoltà di sottrarsi dall’obbligo di contribuire nelle spese di riparazione e ricostruzione rinunziando al diritto di comunione; la seconda, invece, riconosce al comproprietario la facoltà di liberarsi dalle spese necessarie per la
conservazione e per il godimento della cosa comune, nonché da
quelle deliberate dalla maggioranza ai sensi degli artt. 1105 e seguenti, con la rinunzia al suo diritto.
Nelle due ipotesi da ultimo menzionate, alla rinunzia da parte del
comproprietario alla sua quota di comproprietà conseguirebbe in via
immediata e diretta non soltanto la fuoriuscita della situazione giuridica soggettiva dalla sua sfera giuridica, bensì anche la liberazione del
comunista dagli obblighi connessi con la titolarità della cosa. In via
mediata e riflessa, invece, si verificherebbe l’accrescimento, proporzionalmente alla quota di ciascuno, delle quote degli altri comproprietari.
Pare di potersi dire fin d’ora come in tali ipotesi il risultato avuto
di mira dal rinunziante non è tanto quello di accrescere le quote degli altri comproprietari, bensì quello di ottenere la propria liberazione
dall’obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione
della cosa comune. Il che, come è stato rilevato, sembra allontanare
l’atto di rinunzia in questione dall’area degli atti gratuiti 31, facendo
invece apparire più opportuno discorrere di una ‘funzione liberatoria’
della rinunzia in esame 32.
Ed è proprio per questa ragione che si spiegherebbe la necessità di
una previsione espressa da parte del legislatore. In altre parole, le previsioni di cui agli artt. 882 e 1104 cod. civ. non servirebbero tanto a
legittimare, in generale, la rinunzia al diritto reale immobiliare,
quanto piuttosto a consentire la liberazione del comproprietario dagli
obblighi connessi alla titolarità della cosa 33.
31
Sul punto, cfr. le considerazioni svolte da Damiani 2018, 123, con riferimento
alla – per certi versi analoga – ipotesi disciplinata dall’art. 1070 cod. civ. Secondo l’a.,
infatti, «l’effetto traslativo che si verifica a favore del proprietario del fondo dominante,
per effetto della dismissione del proprietario del fondo servente, è certamente sorretto
da un interesse economico e non liberale: quello di liberarsi delle obbligazioni propter
rem che gravano sul fondo servente».
32
Così Quadri 2018, 15.
33
In questo senso De Mauro 2018, 114 e La porta 2018, 500.
176
LUCA CUNIAL
Allo stesso modo, non rappresenterebbe un ostacolo al riconoscimento della generale rinunziabilità dei diritti reali immobiliari
quanto viene ora espressamente previsto dall’art. 1118, comma secondo, cod. civ., così come risultante dalla recente riforma del condominio 34.
Prima di tale ultima modifica normativa si prevedeva che se anche il condomino avesse rinunziato alla sua quota di comproprietà
sulle parti comuni dell’edificio, egli con ciò non avrebbe comunque
ottenuto la liberazione dall’obbligo di contribuire alle spese necessarie
per la loro conservazione 35. Con la attuale formulazione della norma,
viene invece radicalmente precluso al condomino di rinunziare al suo
diritto sulle parti comuni 36.
La ratio di tale disposizione non può che spiegarsi alla luce della
peculiare natura delle parti comuni dei condomini, e deve essere in
particolare ravvisata nell’esigenza che tutti i condomini – che pur a
seguito di una eventuale rinunzia al loro diritto sulle parti comuni
continuerebbero di fatto a fruirne – partecipino alle spese necessarie
per la loro conservazione e per il loro godimento.
Alla luce di quanto precede si ritiene dunque che la norma in
esame non abbia una portata generale, valendo anzi a confortare – a
contrario – la tesi della (altrimenti) generale rinunziabilità dei diritti
reali immobiliari.
Passando a trattare degli effetti della rinunzia abdicativa al diritto
reale immobiliare, si è già avuto modo di anticipare come ad essa
conseguirebbe unicamente, quale effetto diretto e immediato, la fuoriuscita del diritto dalla sfera giuridica del rinunziante 37.
Per una analisi della nuova disposizione, cfr. Triola 2013, 206 ss.
Per una interpretazione della precedente previsione cfr. Branca 1982, 397.
36
Ove intenda sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione delle parti comuni dell’edificio, il condomino dovrà quindi rinunziare alla
sua proprietà esclusiva, con conseguente acquisto di quest’ultima e del diritto di comproprietà sulle prime in capo allo Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ.
37
La rinunzia abdicativa ad un diritto, con la conseguente sua fuoriuscita dalla
sfera giuridica del rinunziante, deve essere coordinata con l’esigenza di tutelare le ragioni di eventuali creditori del rinunziante, che potrebbero così vedere compromessa la
possibilità di soddisfarsi sul patrimonio del loro debitore. In proposito si è detto che
l’atto di rinunzia, integrando un atto di disposizione del patrimonio, potrebbe essere
soggetto all’azione revocatoria di cui all’art. 2901 cod. civ. Sul punto, cfr. D’Ercole
1985, 152 s.; Macioce 1989, 425.
34
35
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
177
Quanto invece agli eventuali ulteriori effetti della nostra fattispecie – ovvero a quelli che conseguono alla rinunzia in via soltanto riflessa –, nel caso in cui tale rinunzia abbia ad oggetto il diritto di proprietà su un bene immobile e provenga dall’unico soggetto proprietario di esso, tale bene verrebbe a trovarsi in uno stato di vacanza. Tale
stato di vacanza fungerebbe da presupposto per l’operatività del meccanismo delineato dall’art. 827 cod. civ., cui conseguirebbe – per lo
meno secondo l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza 38
– l’acquisto del bene immobile, a titolo originario, in capo allo Stato.
Diversamente nelle ipotesi in cui la rinunzia abdicativa abbia ad
oggetto vuoi un diritto reale limitato su cosa altrui 39, vuoi una quota
di comproprietà. Nel primo caso, infatti, a seguito della estinzione
del diritto reale limitato, il diritto del nudo proprietario, in virtù del
principio dell’elasticità del dominio, tornerà automaticamente a riespandersi. Nel secondo caso, invece, opererà il principio dell’accrescimento, con la conseguenza che il diritto degli altri comproprietari si
accrescerà, in misura proporzionale alle rispettive quote.
4. (Segue) Alcuni attuali orientamenti restrittivi. – Sennonché, di
recente, la ricostruzione operata dalla dottrina tradizionale è stata
messa in discussione. Da un lato si è dubitato che il titolare di un diritto reale immobiliare, e, in specie, della proprietà su di un immobile, possa rinunziarvi. Dall’altro, si è contestata l’idea che ad una simile rinunzia consegua l’acquisto della proprietà del bene immobile
in capo allo Stato a titolo originario, secondo quanto previsto dall’art.
827 cod. civ. 40.
Tale tesi restrittiva si fonda su una rivisitazione degli argomenti
38
Tra gli altri, concordano con tale ricostruzione Cariota Ferrara 1966, 138 e
Giampiccolo 1959, 86, il quale altresì afferma che «se la proprietà di cui il soggetto
abbandona la titolarità passa a terzi (es. lo Stato: art. 827 cod. civ.), ciò avviene a titolo
originario ed ex lege».
39
D’altro canto, è opinione diffusa che gli iura in re aliena possano costituire oggetto di rinunzia da parte del loro titolare. Sul punto, si v. le considerazioni di La
Torre 1993, 226, secondo cui la rinunzia ai diritti reali limitati sarebbe «rinunzia pura
e semplice o meramente abdicativa che, come tale, è idonea a produrre unicamente l’effetto estintivo», con la conseguenza che il rinunciante non sarebbe liberato dalle obbligazioni già scadute ed esigibili.
40
Cfr. T.A.R. Piemonte, 28 marzo 2018, n. 368, in Foro it., 2018, III, 365.
178
LUCA CUNIAL
tradizionalmente addotti a sostegno della generale rinunziabilità dei
diritti reali immobiliari.
Si sostiene in primo luogo che l’art. 1350, n. 5, cod. civ. farebbe
riferimento alla sola rinunzia ai diritti derivanti da contratti che
hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà di beni immobili. In
altri termini, tale articolo si riferirebbe esclusivamente alle rinunzie
cd. traslative, le quali, peraltro, si differenzierebbero dalla rinunzia
abdicativa poiché ad esse non conseguirebbe alcuno stato di vacanza
del bene 41. Allo stesso modo, anche l’art. 2643, n. 5, cod. civ. farebbe
riferimento non ai ‘diritti in sé’, bensì solamente ai ‘diritti nascenti da
determinati contratti’, e, quindi, alle rinunzie traslative.
Viene poi contestato che a seguito dell’eventuale atto di rinunzia
abdicativa alla proprietà immobiliare da parte dell’unico proprietario
di esso, in thesi ammissibile, tale bene venga acquistato dallo Stato a
titolo originario ai sensi dell’art. 827 cod. civ. Nulla impone di ritenere, si dice, che con la norma in questione il legislatore abbia inteso
riferirsi anche ai beni abbandonati e non, invece, solamente ai beni
da sempre senza proprietario. In questo senso tale disposizione rappresenterebbe una sorta di ‘norma di chiusura’ del sistema, volta ad
evitare l’esistenza di immobili ‘acefali’, in quanto tali suscettibili di
occupazione da parte dei terzi 42.
Si conclude dunque nel senso che l’istituto della rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari non avrebbe una portata generale, risultando esso al contrario ammissibile soltanto nelle singole ipotesi tipiche oggetto di espressa previsione da parte del legislatore, ovvero
solamente «nei casi in cui essa risulta funzionale alla corretta gestione
ed alla valorizzazione del bene immobile» 43.
Secondo tale impostazione, tali considerazioni non potrebbero
che risultare suffragate dal richiamo contenuto nell’art. 42 Cost. alla
In questi termini T.A.R. Puglia, 17 settembre 2008, n. 2131, resa, per il vero, in
un caso di occupazione acquisitiva, su cui v. sopra, nt. 5.
42
Si legge in T.A.R. Puglia, 17 settembre 2008, n. 2131 che l’art 827 cod. civ. è
stato chiaramente inserito «quale norma di chiusura, al solo ed evidente scopo di evitare
la ‘sopravvivenza’ – alla entrata in vigore del codice del 1942 – di eventuali beni immobili privi di proprietario», con la conseguenza che esso «non può e non deve essere interpretato nel senso che possono intendersi automaticamente acquisiti al patrimonio
dello Stato anche i beni immobili vacanti in conseguenza di rinuncia abdicativa».
43
Così, ancora, T.A.R. Piemonte, 28 marzo 2018, n. 368.
41
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
179
‘funzione sociale’ della proprietà 44: essa farebbe sorgere in capo al privato un ‘dovere’ di mantenere in buono stato il bene immobile, poiché se al privato fosse sempre consentito di rinunziare a proprio piacimento al proprio diritto di proprietà, egli sarebbe indotto a disinteressarsi del bene 45.
5. (Segue) Sua ammissibilità se in concreto persegue interessi meritevoli di tutela. – Le recenti impostazioni restrittive di cui qui si è dato
brevemente conto muovono dichiaratamente dalla pratica esigenza di
evitare che attraverso atti di rinunzia abdicativa al diritto di proprietà
immobiliare vengano dismessi e quindi acquistati dallo Stato una
moltitudine di beni in stato di degrado, in quanto tali possibile fonte
di responsabilità da custodia.
Pur cercando di rispondere a istanze collettive di indubbia rilevanza, non sembra qui che tale legittima preoccupazione debba necessariamente tradursi in una indistinta compromissione delle facoltà
riconosciute al proprietario di un immobile. In altre parole, tali tesi,
così come gli argomenti sui quali esse si fondano, non sembrano cogliere nel segno.
Non sembra infatti in primo luogo condivisibile l’argomento secondo il quale gli artt. 1350, n. 5, e 2643, n. 5, cod. civ. si riferirebbero unicamente ai ‘diritti [immobiliari] nascenti da determinati contratti’, e non, dunque, anche alle rinunzie abdicative. D’altro canto, se
la facoltà di rinunziare ad un diritto dovesse necessariamente trovare la
propria fonte in un precedente rapporto contrattuale, tale conclusione
dovrebbe valere pure per le ipotesi di rinunzia ai diritti reali immobiliari limitati, ciò che invece pare di potersi agevolmente escludere 46.
Quanto invece all’ambito di applicazione dell’art. 827 cod. civ.,
non si intende qui certo mettere in dubbio che la finalità della disposizione in esame sia anche quella di fungere da ‘norma di chiusura’
del sistema. Non si vede però per quale ragione essa non possa operare anche in caso di rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare. E
ciò soprattutto se si consideri che, diversamente opinando, oltre a
Per una lettura del concetto di ‘funzione sociale’ della proprietà, si rinvia qui a
Perlingieri 1970, 25 ss.
45
T.A.R. Piemonte, 28 marzo 2018, n. 368.
46
Nello stesso senso anche Quadri 2018, 41.
44
180
LUCA CUNIAL
porsi in contrasto rispetto alla sua genesi storica 47, la portata della
norma finirebbe forse con il risultare eccessivamente svilita 48.
A parere di chi scrive, non è dunque questo il piano sul quale
deve essere ricercata una soluzione al problema dianzi esposto. Con la
conseguenza che al titolare del diritto di proprietà su un bene immobile, al pari di ogni altro titolare di un diritto disponibile, deve essere
riconosciuta, in generale – e salvo divieti particolari posti dall’ordinamento –, la facoltà di rinunziare al suo diritto.
Pare invece più opportuno chiedersi se attraverso una tale rinunzia esso persegua sempre interessi meritevoli di tutela. In altre parole,
secondo l’impostazione che qui si intende suggerire – e anticipando
fin d’ora il risultato a cui si crede di poter pervenire – è sì da ritenersi
ammissibile una generale facoltà del proprietario di un bene immobile di rinunziare unilateralmente al suo diritto, con ciò provocandone l’acquisto, a titolo originario, in capo allo Stato 49. Tutto ciò, a
condizione che gli interessi complessivamente perseguiti dal rinunziante risultino, nella singola vicenda, meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico, ovvero, in altre parole, purché la causa – in
concreto – dell’atto di rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare
risulti lecita.
La prospettiva da cui occorre muovere è dunque quella funzionale, che si incentra sul concetto di causa. Com’è noto, tale concetto
ha formato oggetto di un vivace dibattito in seno alla dottrina civilistica italiana, all’esito del quale si è giunti ad affermare che la causa
non andrebbe concepita come ‘funzione economico sociale’ del negoCfr. Bona 2017, 84.
Così pure Quadri 2018, 43. Sul punto, si v. anche Bona 2017, 85, secondo il
quale «si può ritenere che il legislatore abbia voluto (anche) riconoscere, seppur indirettamente, la configurabilità di un abbandono degli immobili».
49
Pare inoltre opportuno chiedersi quale sia la sorte dei diritti dei terzi eventualmente insistenti sul bene a seguito del suo acquisto a titolo originario in capo allo Stato
ai sensi dell’art. 827 cod. civ. Secondo l’insegnamento della dottrina tradizionale, su cui
cfr., per tutti, De Mauro 2014, 377, il problema andrebbe risolto nel senso di riconoscere a chi acquista a titolo originario un diritto di proprietà libero dai diritti reali minori che eventualmente gravavano sul precedente diritto dominicale. Senonché, si è
obiettato che una simile conclusione non troverebbe sufficienti riscontri positivi. Vi è
anzi chi, come Chianale 2010, 421, trattando delle ipoteche, esclude che le stesse si
estinguano per effetto dell’usucapione che un terzo abbia a maturare con riferimento al
bene ipotecato. In tal senso militerebbe tra l’altro l’assenza, per gli immobili, di una
norma analoga all’art. 1153, comma secondo, cod. civ., che, per l’acquisto sine titulo di
beni mobili, prevede che la proprietà si acquisti libera da diritti altrui sulla cosa.
47
48
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
181
zio 50, bensì come ‘funzione economico individuale’ di esso, alla luce
degli interessi effettivamente perseguiti dalle parti 51.
La questione è vieppiù complicata se solo si considera che la
stessa applicabilità del concetto di causa agli atti unilaterali, e, dunque, anche all’atto di rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, è tutt’ora discussa.
Vi è chi, ad esempio, radicalmente nega l’applicabilità di tale concetto alla rinunzia, la quale si risolverebbe niente meno che in un
‘nudo patto’ 52, giacché il legislatore non ha imposto alcun controllo
in ordine a questo atto di autonomia 53.
Secondo altri, invece, la rinunzia presenterebbe una causa unica e
costante, che consisterebbe nella «mera dismissione di un diritto da
parte del titolare al solo scopo di separare dal proprio patrimonio
un’entità giuridica attiva» 54.
Tale seconda opzione interpretativa sembra peraltro porsi maggiormente in linea con il dettato normativo, atteso che l’art. 1324
cod. civ. estende anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto
patrimoniale – tra cui, pare di potersi ritenere, figura anche l’atto di
rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare – le norme che
regolano i contratti, in quanto compatibili 55.
Tuttavia, anche l’impostazione appena esposta risulterebbe eccessivamente riduttiva.
Infatti, come è stato efficacemente dimostrato – con argomentazioni che parrebbero estensibili ad ogni ipotesi di atto unilaterale e,
dunque, anche all’atto di rinunzia abdicativa al diritto di proprietà
immobiliare 56 –, soltanto accedendo alla tesi della causa in concreto
anche in relazione agli atti unilaterali risulterebbe possibile cogliere
appieno il significato del singolo atto di autonomia privata posto in
50
Che altrimenti non si riuscirebbe a spiegare come possa essere illecita la causa di
un negozio tipico.
51
Così Scognamiglio 2006, 198.
52
In questi termini Sacco - De Nova 2004, 805.
53
Sicchiero 1998, 664.
54
Così Bozzi 1968, 1149.
55
Sul punto, cfr. Di Majo 1988, 1, a detta del quale sarebbe «opinione largamente
condivisa che la nozione di causa rilevi anche con riguardo ai negozi giuridici non
aventi natura di contratto» sulla base delle «disposizioni che estendono la normativa
contrattuale anche ad atti diversi dal contratto (purché aventi contenuto patrimoniale;
art. 1324 cod. civ.)».
56
In tal senso Quadri 2018, 129.
182
LUCA CUNIAL
essere dal soggetto rinunziante, anche e soprattutto al fine della individuazione della disciplina di volta in volta applicabile. In altre parole, l’atto di rinunzia al diritto reale immobiliare presenterebbe una
possibile ‘polivalenza funzionale’ 57.
Più sopra, trattando delle fattispecie tipiche di rinunzia al diritto
di proprietà disciplinate dagli artt. 882 e 1104 cod. civ., si è detto che
in relazione ad esse è diffuso l’orientamento incline ad attirarle nell’area degli atti gratuiti. Tali atti configurerebbero in particolare una liberalità non donativa e, in quanto tali, sarebbero potenzialmente soggetti all’azione di riduzione secondo il meccanismo previsto dall’art.
809 cod. civ.
In effetti, può essere proprio così. Si pensi al caso in cui il genitore
titolare di un diritto di usufrutto su un bene immobile di proprietà del
figlio rinunzi al suo diritto, con ciò provocando la riespansione del diritto di proprietà del nudo proprietario. In una simile ipotesi, difficilmente si può revocare in dubbio che il genitore abbia inteso arricchire
il figlio e, soprattutto, che la realizzazione di tale intento liberale consegua non già direttamente alla rinunzia abdicativa, bensì alla vicenda effettuale complessivamente considerata, alla luce, dunque, anche degli
effetti solo mediatamente riconducibili alla rinunzia.
Non si può però escludere, nelle ipotesi di cui agli artt. 882 e
1104 cod. civ., che, attraverso la rinunzia al suo diritto, il risultato
avuto di mira dal rinunziante sia non tanto quello di accrescere le
quote degli altri comproprietari – ciò che giustificherebbe l’attrazione
degli atti in questione nell’ambito delle liberalità non donative –,
bensì quello di ottenere la propria liberazione dall’obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune.
E tanto basta per far sorgere il dubbio che l’atto in questione risulti effettivamente un atto gratuito 58, sembrando invece più opportuno discorrere, come detto, di una ‘funzione liberatoria’ della rinunzia in oggetto 59, con conseguente sua sottrazione dall’ambito di applicazione dell’art. 809 cod. civ. 60.
Quadri 2018, 58.
V. sopra, nt. 31.
59
Così Giampiccolo 1959, 66, secondo il quale «l’abbandono liberatorio non costituisce una rinunzia pura e semplice, ma una rinuncia qualificata … da un particolare
connotato causale (funzione satisfattiva-liberatoria)».
60
Quadri 2018, 56.
57
58
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
183
Si immagini, ancora, il caso di un immobile che costituisce l’unico cespite di una successione cui sono chiamati – in eguale misura
– due fratelli, uno dei quali abbia già ricevuto in vita, a titolo di donazione, un altro immobile di pari valore. In una simile ipotesi, l’apporzionamento delle quote può sì essere raggiunto mediante un contratto di divisione. Tuttavia, ad analogo risultato può anche pervenirsi
attraverso un atto di rinunzia alla propria quota di comproprietà sul
bene relitto da parte del figlio già beneficiato in vita. Anche in tal
caso, l’atto di rinunzia pare stridere con una sua eventuale qualificazione in termini di liberalità, sembrando invece più conveniente parlare di una ‘funzione divisoria’ dell’atto rinunziativo.
Di conseguenza, anche tale rinunzia non sarà soggetta alla eventuale azione di riduzione proposta da parte dei legittimari. Di contro,
risulterà ad essa applicabile l’art. 764 cod. civ. 61.
Come risulta evidente da tale ultimo esempio, il concreto assetto
di interessi non può che essere colto alla luce di una complessiva valutazione dei rapporti sottostanti; valutazione che non può e non
deve ridursi all’esame isolato del singolo atto di rinunzia, ma deve al
contrario necessariamente estendersi all’analisi del complesso della
vicenda effettuale. In altri termini, occorrerà tenere in considerazione non solo gli interessi direttamente regolati dal negozio di volta
in volta considerato, bensì tutti gli interessi coinvolti – compresi
dunque anche quelli ‘esterni’ 62 – nell’ambito dell’operazione economica posta in essere dal soggetto.
Ecco che, accedendo ad una tale impostazione, risulterà altresì
possibile farsi carico delle preoccupazioni manifestate da quei recenti
orientamenti che finiscono per escludere tout court la rinunziabilità
della proprietà immobiliare.
61
D’altro canto, come messo in luce da attenta dottrina, è solo accedendo alla prospettiva funzionale che si riesce a spiegare il riferimento contenuto all’interno di detto
articolo ad ‘ogni altro atto’ che abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari. In termini Mirabelli 1952, 41, a detta del quale affinché un
atto possa essere equiparato alla divisione è necessario il requisito dell’apporzionamento. Per Moscati 1989, 5, è necessario, a tal fine, che, per volontà delle parti, esista
una correlazione tra ciò che si riceve e ciò che si sarebbe dovuto ricevere in base alla
quota. In giurisprudenza v. Cass., Sez. III, 3 agosto 2012, n. 13942, in Giust. civ.
Mass., 2012, 1016, ove si fa riferimento alla proporzionalità tra le attribuzioni patrimoniali e le quote di ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria.
62
È la formula usata da Quadri 2018, 128.
184
LUCA CUNIAL
Se è dunque vero che chi rinunzia alla proprietà su di un bene
immobile può avere quale unica finalità quella di dismettere il suo diritto, non si può però a priori escludere che il rinunziante, in concreto – e alla luce degli effetti che anche solo mediatamente conseguono alla rinunzia –, abbia avuto di mira lo scopo di far gravare
sullo Stato, e, dunque, sulla collettività tutta, delle spese che invece si
sarebbe dovuto sobbarcare.
In un simile caso – e cioè allorché un privato voglia dismettere il
suo diritto di proprietà immobiliare al fine di far ricadere sulla collettività gli oneri legati alla titolarità di un bene che, a causa della sua
inerzia protratta nel tempo, sia divenuto potenzialmente dannoso e
pericolante – si potrà legittimamente dubitare che l’interesse concretamente perseguito risulti meritevole di tutela secondo l’ordinamento
giuridico.
Nello specifico, la causa di una tale rinunzia abdicativa potrebbe
risultare illecita 63, provocando con ciò la nullità dell’atto stesso, per
contrarietà vuoi ai doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost., vuoi all’ordine pubblico 64.
63
È questo, peraltro, il risultato a cui è pervenuto il Parere di massima reso dall’Avvocatura generale dello Stato del 14 marzo 2018.
64
Gazzoni 2019, 806: «La funzione attuale dell’ordine pubblico, infatti, non è
più esclusivamente di carattere latamente politico ma è quella di impedire che i privati
possano darsi un assetto di interessi non conforme a quelle direttive e a quei principi, i
quali caratterizzano la stessa struttura etico-sociale della Comunità nazionale, tenuto
conto del contesto europeo, internazionale e convenzionale».
TRA RINUNZIA ABDICATIVA E DERELICTIO DELLE RES IMMOBILES
185
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Maria Kaczorowska
A MULTI-LAYERED APPROACH
TO OWNERSHIP OF IMMOVABLE PROPERTY
AGAINST THE BACKGROUND
OF THE ROMAN LAW PARADIGM
1. Introduction. – The European countries’ legislation in the field
of proprietary relations traditionally follows the Roman law concept
of land ownership, which is based on the assumption that the owner’s
rights are unlimited in spatial terms. Conceived in this way, ownership extends to airspace above and underground space below a specific piece of the land’s surface. Such an approach found its expression in the Roman times in the fundamental rule of superficies solo
cedit, and subsequently was even more explicitly emphasised in the
medieval maxim cuius est solum, eius est usque ad coelum et ad inferos,
formulated by the glossators.
In the course of historical development, a number of exceptions
to those general principles have been successively introduced in particular European legal systems, including primarily building leases
and apartment ownership as well as separate ownership of buildings.
Moreover, widely accepted limitations as to the vertical scope of ownership stem from objective factors related to airspace and subsurface,
respectively, such as economic, social and technological ones, on the
basis of which horizontal borderlines of land are identified.
Currently, in view of dynamic urbanisation processes and the
ever-increasing need for land use optimisation, a tendency can be observed to develop legal solutions allowing for the division of the space
into distinct layers defined by horizontal and vertical planes, and the
188
MARIA KACZOROWSKA
creation of so-called three-dimensional immovable properties, with
separate titles thereto. Such 3D objects can serve different investment
purposes, e.g. connected with the management of space over railway
infrastructure. The category of ‘three-dimensional (3D) property’ is
already regulated in several jurisdictions in Europe and around the
world. In the recent years, works have been undertaken in Poland
with the aim of preparing draft legislation to introduce the notion of
3D property to domestic law. This has instigated a doctrinal discussion on the possible ways of adapting the new legal construct to the
existing Polish property law framework, which follows the Roman juridical tradition.
The focus of the contribution is on the directions of 3D property
formation in different legal systems in the context of the long-established model of land ownership derived from Roman law. In this respect, particular consideration will be given to the recommendations
regarding relevant legislative changes to be implemented in Polish
law. Against this background, new legal possibilities and challenges
posed by the concept of multi-layered ownership will be identified,
among which the ones pertaining to land registration, being traditionally based on 2D approach. The above issues are going to be discussed in the light of the most recent technological advancements
which increasingly influence property law relations nowadays. In this
regard, particularly worthy of note are the development of digital 3D
cadastral systems as well as extensive implementation of emerging
technologies such as blockchain for the purpose of registering titles to
land.
2. The spatial extent of land ownership in Roman law and in modern legal systems: general rules. – The Roman law notion of immovable
thing (res immobiles) was laid down already in the Twelve Tables Law,
and was consistently understood as land and everything permanently
attached to it, in particular buildings 1. Admittedly, the distinction
between movable and immovable things was not of considerable relevance, given the primacy of the classification between res mancipi
and res nec mancipi. Nevertheless, the concept of immovable property
1
Mousourakis 2012, 123; Strzelczyk 2019, 1; Świrgoń-Skok 2007.
A MULTI-LAYERED APPROACH
189
constituted the basis for the superficies solo cedit principle, recognised
as one of the most famous rules of Roman private law, which had a
significant impact on the development of modern legal systems. In
line with this maxim, also known as the rule of accession, everything
that has been erected or planted on a piece of land becomes an integral part thereof. Thereby, whoever owns the land also owns what is
placed on the land 2.
What lies at the core of the aforementioned understanding of
land ownership, is the two-dimensional delineation of the land’s surface. In Roman law, land parcels and their boundaries were conceptualised vertically, and therefore the spatial scope of ownership was
unlimited in the sense that it extended to space above and beneath a
specific part of land. A clear confirmation of the spatially unlimited
character of land ownership can be found in the later formulated brocard cuius est solum, eius est usque ad coelum et ad inferos or usque ad
sidera, usque ad inferos, attributed to the 13th-century glossator Accursius 3. According to this figurative description, whoever owns the soil
owns it all the way up to the heavens and down to the centre of the
earth 4. It may therefore be concluded that the cuius est solum rule defines the vertical extent of an owner’s right in land, whereas the superficies solo cedit rule is an expression of indivisible ownership of the
vertical column of space above and below a land parcel 5.
The above indicated principles have been historically adopted in
the majority of jurisdictions in Europe, and still apply today 6. This is
illustrated, e.g., by the regulation regarding land ownership in force
in Poland. As follows from art. 48 of the Polish Civil Code 7, subject
to exceptions provided for by statute, buildings and other installations attached permanently to land, as well as trees and other plants
from the moment when they were planted or sown, shall in particuKolańczyk 2021, 293; Strzelczyk 2019, 1; Kurylowicz 1997, 79 ff.
Franciscus Accursius (c. 1180-c. 1260), Italian legal scholar, leading jurist of the
13th century, professor at the University of Bologna, author of the Glossa ordinaria on
Corpus Iuris Civilis (c. 1220-1250).
4
See e.g. Giaro 2018, 409 f.
5
Kitsakis 2019, 31.
6
See further e.g. Giaro 2018, 426 f.; Strzelczyk 2019, 2 ff.; Schmid - Hertel Wicke 2005, 14.
7
Ustawa z dnia 23 kwietnia 1964 r. - Kodeks cywilny (Dz. U. z 2020 r. poz. 1740,
as amended).
2
3
/
190
MARIA KACZOROWSKA
lar be regarded as component parts of land. Moreover, pursuant to
art. 143 of the Polish Civil Code, within the limits specified by the
social and economic purpose of land, the ownership of land (wl/asność
gruntu) shall extend to the space above and below its surface. This
provision shall not prejudice the provisions that govern rights to waters 8. Similar legal solutions can be found in other continental law
countries, such as Italy (art. 840 of the Italian Civil Code 9), France
(art. 552 of the French Civil Code 10), Austria (section 297 of the Austrian Civil Code 11), Switzerland (art. 667 of the Swiss Civil Code 12),
Germany (section 905 of the German Civil Code 13), Sweden (chap.
2, section 1 of the Swedish Land Code 14) and the Netherlands (art.
5:20 paragraph 1 of the Dutch Civil Code 15). Specific to legal orders
representing the common law tradition is the reception of the doctrine of vertical expansion of ownership, based on the cuius est solum
maxim. It has been recognised in England from very early times 16.
First noted in 1586 in the case of Bury v Pope 17, it became influential
after it was cited by prominent English jurists: Edward Coke 18 in the
17th century and William Blackstone in the 18th century 19. The common law concept of land ownership was later adopted in the United
States, Canada and Australia 20.
8
See e.g. Gniewek - Mikosz 2020, 76 ff.; Sokolowski 2021, 171 ff.; Cioch Witczak 1999, 13 ff.
9
Codice civile (r.d. 16 marzo 1942, n. 262, G.U. n. 79 del 4 aprile 1942, as
amended).
10
Code Civil of 21 March 1804.
11
Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch of 1811 (JGS No. 946/1811, as amended).
12
Schweizerisches Zivilgesetzbuch of 10 December 1907 (SR 210).
13
Bürgerliches Gesetzbuch in der Fassung der Bekanntmachung vom 2. Januar 2002
(BGBl. I S. 42, 2909; 2003 I S. 738, as last amended BGBl. I S. 5252, 2021).
14
Jordabalk (SFS 1970:994, as amended).
15
Burgerlijk Wetboek, 1992.
16
The incorporation of the cuius est solum rule into English common law was possible following the coming of Accursius’s son, Franciscus (1225-1293), equally a lawyer,
to England in 1274 upon King Edward I’s invitation. See Bouvé 1930, 232, 246 ff.
17
Cro. Eliz. 118; 78 Eng. Rep. 375 (1586).
18
Edward Coke (1552-1634), English jurist and politician, author of Institutes of
the Laws of England.
19
William Blackstone (1723-1780), English jurist and politician, author of Commentaries on the Laws of England.
20
See further e.g. Harpum - Bridge - Dixon 2012, 53 ff.; Sprankling 2008, 979
ff.; Abramovitch 1962, 253 ff.; Donohue 2021, 2 ff.; Babie 2017, 157 ff.
/
A MULTI-LAYERED APPROACH
191
As can be noted in the examples provided, however, some derogations from the general concept of land ownership are commonly
recognised. Furthermore, it was the case already in Roman times,
which was manifested by the ius superficiarium 21. The now established
exceptions to the superficies solo cedit rule usually regard specific categories of objects or the introduction of special registers for the purpose
of identification of objects not being component parts of land, despite
their physical connection therewith. Nevertheless, it is significant that
no legal system has completely departed from the superficies solo cedit
rule 22. In most jurisdictions, building leases and apartment ownership
(condominium) are regulated. As for the first institution (diritto di superficie in Italy, bail à construction in France, Erbbaurecht in Germany),
it establishes a separate right in rem to own a building erected on (including above or below) foreign land. The second provides for the separate ownership of an apartment in a multi-apartment building, the
land and common parts of the building normally being subject to coownership 23. Another category to be mentioned is the separate ownership of buildings existing particularly in the countries of Central and
Eastern Europe as relics of the communist regimes. Under previous
provisions, buildings had been legally built by somebody else than the
owner of the land, the ownership being regarded a mere formality.
Currently, within the reprivatisation process following the fall of communism, such separate ownership rights tend to be abolished 24. For
instance, with respect to Polish law, buildings and other installations
erected on the State Treasury’s land or on the land which is owned by
the entities of local government or their unions by a holder of perpetual usufruct (uz˘ytkowanie wieczyste) shall constitute his ownership.
The same shall apply to the buildings and other installations which
the holder of perpetual usufruct acquired pursuant to the relevant pro21
In ancient Roman law, the acquirer of the superficies did not obtain ownership
but only a personal right against the landowner. In the following period of the development of Roman law, if the right was conceded by the landowner in perpetuity or for
a very long term, the praetor granted the superficiary real actions and interdicts.
Thereby, the right of superficies acquired the character of a ius in re aliena. See e.g. Giaro 2018, 447 f.; Dyjakowska 2015, 5 ff.; Gdesz 2009, 84; Lehavi 2020, 3.
22
Zaradkiewicz 2021, 35.
23
Schmid - Hertel - Wicke 2005, 14, 19 ff.; Gluszak 2008, 28 f.; Rycko 2021;
Gdesz 2009, 84. See further e.g. Leyser 1958, 31 ff.
24
Schmid - Hertel - Wicke 2005, 14.
/
192
MARIA KACZOROWSKA
visions at the conclusion of a contract of letting land as perpetual
usufruct. Ownership of the buildings and other installations on the
land subject to perpetual usufruct which the holder of perpetual
usufruct is entitled to shall be a right bound with perpetual usufruct
(art. 235 of the Polish Civil Code). Perpetual usufruct was introduced
in Poland in 1961 as a form of transferring public land to temporary
use with annual charges. By virtue the Act of 20 July 2018 on Transformation of the Right of Perpetual Usufruct of Land Developed for
Residential Purposes into Ownership of Land 25, the right of perpetual
usufruct of the land developed for housing purposes was converted ex
officio into ownership 26.
As regards the cuius est solum rule, it has been applied under common law for centuries until it was criticised in the 19th century and
its application was restricted. Similarly, 19th-century civil codes in
Continental Europe (among which the French one) adhered thereto
by disallowing the horizontal division of land into multiple surface
and subsurface estates, but subsequently, in the 20th century, the legislators (including the German one) moved away from applying the
strict principle of physical unity. As a consequence, limited forms of
fragmentation, involving typically not more than two layers: surface
and subsoil, were allowed. It was a more intensified utilisation of
space above surface for high-rise constructions and the development
of aviation as well as the discovery of significant resources that posed
a particular legal challenge for the cuius est solum rule. Overall, it has
been subject to adjustments in different legislations, concerning both
airspace and subsurface, with a view to accommodating economic,
social, and technological changes. Accordingly, property rights can be
restricted in the vertical dimension by other rights, such as mineral
and flying rights, but nevertheless the land owner’s control over practically usable spaces has been maintained 27. This is also confirmed by
the abovementioned examples of selected national regulations.
25
Ustawa z dnia 20 lipca 2018 r. o przeksztal/ ceniu prawa uz˘ytkowania wieczystego
gruntów zabudowanych na cele mieszkaniowe w prawo wl/ asności tych gruntów (Dz. U. z
2020 r. poz. 2040, as amended).
26
See e.g. Truszkiewicz 2021, 2 ff.; Ciepla 2018, 18 ff.; Kwartnik-Pruc - Trembecka 2019, 363 ff.; Siekański - Waszkiewicz 2019, 204 ff.
27
Lehavi 2020, 3 f.; Smith 2015, 2079 ff.; Paulsson 2007, 3 ff.; Matusik 2021,
19 ff.; Esmaeili 2016, 111 ff.
/
A MULTI-LAYERED APPROACH
193
In addition, it is important to highlight that the two-dimensional
approach is generally followed with respect to the registration of
property rights on immovables as well. In most countries around the
world, cadastral and land registration systems are based on a 2D parcel as the main entity of property situations 28.
3. The concept of three-dimensional (3D) property. – Further exceptions to the paradigm of two-dimensional property exist in some
countries in the form of ‘three-dimensional property’ – 3D property,
also denominated as ‘horizontal property’, ‘airspace property’, ‘strata
title’ or ‘ownership of space’ 29. Characteristically, there is no single definition thereof, neither in legislation nor in the legal doctrine. The
notion of 3D property depends on individual national legal systems,
each having its own instruments for multi-use of land 30.
In this regard, it should be clarified that in fact all property units
are three-dimensional, since a property unit, traditionally considered
to be two-dimensional, may not consist solely of the land surface, but
– as underlined above – extends upwards into the sky and downwards into the depths of the earth, and as such shall be conceived as
a 3D column of space. That being so, the three-dimensional aspect of
the property does not pertain to the actual extent of the property
unit, but rather to the delimitation of it 31.
The underlying assumption of the concept of 3D property
broadly understood is the possibility to create constructions and
structures whose ownership is not connected with the ownership of
land. In this sense, the category of 3D property covers various legal
institutions, including, e.g., the abovementioned apartment ownership and surface rights, such as perpetual usufruct and building
leases. Within a more strict understanding, the term ‘3D property’
refers to property units that are legally delimited both vertically and
horizontally, and are formed as a result of the division of the space
into distinct layers (strata) or segments. Such sections or bounded
Felcenloben 2013b, 5 ff.; Sandberg 2001, 201 ff.
See further Paasch - Paulsson 2011, 88.
30
Paulsson 2007, 27; Kitsakis et al. 2016, 2 ff.
31
Matusik 2021, 19 ff.; El-Mekawy - Paasch - Paulsson 2014, 19.
28
29
194
MARIA KACZOROWSKA
amounts of space constitute independent subjects of property rights.
Their specific feature is that they may be located on, above or below
ground as well as under or above the traditional 2D property or another 3D property. On this basis, 3D property is treated as a separate
kind of property as opposed to 2D property, also referred to as regular, conventional or surface property 32.
Consequently, the two most common forms of 3D property distinguished in the legal scholarship are the condominium and the independent 3D property. The former refers to the ownership of single
apartments, whereas the latter, being the ‘pure’ type of three-dimensional delimitation of space, denotes larger units, or units not delimited by a specific building. The category of independent 3D property
encompasses the airspace parcel and the 3D construction property.
The airspace parcel is not bound to a specific building or construction, and may consist of just a space volume (volume of air). The 3D
construction, in turn, may only be created within a building or construction of some sort, or with the purpose of creating such a construction 33.
An increased interest in the utilisation of spaces both over and
below the ground level has been observed in recent decades, with the
vertical dimension becoming a relevant factor for real property objects. Nowadays, there are more and more growing needs for new
forms of ownership and land use in densely built urban areas. This
refers particularly to objects and structures erected over railway tracks
or public roads, bridges as well as tunnels and underground storage
facilities, which have no economic connection with the land 34. What
should be underlined is that the hitherto existing forms used for the
establishment of infrastructure rights, i.e. obligation rights and limited property rights (such as leaseholds and easements) do not provide the investors with sufficient financial security. For this reason,
there is a strong demand for making the investors’ rights more secure
and transferable, and thus facilitating financial transactions, such as
32
Paulsson 2007, 31 ff.; Paulsson 2008, 3 ff.; Paasch - Paulsson 2011, 90 ff.;
Zaradkiewicz 2021, 28 ff.
33
Paulsson 2007, 28 ff., 298 ff.; Paulsson 2008, 3 f.
34
In this context, it is worth mentioning that one of the earliest documented cases
of an immovable property ‘detached’ from the land is the construction of Ponte Vecchio in Florence. See Gdesz 2009, 84.
195
A MULTI-LAYERED APPROACH
selling, buying, mortgaging and leasing 35. It is therefore the 3D property formation that meets the above needs by offering the possibility
to guarantee the property rights of owners, which can effectively
stimulate the investments in development above and below ground
and allow for more efficient management of real property.
The development of 3D property entails that traditional 2D systems of registration of property rights in relation to land be transformed into 3D ones. In conditions of growing urbanisation, 2D registration cannot accommodate complex, horizontally overlapping
constructions, extending on multiple height levels, by various stakeholders. 3D cadastre (also known as multi-dimensional cadastre) allows for delineating 3D parcels that cover specified fragments of the
space (using x, y, z coordinates) and for relating ownership rights to
those delineated fragments, which encourages optimal utilisation of
the urban space. The idea of 3D cadastre has been discussed since
2001 when an international workshop was organized in Delft, the
Netherlands, as part of the activity of Commission 7 (Cadastre and
Land Management) of the International Federation of Surveyors
(FIG) 36. There are a number of countries already implementing 3D
cadastres 37.
4. 3D property in selected jurisdictions. – As mentioned above, the
multi-layered approach to the allocation of property rights is reflected
in the legal framework of different jurisdictions, both European and
non-European, representing the civil law and the common law traditions, respectively. It is suggested that although the Roman law based
general rules pertaining to land ownership are shared by both the European continental and Anglo-Saxon countries, it is the common law
jurisdictions that seem to be better adjusted to the concept of multiple stratification of real property. This is because the estate system applied in common law, which vests ownership to the Crown (the
35
Paulsson 2008, 2 ff.; Gdesz 2009, 83 ff.; Zaradkiewicz 2021, 32 ff.; Wilk
2021, 4; Felcenloben 2013b, 5 ff.
36
See http://www.gdmc.nl/3DCadastres/workshop2001/.
37
See e.g. Kitsakis et al. 2016, 2 ff.; Kitsakis et al. 2018, 2 ff.; Stoter - Salzmann 2003, 395 ff.; Dimopoulou - Elia 2013, 410 ff.; Bydlosz - Bieda 2020, 1 ff.;
Budkowski 2020, 17 ff.
/
196
MARIA KACZOROWSKA
State), is closer to the allocation of property rights on multiple space
volumes, compared to the principles that apply to civil law. The
specificity of provisions regarding 3D property units in civil law and
common law legislations is that the former tends to restrict the use
thereof to buildings or constructions, while the latter prove more
flexible and provide for the possibility to create non-feasible legal
spaces as well 38. This diversity can be exemplified by 3D property
models developed in Sweden, the Netherlands, the United States and
Australia.
4.1. Sweden. – The institution of 3D property was introduced in
Sweden in 2004 by way of amendments to the Swedish Land Code
and the Swedish Real Property Formation Act 39. In the present state
of the law, there are three types of three-dimensional property: threedimensional property unit (tredimensionell fastighet), which is a property unit delimited both horizontally and vertically; three-dimensional property space (tredimensionellt fastighetsutrymme), which is a
space included in a property unit other than a three-dimensional
property unit and delimited both horizontally and vertically, and
condominium ownership (ägarlägenhet) which is a three-dimensional
property unit not intended for other purposes than containing a single dwelling flat (chap. 1, section 1a of the Swedish Land Code) 40.
The 3D property unit can be considered as a 3D construction
property of the independent 3D property type as it must relate to a
whole or a part of a built construction or other facility. It is not
bound to be located within one two-dimensionally delimited property, but may extend over or under several ground parcels. There are
no limitations as to the range of rights, restrictions or responsibilities
related to 3D property units. The types of rights to be formed on a
3D property do not differ from those created on 2D property, such
as ownership, easement or servitude as well as different types of access
and use rights 41.
Kitsakis 2019, 11, 107. See also Gdesz 2009, 84.
Fastighetsbildningslagen (SFS 1970:988, as amended).
40
Paulsson 2012, 27 ff.
41
Paulsson 2007, 77 ff.; Paulsson 2008, 3 ff.; Kitsakis et al. 2016, 11 f.; Felcenloben 2013a, 8 f.
38
39
A MULTI-LAYERED APPROACH
197
The 3D property is basically formed and dealt with as a traditional 2D property. In principle, the same regulations as for other
property-related rights apply also to the 3D property, with only a few
special requirements, designed to reflect its particularities. For instance, a 3D property may only be formed if such a solution is found
more suitable than other measures for obtaining the purpose. Furthermore, the 3D property formation must lead to better management of the construction, or facilitate its financing. According to another rule, the 3D property unit may only be formed if the facility is
already constructed, unless it is done to guarantee financing or the
construction of the facility, but then only for a transition period. The
3D property unit must also be assured of the additional rights that are
needed for its appropriate use, such as rights for access to the property
and to different facilities. As regards the 3D property space, it is not a
separate property unit, but is included in another traditional property
unit. It can be used for delimiting space that is more suitable to add
to another property unit than where it is located, e.g. a parking space
under another property, bridges, connecting tunnels or passages
(Swedish Real Property Formation Act, Chap. 3, Section 1a) 42.
The boundaries of all property units and their ownership are registered in the Real Property Register (Fastighetsregistret), managed by
the Swedish Mapping, Cadastral and Land Registration Agency
(Lantmäteriet). The register consists of a textual part, i.e. land register, and a geographical part, i.e. cadastral index map. The textual part
contains information on title holder, easements and other rights, restrictions and responsibilities, mortgages, unique areal property identification numbers etc., whereas the digital index map contains spatial
extension of property units, and associated rights, responsibilities and
restrictions. Information recorded in the land register and the index
map relates to both 2D and 3D property units. The physical 2D
footprint of a 3D property unit is registered by x and y coordinates
in the spatial part of the register, whereas the extension in height can
be described by z coordinates, by adding a textual description of the
legal boundaries in the register, and the number of the floor level the
3D unit is located on 43.
Paulsson 2007, 84 ff.; Paulsson 2012, 28.
Kitsakis et al. 2018, 45 ff.; El-Mekawy - Paasch - Paulsson 2014, 21 ff.; Felcenloben 2013a, 9; Karabin 2004a, 12 ff.; Karabin 2004b, 14 ff.
42
43
198
MARIA KACZOROWSKA
4.2. The Netherlands. – Under Dutch law, it is not possible to divide ownership of land as such, e.g. by creating ownership of 3D volumes or selling a building without the land. Nevertheless, multi-level
property rights in the Netherlands have been in existence since long
and can still be created by the land owner via apartment rights (condominium rights) and the establishment of limited property rights
(superficies, long lease and easement). The currently adopted approach aims at integrating the capabilities of 3D technology to the
existing legal framework by maintaining the widely used 2D registration system, without the need of legal amendments to support 3D
registration of stratified real property units 44.
In 2012, the Netherlands’ Cadastre, Land Registry and Mapping
Agency (Kadaster) started a study to improve the registration process.
The aim of the first implementation phase was to provide a solution
for the problem that the rights for 3D volumes can be established,
but the dimensional aspect cannot be made visible in the cadastre,
where the multi-level property situations are projected on the 2D
plane. Therefore, a procedure was developed to accept 3D representations of legal volumes in a 3D PDF format as part of the deed.
Given that the technological infrastructure has already been enabling
the digital registration of deeds in the Dutch land register, the registration of a 3D visualisation of multi-level rights in the form of a 3D
PDF was possible, without any legislative change. The above method
was introduced in practice in 2016 for the purpose of the Delft Railway Zone Project. The 3D cadastre case covered a small part of the
total project, consisting of a multi-layered construction combining
the new Railway Station and the new City Hall, which involved
property rights of three different parties 45. This pioneering innovation of an interactive 3D visualisation of ‘legal volumes’, i.e. 3D
physical spaces identified each as a distinctive unit in the cadastre and
the land register, provides a possibility of legally validating such a
new type of physical identification and registration of rights thereto,
thus serving not only current stakeholders, but also future transferees
and other stakeholders of multi-level property rights. The introduc44
Stoter et al. 2017, 1 ff.; Stoter - Ploeger - van Oosterom 2013, 56 ff.; Kitsakis et al. 2018, 42 ff.; Kitsakis 2019, 220; Karabin 2008, 3 ff.
45
Stoter et al. 2016, 493 ff.; Stoter et al. 2017, 158 ff.; Kitsakis et al. 2018, 42.
A MULTI-LAYERED APPROACH
199
tion of legal volumes not only facilitates a more flexible approach to
the division or aggregation of space over time, but may also enable
the development of new types of property rights, outside of the existing closed list (numerus clausus) 46.
It is assumed that the further development of the model of registering multi-level property rights in the Netherlands should not result in implementing a full 3D cadastral registration. According to
the recommendations advanced in the legal literature, an optimal solution for practice would be to establish an efficient way of registering stratified property units within the civil law and cadastral framework, based on juridical, organisational and technical aspects 47.
4.3. The United States. – Another form of independent 3D property can be found in the United States, where the ‘air rights’ or ‘airspace rights’ model is used to divide ownership three-dimensionally.
Followed particularly in the countries where the deed recordation system prevails, this model provides for registration of separate three-dimensional property units independent from the underlying parcel. It
enables ownership of air rights to be subdivided. Moreover, it is possible to subdivide airspace or areas under ground into properties.
Thereby, units can be created in subsurface space in the same manner
as tracts of air, constituting a separate object for property rights and
transactions 48.
By applying the mechanism of transferrable development rights
(TDRs), landowners can acquire unused development rights (air
rights) from owners of other plots and add such development rights
to their own plots. The term ‘development right’ means the right,
granted by a public authority through some form of land regulation,
to develop land or add density to already existing development. Unlike in traditional zoning, where development rights are fixed and anchored to a specific land plot, TDRs ‘generated’ by a specific plot
(sending area) can be transferred and ‘consumed’ on a different plot
(receiving area). Originally introduced in the New York City’s zoning
Lehavi 2020, 9 f.
Stoter et al. 2017, 14 f. See also Kitsakis 2019, 220.
48
Paulsson 2007, 33; Sandberg 2001, 203 f.; van Oosterom - Ploeger Stoter 2005, 2 ff.
46
47
200
MARIA KACZOROWSKA
code of 1916, the concept of TDR was comprehensively formulated
in the 1960s and 1970s. It was at that time when the ‘first-generation’ TDR programs were implemented in the US, and subsequently
spread to other countries around the world 49. TDR programs provide
local governments with a tool to control land use as well as compensate land owners for land use restrictions that may reduce the property’s market value. Of particular importance for the evolution of the
TDR system was the 1978 US Supreme Court decision in the Penn
Central Transportation Co. v. New York City case, regarding the regulatory taking doctrine 50. Penn Central was prevented by the New
York City Landmarks Preservation Law from erecting a multi-story
office building above Grand Central Railroad Terminal. The plaintiff
was not compensated, but was allowed to transfer the Terminal’s unused development rights to other sites. The US Supreme Court held
that the plaintiff ’s property was not taken unconstitutionally because the combined effect of the restrictions and the allowed transfer of unused development rights permitted the owner a reasonable
beneficial use of its property. Without addressing whether TDRs
would have been adequate as just compensation, the Court found
that they were valuable and mitigated the financial burden of the
Landmarks Law on the plaintiff. Thus the Court gave the concept of
TDR considerable credibility as a means of mitigating the impacts
of regulation 51.
4.4. Australia. – The legislation on 3D properties was introduced
in Australian states already in the 1960s. Characteristic to the 3D
property model adopted in Australia is a combination of the independent 3D property type and the condominium type, as evidenced
by the examples of New South Wales and Victoria 52.
The strata system developed in New South Wales is based on two
forms of 3D property: stratum and strata titles. Stratum belongs to
49
See e.g. Felcenloben 2013a, 7 f.; Kitsakis 2019, 121; Lehavi 2020, 5; Ellickson et al. 2021, 176 ff.; Nelson et al. 2011; Falco - Chiodelli 2018, 381 ff.;
Costonis 1973, 75 ff.; Linkous 2016, 162 ff.
50
438 U.S. 104 (1978).
51
See e.g. Batey 1979, 728 ff. See also Zaradkiewicz 2021, 30 f.; Gdesz 2009,
84.
52
Paulsson 2007, 137 ff.; Paulsson 2008, 5.
A MULTI-LAYERED APPROACH
201
the independent 3D property type and is a horizontally subdivided
property which can be located both on the ground and in the air,
with no need for connection with a building. It is therefore an airspace parcel. Strata title is a right to possession of one of the separate
lots or apartments into which a building can be subdivided. The
abovementioned forms can be combined in different ways, e.g. the
stratum unit can be further subdivided into several strata title units.
In the New South Wales legislation, the term ‘cubic space’ is used as
a general term to define 3D air space (Strata Schemes Development
Act 2015 No 51). Cubic space is three-dimensional air space. It can
be defined as the space or volume of land occupied within the threedimensional boundaries of a title to land, which includes all lots in
strata schemes as well as some lots in deposited plans 53.
In Victoria, the strata legislation has developed during a long period of time, and has been simplified recently by incorporating 3D
property into the regular real property legislation. The Subdivision
Act of 1988 makes no distinction between 2D and 3D properties, i.e.
conventional subdivision and strata. A lot is defined as a specific unit
of land, building or airspace that can be separately owned. Subdivision covers any division of land, buildings or airspace into two or
more lots, also including re-subdivision. According to the Transfer of
Land Act of 1958, ‘stratum’ means a part of land consisting of a space
of any shape below, on, or above the surface of the land, or partly below and partly above the surface of the land, all the dimensions of
which are limited 54. With its longstanding experience in developing
legislation to meet the demands for recording rights, restrictions and
responsibilities (RRRs) related to the ownership of the 3th dimension
of space, Victoria has become one of the leading jurisdictions in implementing 3D cadastre. Land registration in Victoria involves issuing a certificate of title that is complemented by a graphical representation of the spatial extent of RRRs associated with the land
known as the subdivision plan. The current legislation allows for registration of 3D land RRRs, however the techniques for graphically
depicting them in subdivision plans rely on 2D representation. Based
Paulsson 2007, 157 ff.; Paulsson 2012, 31 f.; Kitsakis 2019, 121.
Paulsson 2007, 240 ff.; Paulsson 2012, 32; Kitsakis 2019, 121; Zaradkiewicz 2021, 30.
53
54
202
MARIA KACZOROWSKA
on the investigations of the technical aspects of a 3D digital cadastre,
a roadmap has been developed for implementing the Victorian 3D
digital cadastre by 2025 55.
5. Possible introduction of layered ownership to Polish law. – The
concept of 3D property is unknown to the Polish legal system. Recommendations to legally allow for the possibility of horizontal severance of the space above or below land for the purpose of economic
exploitation of space units as separate objects of ownership have been
put forward repeatedly in the recent years. One of such proposals was
presented by the Polish Ministry of Infrastructure in the objectives of
the draft law on separate ownership of building objects of 14 July
2010 56. The purpose of the draft was to establish a new form of ownership of a building object, which could be located over or below the
land surface. In line with those assumptions, it would provide opportunities for real estate market, especially with respect to investments
in city centres, so far regarded as completely urbanised, and therefore
impossible to be further developed. Most recently, the idea of ‘layered
ownership’ (‘strata ownership’ - wl/asność warstwowa) was included in
the Polish Deal programme (Polski Lad ), announced by the Polish
government in 2021 57. As underlined in the programme provisions,
there are an important number of unused spaces in large cities in
Poland. This refers i.a. to the areas above railway lines, which prove
very attractive to investors. However, investments in such areas face
substantial difficulties because the existing legislation excludes the
possibility of selling the space over railway tracks. It is therefore expected that the new legal solutions will facilitate the investment
processes, i.a. through easier financing. The assumed legal constructs
of separate building object ownership and layered ownership have
not been specified in detail in the abovementioned proposals.
Possible legislative approaches to the concept of three-dimensional property are subject to analysis in the legal scholarship. The
adaptation of 3D property to the Polish civil law framework is gen/
Kitsakis et al. 2018, 11 ff.; Olfat et al. 2020, 1 ff.
Zal/ oz˘enia do projektu ustawy o odre˛bnej wl/ asności obiektów budowlanych. Projekt z
dnia 14 lipca 2010 r., https://grafik.rp.pl/grafika2/572846.
57
See https://www.gov.pl/web/polski-lad.
55
56
A MULTI-LAYERED APPROACH
203
erally found advisable and feasible, but, as emphasised, it would require significant amendments to the general Civil Code provisions on
things as well as provisions of other acts. In the present state of the
law, three types of immovable property (nieruchomość) are distinguished: land, buildings and apartments. Pursuant to art. 46 paragraph 1 of the Polish Civil Code, parts of the earth’s surface constituting a separate object of ownership (land) as well as buildings permanently attached to land or parts of such buildings if on the basis
of specific provisions they constitute an object of ownership separate
from land, shall be immovable property. In the case of introduction
of layered ownership, the above legal definition should be supplemented by another category of immovable property, i.e. other constructions or structures (building objects) 58. Stipulating the admissibility of an airspace parcel as a separate object of ownership would
necessarily entail the very notion of thing, laid down in art. 45 of the
Polish Civil Code, to be modified. The reason is that, as follows from
this provision, only tangible objects shall be considered things.
Therefore, not being a tangible object, airspace as such de lege lata
cannot constitute a separate object of property rights 59.
In line with a view presented in the literature, the introduction of
3D property would also result in an exception to general rules regarding the scope of exercising the right of ownership, provided for
in artt. 140 and 143 of the Polish Civil Code. According to art. 140
of the Polish Civil Code, within the limits specified by statute and
the principles of community coexistence, the owner may, to the exclusion of other persons, use the thing in conformity with the social
and economic purpose of his right, in particular he may collect profits and other proceeds from the thing; he may dispose of the thing
within the same limits. Art. 143 of the Polish Civil Code, as already
mentioned in the foregoing, establishes the vertical extent of land
ownership, following the general rule derived from Roman law. It is
suggested that these provisions should be amended by specifying the
way of delimiting spatial boundaries of the right of ownership, e.g.
based on the local development plan, the type of buildings, or a de58
Zaradkiewicz 2021, 37; Wilk 2021, 6; Gdesz 2009, 85 f.; Felcenloben
2013a, 14.
59
Zaradkiewicz 2021, 29, 37.
204
MARIA KACZOROWSKA
termined height over the land surface or the roof. Such an approach
is similar to the legal solutions adopted in the US 60. As argued by
other authors, an amendment to art. 140 of the Polish Civil Code
would not be needed for spatial planning and development regulations are commonly recognised as limitations to the right of ownership. Accordingly, the spatial boundaries of an airspace parcel should
not be rigidly defined, but rather be delineated depending on each
specific case, within the competence of the architecture and building
administration bodies 61.
With regard to the establishment of the right of layered ownership, it is proposed that it could be created by way of a contract between the land owner and the acquiring party, or by way of a unilateral juridical act of the land owner, as in the case of the separate ownership of an apartment. The formal requirement of notarial deed
should apply 62.
Other amendments that would need to be considered when regulating the potential new form of 3D property relate to regulations
concerning land and mortgage registers (perpetual books - ksie˛ gi
wieczyste) and the cadastre (roll of land and buildings - ewidencja
gruntów i budynków). This would follow from the necessity to add
the third dimension of height into the cadastral registration, now using 2D parcels in order to register rights to land 63. In this context,
worthy of note are academic proposals of a 3D cadastre model for
Poland. The proposed solutions assume, i.a., the introduction of new
3D cadastral objects as well as the subdivision of space into layers, including the space accessible by the owner and the space reserved for
the State Treasury, required for security of the aircraft traffic, as well
as space where natural resources occur, below the depth accessible by
the private owner 64.
Some positions alternative to the idea to implement a 3D property legal construct are represented in the Polish legal doctrine as
well. For instance, in order to avoid unnecessary interference with the
Felcenloben 2013a, 13.
Wilk 2021, 6 f.
62
Zaradkiewicz 2021, 33 ff.; Wilk 2021, 6; Gdesz 2009, 86 f.
63
Zaradkiewicz 2021, 42.
64
See further e.g. Karabin 2013, 4 ff.; Karabin 2014, 281 ff.; Bydlosz 2017, 231
ff.; Bydlosz - Bieda 2020, 1 ff.; Felcenloben 2013a, 14 ff.; Śliwiński 2014.
60
61
/
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A MULTI-LAYERED APPROACH
205
existing property law framework, it has been suggested that an appropriate modification of the institution of perpetual usufruct or its
replacement with building lease would be sufficient to improve the
possibilities of utilising spaces over the ground level 65. Another legal
solution being considered is the introduction of a new type of immovable property called zabudowa, based on an innovative legislative
proposal formulated during the works of the interwar Codification
Commission of the Republic of Poland in 1934 66. Zabudowa would
be a spatial structure consisting of a physical object, i.e. a construction, and the space connected thereto. As such, it could comprise
constructions situated both on the foreign land and above it, not
only the existing but also the future ones, thus serving different economic purposes 67.
6. The impact of digital technologies on the development of 3D property. – An important factor in further increasing land use efficiency
through extensive exploitation of the potential of 3D property is the
current technological progress. The widespread application of digital
technologies provides for new opportunities of collection, processing
and dissemination of information regarding the legal status and the
spatial features of land. This is illustrated by the increasing use of
three-dimensional digital visualisation, planning, allocation and registration of property rights, as is the case, e.g., in the legal systems in
which 3D cadastre systems are being developed, outlined in the
precedent section of the contribution 68.
Of key importance in this respect is the advancement in the
process of informatisation in the land registration domain. Commonly observed in Europe and worldwide, such reforms have resulted, i.a., in transforming land registers into electronic databases,
making their content available via the Internet as well as creating integrated land information systems, with the aim to ensure updating,
synchronisation and automatic exchange of land registry data and
cadastral data. An example can be electronic land and mortgage regMatusik 2011, 74.
See Zoll 1936, 4.
67
Zaradkiewicz 2021, 38 ff.
68
See further Lehavi 2020, 9 ff.
65
66
206
MARIA KACZOROWSKA
isters operating in Poland. Currently, works are ongoing to launch
the Integrated Land Information System (Zintegrowany System Informacji o Nieruchomościach), which is supposed to encompass both
land and mortgage registers and the cadastre, providing interoperability of data and high quality e-services 69. What is more, some
countries (among which Finland, Australia, England and Wales, the
Netherlands) have already introduced or are planning to introduce legal and technical framework for electronic conveyancing, whose underlying premise is to allow for a disposal of the ownership of land to
be made entirely digitally 70. At present, new possibilities to implement automation mechanisms for the purpose of registration and
transfer of land arise with the emergence of the latest innovative technologies such as blockchain. With its features of distributed ledger of
digital records using advanced cryptographic techniques and operating within a peer-to-peer network, blockchain is expected to offer
secure storage and distribution of information regarding Internet
transactions. This technology enables trading of real-world assets, including immovable ones, represented in the form of digital tokens
(tokenisation). Furthermore, the expansion of so-called smart contracts, i.e. self-executing computer programs stored on a blockchainbased platform, can be noted. Therefore, blockchain is widely regarded to have potential for implementation in the real estate market
by providing new forms of investment. The growing interest in the
application of blockchain technology in land registration is manifested by pilot projects implemented in a number of countries
around the world (such as Georgia, Sweden, Estonia and the Netherlands). In this context, the activity of the Working Group on Distributed Ledgers and Blockchain, established in 2019 by the Polish
Ministry of Digital Affairs, is worthy of mentioning as well 71.
The effective modernisation of national land registers and further
development tendencies in the field of real estate transactions, espe69
See e.g. Blajer 2018, 380 ff.; Gryszczyńska 2011, 174 ff.; Kaczorowska M.
2020, 149 ff.; Kaczorowska M. 2019b, 30 ff.
70
See e.g. Niemi 2017, 20 ff.; Brennan 2015; Rosier 2013, 61 ff.
71
See e.g. Arruñada 2020, 35 ff.; Garcia-Teruel 2020, 129 ff.; Lemieux 2017,
392 ff.; Opitek 2019, 97 ff.; Kaczorowska M. 2019a, 339 ff. Further on smart contracts see e.g. Kaczorowska B. 2019, 189 ff.; Mik 2021, 478 ff.; Wright - De Filippi
2018, 72 ff.; Kasprzyk 2018, 101 ff.
A MULTI-LAYERED APPROACH
207
cially connected with the use of blockchain and smart contracts, provide a basis for gradual transition from a 2D registration of property
rights to 3D interactive systems as well as for the intensification of
3D property rights trading. It is presumed that the digitalisation,
while encouraging legal innovation and giving rise to new types of
property rights, may also push forward existing market practices,
broadening financing opportunities and expanding land markets 72.
At the same time, it is emphasised that along with extensive application of digital technologies for the purpose of developing 3D property, regulatory and legal arrangements need to be made in order to
address coordination challenges by establishing institutional governance mechanisms for various stakeholders holding multi-layered
property rights 73.
7. Conclusion. – Fundamental principles defining the indivisible
and spatially unlimited concept of land ownership, originating from
Roman law, are still enshrined in national legislations. As follows
from the overview of examples of legal regulations now in force, they
remain relevant despite different exceptions providing for vertical division of land that have been introduced in the course of time to accommodate the needs of modern societies in the process of civilisation evolution. The nowadays evidenced trend towards legally allowing for the establishment of multi-layered entitlements in land in the
urban areas is a symptom of further exceeding the paradigm of twodimensional property. Such an approach, additionally encouraged by
emerging technologies, can on one hand contribute to fostering a
more optimal use of land and enhancing investment in real estate,
and on the other hand it may require far-reaching changes in the
general property law framework as well as result in regulating new
types of property rights. A point of reference in identifying possible
directions of legal developments regarding 3D property can be the
future preparatory works for the implementation of layered ownership in Poland.
72
See further e.g. Lehavi 2020, 16; Allam - Jones 2019, 1 ff.; Krigsholm Riekkinen - Ståhle 2020, 1 ff.
73
Lehavi 2020, 14 ff.
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Sofia Santinello
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI.
PER UNA VALORIZZAZIONE UNITARIA
DEL PATRIMONIO AZIENDALE
1. Introduzione. – La storia del diritto e il diritto contemporaneo
sono sovente testimoni dell’avvicendarsi di momenti di particolare
interesse per determinati istituti o categorie del diritto civile che, con
cadenza pressoché ciclica, divengono oggetto di rinnovata attenzione,
in occasione dello sviluppo di nuovi fenomeni sociali ed economici
(prima che giuridici) e dell’insorgenza di connesse istanze di tutela.
In tali contesti può accadere che istituti conosciuti sin dall’epoca
classica, oggetto nel corso del tempo di un processo di sclerotizzazione 1
– si voglia a causa della assenza di nuove ipotesi da ricondurre ad un
determinato modello legale, o, altrimenti, perché il diritto positivo
non appare in grado di fornire una risposta adeguata alle problematiche concrete – possano incontrare nuovi sguardi.
Bene rappresenta tale fenomeno la sorte dell’istituto dell’universitas, il quale, oggetto di articolate analisi nei decenni centrali del secolo scorso 2, è stato incidentalmente riconsiderato in alcune riflessioni della dottrina nel 2014, in occasione di una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione civile 3, chiamata a risolvere il
quesito inerente l’usucapibilità dell’azienda nel suo complesso. Nella
Trimarchi 1992, 819.
Barbero 1936; Pino 1949; Pugliatti 1955. Gli scritti appena citati hanno altresì rappresentato il punto di riferimento per le riflessioni di Rascio 1978, Buccisano
1978 e Scozzafava 1982.
3
Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 5087.
1
2
216
SOFIA SANTINELLO
predetta pronuncia, la Suprema Corte ha ribadito la qualificazione
dell’azienda in termini di universalità 4, sebbene senza approfondire il
tema in maniera compiuta.
Quanto alle esperienze estere, merita di essere segnalato che l’istituto della universalité, in particolare della universalité de droit, ha di
recente riscontrato l’interesse di alcuni giovani autori francesi 5.
Ecco che l’incontro da cui questo scritto trae origine offre una
opportunità di rilettura di tale categoria anche a sud delle Alpi, per
provare a ricollocare taluni fenomeni di sempre più ampia diffusione 6 all’interno di una tassonomia dei beni giuridici latamente intesa. L’occasione, invero, giunge propizia per offrire una diversa prospettiva al dibattito intorno a strutture la cui collocazione nella dogmatica domestica contemporanea non appare ancora del tutto
convincente.
Il presente contributo, pertanto, dopo brevi cenni al fenomeno
delle finzioni come punto di partenza di categorie logico descrittive
della cui consistenza ontologica si discute, ripercorrerà la nozione e
struttura dell’universitas nel diritto romano e nel diritto positivo vigente, per poi soffermarsi sul possibile rinnovato interesse per tale
tema in relazione a specifici fenomeni di separazione patrimoniale 7.
In una prospettiva prodromica, tuttavia, sembra opportuno
sgombrare il campo da due possibili profili di perplessità, consistenti
in rischiosi fraintendimenti di ordine metodologico che, sin d’ora, si
vogliono escludere. In primo luogo, si cercherà di evitare di partire
dalle esigenze del piano rimediale per risalire, da questo, alla dimensione qualificatoria, allargando in modo artificioso le maglie di una
nozione contemporanea, al solo fine di tentare di offrire forme di tutela ad istituti nuovi o provenienti dal diritto straniero, che altrimenti
resterebbero privi di garanzie. In secondo luogo, da una diversa prospettiva, si tenterà altresì di non cadere in una limitata indagine volta
4
Sebbene, come si evidenzierà al par. 5, la natura peculiare dell’azienda e la disciplina apposita dettata dal legislatore agli artt. 2555 ss. cod. civ. abbiano portato taluni
a valorizzare le specificità dell’istituto, a discapito della opportunità di riflessioni unitarie e omogenee sul tema oggetto del presente contributo.
5
Nallet 2021; Bouathong 2020.
6
Quale il trust di diritto anglosassone.
7
Si intende abbandonare sin dal principio qualsiasi pretesa di esaustività in ordine
al concetto di separazione patrimoniale atipica.
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
217
al raggiungimento di esiti meramente descrittivi, privi di conseguenze, al solo fine di alimentare e tentare di placare le esigenze tassonomiche e di coerenza del sistema.
2. Finzioni giuridiche e categorie logiche: tra esigenze di sistematicità
e limiti ontologici. – Di frequente si è assistito all’utilizzo, da parte dei
giuristi delle diverse epoche 8, del fenomeno della finzione 9, tanto in
prospettiva operativa, quanto in prospettiva sistematica.
In chiave operativa, sin dall’età romana, si è assistito al ricorso al
fenomeno delle finzioni in diverse tecniche di costruzione giuridica:
talvolta al fine di alterare, in modo velato, una regola giuridica che
apparentemente veniva conservata intatta (è il caso della fictio legis
Corneliae 10 e del postliminium 11); talaltra allo scopo di preservare, apparentemente, la coerenza del sistema, nonostante la presenza di figure ‘non coerenti’ con alcuni postulati fondamentali (il riferimento
è alla creazione, da parte del pretore, di formulae ficticiae, così da
estendere l’ambito di applicazione di una norma processuale supponendo realizzata una delle ipotesi da essa presupposte e descritte) 12.
Analogamente, sebbene in maniera avulsa rispetto all’esperienza
romana, il ricorso alla tecnica delle finzioni ha trovato terreno fertile
anche nei territori anglosassoni dominati dal diritto di common law,
ove la necessità di offrire tutela al caso concreto (o, secondo alcuni,
l’assenza di scrupoli dei pratici 13) ha comportato l’adozione di ricostruzioni fittizie non solo diverse, bensì talvolta antitetiche alla realtà
dei fatti 14.
Taluni autori individuano ipotesi tipiche di finzioni finanche nel diritto babilonese, cfr. Boyer 1965, 87.
9
Alpa 1999, 335, ha rilevato che tendenzialmente i giuristi hanno dimostrato, nei
confronti delle finzioni, due atteggiamenti alternativi: la ripulsa o l’esorcismo.
10
Si tratta della finzione introdotta dalla legge Cornelia dell’81 a.C., secondo cui
il cittadino romano morto in prigionia doveva essere considerato deceduto al momento
della cattura, al fine di evitare che la capitis deminutio maxima rendesse nullo il testamento già redatto.
11
Istituto in forza del quale il cittadino che si sottraeva alla sua condizione di prigioniero riacquistava lo status civitatis come se non lo avesse mai perduto.
12
Gambaro 1992, 343.
13
In questo senso, Milsom 1969, 5.
14
È il caso del constructive trust: tale strumento opera mediante la finzione secondo
cui colui che si sia appropriato, senza titolo, di beni altrui, abbia agito con la buona in8
218
SOFIA SANTINELLO
Tale frequente e fiorente fenomeno ha iniziato a scontrarsi con un
progressivo ed esponenziale declino in concomitanza con il mutamento della posizione relativa dei formanti e dell’abbandono del conservatorismo ideologico che, nelle epoche storiche sopra accennate,
tanto in area romana classica quanto in area anglosassone, istillava rispetto per la regola inadeguata da cui i giuristi tendevano ad evadere 15.
Secondo una diversa prospettiva, i giuristi ricorsero all’espediente
della finzione anche sul piano sistematico, nei casi in cui la soluzione
logicamente obbligata cui condurrebbero i postulati del sistema si poneva aprioristicamente rispetto ad una necessità pratica su cui vi era
generale consenso 16. Tale è il caso della giustificazione della presenza
delle persone giuridiche mediante il ricorso alla teoria della finzione 17.
È infatti proprio l’esigenza di sistematizzazione e di coerenza interna che, nel corso del tempo, ha giustificato il ricorso ad un processo tecnico consistente nella collocazione logica di un fatto, una
cosa o una persona in una categoria giuridica consapevolmente impropria per farla beneficiare, per via consequenziale, delle soluzioni
pratiche proprie di quella categoria 18.
Costituiscono una ulteriore testimonianza dell’uso delle finzioni,
nel corso dell’evoluzione del pensiero giuridico, quei brocardi poi tradotti in regole positive.
Ma in sistemi essenzialmente conoscitivi ed esplicativi, ove la
certezza del diritto viene assicurata dal diritto positivo a base legislativa, la tecnica della finzione sistematica non appare più necessaria:
ecco che, a fronte di tale percorso della storia del diritto, l’unico spazio lasciato a tale strumento è quello a disposizione del legislatore, il
tenzione di divenire trustee nell’interesse del titolare (quando, all’evidenza, tale intenzione non ha alcun nesso con la realtà fattuale).
15
Gambaro 1992, 345.
16
Gambaro 1992, 348.
17
Come sinteticamente richiamato da Catalano 1965, 1034, «il carattere di fictio
iuris, di persona repraesentata sive intellectualis, di corpus mysticum resterà scolpito nella
definizione di Baldo secondo cui “universitas est imago quaedam quae magis intellectu
quam sensu percipitur”. Bartolo preciserà che l’universitas “proprie non est persona tamen hoc est fictum pro vero sicut ponimus nos juristae”»; v. anche Grossi 1982. Ricorda Galgano 1995, 393, che «se nell’epoca anteriore la configurazione della collettività organizzata quale una persona era considerata una finzione dottrinale, Savigny introdusse, nella primissima metà dell’Ottocento, l’idea che si trattasse di una fictio legis,
che si fosse in presenza, cioè, di ‘soggetti artificialmente creati dalla legge’».
18
Dekkers 1935.
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
219
quale solo può attribuirsi l’autorità di fingere fatti ed eventi mai accaduti.
Diversi sono stati gli sforzi della dottrina per porre in essere una
attività ermeneutica volta a delimitare i confini della tecnica della
finzione rispetto ad ulteriori tecniche normative. Da una parte, la
tecnica delle finzioni appare richiamare il procedimento per analogia 19: tuttavia, mediante il ricorso alla fictio è possibile soprassedere
all’esigenza di individuare la ratio della norma che si voglia estendere
e chiarire in che senso il caso che si vuole ricomprendere nella sua
valutazione normativa sia simile a quello da tale norma previsto; se
ne ricava che finzione e analogia sono tecniche alternative 20. Dall’altra parte, quanto alla struttura del linguaggio normativo, la tecnica
della finzione appare intimamente connessa alla tecnica delle presunzioni assolute: ma il valore normativo della presunzione assoluta
sarà il medesimo, tanto che i fatti presunti corrispondano ad un id
quod plerumque accidit, quanto ad accadimenti rarissimi e quasi impossibili, a prescindere dalla consapevolezza della falsità della medesima 21.
È in considerazione della già richiamata esigenza di sistematizzazione e categorizzazione che, secondo alcuni, il diritto (mediante il legislatore e mediante l’interprete) ricorre alle cd. finzioni dogmatiche 22,
categorie concettuali elaborate dai giuristi attraverso processi di astrazione o entificazione, che solitamente partono dalla molteplicità per
giungere alla reductio ad unum 23. In quest’ultima prospettiva è evidente che i fenomeni giuridici ricondotti alla categoria delle finzioni
rappresentano una realtà che non è un mero indice descrittivo, privo
di consistenza sul piano ontologico: l’appartenenza dell’universitas a
questo insieme, secondo taluni autori, impone di indagarne la struttura e la natura.
Pugliatti 1943, 663.
Gambaro 1992, 345.
21
Gambaro 1992, 351.
22
Il riferimento è a figure giuridiche risultanti da un processo di astrazione logica
in virtù della quale si ricorre «a mezzi artificiali, creando condizioni non esistenti né
nell’ordine della materia né in quello della natura, e rendendole razionali col fingerle
materiali e naturali», cfr. Macchiarelli 1903, 549.
23
La Torre 2000, 315, qualifica come finzioni dogmatiche l’universitas, la persona
giuridica, la traditio simbolica e, altresì, il titolo di credito.
19
20
220
SOFIA SANTINELLO
3. La funzionalità della nozione di ‘universitas’ dal diritto romano al
codice vigente. – Nelle diverse fasi storiche il concetto di universitas è
stato chiamato ad indicare fenomeni che possono apparire tra loro
profondamente diversi ed eterogenei, caratterizzati da una limitata,
talvolta quasi totale mancanza di elementi comuni e unificanti 24. Tuttavia, pur attanagliandosi a fenomeni diversi, tale vocabolo esprime
sempre l’idea della molteplicità che si raccoglie nell’unità 25. Ed è proprio l’esigenza di considerazione unitaria di beni e rapporti giuridici
che invita, come sarà meglio esplicitato nei prossimi paragrafi, a ripercorrere i profili evolutivi, gli elementi costitutivi ed i tratti caratterizzanti di tale istituto, al fine di indagarne l’attualità e l’eventuale
rinnovata utilità.
La dottrina romanistica non appare concorde circa il significato
da attribuire al termine universitas. È stato notato che, sebbene la bibliografia in tema di universitas sia corposa, gli autori se ne sono prevalentemente occupati concentrando le proprie riflessioni soltanto su
alcune delle accezioni che l’universalità assume, prediligendo così una
visione del tutto settoriale del problema 26.
Sul punto, si sono sviluppati diversi orientamenti: vi è chi attribuisce al lemma una mera portata nominalistica 27, chi vi attribuisce
valore sistematico 28 e chi, infine, limita la categoria al gregge 29.
Trimarchi 1992, 801.
Buccisano 1978, 372.
26
Siracusa 2016, 9.
27
Ferrini 1908, 287 ss.
28
Fadda - Bensa 1926, 1 ss.
29
Bonfante 1926, 129 secondo il quale «nel genuino linguaggio dei giureconsulti
il termine ‘universitas’ non fu mai adoperato in senso tecnico in nessun uso, né per significare l’eredità, né per significare la corporazione, né per significare le cose collettive». Biondi 1968, 34, al contrario, riteneva che «la concezione unitaria non si sostituisce né si sovrappone, annullandola, alla concezione individualistica. Rispetto al medesimo complesso le due concezioni coesistono e giuridicamente sono efficienti …
Tutto ciò non sembra singolare ove si tenga presente che si tratta soltanto di diversa
considerazione o prospettiva, sotto l’aspetto giuridico, della medesima entità». Aveva
tentato di mediare tra le due posizioni Orestano 1968, 165, osservando che «il sostenere che il concetto di universitas come categoria dogmatica implicante la separazione
fra la situazione unificata e gli elementi che la compongono sia nato improvviso nella
mente dei giuristi ‘postclassico-giustinianei’ (per usare aggettivi cari alla tradizione della
critica interpolazionistica) è tanto antistorico quanto il sostenere che la giurisprudenza
del Principato avesse già elaborato codesta categoria, applicandola a tutte le situazioni
unificate».
24
25
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
221
Non sembra possibile individuare tracce della enucleazione di
una categoria giuridica in grado di produrre conseguenze sul piano
del diritto 30, quanto, piuttosto, di un uso volto a meglio delineare un
regime giuridico preesistente (ne sono un esempio i complessi di homines e l’eredità 31), ove, pur assumendo il termine un significato più
tecnicistico, non vengono in ogni caso apportati mutamenti nella disciplina già prevista, individuando pertanto sì una sorta di codificazione utile alla comunicazione giuridica, senza tuttavia riconnettervi
alcuna precisa conseguenza sistematico-costruttiva 32.
È noto il passo di Ulpiano 33 che affianca il termine universitas a
grex, armentum ed equitium, da cui emerge, se non altro implicita, la
suggestione del termine collettivo 34.
A Cicerone 35 pare invece attribuirsi l’utilizzo, per la prima volta,
dell’espressione universitas rerum, anche se, sino all’epoca giustinianea, non pare che questa designasse una organica unità 36. Da qui, un
cammino graduale, che, a seguito di un quasi totale abbandono della
figura da parte del diritto consuetudinario 37 portò ad una riscoperta
della stessa in termini di universitas personarum 38.
Non sussiste alcuna possibilità di configurare l’universalità in termini di soggettività giuridica: tanto nelle disposizioni normative (di
cui infra) quanto nella giurisprudenza sul punto, l’universalità è sempre considerata punto di riferimento oggettivo del fatto o dell’oggetto
giuridico 39. Tale collocazione dogmatica, su cui ogni ulteriore precisazione potrebbe apparire superflua, risulta invece meritevole di attenzione e valorizzazione, in considerazione della tendenza alla soggettivazione di nuclei patrimoniali, isolati (o, utilizzando un lessico proBarbero 1936, 176.
Sin dal periodo più remoto del diritto romano vi erano complessi omogenei la
cui unità appariva nitidamente, tanto sotto il profilo naturalistico, quanto sotto il profilo economico, cfr. Bonfante 1930, 118.
32
Siracusa 2016, 28.
33
Ulp. 17 ad Sab. D. 7.1.70.3.
34
Pugliatti 1955, 958.
35
Cic. nat. 1.43.120.
36
Bonfante 1904, 208.
37
Gambaro 2012, 196.
38
V. nt. 17. Già i giustinianei, tuttavia, non intendevano l’universitas personarum
come semplice collettività, bensì come unico soggetto di diritto, cfr. Bonfante 1930,
54.
39
Trimarchi 1992, 803.
30
31
222
SOFIA SANTINELLO
prio del diritto privato ‘separati’ 40 o ‘segregati’) rispetto al patrimonio
riconducibile alla singola persona fisica (o giuridica) e sovrastato dal
principio di universalità della responsabilità patrimoniale ex art. 2740
cod. civ.
Per quanto il predetto richiamo possa risultare prima facie fuori
luogo o ultroneo, le considerazioni esposte nei successivi paragrafi
potranno meglio fare comprendere questa scelta di campo.
Affinché vi sia una universalità, è inoltre necessaria l’esistenza di
una pluralità di elementi dotati di una precisa individualità 41, presi in
considerazione in quanto formanti un unico insieme, collegati tra
loro da un comportamento di destinazione avente natura oggettiva ed
attuosa 42. Tale collegamento deve essere frutto di un intervento dell’uomo sui singoli oggetti; l’assenza dell’esplicitazione dell’intervento
umano nella definizione legale 43 riduce tale atto ad un presupposto
logico e pratico 44.
Il collegamento che risulterà tra gli stessi all’esito dell’atto, volto a
imprimere agli elementi dell’universalità una destinazione unitaria,
sarà di tipo funzionale e fornirà una nova utilitas 45 sia sul piano economico sia sul piano giuridico, diversa dalla mera somma delle utilità
delle cose componenti, utilizzabile per soddisfare peculiari e specifici
interessi dell’uomo 46. È proprio dal riconoscimento della soddisfazione, mediante l’unitaria destinazione 47 di un complesso di beni, di
un interesse diverso ed autonomamente rilevante rispetto ai singoli
40
Di «patrimoni separati parla la dottrina, tutte le volte che nel seno del patrimonio generale d’ogni subietto di diritti ha l’impressione dell’esistenza di nuclei minori,
distinti, dotati d’una certa autonomia, suscettibili d’interferenze fra loro e con il patrimonio generale suddetto, costituiti da un certo numero di diritti e di beni specificatamente determinati, in relazione a una data finalità e in funzione di certi caratteri atti a
determinane la accennata autonomia» cfr. Vocino 1939, 231.
41
Tradizionalmente, si evidenzia che la pluralità deve essere «fisica o corporea» e di
«cose» cfr. Buccisano 1978, 373; non sussiste tuttavia alcuna ragione di principio per
escludere dal complesso della universalità i beni immateriali, cfr. Allara 1984, 43.
42
Trimarchi 1992, 803.
43
Art. 816 cod. civ.
44
Buccisano 1978, 374.
45
Tommasini 1986, 60 ss.; Buccisano 1978, 375.
46
Trimarchi 1992, 804.
47
Non si dovrebbe parlare di funzione complessiva, bensì di funzione comune, per
enfatizzare il fatto che i singoli elementi concorrono alla sua realizzazione in via indipendente, secondo la destinazione loro attribuita ed in ragione della loro utilità potenziale, cfr. Torrente 1948, 1175.
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
223
interessi ed alla somma degli interessi che sarebbero soddisfatti dagli
elementi dati, considerati atomisticamente, che emerge come necessaria 48 e dunque meritevole la tutela giuridica dell’interesse legato al
complesso.
Un ulteriore aspetto che merita di essere richiamato, non solo affinché l’inquadramento dell’istituto nel sistema risulti più completo,
ma anche per tentare di offrire maggiore organicità alle considerazioni che seguiranno, è rappresentato dalla tendenza del legislatore di
operare un riconoscimento relativo 49 dell’universalità quale oggetto di
diritto. La legge, invero, prende in considerazione l’universalità solo
in alcuni settori, tacendo circa una sua ipotetica rilevanza in altri. Tale
evenienza 50, tuttavia, non costituisce una anomalia nella teoria dell’oggetto giuridico, il quale, proprio in ragione del ruolo servente e
strumentale che questi riveste rispetto al soggetto, può pacificamente
essere preso in considerazione con diverso significato da distinte
norme, oppure rilevare contemporaneamente a fini diversi.
Non sembra occorrere, inoltre, che gli elementi componenti l’universalità siano tutti di proprietà della medesima persona 51: l’inclusione di cose altrui, pertanto, non ostacola la creazione (non solo sul
piano logico ma anche ontologico) dell’universalità, ma si risolve
nella non sottoposizione di queste ultime alla disciplina speciale in
materia 52: si pensi, ad esempio, alla frequente prassi di dotare le
aziende di macchinari e beni mediante il ricorso a contratti di leasing.
L’esigenza di mettere in luce il momento unificante e la conseguente complessa classificazione operata all’interno della categoria
dell’universalità non deve tuttavia cedere al rischio che una sua eccessiva dilatazione, dovuta ad una esigenza dogmatica classificatoria,
la renda incoerente al suo interno ed inutile 53. Appare pertanto
Pugliatti 1955, 987.
Barbero 1936, 62.
50
Non si tratta di una specifica caratteristica dell’universalità: nell’ordinamento,
l’oggetto rileva solo in funzione delle utilità di cui è portatore, necessarie per soddisfare
interessi dell’uomo, cfr. Trimarchi 1992, 804.
51
Sul piano civilistico è dato riscontrare che, ai sensi dell’art. 2555 cod. civ., condizione necessaria e sufficiente perché un bene possa considerarsi aziendale è la destinazione funzionale ad esso impressa dall’imprenditore, mentre è irrilevante il titolo giuridico (reale o obbligatorio) che legittima lo stesso ad utilizzarlo nel processo produttivo (Cons. Stato 18 giugno 2008, n. 3029).
52
Gambaro 2012, 205.
53
Trimarchi 1992, 802.
48
49
224
SOFIA SANTINELLO
opportuno ritornare al dettato legislativo e da questo riprendere le
fila 54.
Nel diritto positivo vigente il lemma ‘universalità’ è talvolta affiancato dalla specificazione 55 ‘di mobili’ (art. 816 cod. civ. 56, art. 1156 cod.
civ., art. 1160 cod. civ., art. 1170 cod. civ. e art. 2914 cod. civ.), talaltra ‘di beni’ (art. 670 cod. proc. civ.) 57, espressione che sembra avere
un rilievo più vasto, sì da ricomprendere universalità non riconducibili
alle universalità di mobili esplicitamente richiamate dall’articolo definitorio 58. Sebbene il quadro normativo risultante dalle disposizioni
che espressamente disciplinano l’universalità risulti, in ogni caso, regolare il fenomeno in modo limitato ed incompleto 59, le disposizioni esistenti sono sufficienti per affermare l’autonoma rilevanza della figura e
la sua distinguibilità dagli elementi che la compongono 60.
54
Il legislatore del 1865 non aveva dettato disposizioni generali in tema di universalità, cfr. De Martino 1976, 33. L’elaborazione da parte di Barbero 1936 della tesi
secondo cui l’universalità non avrebbe alcuna realtà ontologica ma rappresenterebbe
solo una categoria logica sarebbe da ricondursi a tale assenza di una disciplina organica,
cfr. Scozzafava 1982, 480. Nei decenni successivi, l’impostazione del Barbero è stata
oggetto di ampie critiche, cfr. Pugliatti 1955, 991; Rascio 1975, 112.
55
Gambaro 2012, 199 evidenzia che l’utilizzo promiscuo di lessemi non caratterizza solo la figura dell’universalità ma si inquadra, piuttosto, nel più generale problema
terminologico che affligge il codice civile vigente e, in particolare, il libro III.
56
L’art. 816 cod. civ. offre la definizione di universalità ‘di mobili’: è considerata
tale «la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno destinazione unitaria». Sul significato da attribuire al lemma ‘cose’, si rinvia alle riflessioni di SantoroPassarelli 1973, 55 ss.
57
L’espressione utilizzata dall’art. 670 c.p.c. impone di richiamare, almeno in nota,
il dibattito in ordine al significato da attribuire al concetto di bene giuridico: sia consentito un brevissimo rinvio a Maiorca 1937, 93, quanto alla dottrina tradizionale,
più risalente, che promuoveva una concezione di bene come punto di riferimento fisico
materiale di una situazione giuridica assoluta; secondo un altro indirizzo interpretativo,
diversamente, il bene giuridico può coincidere con qualunque fonte di utilità, indipendentemente da qualificazioni in ordine alla materialità ed alla corporeità, cfr. Tommasini 1986, 27. In altri termini, il bene in senso giuridico è la sintesi tra il particolare interesse tutelato e la situazione soggettiva predisposta dall’ordinamento giuridico come
strumento di tutela accordato ad un determinato soggetto, cfr. Pugliatti 1943, 289.
Per una panoramica più ampia, cfr. Scozzafava 1982; Iannarelli 2001; Costantino
2005; Scozzafava 2007. Sebbene l’art. 771 cod. civ. nomini espressamente le universalità di ‘cose’, si ritiene che tale locuzione vada interpretata in senso estensivo, potendo
pacificamente essere oggetto di donazione anche l’azienda, cfr. Cataudella 2005, 82.
Rascio 1975 ritiene necessario che l’espressione ‘universalità di mobili’ e ‘universalità
di cose’ siano intese come sinonimi.
58
Gardani 1999, 524.
59
Trimarchi 1992, 811.
60
Pugliatti 1955, 999.
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
225
La constatazione che al solo art. 816 cod. civ. possa essere attribuita portata definitoria non giustifica tuttavia una restrizione 61 della
nozione di universalità: le cose aventi destinazione unitaria non devono, infatti, essere necessariamente beni mobili, in quanto la formulazione letterale adottata dal legislatore del 1942 non sembra rivelare
una volontà normativa tendente ad escludere ogni complesso che presenti caratteri diversi da quelli enumerati 62. Potranno pertanto essere
ricompresi in una universalità anche beni immobili 63.
È inoltre constatabile che, da una consistente parte delle previsioni, emergono dati non riscontrabili nella norma definitoria o addirittura in parziale contrasto con questa: tali elementi devono tuttavia
essere presi in considerazione nella ricostruzione dell’istituto, guardando al ruolo svolto dall’elemento nella prospettiva delle scelte di
valore operate dall’ordinamento 64. Ciò conferma che alcun effetto
escludente circa la portata dogmatica della nozione di universalità appare desumibile dal dato letterale del diritto positivo 65.
Dalle norme sopra richiamate, seppure non pienamente coordinate tra di loro, appare evidente che nella legislazione attuale l’universalità sia presa in considerazione e rilevi quale oggetto di comportamenti, atti e negozi: l’universalità può infatti essere oggetto di
alienazione 66, di donazione 67, di pegno 68, di pignoramento 69, di possesso 70 e, sul piano processuale, di sequestro giudiziario 71.
61
L’esigenza economico sociale che ispira la considerazione sub species universitatis
non concerne esclusivamente quei complessi, cfr. Pugliatti 1955, 985; la tendenza
estensiva è accolta anche da Messineo 1950, 402, in luce dell’esplicito riferimento
(questo sì restrittivo) alle universalità di mobili contenute in talune specifiche disposizioni (art. 2784, secondo comma, cod. civ.; art. 2914, n. 3, cod. civ.).
62
Pugliatti 1955, 985.
63
Si pensi, ad esempio, alle norme relative alla disciplina del possesso, applicabili
anche all’azienda.
64
Trimarchi 1992, 803.
65
Si vedano, in relazione a tale tesi, anche le considerazioni più avanti espresse
circa la legittimità della categoria di universitas iuris.
66
L’art. 2914 cod. civ. ne sancisce l’opponibilità al creditore pignorante ed ai creditori intervenuti, in caso di data certa anteriore al pignoramento.
67
Art. 771, secondo comma, cod. civ.
68
Art. 2784, secondo comma, cod. civ.
69
Art. 2914 cod. civ.
70
Artt. 1156, 1160, 1170 cod. civ.
71
Art. 670 cod. proc. civ.
226
SOFIA SANTINELLO
Può invece porre delle criticità di ordine teorico la rilevanza dell’universalità come oggetto dell’effetto giuridico. Le perplessità in relazione a tale valutazione discendono dalla affermata impossibilità, da
più parti, di compresenza di situazioni giuridiche 72 sul complesso e
sulle singole cose che lo compongono 73. Ma la valorizzazione dell’universalità come oggetto di una situazione giuridica non implica alcun dualismo di diritti sull’aggregato e sui suoi componenti 74, bensì
la conseguenza logica dell’osservazione del dato prima di tutto normativo, che pone in luce la facoltà per il titolare di porre in essere sull’universalità, considerata quale entità giuridica dotata di autonomia
e individualità, atti di esercizio del diritto avuto riguardo l’insieme 75.
E così, a titolo esemplificativo, il trasferimento della proprietà opererà
senza alcuna esigenza di identificazione o elencazione tassativa delle
singole cose; l’azione di rivendica potrà essere promossa in via unitaria, senza fornire la prova della proprietà dei singoli elementi 76.
La situazione giuridica caratterizzante l’universalità si ripercuoterà
su ogni elemento appartenente al complesso: il singolo bene sarà
compravenduto, donato, affittato, in quanto parte di una universalità
oggetto di compravendita, donazione, affitto; in alcun caso si verificherà la compresenza di incompatibili situazioni soggettive sulla parte
e sul tutto 77.
4. Universalità di diritto: una categoria ancora ‘inutile’ e ‘superflua’?
– Negli anni Trenta del secolo scorso è stata proposta la locuzione di
‘universalità patrimoniale’ 78, intesa come categoria unitaria contrapposta alle universitas personarum di diritto comune sopra richiamata.
Nella predetta nozione sono ricomprese tanto le universalità di fatto,
72
Inoltre, quanto all’esistenza di una duplice normativa relativa agli stessi oggetti,
si noti che non si è in presenza di alcuna contraddizione, in quanto le due discipline
non troveranno applicazione contemporaneamente: sino a che le cose faranno parte del
complesso, vigeranno le norme sull’universalità; quando la destinazione unitaria dovesse venire meno, si applicheranno le norme proprie delle singole cose, cfr. Trimarchi
1992, 804.
73
Scozzafava 1982, 491; Gambaro 2012, 208.
74
Contra, Buccisano 1978, 378.
75
Trimarchi 1992, 816; De Martino 1976, 34.
76
Cass., Sez. I, 4 aprile 1964, n. 738.
77
Rascio 1975, 108.
78
Barbero 1936.
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
227
costituite da una pluralità di cose autonome, quanto le universalità di
diritto 79, rappresentate da un complesso di beni e rapporti giuridici
attivi e passivi, coordinati e collegati fra loro da un intervento legislativo 80.
Il discrimen tra universalità di fatto ed universalità di diritto non
corrisponde propriamente alla dicotomia tra universalità di cose (universitas rerum) e universalità di rapporti giuridici (universitas iurium 81).
Il vero indice differenziale risiede, piuttosto, nella considerazione giuridica del complesso sub specie universitatis.
La nozione di universalità di diritto, che non trova una espressa
qualificazione da parte del legislatore come categoria generale, è stata
a lungo criticata e ne sono state contestate sia la legittimità, sia l’utilità, tanto da risultare nella prospettiva più critica addirittura superflua 82 e assolutamente priva di interesse sotto il profilo della oggettività giuridica 83.
Una delle ragioni a sostegno di tale chiara avversione è individuata altresì nella circostanza rappresentata dal tentativo – fallito – di
inquadrare l’universitas iuris all’interno del concetto di soggettività
giuridica: tale pretesa confusione logica è stata ricondotta allo sforzo
di considerazione unitaria di complessi patrimoniali che, sotto il profilo socio-economico, non sarebbero riconducibili ad un unico genus 84.
Tale critica, tuttavia, appare oggi superabile sia nel metodo che
nel merito.
Quanto al metodo, la mancanza di qualsiasi locuzione legislativa
in tema di universalità di diritto non costituisce, di per sé, elemento
Riferimenti alle universalità di diritto, contrapposte alle universalità di fatto, vi
sono anche nella giurisprudenza di merito di fine XIX secolo: cfr. App. Bologna 8 giugno 1888, in Foro it., 1888, I, 940 ss.
80
Secondo la giurisprudenza «l’universitas juris, che a differenza dell’universitas rerum o facti, non è espressamente contemplata dalla legge come categoria generale, è un
complesso di beni e rapporti giuridici ridotti ad unità dalla volontà del legislatore che,
a determinati effetti, fa appunto, di una pluralità di elementi ontologicamente diversi
ed anche se variamente dislocati, un aggregato ideale, suscettibile di considerazione e
trattamento unitari», cfr. Cass., Sez. II, 13 maggio 1969, n. 1629. In dottrina, cfr. Santoro-Passarelli 1973, 85.
81
Pugliatti 1955, 993.
82
Allara 1984, 45.
83
Scozzafava 1982, 477.
84
Scozzafava 1982, 477.
79
228
SOFIA SANTINELLO
valido per negare la rilevanza di una categoria 85. Ove si consideri l’universalità di diritto un complesso di beni e rapporti giuridici, non
paiono riscontrarsi ostacoli di principio all’applicazione alla stessa
dell’art. 670 cod. proc. civ., in considerazione della pacifica maggiore
estensione dell’oggetto delle ‘universalità di beni’ rispetto alle ‘universalità di mobili’ di cui all’art. 816 cod. civ.
Nel merito, appare opportuno valorizzare le ragioni storico dogmatiche originanti i ripetuti tentativi di soggettivazione dei patrimoni. Secondo la dottrina classica del patrimonio, infatti, il soggetto
è presupposto e termine necessario dell’effetto giuridico 86: l’ordinamento mal sopporta un patrimonio privo di titolare, sulla scorta delle
lezioni di Aubry e Rau 87. Tale dogma della necessaria titolarità delle
situazioni giuridiche 88 è oggi posto in discussione da più parti della
dottrina.
In ogni caso, l’impossibilità (che, a parere di chi scrive, consisterebbe prima ancora in una inopportunità) di soggettivazione dell’universitas iuris pare senz’altro costituire una fallacia logica: l’universalità
(e dunque anche l’universalità di diritto) attiene innanzitutto all’oggetto e, mediante l’adesione alla teoria della relatività dell’universitas,
il riconoscimento di quest’ultima come categoria ontologica non
sembra necessariamente condurre al riconoscimento di patrimoni cd.
acefali, senza titolari.
Si può dubitare, inoltre, che le ipotesi tradizionalmente ricondotte alla categoria 89 presentino quegli elementi e connotati tali da
consentire di ravvisarvi una universalità 90. Ma l’eventuale assenza di
Rascio 1978, 98.
Zoppini 2007, 736.
87
Aubry - Rau 1857, 347. È stata avanzata la tesi che tale convinzione sia tuttavia
frutto di un’errata interpretazione iniziale, poi divenuta tralatizia, cfr. Denizot 2014,
547.
88
L’espressione è di Iacumin 2020, 63.
89
Con riferimento al dibattito relativo alla qualificabilità dell’eredità come universalità di diritto, si rinvia a Cicu 1954, 9, il quale ritiene addirittura «inconsistente» la
definizione dell’eredità come universitas iuris, che a suo dire ridurrebbe questo concetto
«ad un nudum nomen, ad un nome vuoto di senso e di contenuto», perché mancherebbe nell’eredità il legame economico oggettivo tra gli elementi del patrimonio, «che
non ha una funzionalità, e non è perciò generalmente considerato come un tutto unitario, come universitas. Debiti e beni non hanno che un legame puramente soggettivo:
quello di far capo ad uno stesso soggetto».
90
Trimarchi 1992, 809.
85
86
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
229
ipotesi finora collocate in tale ambito non è sufficiente a decretarne
l’inutilità.
Nei paragrafi precedenti è stato infatti richiamato l’inscindibile e
necessario legame tra la soddisfazione – mediante l’unitaria destinazione di un complesso di beni – di un interesse diverso ed autonomamente rilevante rispetto ai singoli interessi ed alla somma degli interessi soddisfatti dagli elementi dati, considerati atomisticamente, e
le conseguenti istanze di tutela alle quali non è possibile soprassedere.
In presenza di interessi meritevoli, il legislatore e l’interprete sono
chiamati a tradurre in termini di tutela giuridica il rapporto che la
destinazione ha determinato in campo economico-sociale tra gli elementi del complesso. Nel silenzio del legislatore, il giurista non può
esimersi dal considerare se vi siano ulteriori esperienze ‘di destinazione’ 91 che, per apparenti vuoti normativi, appaiano privi di specifici
strumenti di tutela.
Sorge dunque spontaneo volgere lo sguardo ai patrimoni dotati di
una specifica destinazione.
Non a caso il trust di diritto anglosassone, estraneo e logicamente
incompatibile con le categorie generali del diritto italiano a fronte
dell’assenza, nel nostro ordinamento, di una proprietà nell’interesse
altrui codificata in via generale come situazione giuridica tipica di appartenenza 92, sebbene trovi ingresso mediante il diritto internazionale
privato e, in specie, l’applicazione della Convenzione de L’Aja del
1985 93, continua a soffrire di vuoti di tutela a cui non è possibile rispondere mediante un vano e non coerente procedimento di soggettivazione di un mero complesso di beni.
Si considerino, infatti, le seguenti circostanze: a) il trust è costituito da un complesso di beni e rapporti giuridici; b) la destinazione
unitaria del complesso di beni costituenti il trust emerge dallo stesso
atto istitutivo; c) la considerazione unitaria del complesso di beni genera una nova utilitas, il perseguimento stesso dello scopo, distinta
91
Vi sono stati, invero, dei risalenti tentativi di prefigurare il patrimonio separato
in termini di universitas iuris, cfr. Donadio 1941, 143.
92
Amadio 2020, 389.
93
Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata
a L’Aja il 1° luglio 1985 e ratificata dal Parlamento italiano mediante l. 16 ottobre
1989, n. 364.
230
SOFIA SANTINELLO
dalla somma delle utilità proprie dei singoli elementi; d) gli elementi
costituenti il trust appartengono tutti al medesimo titolare, il trustee
(sebbene questi, secondo il diritto anglosassone, ne detenga la proprietà nell’interesse altrui) 94; e) i beni e i rapporti giuridici in trust
sono tra loro collegati e coordinati per espressa previsione normativa
(id est la norma di diritto internazionale privato legittimante la costituzione ed il riconoscimento del trust in Italia).
Si osservi: l’iniziale volontà unificante è sì quella propria del soggetto, ma una volta che questi abbia posto in essere tale atto unilaterale di autonomia privata, al complesso di beni e rapporti giuridici
costituiti in trust viene attribuita una destinazione unitaria, la cui revocabilità sconta numerose limitazioni 95.
Il riconoscimento della struttura propria della universalità nella
struttura del trust di diritto anglosassone non ha valore puramente
descrittivo, bensì applicativo. Troverebbe applicazione al complesso
unitario di beni la disciplina espressamente prevista per le universalità: la norma che appare di più urgente applicazione sembra, per ragioni eminentemente operative, l’art. 670 c.p.c. L’adesione a tale tesi
offrirebbe una forma di tutela concreta ed efficace, posto che il ricorso all’indicazione nei registri pubblici della titolarità di un bene in
capo al trustee nell’esercizio del suo ruolo è utilizzabile solo per i beni
immobili e per i beni mobili registrati.
5. La natura giuridica dell’azienda: una universalità peculiare. – La
meritevolezza della nozione di universalità di diritto emerge anche
con riferimento alla figura dell’azienda.
L’azienda non solo costituisce una universitas: ne costituisce l’incarnazione tipica e ne rivela il grado fino al momento più elevato e le
possibili linee evolutive 96. Tale carattere appare oggi innegabile 97 anÈ pacifico che il trust non goda di soggettività (cfr. Cass., Sez. VI, 20 gennaio
2022, n. 1826; Cass., Sez. V, 16 febbraio 2021, n. 3986); il legislatore può infatti disporre della soggettività tributaria prescindendo dalle altre forme di soggettività ed il
sostrato minimo sul quale lo stesso costruirà la soggettività tributaria è la separazione o
l’autonomia patrimoniale, non già la soggettività civilistica.
95
Sui trusts irrevocabili e le problematiche dei trust revocabili, cfr. Rota - Biasini
2017, 103; Bartoli - Mauritano 2008, 49; Lupoi 2019, 40.
96
Pugliatti 1955, 985.
97
Messineo 1943, 408.
94
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
231
che a fronte del dettato legislativo 98, che espressamente ricomprende
l’azienda tra le universalità di beni.
La peculiarità che emerge subito agli occhi dell’osservatore circa
la qualificazione dell’azienda come universalità attiene al processo logico di unificazione della molteplicità di elementi in un unico complesso. Nel caso dell’azienda e dei beni aziendali, infatti, la destinazione, intesa come atto o fatto specifico e individuato di un soggetto
determinato, rimane sommersa nel tempo ed anonima, apparendo
piuttosto quale il presupposto, quasi naturale, in base al quale si costituisce l’oggetto 99.
La qualificazione unitaria dell’azienda, tuttavia, è stata oggetto di
un consistente dibattito, trascinatosi sino agli anni recenti, in ordine
alla contrapposizione tra la teoria universalistica 100 e la teoria atomistica 101. Se, infatti, la rilevanza dell’unità economica era indiscussa,
non altrettanto poteva (e può) dirsi di quella giuridica.
I sostenitori della teoria atomistica ritenevano (e ritengono) che
nel complesso aziendale non sia possibile rinvenire una unità ed una
autonomia giuridicamente rilevanti 102, sostenendo, innanzitutto, che
la sua (sola) considerazione normativa unitaria in sede di trasferimento 103 è, alternativamente, derogabile dalle parti nella maggior
parte delle ipotesi o meramente convenzionale 104. L’azienda sarebbe
quindi una semplice pluralità di beni, singolarmente considerati benIl riferimento è all’art. 670 cod. proc. civ.
Pugliatti 1955, 988.
100
Ferrara 1948, 81 ss.; Pugliatti 1955, 976 ss. Secondo Tommasini 1986, 3,
«la struttura industriale ha ormai definito nuovi equilibri e spostato decisamente il rapporto uomo-cosa a favore dei beni e delle fonti di energia. In questa prospettiva risulta
evidente che è l’azienda, e non il gregge, il prototipo delle universalità patrimoniali sul
quale edificare la definizione della categoria». La teoria universalistica ha riscosso successo anche nella giurisprudenza di merito sin dalla metà del secolo scorso, cfr. Cass.,
Sez. II, 17 aprile 2019, n. 10756; Cass., Sez. II, 31 luglio 2012, n. 13692; Cass., Sez.
II, 13 giugno 2006, n. 13676; Cass., Sez. II, 7 agosto 2002, n. 11896; Cass., Sez. II,
25 gennaio 2002, n. 897; Cass., Sez. II, 23 aprile 1999, n. 4044; Cass., Sez. II, 28
aprile 1998, n. 4319; Cass., Sez. II, 19 giugno 1996, n. 5636; Cass., Sez. II, 27 marzo
1996, n. 2714; Cass., Sez. II, 29 settembre 1993, n. 9760; Cass., Sez. II, 26 aprile
1983, n. 2861; Cass., Sez. II, 21 gennaio 1953, n. 150.
101
Galgano 2004, 88; Ascarelli 1954, 203 ss.; Auletta 1947, 20 ss.; Ferrari
1959, 680; Tedeschi 1983, 14.
102
Ferrari 1959, 690.
103
Contra, Greco 1955, 133 s.
104
Ferrari 1959, 691.
98
99
232
SOFIA SANTINELLO
ché tra loro funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore può
vantare diritti diversi 105.
Una ulteriore critica, che appare però più una critica di fondo,
metodologica, che sulla natura giuridica dell’azienda, è riconducibile
al mancato accoglimento del principio della relatività dell’universitas 106: secondo i sostenitori della teoria atomistica, la definizione di
azienda come universalità avente un mero valore descrittivo, si svuoterebbe di ogni interesse per l’interprete, il quale deve guardarsi dal
cedere alla seduzione esercitata dalla sua tradizionale funzione unificatrice di cose fisicamente distinte e indipendenti 107.
In prospettiva diametralmente opposta, i sostenitori della teoria
universalistica riconoscono all’azienda una certa indipendenza o autonomia: l’unitarietà funzionale all’esercizio dell’attività economica impressa al coacervo di beni dall’imprenditore, mediante un’attività di
coordinamento, attribuisce all’azienda rilevanza giuridica e la rende
meritevole in diverse sedi, come individualità oggettiva 108. La qualificazione dell’insieme di beni o di posizioni giuridiche componenti l’azienda come universitas non può limitarsi ad una portata descrittiva,
bensì ad essa deve riconoscersi valore operativo, al fine di poter procedere all’applicazione della specifica disciplina.
Tale contrasto, le cui ricadute sono prettamente applicative, ha
portato la Seconda Sezione della Corte di cassazione civile a rimettere
al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite della Corte,
una questione di massima di particolare importanza 109: se l’azienda sia
usucapibile come bene unitario, distinto dai singoli beni che la compongono.
Se la seconda sezione civile, nella redazione dell’ordinanza interlocutoria, si è premurata di dare puntuale conto delle teorie sopra richiamate, altrettanto non può dirsi delle Sezioni Unite 110, le quali si
sono limitate 111 a puntualizzare che l’azienda, quale complesso dei
Campobasso 1997, 140.
V. nt. 49.
107
Ferrari 1959, 693.
108
Cass., Sez. Un., 1° ottobre 1993, n. 9802. In dottrina, cfr. Fimmanò 2021.
109
Cass., Sez. II, 16 maggio 2013, n. 11902.
110
Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 5087.
111
La suprema Corte, al riguardo, ha considerato «un inutile esercizio teorico la riconduzione ad uno schema generale della natura dell’azienda», cfr. Capone 2014, 1824.
105
106
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
233
beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, ai fini della disciplina del
possesso e dell’usucapione deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente
posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge,
usucapito 112. Tale sinteticità motivazionale ha tuttavia lasciato numerose questioni aperte 113.
Condivisa, ad ogni modo, la qualificazione dell’azienda in termini di universitas, preme evidenziare che non è così pacifica, invece,
l’appartenenza dell’azienda al novero delle universalità di fatto 114 o a
quello delle universalità di diritto 115.
Pare tuttavia preferibile condividere l’opinione maggioritaria, secondo cui l’azienda rappresenta una universitas facti, in quanto l’accento viene posto sulla volontà (sia pure in funzione di una osservanza legale e dell’esercizio di un diritto) dell’imprenditore. Si ricordi,
inoltre, che al titolare dell’azienda è riconosciuto il potere di escludere
– in ogni momento – qualsiasi bene dal complesso aziendale: se trattasi di bene di carattere ‘accessorio’, nulla quaestio; se, diversamente
l’elemento escluso costituisce un fattore essenziale per la produttività
del complesso, l’azienda cesserà di esistere.
Ma, si noti, è possibile che più aziende siano funzionali all’esercizio della stessa impresa o, viceversa, che più imprese siano esercitate
mediante una sola struttura aziendale 116: ecco che tali esigenze pratiche portano a ritenere opportuna una riconsiderazione dei confini
della nozione di universalità di diritto, mediante l’inclusione di strutture riconosciute quali unitarie dal legislatore, non necessariamente
112
Le Sezioni Unite, con il principio espresso in massima, hanno rinunciato tuttavia a una ricostruzione dogmatica dell’azienda che faccia riferimento ai diversi orientamenti sopra riportati.
113
Tra le molte, è stato segnalato che la Corte avrebbe dovuto considerare la natura
dei beni componenti l’azienda per appurare se taluno di essi non soggiacesse ad una disciplina più rigorosa suscettibile di riflettersi sui requisiti minimi per l’usucapione del
complesso, cfr. Boggio 2014, 1478.
114
Pugliatti 1943, 330; Greco 1955, 210; Rocco 1928, 269; Rotondi 1943,
330. In giurisprudenza Cass., Sez. II, 10 marzo 1980, n. 1548; Cass., Sez. II, 22 marzo
1980, n. 1939. In giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. III, 9 novembre 1995, n. 11531;
Cass., Sez. II, 26 settembre 2007, n. 20191; Cass., Sez. I, 9 giugno 1973, n. 1668.
115
Messineo 1943; Messineo 1957, 417 ss.; La Lumia 1940, 236; Dusi 1930;
Cicu 1940, 4; Barbero 1936; Santoro-Passarelli 1973, 88. In giurisprudenza, cfr.
Cass., Sez. I, 19 luglio 2000, n. 9460; Cass., Sez. II, 11 agosto 1990, n. 8219.
116
Fanelli 1950, 70.
234
SOFIA SANTINELLO
dotate di una propria soggettività, al fine di rendere applicabili unitari strumenti di tutela ad un complesso funzionale dotato di una
propria e nuova utilità.
6. Una rinnovata attenzione alla nozione di ‘universitas’: dall’esperienza francese al caso dei ‘data trusts’. – Tracciate le linee della nozione
di universitas nel diritto romano e nel diritto vigente e richiamata, altresì, la natura giuridica dell’azienda, sorge ora spontaneo interrogarsi
circa la funzionalità, nel panorama contemporaneo, del lemma proposto dalla tradizione classica, indagando un suo possibile rinnovato
utilizzo a fronte, anche, delle istanze e delle suggestioni provenienti
da oltralpe.
Come si è avuto modo di evidenziare, l’attenzione al tema dell’universitas bene si affianca al crescente interesse, dimostrato dalla dottrina, per la fuga dalla spinta di soggettivazione ed entificazione dei
patrimoni: tale ultimo fenomeno, infatti, risulta spesso ultroneo, posto che, al di fuori del suo ambito primo, quello della persona fisica,
è volto a rispondere ad esigenze di organizzazione della attività 117.
Al contrario, in prospettiva antitetica alla soggettivazione 118, la legislazione e la dottrina sempre più appaiono orientate all’utilizzo di
tecniche di separazione endosoggettiva. L’interprete è chiamato, dunque, a rifuggire dalla necessità di adottare un formalistico procedimento di erezione di un soggetto artificiosamente concepito e diverso
dal disponente 119.
In tale contesto, può apparire utile menzionare l’esperienza giuridica francofona 120, che ha utilizzato la figura della universalità per dotare di sistematicità ed organicità specifici casi di patrimoines d’affectation introdotti dal legislatore, quali la fiducie 121 e l’EIRL 122, la cui
soggettività è stata espressamente esclusa.
Amadio 2020, 384.
Bigliazzi Geri 1982, 284.
119
Per usare le parole di Palermo 2007, si tratterebbe di «un’esperienza storica ormai al tramonto».
120
Nallet 2021; Bouathong 2020; Fermanel de Winter 2008; Fermanel
de Winter 2009; Kuhn 2003.
121
Loi n. 2007-211 du 19 février 2007 («instituant la fiducie»).
122
Loi n. 2010-658 du 15 juin 2010 («relative à l’entrepreneur individuel à
responsabilité limitée»).
117
118
UNIVERSITAS E BENI PRODUTTIVI
235
Si segnala, altresì, che, secondo taluni, si potrebbe finanche giungere a ripensare la nozione di universalità al fine di creare una categoria unitaria, rispondente ad una unica caratterizzazione dogmatica
e ad una unica disciplina 123. Secondo la predetta tesi, dalla nozione di
universalità di diritto dovrebbero escludersi le posizioni debitorie,
con la conseguenza che anche tale modello di universalità, come l’universalità di fatto, altro non sarebbe che un insieme di beni, costituente, a sua volta, un nuovo bene 124. Tale posizione, che appare piuttosto ardita, non è andata esente da critiche 125.
Come si è avuto modo di proporre nei paragrafi precedenti, sembra possibile ipotizzare di ricorrere alla figura dell’universalità di diritto per qualificare, secondo la dogmatica civilistica italiana, anche il
fenomeno del trust di diritto anglosassone.
Tale categorizzazione appare ancora più utile ove si considerino le
più recenti proposte circa l’utilizzabilità della figura del trust, in relazione a beni dell’epoca contemporanea, quali i dati personali sottoposti ad anonimizzazione.
Ci si riferisce, in particolare, al caso dei data trusts 126, aggregati di
dati personali spesso anonimizzati ed utilizzati ai fini della ricerca
scientifica (soprattutto medica) o dello sviluppo di modelli operativi
di sostenibilità. Mediante la collocazione dei dati personali di determinate categorie di utenti in trust, da una parte è possibile provvedere
ad una unitaria e complessiva considerazione degli stessi, ai fini della
predisposizione di modalità di accesso e trattamento funzionali ad un
utilizzo rispettoso dei diritti dei singoli soggetti, dall’altra è possibile
ricorrere a strumenti di tutela unitari ed effettivi.
Dal gregge al data trust, passando per l’azienda: ex facto oritur ius,
sed per ius facta ordinem inveniunt.
Nallet 2021, 484.
Nallet 2021, 395.
125
Bouathong 2020, 230 ss.
126
Per delle prime indicazioni sull’istituto, cfr. Delacroix - Lawrence 2019; Lau
Jia Jun - Penner - Wong 2019; Rinik 2020; Ruhaak 2020.
123
124
236
SOFIA SANTINELLO
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Federica De Iuliis
INVECTA ET ILLATA: UNA CATEGORIA DI BENI
MERITEVOLE DI TEMATIZZAZIONE
FRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO
1. Introduzione. – Nel segno di una sorprendente continuità storica le fonti giuridiche romane attestano che un insieme di res, per lo
più designate con la locuzione ‘invecta (et) illata’ 1, a partire dall’età
repubblicana e ancora nell’epoca postgiustinianea erano costituite in
pignus al fine di garantire il pagamento dei canoni di locazione di un
fondo rustico o urbano, secondo il regime che fu progressivamente
messo a punto dall’interpretatio iuris e dalla iurisdictio pretoria 2.
Seguendo la scansione cronologica indicata per grandi linee nel
titolo di questo intervento, si intende tracciare l’identità giuridica di
tali beni nell’ottica della tassonomia delle res attraverso il percorso
esegetico dei più significativi dati testuali del diritto di Roma di cui
disponiamo, per poi vagliare in quali termini la disciplina dell’ordinamento civilistico italiano attualmente in vigore ne sia stata infor1
Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr.; Ulp. 25 ad ed. D. 11.7.14.1; Ulp. 28 ad ed. D.
13.7.11.5; Marc. lib. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2; Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.3; Ulp. 73
ad ed. D. 20.2.6; Ulp. 70 ad ed. D. 43.33.2; Imp. Iustinianus A. Iohanni pp. C.
8.14(15).7 (a. 532).
2
Pertile 1855, al termine della sua indagine monografica dedicata al ‘pegno legale
sugli invecta et illata’, che dal diritto romano giungeva al diritto allora vigente, constatava (p. 59): «Il vincolare questi oggetti [i.e. invecta et illata] al locatore, è dunque cosa
naturale e spontanea». Cfr. per un inquadramento del tema: Ascoli 1887, 54 ss., 97
ss.; Palmieri 1963, 1; Frezza 1963, 166 ss.; La Rosa 1987, 283 ss.; Kaser 1982b,
137 ss.; Pugliese 1991, 500; Burdese 1993, 378 ss.; Marrone 2006, 377 s.; inoltre,
mi sia consentito rinviare a De Iuliis 2017, 77 ss.; dall’angolo visuale della gestione
immobiliare urbana Grillone 2019, 133 ss.
242
FEDERICA DE IULIIS
mata e se, alla luce del progresso socio-economico e tecnologico in
continuo divenire, sia possibile prospettare una futura proiezione applicativa della stessa.
2. Passato. – Partendo dal passato, alcune considerazioni preliminari sono da avanzare.
La prima, generalissima, attiene al vocabolo latino ‘res’ 3. È noto
come in senso tecnico questa indichi un’entità che forma o può formare oggetto di rapporti giuridici patrimoniali e come tale accezione
sia il portato di una dilatazione affermatasi nel tempo, che i giuristi romani non mancarono di rilevare 4. È altresì acquisito che a questo mutamento del significato di ‘cosa’ contribuirono non solo necessità pratiche, connesse al crescente sviluppo dell’economia in consonanza con
le istanze della società, ma anche la complessa evoluzione del diritto
volto a regolamentare gli assetti di interessi e i conflitti che riguardavano i beni 5. I Romani, d’altronde, nel solco del loro metodo, che
adottarono anche nel considerare i singoli rapporti e le peculiari vicende inerenti alle cose, tennero fissa la visuale sul prisma delle questioni giuridiche implicate. Di riflesso, si comprende la composita e
problematica trama giurisprudenziale delle distinzioni e classificazioni
che fu intessuta in ordine alle res, in un arco di tempo compreso fra
La vasta gamma delle accezioni è evidente nella voce ‘res’, in VIR, 100 ss.
In tal senso generica è la breve affermazione di Ulpiano in Ulp. 14 ad ed. D.
50.16.23: ‘Rei’ appellatione et causae et iura continentur, a cui si aggiungono le (problematiche) enunciazioni in Ulp. 3 ad ed. D. 50.16.6 pr.; Paul 1 ad ed. D. 50.16.4; Paul.
2 ad ed. D. 50.16.5 pr.; Herm. 2 iur. epit. D. 50.16.222.
5
Sulla concezione giuridica di ‘cosa’ nel diritto romano, della quale manca nelle
fonti una definizione tecnica, si vedano Biondi 1959, 1007; Astuti 1962, 1 ss.;
Grosso 2001, 4 ss. e, ivi, la Nota di lettura di F. Gallo; Thomas 2015, propone una riflessione basata su un approccio proceduralista, più che sostanzialista ai fini della qualificazione giuridica delle res nel diritto romano; di recente, un istruttivo quadro di sintesi dedicato alle ‘cose’ presentano Solidoro 2017, 242 ss.; Corbino 2019, 347 ss., il
quale rileva (p. 351): «Le res (come oggetto di un diritto soggettivo) sono perciò – nella
visione e nel linguaggio dei Romani – tutto ciò che può assicurare alle persone un beneficio economico»; Lambrini 2021a, 105 ss., che ricorda l’«utilità concreta» di tali entità e il significato giuridico «più ampio di quello naturalistico di cosa»; inoltre, Lambrini 2021b, 312 ss., efficacemente nota la tendenza della nozione di ‘bene’ a cambiare
nel tempo tanto nell’esperienza giuridica romana quanto negli odierni ordinamenti, in
ragione del variare del rilievo assunto dagli oggetti nello sviluppo dell’economia, della
società e delle tecnologie.
3
4
INVECTA ET ILLATA
243
il I e il III secolo d.C., e che, tuttora, richiama l’interesse dei giusromanisti 6.
Tuttavia, per quanto riguarda specificamente gli invecta et illata
occorre constatare che di questi non si trova menzione in nessuna
delle fonti che trattano delle divisiones rerum, a cominciare dalle Istituzioni di Gaio, opera che presenta un indiscusso valore nella tassonomia delle res 7. In altre parole, non possediamo alcuna enunciazione
che alluda a una collocazione sistematica degli invecta et illata. Si può
notare, invero, che tale ‘assenza’ nei testi destinati alla didattica non
rappresenta un unicum dato che classificazioni di cose nient’affatto
trascurabili affiorano dagli stessi ma non risultano «enucleate e teorizzate in modo autonomo» 8.
A questa si aggiunge l’osservazione che neppure risulta trasmessa
alcuna testimonianza di una definizione tecnica assegnata agli invecta
et illata dagli antichi iuris periti, stando alle fonti generalmente esplorate in materia dalla dottrina che ha affrontato, anche approfonditamente, gli studi sulla garanzia pignoratizia nell’esperienza giuridica
romana 9.
6
Osserva Talamanca 1990a, 379: «Le classificazioni romane variano da giurista a
giurista; ed anche le singole categorie che le compongono possono assumere un significato diverso a seconda dell’autore e del contesto in cui sono adoperate». Per una rassegna critica compiuta di elenchi, distinzioni delle res in rapporto ai criteri della loro individuazione e alle vicende che le riguardano (nascita, estinzione, mutamenti) attestate
nelle fonti romane, giuridiche e non, Grosso 2001, 7 ss.; di recente Arces 2019, 5 ss.;
Lamberti - Lambrini 2021, 312 ss. Come esempio di inesauribile attenzione a specifiche tassonomie delle res si considerino i recenti studi focalizzati sul tema di grande attualità delle res communes omnium: Dursi 2017; Lambrini 2019, 1 ss.; Falcon 2019;
Lambrini 2020, 817 ss.; ultimamente Romeo 2022, 89 ss.; ed anche gli approfondimenti dedicati alle res incorporales Falcone 2012; alle res in usu publico Schiavon 2019.
7
È noto come l’ordinato insegnamento gaiano rappresenti un paradigma (Gai 2.116), al quale seguirono ulteriori partizioni delle res (ad esempio D. 1.8) dovute alle riflessioni dei giureconsulti classici (in specie Paolo, Ulpiano e Marciano) e, infine, la rivisitazione nelle Institutiones imperiali nell’apposito titolo De rerum divisione (I. 2.1).
Cfr. Solidoro 2017, 243 ss. Per i parametri impiegati da Gaio nel sistemare la materia delle ‘cose’ (fondamentalmente: appartenenza, effettiva o potenziale; modi di acquisto) v. Lambertini 2006, 219 ss.
8
Così Lambertini 2006, 224 ss.; si pensi alle distinzioni fondate su caratteristiche
strutturali o qualitative delle res, comunque valutate dal punto di vista economico-sociale con conseguente differenziazione di disciplina, come per es.: cose mobili e immobili (partizione maggiormente importante nel diritto postclassico-giustinianeo), cose
fungibili e infungibili, cose consumabili e inconsumabili, cose divisibili e indivisibili,
cose semplici, composte e complesse.
9
Riguardo al dibattito sulla classificazione degli invecta et illata, in particolare:
244
FEDERICA DE IULIIS
A sostegno del nostro interesse sollevato dalla situazione testuale
si pone un’ulteriore considerazione. Il pegno avente ad oggetto gli invecta et illata fu stabilito a presidio di una delle più importanti forme
di investimento che furono praticate nel mondo romano rappresentata dalle locazioni di terreni ed edifici 10. Queste operazioni negoziali
si rivelarono una fonte di rendite finanziarie particolarmente vantaggiosa per i privati che decidevano di mettere a frutto patrimoni immobiliari, anche acquistati grazie a investimenti di risorse monetarie
talvolta ingenti, destinandoli in maniera mirata alle locazioni 11. La
diffusione nei vasti territori dell’Impero e fra soggetti di diversa estrazione sociale della locatio-conductio di fondi rustici e urbani 12, desumibile dalla prosa latina e da documenti della prassi 13, nonché l’ampiezza delle trattazioni che i giuristi vi riservarono nelle loro opere e
l’attività rescrivente delle cancellerie imperiali, anche riguardanti i pegni che vi accedevano 14, convergono a favore dell’idea che le cose ‘inFrezza 1963, 168 ss., ha sostenuto che questi costituissero «una pluralità (universitas)
di cose» oggetto della conventio pignoris intesa come conventio generalis; in termini analoghi Ascoli 1887, 98 ss., contra Segrè 1889, 607 s., il quale ravvisava nell’accordo di
garanzia relativo all’insieme delle cose lo scopo di «costituire in ipoteca» ciascuna di
quelle «portate sul fondo e quando vi saranno portate».
10
In particolare, Pellecchi 2016, 512 ss., evidenzia la rilevanza economica delle
garanzie reali, anche in confronto alle garanzie personali, sulla base di dati emblematici
emergenti dalle fonti.
11
Nota Capogrossi Colognesi 2019, XII, che la locatio-conductio costituì: «il
duttile e poliforme strumento di gestione economica della proprietà immobiliare romana» anzitutto agraria.
12
V. Lo Cascio 2009, 92 s.
13
Alcuni testimonia documentano, per l’epoca repubblicana e del Principato, redditi ricavabili da affitti di fondi agricoli – Plin. ep. 3.19.5-6, 8, 9.37, 10.8.5 (inizio II
secolo d.C.) –, da locazioni di edifici ad uso abitativo – Cic. Att. 12.32.2 (45 a.C.);
Mart. 4.37 (86-97 d.C.), 12.32 (102 d.C.). Indice di una pratica comune nel mercato
del credito dell’Egitto di inizio III secolo, presumibilmente ricorrente altrove nell’Impero, il papiro P. Oxy. 58.3921-22 (219 d.C.) documenta che un quarto circa del reddito annuo (500 dracme) ricavato dalla gestione patrimoniale del tutore Aurelius Hierax fatta per conto di due pupilli a lui affidati, Aurelius Berenicianus e Aurelius Sarapiades, derivava dalla rendita ottenuta dall’affitto di una casa (120 dracme): ejn≥oikivou
oijkiva~ oJmoiv(w~) mh(nw`n) ib (dracmai;) rk misqw` ≥n ,≥ cfr. Lerouxel 2012 (online, 29),
Pellecchi 2016, 514; inoltre, diffuse erano locazioni di immobili ad uso commerciale
(ad esempio tabernae): Cic. Att. 14.9.1 (44 a.C.); (ad esempio horrea): CIL, VI, 33747
= FIRA, III2, 455 ss., CIL, VI, 33860, su queste fonti epigrafiche riguardanti leges horreorum, pubblici l’una e privati l’altra, v. Grillone 2019, 30, 156 ss.
14
Si tengano presenti i due titoli di D. 43.32 (De migrando) e 33 (De Salviano interdicto), e i seguenti testi: Gai 4.147; Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr.; Ulp. 28 ad ed. D.
INVECTA ET ILLATA
245
vecta et illata’ furono vincolate altresì su larga scala, nel corso del
Principato 15. D’altronde, lo specifico interesse per il pegno sugli invecta et illata si sviluppò anche in ragione dell’anomalia genetica che
lo caratterizzò, fin dai primordi, consistente nell’assenza di traditio
immediata al pignoratario di quei beni del patrimonio che non erano
sottratti alla materiale disponibilità del debitore per non comprometterne la capacità organizzativa e produttiva e, di conseguenza, per
non metterne a rischio le possibilità di adempimento, pregiudicando
così l’interesse primario del creditore garantito.
Pertanto, riteniamo che gli invecta et illata oltre a richiamare un
apprezzabile livello di attenzione in ordine alle soluzioni dei problemi
nascenti dai rapporti di garanzia che ad essi inerivano, come provano
anche gli speciali rimedi incentrati sugli stessi e predisposti nell’Editto fin dal I secolo a.C. – secondo l’ordine leneliano: Interdictum de
migrando, Interdictum Salvianum e Actio Serviana (de rebus coloni) –,
furono oggetto di appropriata riflessione giuridica 16. Non solo. Come
noto, l’introduzione dell’actio Serviana esperibile contro i terzi che
avessero acquisito il possesso degli invecta et illata, ne consentì la persecuzione erga omnes da parte del dominus fundi-locatore segnando
l’innesco della configurazione, proprio su tali beni, del diritto reale di
garanzia.
13.7.11.5; Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.11; Paul. 34 ad ed. D. 19.2.24.1; Ulp. 73 ad ed.
D. 20.1.21 pr.; Marc. lib. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2; Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.3;
Marc. lib. sing. ad form. hyp. D. 20.2.5 pr.-1; Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.6; Pomp. 13 ex
var. lect. D. 20.2.7; Paul. lib. sing. de off. praef. vig. D. 20.2.9; Ulp. 73 ad ed. D.
20.4.6.2; Afr. 8 quaest. D. 20.4.9 pr.; Gai. lib. sing. de form. hyp. D. 20.4.11.2; Paul. 5
ad Plaut. D. 20.4.13; Scaev. 27 dig. D. 20.4.21.1; Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 20.6.14;
Afr. 8 quaest. D. 47.2.62.8; Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Domitio
Aphobio C. 4.51.4 (a. 294); Imp. Alexander A. Aurelio Petronio C. 4.65.5 (a. 223); Imp.
Gordianus A. Aristoni C. 8.9.1 (a. 238); Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC.
Corinthiae C. 8.14.5 (a. 294); I. 4.6.7; I. 4.15.3.
15
L’applicazione alle locazioni di edifici circoscritta all’Urbe, a Costantinopoli e ai
territori limitrofi fu poi estesa da Giustiniano a tutte le province dell’Impero stando a
Imp. Iustinianus A. Iohanni pp. C. 8.14(15).7 (a. 532).
16
Lenel 1927, 490 ss.: §§ 265, 266 e 267, per una ricostruzione sintetica di tali
rimedi v. ultimamente Cascione 2021, 1175 s. Ricorda, in ragione di Paul. 63 ad ed.
D. 43.1.2.1, la correlazione fra la tutela fornita dagli interdetti e le rerum divisiones ultimamente Schiavon 2019, 17. Per uno sguardo di sintesi sulle problematiche evolutive poste dalle fonti riguardanti, in specie, l’interdetto Salviano e l’azione Serviana si
rinvia a Falcone 2020, 495 ss.; De Iuliis 2020, 507 ss.
246
FEDERICA DE IULIIS
Non si può prescindere dunque dalla domanda: a cosa allude precisamente il sintagma ‘invecta et illata’ desumibile dalle fonti e riferito
alla garanzia pignoratizia? La risposta si articola sulla valutazione di
un triplice ordine di fattori che attengono rispettivamente al dato linguistico, a quello fattuale e, infine, al senso giuridico dell’espressione
nei contesti che la contengono.
Prendendo le mosse dalle verifiche di carattere lessicale, il binomio ‘invecta (et) illata’ si compone dei participi passati sostantivati
tratti dai verbi ‘inveho’ e ‘infero’ 17, i quali rappresentano l’atto del
‘portare qualcosa dentro un’altra’ e, non diversamente dalle varianti
terminologiche ‘inducta’, ‘importata’, derivate dalle forme verbali ‘induco’ e ‘importo’ 18, identificano, genericamente, le ‘cose portate’, cioè
‘introdotte’.
La più antica menzione di questi beni come ‘inlata’ si legge in
una clausola della lex venditionis dell’olea pendens nel De agri cultura
di Catone (censore nel 184 a.C.), la quale conserva la più risalente testimonianza a noi giunta direttamente della garanzia pignoratizia costituita senza spossessamento del pignorante (III-II secolo a.C.) 19 e
specifica il luogo ove le res erano introdotte:
17
Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr.; Ulp. 25 ad ed. D. 11.7.14.1; Ulp. 28 ad ed. D.
13.7.11.5; Marc. lib. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2; Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.3; Ulp. 73
ad ed. D. 20.2.6; Ulp. 70 ad ed. D. 43.33.2; Imp. Iustinianus A. Iohannis pp. C. 8.14.7
(a. 532). Spiegano Ernout - Meillet 1959, voce Veho, 717: «Transporter par terre ou
par mer, au moyen d’un véhicule quelconque, voiture, cheval, navire»; e Ernout Meillet 1959, voce Fero, 227 s.: «Le sens est ‘porter’» e, nella variante, infero «porter
dans … introduire, apporter».
18
Inducta (Scaev. 5 resp. D. 20.1.32; Nerat. 1 membr. D. 20.2.4 pr.; Pomp. 13 ex
var. lect. D. 20.2.7.1; Gai. lib. sing. de form. hyp. D. 20.4.11.2): cfr. Hofmann 1943,
voce induco, 1231 ss.; importata (Scaev. 5 resp. D. 20.1.32; Lab. 5 post. a Iav. epit. D.
20.6.14; D. 43.32.1 pr.): v. Hey 1938, voce importo, 661 ss.
19
Cfr. l’edizione dell’opera di Cugusi - Sblendorio Cugusi 2001, per la datazione 65, 240 ss.; sulla lettura degli aspetti di nostro interesse del cd. ‘pegno catoniano’,
da considerare come una forma atipica di pignus si vedano, in particolare, Burdese
1982, 664; Burdese 2000, 269 ss.; Kaser 1982a, 5 ss., 16 s.; La Rosa 1988, 81 ss.;
Talamanca 1990b, 60; Marrone 2006, 378, nt. 234; per una visione d’insieme delle
problematiche implicate e della configurabilità di questa garanzia pignoratizia come antesignana del pignus sugli invecta et illata a garanzia delle locazioni fondiarie in specie
attestate dall’inizio del Principio si rinvia a De Iuliis 2017, 64 ss., 77 ss.; per un’idea
sul dibattito dottrinale circa la forma negoziale delle «leges venditionis» nel De agricultura come vendita di cosa futura o di genere, o anche in rapporto alla causa negoziale
come affitto (soprattutto in ordine al pascolo), entro le quali si inserisce il pignus si vedano Talamanca 1990b, 51 ss.; Cardilli 2011, 188, nt. 10, 190; Cascione 2003,
INVECTA ET ILLATA
247
Cato agr. 146.5: donicum solutum erit aut ita satis datum erit, quae
in fundo inlata erunt, pigneri sunto. Ne quid eorum de fundo deportato.
Desumiamo, pertanto, che erano pignorate le cose mobili portate
‘in fundo’, cioè nella tenuta del dominus-venditore dei frutti pendenti,
ove ne era prevista la permanenza, fino al momento della soddisfazione del suo interesse (tramite solutio o satisdatio). Invero, nel formulario catoniano l’immobile non era oggetto di una locazione bensì
sede dell’uliveto i cui frutti, acquistati per effetto dell’aggiudicazione
in una vendita all’asta 20, sarebbero stati raccolti grazie alle res portate
nella tenuta dall’acquirente-pignorante che, proprio a tale scopo, ne
avrebbe conservato la materiale disponibilità. Il Censore non registra
in che cosa queste consistessero, ma presumibilmente si trattava di
strumenti, compresa la manodopera servile, indispensabili per acquisire le olive 21.
È opportuno, però, evidenziare che nelle successive attestazioni,
in specie presenti nei Digesta giustinianei, la più risalente delle quali
è tratta da un frammento del giurista augusteo Marco Antistio Labeone 22, le ‘cose portate’ risultano vincolate in pegno, senza consegna
249 ss.; Capogrossi Colognesi 2012, 152 s.; Carbone 2017, 65 ss.; da ultimo, Lamberti 2021, 373; inoltre, per un’indagine sul significato storico del trattato di Catone
nel contesto socio-economico e politico-istituzionale riguardante l’agricoltura degli
inizi del II secolo a.C. v. Agnati 2020, 393 ss.
20
Cato agr. 2.7: auctionem uti faciat. Ribadisce il ricorso a un preciso procedimento per la conclusione della vendita a favore del migliore offerente Burdese 2000,
270 ss.; seguivano all’auctio privata il perfezionamento e la tutela negoziale di diritto
privato ribadisce Carbone 2017, 68 s., 68 ntt. 207, 209 con bibliografia.
21
La dottrina è generalmente concorde su questa accezione, v. in particolare Marrone 2006, 377 s., 378, nt. 234. La previsione del pignus sugli illata nel fondo è da
estendersi ai formulari di vendita del vinum pendens (Cato agr. 147) e del vinum in doliis (Cato agr. 148), che rinviano alla lex sull’olea pendens, posto che tali res servivano,
rispettivamente, alla vendemmia dell’uva e alle operazioni di vendita del vino nelle
botti; inoltre, il pegno è attestato anche nelle leges venditionis del pabulum hibernum e
dei fructus ovium (Cato agr. 149.7 e 150.6-7), cioè rispettivamente del pascolo invernale e dei prodotti del gregge.
22
Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 20.6.14: Cum colono tibi convenit ut invecta importata
pignori essent, donec merces tibi soluta aut satisfactum esset. Nel frammento il pignus è
chiaramente posto a garanzia dell’obbligazione di versare la mercede, in breve sul punto
Burdese 1993, 379; analogamente, anche a tutela della pigione delle locazioni urbane
si vedano Gai 4.147 = I. 4.15.3; Nerat. 1 membr. D. 20.2.4 pr.; Pomp. 13 ex var. lect.
D. 20.2.7.1; Marc. lib. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2.
248
FEDERICA DE IULIIS
immediata al creditore, a tutela univocamente del credito nascente
dalla locatio-conductio di fondi, sia agricoli che urbani, e menzionate
in maniera generalmente indistinta 23. Confermano questo dato emblematicamente, da un canto, la sommaria locuzione ‘de rebus coloni’
impiegata per descrivere rispettivamente l’interdictum Salvianum nelle
Institutiones di Gaio e l’actio Serviana originaria in ben due brani degli Elementa di Giustiniano, quali rimedi diretti a tutelare il locatorecreditore pignoratizio del fondo rustico affittato 24; e, dall’altro, la
menzione d’insieme ‘introducta importata’ citata nella formula edittale dell’interdictum de migrando, quale strumento di tutela a favore
dell’inquilino teso al rilascio dei pegni reclusi nell’abitazione dalla
perclusio del locatore 25.
D’altronde, quando il giurista Nerazio Prisco, sul finire del I secolo d.C., espone il diverso atteggiarsi della conventio pignoris (D.
20.2.4 pr.) – tacita su ‘inducta illata’ nelle locazioni urbane e, in contrapposizione, espressa in quelle agrarie – fonda la regola sul criterio
23
Pertile 1855, 28, osservava al riguardo: «Le leggi si servono sempre dell’espressione generale illata invecta, senza accennare a’ singoli oggetti, e quando parlano di questi, ciò è solo per negare che essi siano obligati dopo l’alienazione», l’autore si riferisce
ai due casi in Paul. lib. sing. de off. praef. vig. D. 20.2.9 e Scaev. 27 dig. D. 20.1.34.
24
Gai 4.147 = I. 4.15.3: Interdictum quoque quod appellatur Salvianum adipiscendae possessionis causa comparatum est, eoque utitur dominus fundi de rebus coloni, quas is
pro mercedibus fundi pignori futuras pepigisset. I. 4.6.7: … Serviana autem experitur quis
de rebus coloni, quae pignoris iure pro mercedibus fundi ei tenentur; I. 4.6.31: Praeterea
quasdam actiones arbitrarias … Serviana de rebus coloni. La conferma che la locuzione
‘de rebus coloni’ riguarda gli illata in pegno per le mercedi si trae dalla spiegazione in
Theoph. Par. 4.6.31: … kata; tw`n pra gmavtwn tou` coloni, … ta; … eijsenecqevnta
… pravgmata. (= Reitz 1751, II.821 s.: … in res coloni moveo … illatas).
25
Testimonianza fondamentale di tale interdetto proibitorio e della relativa formula si legge in Ulp. 73 ad ed. D. 43.32.1 pr.: Praetor ait: ‘Si is homo, quo de agitur,
non est ex his rebus, de quibus inter te et actorem convenit ut, quae in eam habitationem
qua de agitur introducta importata ibi nata factave essent, ea pignori tibi pro mercede eius
habitationis essent …; sull’atto di perclusio, termine non presente nei Digesta ove invece
è attestato il verbo ‘percludere’, come autoimpossessamento con conseguente ritenzione
degli illata da parte del locatore v. Paul. lib. sing. de off. praef. vig. D. 20.2.9 su cui infra; inoltre La Rosa 1987, 286 s.; Pugliese 1991, 501; Giachi 2008, 1 ss.; per considerazioni più ampie anche in confronto con l’interdetto Salviano, De Iuliis 2017, 126,
154 ss.; da Paul. lib. sing. de off. praef. vig. D. 19.2.56 si ricava che, al fine di compiere
la perclusio su iniziativa di domini di horrea e insulae locati alla presenza di funzionari
pubblici a ciò deputati, gli invecta et illata venivano inventariati in vista della vendita
satisfattiva del credito, salva la reazione dell’inquilino tramite interdetto de migrando,
sulle ipotesi di manipolazione ma a favore della genuinità di fondo del passo si pronuncia Sciortino 2006, 8 s. e nt. 26.
INVECTA ET ILLATA
249
dell’ubicazione dei fondi, cioè sulla distinzione fra praedia rustica e
praedia urbana, senza alludere a diversificazioni insite all’interno delle
cose invecta et illata 26.
Le fonti, dunque, in genere, non solo lasciano in ombra la concreta identità delle res introdotte nei praedia presi in conduzione 27,
ma neppure prospettano alcun distinguo in seno al sintagma ‘invecta
et illata’ 28.
Pertanto, queste constatazioni convalidano, d’acchito, l’idea che,
al di là dell’aggregazione all’alveo della garanzia reale, sia mancata una
26
Nerat. 1 membr. D. 20.2.4 pr.: Eo iure utimur, ut quae in praedia urbana inducta
illata sunt pignori esse credantur, quasi id tacite convenerit: in rusticis praediis contra observatur. Sul passo, reputato genuino nel contenuto in specie da Grosso 2001, 74, si
vedano Frezza 1963, 125 ss.; Giachi 2008, 37, nt. 50., 38 s.; Castagnetti 2021, 85
e nt. 3, 86, 125 ss. In effetti, alla diversa natura degli immobili locati – fundi o aedes –
corrispondeva una differente disciplina annessa al contratto di locatio-conductio rei sotto
vari aspetti, fra questi quello del pignus sugli invecta et illata che vi accedeva, diversificato oltre che nell’accordo di pegno anche nei mezzi di tutela del locatore, e finanche
quello dell’expulsio del conduttore inadempiente che, nella disciplina classica, poteva
essere realizzata immediatamente dal locatore di un fondo rustico, mentre era imposto
al locatore di aedes di attendere un biennio di ritardo nel pagamento delle pigioni da
parte dell’inquilino prima di potere esercitare il suo diritto di espellerlo, senza conseguenze sul piano della responsabilità: cfr. Sciortino 2006, 4 ss., 26. Si tenga presente
che la locatio dei fondi urbani è riferita a varie tipologie di immobili, aventi varietà di
denominazioni e di usi quali aedes, insulae, coenacula, domus, horrea e che, in particolare, il pegno di invecta et illata è attestato in ordine a horrea e deversoria (Ulp. 73 ad
ed. D. 20.2.3), cioè magazzini e alberghi, a cui si aggiungono gli stabula posta l’ampia
accezione del lemma ‘praedia urbana’ in Ulp. 2 de omn. trib. D. 50.16.198: cfr. Grillone 2019, 142 s., 142, nt. 3. Il lemma ulpianeo è ripercorso in dettaglio da Arcaria
2022, 65 ss., che ne evidenzia la connessione al divieto di alienare praedia rustica vel suburbana dei pupilli e degli adulescentes stabilito nell’oratio Severi (195 d.C.) e sottolinea
come per il giurista (p. 335): «‘urbana praedia’, dovevano intendersi tutti gli edifici e,
quindi, non solo quelli che si trovano nelle città, ma anche quelli che sono ubicati nelle
campagne, nei villaggi o le lussuose case di campagna», si tenga presente comunque la
valenza generalizzante assunta dalla trattazione di età severiana in ragione della collocazione giustinianea del frammento nel titolo ‘De verborum significatione’ (D. 50.16).
27
In qualche brano si trova menzione di schiavi, ad esempio nell’incipit della promessa edittale dell’interdetto de migrando in Ulp. 73 ad ed. D. 43.32.1 pr.; inoltre nei
seguenti passi D. 20.1.32; D. 20.2.9, sui quali v. oltre.
28
Si ricordi la tendenza dei giuristi ad enumerare le res nel classificarle, per esempio nell’ambito delle più antiche res soli e ceterae res (Gai 2.42; 2.204) e delle res mancipi e res nec mancipi (Gai 2.14a-16); e ancora in ordine alle res corporales e res incorporales (Gai 2.12-14): cfr. Solidoro 2017, 243 ss.; inoltre, si pensi al controverso, eterogeneo catalogo marcianeo delle res communes omnium (Marc. 3 inst. D. 1.8.2 pr.-1) «già
tra loro largamente differenziate» come rileva Falcon 2019, 49 s.; v. altresì Lambertini
2020, 65 ss.
250
FEDERICA DE IULIIS
concettualizzazione in termini astratti degli invecta et illata come autonoma categoria giuridica di res.
Occorre però chiedersi se questa, che appare una lacuna tematica
alla luce dell’approccio della scientia iuris a costruire ordini di cose in
un graduale progredire – mai scisso dalle congiunture socio-economiche e dalla disciplina negoziale e rimediale delle relazioni instaurate
su di esse 29 – sia veramente tale.
Dallo scandaglio dei testi giuridici che sconfinano nella temperie
bizantina, in effetti, abbiamo visto riaffiorare alcuni indizi che, ad
un’attenta lettura, aprono una breccia nel tentativo di ridare corpo e
di cogliere una nuance di significato nell’endiadi invecta et illata, anche con sguardo retrospettivo alla storia giuridica romana.
La prima testimonianza di nostro interesse è tratta dalla Parafrasi
di Teofilo alle Istituzioni di Giustiniano e si inserisce nella spiegazione
dell’actio Serviana ‘de rebus coloni’ in cui l’antecessor si sofferma sulle
condizioni di esperibilità dell’actio in rem precisando, in particolare:
Theoph. Par. 4.6.7 … ejmisqwvsw par∆ejmou` to;n ajgro;n, kai; gev
gonav~ moi kolw`no~ … eijshv ga ge~ de; ejn ajutw`/ tw`/ ajgrw`/
kai; pravgmata tina, oi|on i{ppou~, bova~, oijkevta~, ejsqh`ta,
a[rguron, pakteuvsa~ w{ste moi tau`ta uJpokei`sqai lovgw/ tou`
misqwvmato~ (= Reitz 1751, II.794 ss.: … agrum a me conduxisti, et factus mihi fuisti colonus … induxisti autem in eum agrum res
aliquas, velut equos, boves, servos, vestem, argentum, pactus ut haec
mihi mercedis nomine supposita sint).
L’aspetto rilevante della fonte di matrice pregiustinianea intessuta
su materiali gaiani 30, che apre uno spiraglio nella nostra ricerca orientata a restituire senso compiuto agli invecta et illata, si concentra sull’elenco di pravgmata, cioè di cose, che il colono avrebbe immesso nel
podere con il patto di garanzia per la mercede. Si tratta di beni di vaCfr. ultimamente Lamberti - Lambrini 2021, 312 ss., 321.
Cfr. Falcone 1998, 226, nt. 4, 278 e nt. 132; sulla fonte attribuita al ‘Parafraste’ v. da ultimo Molinari 2021, 65 ss., il quale ne riconosce alla base (p. 214): «Istituzioni imperiali e corpus gaiano, verosimilmente consultato direttamente o citato par
coeur», riconducendola (p. 215): «all’attività della scuola di Costantinopoli dei tempi
della compilazione giustinianea»; per una recentissima rilettura complessiva dell’opera
teofilina, che prende le mosse dalla monografia di Molinari, si rinvia a Lambertini
2022, 332 ss.
29
30
INVECTA ET ILLATA
251
ria natura che sono passati in rassegna dal Parafraste a titolo esemplificativo, come segue: cavalli (i{ppou~), buoi (bova~), servi (oijkevta~),
vesti (ejsqh`ta) e denaro (a[rguron) 31.
A questa si aggiunge un’attestazione unica nel panorama delle
enunciazioni riguardante gli invecta et illata costituita da uno scolio
dei Basilici, pervenutoci in una duplice versione nella tradizione manoscritta 32 e rimasto inesplorato nella dottrina anche più risalente.
L’annotazione, posta a corredo di un frammento compendiato del
giurista Giulio Paolo 33, si colloca nel solco tracciato dal brano teofilino, che abbiamo visto, completandolo in maniera significativa,
come emerge dai tre testi che proponiamo in sequenza 34:
Bas. 11.1.4 = D. 2.14.4 pr. (Scheltema - Van Der Wal 1956,
625): Paul. ∆Epi; tw`n politikw`n oijkhvsewn siwphrw`~ uJpovkeitai tw`/ misqwth`/ ta; eijsacqevnta kai; ta; eijskomisqevnta, ka]n
a[lalo~ h\/ oJ misqwsavmeno~. (= Heimbach 1833, 555: Paul. In
urbanis habitationibus tacite locatori obligata sunt invecta et illata,
licet conductor mutus sit).
Bas. 11.1.4 pr. sch. 1 = D. 2.14.4 pr. (Scheltema 1953, 340): ÔO
Filovxeno~ parevqeto ejn tai`~ nearai`~ ejxhvghsin Qeofivlou
levgousan: ijnbevkta mejn ejsti ta; bastazovmena, oi\on ejsqhv~,
crusov~, a[rguro~, bibliva kai; ei[ ti toiou`ton: ijnlavta ta;
e[myuca, oi\on bou`~, i{ppo~, oijkevth~ kai; ta; toiau`ta. (= Heimbach 1833, 556: Philoxenus in Novellis interpretationem Theophili
hanc apposuit: Invecta quidem sunt, quae vehuntur, veluti vestis, aurum, argentum, libri et si quid, eius modi est: illata autem animata,
veluti bos, equus, mancipium et alia eiusmodi).
31
Il medesimo metodo espositivo con esemplificazione delle ‘res quae pondero numero mensura constant’, in ordine alla moderna categoria delle cose fungibili, si riscontra ad esempio in Theoph. Par. 3.14 pr., v. Varvaro 2008, 30, nt. 75, 298.
32
Codex Parisinus gr. 1352 = Bas. 11.1.4 pr. sch. 1.; Codex Coislianus gr. 152 = Bas.
11.1.4 sch. 11: cfr. Scheltema 1953, 182, 340; Heimbach 1833, 556, ulteriori ragguagli in De Iuliis 2017, 122 e nt. 35.
33
Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr.: Item quia conventiones etiam tacite valent, placet in
urbanis habitationibus locandis invecta illata pignori esse locatori, etiamsi nihil nominatim
convenerit.
34
Ricordiamo che i Basilici furono pubblicati nell’anno 800 e che la redazione di
una prima serie dei relativi scholia è databile fra VI-VII secolo e una seconda serie fra
X-XII secolo: cfr. Lambertini 2015, 165 s.
252
FEDERICA DE IULIIS
Bas. 11.1.4 sch. 11 = D. 2.14.4 pr. (Scheltema 1953, 182):
∆Istevon dev, o{ti oJ Filovxeno~ parevqeto ejn th`/ neara`/ ejxhvghsin
e[cousan ou{tw~: o{ti ijnbevnta eijsi; ta; bastazovmena, oi|on
bibliva kai; ta; oJmoi`a, ijnlavta de; ta; e[myuca, oi|on i{ppoi kai; ta;
… (= Heimbach 1833, 556: Scito autem, Philoxenum in Novella
huiusmodi interpretationem apposuisse: Invecta sunt, quae vehuntur,
ut libri et quae similia sunt, illata autem animata, veluti equus et
cetera …).
A proposito della convenzione tacita che costituiva in pegno ipso
iure ‘ta; eijsacqevnta kai; ta; eijskomisqevnta’ 35 (cioè gli invecta et illata) nelle locazioni urbane, ribadita nella raccolta bizantina (Bas.
11.1.4), viene riportato lo scolio di Filosseno 36 che, nel commentare
le Novelle di Giustiniano, attribuiva a Teofilo la puntualizzazione del
significato da annettere rispettivamente agli ‘ijnbevkta’ e ‘ijnlavta’ riconducendola a un diverso nucleo semantico dei due termini, corrispondente a due diversi verbi della lingua greca, con una precisa demarcazione di significato (Bas. 11.1.4 pr sch. 1). Infatti, viene prospettata una differenza di fondo in ragione della diversa modalità
attraverso la quale le res, che sarebbero diventate pegni, facevano ingresso nel fondo locato: mentre gli ‘ijnbevkta’ sono qualificati ‘bastazovmena’, cioè ‘trasportati’ verosimilmente con l’impiego di un
veicolo, come la veste (ejsqhv~), l’oro (crusov~), l’argento (a[rguro~) e
i libri (bibliva), gli ‘ijnlavta’ sono esplicitati come ‘e[myuca’, cioè ‘esseri animati’, il che fa pensare a qualcosa che viene condotto in un
luogo attraverso una propria autonoma capacità di movimento 37. Il
riferimento è senza ombra di dubbio alle res semoventi 38, come con35
Liddell - Scott - Jones 2011, 492, voce eijsavgw: «bring in», «introduce»,
Liddell - Scott - Jones 2011, 495, voce eijskomivzw: «bring in for oneself» nella coniugazione nel mediopassivo. Per la corrispondenza tra le forme verbali greco-latine
Leopold 1852, 247, voce eijsavgw: «introduco»; Liddell - Scott - Jones 2011, 248,
voce eijskomivzw: «importo, inveho».
36
Philoxenus, probabilmente un antecessor successivo a Giustiniano secondo
Scheltema 1970, 4 e nt. 18, fu autore di summae delle Novelle giustinianee tratte dalle
epitomi novellari di Atanasio Emesino e Teodoro Ermopolita cfr. Troianos 2015, 94.
37
Liddell - Scott - Jones 2011, 310, voce bastavzw: «bear», «carry»; Liddell Scott - Jones 2011, 551, voce e[myuco~: «having life in one, animate»; inoltre, per la
simmetria fra le lingue greca e latina Leopold 1852, 166, voce bastavzw: «porto,
baiulo», Leopold 1852, voce e[myuco~: «animatus, spirans».
38
Su questi beni unitariamente considerati in ragione della caratteristica motoria
INVECTA ET ILLATA
253
ferma l’enumerazione che identifica gli ‘ijnlavta’ con il bue (bou`~), il
cavallo (i{ppo~), lo schiavo (oijkevth~) e altri beni (kai; ta; toiau`ta) a
questi equiparabili.
La contrapposizione dialettica riferita dall’interprete, che fonda
sul piano ontologico la distinzione degli invecta rispetto agli illata, è
conservata in un più recente scolio al medesimo passo dei Basilici
(Bas. 11.1.4 sch. 11). Sebbene in forma abbreviata rispetto alla precedente annotazione (Bas. 11.1.4 pr. sch. 1), vi si trova la divisione sostanzialmente invariata presentata da Filosseno fra ‘ijnbevnta’ (cioè invecta, vocabolo imperfettamente trasposto in greco) altresì definiti
con il participio passato sostantivato ‘ta; bastazovmena’, e ‘ijnlavta’
con il sostantivo ‘e[myuca’, di cui si ricordano, però, soltanto, rispettivamente, ‘libri e cose simili’ (bibliva kai; ta; oJmoi`a) quali res ‘inanimate’ e cavalli (i{ppoi) come esempio di moventia, a cui presumibilmente seguiva qualche altra menzione (kai; ta; …).
Pertanto, le tre fonti postgiustinianee nel loro insieme restituiscono un’accezione materiale degli ‘invecta et illata’ dai contorni definiti tramite un’elencazione esemplificativa corredata perfino del distinguo fra gli stessi, con tutta probabilità ancora rilevante nell’insegnamento giuridico dei primi decenni del VI secolo e forse non
trascurabile nel far fronte a problematiche della pratica, visto che
l’antecessor Teofilo non mancò di rimarcarla in maniera accurata non
solo nel parafrasare come didatta le Istituzioni imperiali, ma anche
nell’interpretare il Digesto giustinianeo nella chiosa successivamente
ripresa da Filosseno e dagli scoliasti bizantini 39.
che li accomuna cfr. Cels. 19 dig. D. 50.16.93: ‘moventium’, item ‘mobilium’ appellatione
idem significamus: si tamen apparet defunctum animalia dumtaxat, quia se ipsa moverent,
moventia vocasse. quod verum est; Ulp. 1 ad ed. D. 21.1.1 pr.: Labeo scribit edictum aedilium curulium de venditionibus rerum esse tam earum quae soli sint quam earum quae
mobiles aut se moventes; il rilievo di tali res ‘se moventes’ permane in età tardoantica come
attestano costituzioni imperiali che le distinguono dalle res mobiles e immobiles – Imp.
Zeno A. Aeneae com. rer. priv. C. 7.37.2 (s.d.); Imp. Iustinianus Demostheni pp. C.
5.12.30 pr. (a. 529) – nella probabile scia del neoplatonismo sostiene Pugliese 1991,
841; peraltro, sempre in ragione dell’autonomia nel movimento, diverso regime si rileva per i moventia ad esempio in materia di possesso (Coll. 12.7.10) e anticamente
nella vindicatio (Gai 4.16).
39
La paternità di Teofilo riguardo all’illustrazione dei vocaboli invecta et illata nel
frammento paolino fu sostenuta da Reitz 1751, II.944; su Teofilo interprete dei Digesta non oltre la pars de rebus v. Troianos 2015, 78 s.; inoltre Molinari 2021, 65.
254
FEDERICA DE IULIIS
Tale elaborazione, a nostro avviso, sottende un procedimento di
astrazione logica impostato sugli strumenti della dialettica, come mostra anche la ricerca dei significati enucleabili dalle parole, che i giuristi romani impiegarono, fin dalla tarda Repubblica, nello studio dei
casi e in funzione della soluzione pratica giuridicamente appropriata
da applicare agli stessi 40.
In particolare, la concezione degli invecta et illata si sarebbe delineata in relazione all’allestimento dei rimedi approntati a tutela del pignus delle locazioni, sia rustiche che urbane, come suggeriscono i nessi
con la materia processuale della parafrasi teofilina, innestata sulla trattazione istituzionale dell’iniziale actio Serviana (Theoph. Par. 4.6.7), e
le asserzioni dello scolio dei Basilici (Bas. 11.1.4 pr. sch. 1 e Bas.
11.1.4 pr. sch. 11) al brano del giurista Paolo, che trattava del pegno
tacito sugli illata nelle locazioni urbane nel commentare la sezione dell’Editto dedicata a ‘De pactis et conventionibus’ (D. 2.14.4 pr.) 41.
Peraltro, la consistenza degli invecta et illata, sistemata su tale base
testuale, può essere circostanziata tramite cenni nelle fonti e ricostruzioni di prassi consolidate nei rapporti contrattuali, considerate le esigenze organizzative legate alla gestione del bene locato. Pertanto,
come l’affittuario introduceva schiavi, animali da lavoro ed eventualmente greggi, ma anche animali da cortile e strumenti mobili per la
lavorazione della terra (come carri, aratri, vomeri, zappe), così l’inquilino portava nelle aedes servi, suppellettili e masserizie per l’abitazione 42.
Che tale lavorio interpretativo si riconnetta alla vigenza, fin dall’età preclassica, del processo formulare è del tutto plausibile vista l’esigenza di disporre conceptiones verborum il più possibile aderenti ai
concreti assetti di interessi di quell’originario e peculiare pignus senza
40
Cic. ad Brut. 41.152-153 (43 a.C.); Gell. 13.10.1 (II d.C.); Cannata 1997, 210
ss., 270 ss., 311 ss.; Vacca 2012, 52 ss.; sull’interpretatio iuris e il metodo casistico-giurisprudenziale si vedano i fondamentali studi ora raccolti in Vacca 2017, in specie 232
ss., 235 ss., 232, nt. 8, a proposito di Ulp. 1 inst. D. 1.1.1 pr. passo in cui, al di là di
qualche intervento dei giuristi bizantini, si definisce «il ruolo del giurista come mediatore esclusivo fra l’ordinamento giuridico e la sua applicazione ‘giusta’».
41
Cfr. Lenel 1889, c. 971, Paulus n. 122; Lenel 1927, 64 s., Tit. IV § 10.
42
Cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.19.2; Paul. lib. sing. de off. praef. vig. D. 20.2.9;
Quint. inst. 7.8.4; Mart. 12.32; Capogrossi Colognesi 2014, 88 s.; Grillone 2019,
151 s., 152, nt. 189, al quale si rinvia per la questione discussa in dottrina sulla possibilità di ricomprendere fra i pegni la ‘supellex’.
INVECTA ET ILLATA
255
spossessamento del locatario, tenuto conto anche della realtà dei beni
‘inanimati’ (invecta) e ‘semoventi’ (illata) attorno ai quali ruotava la
tutela giurisdizionale affinché questa potesse andare a effetto 43. Per
esempio, come non considerare, ai fini dell’individuazione della formula da impiegare, la natura dei ‘beni introdotti nel fondo’ rispetto
alla loro ubicazione e alla situazione in cui versavano al momento dell’iniziativa processuale? Aspetti di rilievo, questi, qualora si fosse reso
necessario l’impossessamento a favore del locatore-creditore pignoratizio, in vista della soddisfazione del suo interesse, anche quando gli
invecta et illata si trovassero presso terzi estranei alla costituzione della
garanzia. Si pensi, in proposito, alla formulazione dell’ordine pretorio
dell’interdetto Salviano concesso adipiscendae possessionis causa, che
reputiamo potesse essere proibitoria (vim fieri veto) o restitutoria (restituas) contro il destinatario a seconda che gli invecta et illata si prestassero a una presa autonoma da parte del locator fundi ovvero, per
le loro caratteristiche o collocazione, avessero invece richiesto che
fosse l’avversario a provvedere affinché il dominus fundi pignoratario
ne conseguisse il possesso 44.
E, ancora, questione non secondaria, come individuare con sicurezza i beni annoverabili negli invecta et illata, oltre che sul piano pratico, su quello propriamente giuridico?
Alcune fonti documentano ulteriori aspetti della disciplina del pignus enucleati dalla riflessione incentrata sulle ‘cose portate nel
fondo’, che furono messi a fuoco contribuendo a configurarle come
insieme di beni mobili provvisto di una tipica connotazione tecnica.
In particolare, l’atto della ‘illatio’ risulta il necessario complemento della conventio pignoris – espressa o tacita che fosse in rapporto
alla locatio-conductio rustica o urbana cui accedeva – e segna il momento a partire dal quale alle cose del conduttore immesse nel fondo
sarebbe stato impresso il vincolo finalizzato ad assicurare la soddisfazione dell’interesse del locatore in ordine alle mercedi. Lo rivela il seguente frammento:
43
Si tenga presente la natura in rem attestata per l’actio Serviana (I. 4.6.7, 31) e desumibile – a nostro avviso – dalle fonti in ordine all’interdictum Salvianum (Gai 4.147
= I. 4.15.3; Iul. 49 dig. D. 43.33.1; Ulp. 70 ad ed. D. 43.33.2; Theoph. Par. 4.15.3):
cfr. per la disamina e relativa bibliografia De Iuliis 2017, 196 ss.
44
De Iuliis 2017, 238 ss. in specie 253 s.; in senso adesivo Falcone 2020, 505 ss.
256
FEDERICA DE IULIIS
Gai. lib. sing. de form. hyp. D. 20.4.11.2: Si colonus convenit, ut
inducta in fundum illata ibi nata pignori essent, et antequam inducat, alii rem hypothecae nomine obligaverit, tunc deinde eam in
fundum induxerit, potior erit, qui specialiter pure accepit, quia non
ex conventione priori obligatur, sed ex eo quod inducta res est, quod
posterius factum est.
Gaio, nell’esaminare la questione del concorso di pegni successivi
e l’applicabilità alla fattispecie del principio ‘prior tempore potior iure’,
chiarisce in maniera inequivocabile che una specifica cosa avrebbe assunto l’identità giuridica di ‘res inducta’ dall’effettiva immissione da
parte del colono nel fondo (ex eo quod inducta res est), e non soltanto
in ragione del patto pignoratizio (quia non ex conventione priori obligatur) 45. Si aggiunga che, nella versione del frammento gaiano nei Basilici la medesima soluzione è riferita a ‘ta; eijsagovmena eij~ tovn misqwqevnta oi\kon’, cioè agli illata in aedes conductas per la pigione 46,
ne desumiamo pertanto l’estensione alle locazioni abitative.
Non meno rilevante quindi sul versante della garanzia della locatio-conductio urbana è la precisazione, nel commento ulpianeo al
testo dell’interdetto de migrando, che ne limita l’ambito di applicazione: ‘sed si pignoris nomine inducta sit’ (Ulp. 73 ad ed. D.
43.32.1.5). In questo tratto, ed anche nel prosieguo dell’esposizione,
il giurista pare voler rimarcare il fatto dell’‘introduzione’ nell’immobile associato alla causa di garanzia, tacitamente istituita, ai fini dell’indicazione dei beni mobili del conduttore ‘sequestrati’ dal locatore
per i quali l’inquilino avrebbe potuto chiedere il rilascio 47.
Tuttavia, inequivocabili precisazioni dei giuristi circoscrivono il
pegno nelle locazioni agrarie ponendo l’accento sulla particolare si45
Cfr. Imp. Alexander A. Aurelio Petronio C. 4.65.5 (a. 223); Ascoli 1887, 98 s.;
Frezza 1963, 166 s.; Biscardi 1991, 79 s.; Cannata 1997; Cannata 2001, 334 s.;
De Iuliis 2017, 131 ss. Pertile 1855, 21, nota a sostegno della necessaria introduzione (citando Vangerow) che la denominazione del pegno «è de illatis et invectis e non
de inferendis et invehendis».
46
Bas. 25.5.9 (= Heimbach 1843, 80); ricorda lo scolio Maroi 1927, 29, nt. 3.
47
Le difficoltà ricostruttive del brano, sospettato di manipolazione, sono prese in
considerazione da La Rosa 1987, 292 ss.; propende per l’abbreviazione della parte iniziale del § 5 di D. 43.32.1 Giachi 2008, 18 ss., la quale, nell’esaminare la fonte, chiarisce (20, nt. 23): «Il pretore non ha preteso, per concedere l’interdetto, che la cosa …
si trovi in pegno (cioè materialmente vincolata), ma solo che sia stata introdotta a titolo di pegno».
INVECTA ET ILLATA
257
tuazione delle res portate nell’immobile, segno che non tutte sarebbero state in garanzia e che il relativo regime era stato assestato su un
ulteriore requisito. Infatti, perché potesse esplicarsi la funzione pignoratizia a cui erano stati assegnati di comune accordo da affittante
e affittuario, era indispensabile che gli illata fossero immessi con il
deliberato proposito della loro permanenza nell’immobile per la durata della locazione. Incisive sono in proposito le asserzioni di Sesto
Pomponio e di Q. Cervidio Scevola nei passi seguenti:
Pomp. 13 ex var. lect. D. 20.2.7.1: Videndum est, ne non omnia illata vel inducta, sed ea sola, quae, ut ibi sint, illata fuerint, pignori
sint: quod magis est 48.
Scaev. 5 resp. D. 20.1.32: … quaeritur, an et Stichus vilicus et ceteri servi ad culturam missi et Stichi vicarii obligati essent. Respondit
eum dumtaxat, qui hoc animo a domino inducti essent, ut ibi perpetuo essent, non temporis causa accomodarentur, obligatos 49.
La relazione instaurata tra i pegni e il praedium – resa esplicita in
questi termini: ‘ut ibi sint’ (D. 20.2.7.1) e ‘ut ibi perpetuo essent’ (D.
20.1.32) – trova corrispondenza in un peculiare costrutto sintattico,
carico di significato giuridico. L’espressione ‘in fundo’, che abbiamo
visto citata nel ‘pegno catoniano’ degli ‘inlata’ (Cato agr. 146.5), descrive lo stato in luogo e, insolitamente associata nella lingua latina a
forme verbali indicative di moto a luogo 50, quali sono i participi pas48
Che il giurista si stesse occupando degli affitti dei fondi rustici si ricava dal principium di Pomp. 13 ex var. lect. D. 20.2.7 pr. Frier 2021, 319, nota, a contrario, «temporarily introduced property was not included». Il passo è accostato a D. 20.1.32 per
evidenziare il dato locativo da Chironi 1894, 276 s.; Frezza 1963, 197 s.; La Rosa
1987, 295.
49
V. Frezza 1963, 168; Kaser 1982b, 140, nt. 49; La Rosa 1987, 295; Krämer
2007, 64, nt. 28, 65; secondo una recente rilettura del frammento di Capogrossi Colognesi 2016, 415 ss., nella fattispecie complessa riferita a un sistema fondiario la questione posta al giurista concerne gli invecta et illata da identificare con gli instrumenta
del dominus del fondo dati in pegno a un suo creditore; tuttavia, si tenga presente che,
come avverte l’autore, il brano è stato tagliato e che una parte della tenuta era in affitto
con coloni, situazione negoziale diffusa che a Scevola doveva essere ben nota. A noi interessa, comunque, il fatto che l’obligatio sugli ‘inducta invecta importata’ viene delimitata «senz’altro a quelle forze di lavoro, che sono state introdotte nei praedia come forze
di lavoro permanenti, e non già occasionali» come sottolinea Biscardi 1991, 84.
50
Si vedano per esempio Forcellini - De Vit 1828, voce In; Traina - Bertotti
1993, 139.
258
FEDERICA DE IULIIS
sati sostantivati ‘invecta’ e ‘illata’, compendia la situazione di stasi di
questi beni, sottolineando la connessione del vincolo istituito su di
essi causa pignoris alla loro stabile presenza sul fondo, dal momento
dell’ingresso nel medesimo. Il divieto di asportazione previsto a seguire nel formulario (ne quid eorum de fundo deportato…) conferma
e, nel contempo, rafforza tale legame delle res all’immobile.
Parimenti abbiamo trovato riprodotta, altrettanto eccezionalmente rispetto alla sintassi della lingua greca, nelle tarde trasposizioni
normative della disciplina dell’interdetto Salviano e dell’azione Serviana ‘de rebus coloni’ nella parafrasi di Teofilo (Theoph. Par. 4.15.3 e
4.6.7), il complemento di stato in luogo della locuzione ‘ejn tw`/ ajgrw`’/
connesso a ‘ta; eijsagovmena’ 51 come oggetto dell’accordo con il quale
i pravgmata del colono portati nel podere sarebbero stati assoggettati
a vincolo pignoratizio per la mercede.
Peraltro, rimanendo nella cronologia delle attestazioni postgiustinianee, i due frammenti giurisprudenziali citati (D. 20.2.7.1 e D.
20.1.32) trovano spazio nei Basilici nelle corrispondenti epitomi, che
rendono in maniera perfettamente coincidente l’accezione spaziotemporale delle locuzioni qui in esame 52.
Con tutta probabilità questo studiato assetto linguistico, perdurante nel tempo, riassumeva in sé la correlazione del vincolo giuridico
a base convenzionale con la situazione di fatto di permanenza degli
invecta et illata e fungeva da ineludibile parametro per individuare su
quali res avrebbe inciso la garanzia reale con annessa tutela.
Non solo. Il responso di Q. Cervidio Scevola esprime chiaramente la correlazione dell’intendimento volitivo (animus) della permanenza sul fondo del vilicus di nome Stico, dei vicarii di Stico e de51
L’accezione indicativa dello stato in luogo dell’espressione ejn con dativo e verbo
di movimento è rilevata, in particolare, da Aloni 1993, 133. È opportuno rilevare che
dissentiamo con la traduzione in lingua latina dei due brani in Theoph. Par. 4.15.3 e
4.6.7 proposta da Reitz 1751, II.754, 896, il quale rende l’affermazione ‘ejn tw`/ ajgrw`/’
con l’espressione ‘in fundum’ in sé indicativa di un complemento di moto a luogo,
senza notare la peculiarità lessicale che abbiamo sottolineato.
52
Bas. 25.3.7(1) = D. 20.2.7.1 e Bas. 25.2.32 = D. 20.1.32. Si noti che l’avverbio
‘dihnekw`~’, che significa ‘continuamente’ ed è presente in entrambi i sunti qui considerati, compendia le locuzioni ‘ut ibi sint’ e ‘perpetuo’, impiegate l’una da Sesto Pomponio e l’altra da Q. Cervidio Scevola nei rispettivi passi del Digesto, posto che, inoltre, la locuzione ‘mhv proskaivrw~’ equivalente a ‘non temporaneamente’, traduce altresì
fedelmente la precisazione ‘non temporis causa’ avanzata da quest’ultimo giurista.
INVECTA ET ILLATA
259
gli altri servi con la finalità obiettiva dell’introduzione nello spazio
locato attraverso la precisazione: ‘ad culturam missi’. Se ne ricava che
la perseguita adibizione delle res alla coltivazione, e dunque allo
sfruttamento del fondo voluto dal conduttore, pervade il vincolo di
garanzia e giustifica non solo dal punto di vista socio-economico la
permanenza delle stesse nel praedium, ma anche la configurazione
giuridica tipica del pegno costituito senza spossessamento dell’affittuario.
Pertanto, una volta identificate come pegni, le res immesse nella
tenuta affittata sarebbero rimaste lì ubicate senza essere distolte dalla
‘sfera di controllo’ del dominus fundi, il quale, all’occorrenza – al verificarsi cioè dell’allontanamento delle stesse e/o dell’inadempimento
del canone 53 –, se ne sarebbe impossessato per soddisfare il proprio
interesse, avvalendosi, ove necessario, dell’interdictum Salvianum,
salvo ‘descendere ad Servianum iudicium’ (Ulp. 70 [rectius: 73] ad ed.
D. 43.33.2) 54 in caso di contesa da comporre con il relativo processo
di cognizione in rem.
Altra regolamentazione si sarebbe profilata in merito all’identificazione giuridica come pegni delle res mobili portate dal conduttore
nei praedia urbana locati.
L’accordo tacito di garanzia fu accolto come principio per una
sorta di consuetudine seguita fra giuristi, come si evince da testi reputati in sostanza genuini 55 e, in particolare, da Nerazio Prisco che ne
precisò l’applicabilità anche a un magazzino (horreum), a un alloggio
(devorsorium), a un suolo non edificabile (area) 56. La garanzia avrebbe
in generale riguardato ‘tutte’ 57 le cose invecta et illata, fatta salva verosimilmente la possibilità, all’opposto, dei contraenti di concludere
una conventio pignoris espressa e di stilare un elenco degli oggetti in
garanzia (nominatim convenerit), come si evince da:
Probanti in proposito sono i seguenti testi Gai 4.147 = I. 4.15.3; Ulp. 73 ad ed.
D. 20.1.14 pr.; Theoph. Par. 4.15.3.
54
Per la lettura della fonte e la relativa bibliografia si rinvia a De Iuliis 2017,
224 ss.
55
Cfr. Nerat. 1 membr. D. 20.2.4 pr.; Marc. lib. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2;
Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr., di quest’avviso in particolare Pugliese 1991, 501.
56
Nerat. 1 membr. D. 20.2.4 pr.; Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.3; Castagnetti 2021,
126.
57
Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.6.
53
260
FEDERICA DE IULIIS
Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr.: Item quia conventiones etiam tacite
valent, placet in urbanis habitationibus locandis invecta illata pignori esse locatori, etiamsi nihil nominatim convenerit 58.
Tale modalità costitutiva dei pegni si rivela foriera di una differente disciplina in ordine alle facoltà dispositive dell’inquilino, in particolare nel caso, controverso, considerato dai giuristi classici (Paolo
cita Nerva [D. 20.2.9] e Ulpiano cita Pomponio [D. 20.2.6]), in cui
fossero oggetto di pegno dei mancipia. La condizione degli schiavi
‘obligati propter pensionem’, cioè tacitamente, è tenuta distinta da
quella dei servi manifestamente convenuti in pegno:
Paul. lib. sing. de off. praef. vig. D. 20.2.9: Est differentia obligatorum propter pensionem et eorum, quae ex conventione manifestari pignoris nomine tenentur, quod manumittere mancipia obligata pignori
non possumus, inhabitantes autem manumittimus, scilicet antequam
pensionis nomine percludamur: tunc enim pignoris nomine retenta
mancipia non liberabimus: et derisus Nerva iuris consultus, qui per
fenestram monstraverat servos detentos ob pensionem liberari posse.
Il conduttore, prima dell’inadempimento e del percludere del locatore, non avrebbe potuto liberare validamente con manomissione i
servi gravati da pegno esplicitamente costituito. La condizione giuridica degli schiavi che abitavano con l’inquilino (inhabitantes), implicitamente in garanzia, avrebbe invece esplicato il suo effetto vincolante ‘pignoris nomine’, con esclusione del potere di disporne da parte
del debitore inadempiente, una volta divenuti ‘retenta mancipia’ 59.
Sulla base della rapida rassegna di alcuni aspetti della regolamentazione sviluppata attorno al complesso eterogeneo delle ‘cose portate’
nel fondo riteniamo di poter ravvisare nella denominazione collettiva
di ‘invecta et illata’ un nomen iuris riferibile a un particolare genus di
res di natura mobiliare. Siamo, infatti, in presenza di ‘res’ in senso tecL’affermazione si inserisce nella trattazione delle convenzioni tacite, il che depone a favore della sua autenticità, come nota Pugliese 1991, 501; inoltre La Rosa
1987, 297; Giachi 2008, 39.
59
V. analoga espressione ‘retentas’ allusiva alla perclusio degli arredi miserabili dell’inquilino moroso Vacerra in Mart. 12.32: cfr. Sciortino 2006, 14 s.; inoltre, si aggiunga Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.6: Licet in praediis urbanis tacite solet conventum accipi,
ut perinde teneantur invecta et illata, ac si specialiter convenisset, certe libertati huiusmodi
pignus non officit idque et Pomponius probat: ait enim manumissioni non officere ob habitationem obligatum. Cfr. Giachi 2008, 40 ss.; Grillone 2019, 144 s.
58
INVECTA ET ILLATA
261
nico, la cui utilità pratica evidente va nella direzione di favorire il beneficio economico del locatore immobiliare una volta divenute, nel
percorso evolutivo che le interessò, oggetto della posizione giuridica
soggettiva opponibile erga omnes riconosciuta in capo allo stesso 60.
L’enumerazione degli invecta et illata, che abbiamo rintracciato,
munita al suo interno della differenziazione su come si presentavano
in rerum natura le relative res, ovverosia ‘inanimate’ e ‘semoventi’, si
confà a differenze di regime ed è indice di una identificazione pratica
e astratta al tempo stesso riguardante le cose finalisticamente vincolate agli usi del fondo locato. Questa non può che riconnettersi a una
sapiente elaborazione che si svolse, fin dall’età preclassica, in merito ai
tipici assetti negoziali e rimediali del pignus sugli ‘invecta’ e ‘illata’,
appositamente congegnati; di conseguenza, la distinzione riguardante
questi beni deve aver assunto rilevanza ai fini della individuazione
della disciplina applicabile.
Per quanto non trovino menzione nei contesti delle classiche sistemazioni delle divisiones rerum, a noi pare opportuno accostare, in
definitiva, gli invecta et illata al campo delle tassonomie delle res poiché la riflessione sviluppata dai giuristi romani, affiorante dalle fonti,
che coinvolse tali beni come oggetto di una perdurante tipologia di
garanzia reale divenuta in progresso di tempo ius in re aliena, sottende un metodo di lavoro e il ricorso a tecniche interpretative improntati a parametri che definirono il loro regime o contribuirono a
diversificarlo, in un approccio non dissimile da quello adottato dai
giureconsulti nello studio e nella sistemazione delle res 61.
Il deposito di queste ‘operazioni’ nei materiali assunti nella Compilazione giustinianea se, da un canto, contribuì a perpetuare la rappresentazione degli invecta et illata come un insieme di cose a se stante,
con una propria connotazione tecnico-giuridica, dall’altro, lasciò comunque traccia, per quanto esile, dei relativi, variegati svolgimenti.
3. Presente. – Volgendo lo sguardo al nostro ordinamento giuridico in vigore è lecito domandarsi: che cosa ne è stato degli ‘invecta
et illata’ del diritto romano?
60
Si ricordi l’accezione di ‘res’ che abbiamo richiamato sopra all’inizio del par. 1 e
nella nt. 5.
61
Cfr. Grosso 2001, 126 ss.; Solidoro 2017, 243 ss.
262
FEDERICA DE IULIIS
Mentre a volte l’accostamento di istituti dell’esperienza giuridica
romana, ricostruibili dalle fonti a noi pervenute, a norme dell’ordinamento giuridico vigente può dar luogo a ‘forzature’, se non ad arbitrarietà ermeneutiche in chiave di comparazione diacronica, nel caso
della garanzia reale di nostro interesse invece l’ascendenza romanistica
dell’assetto codicistico è pacificamente riconosciuta.
La risposta alla domanda, che ci siamo posti, relativa alla sorte degli invecta et illata è, infatti, da ricercare nella previsione del privilegio speciale mobiliare contemplato nell’art. 2764 cod. civ. 62, il quale
nel primo comma recita: «Il credito delle pigioni e dei fitti degli immobili ha privilegio … sopra tutto ciò che serve a fornire l’immobile
o a coltivare il fondo» 63.
La norma, che si compone di sette commi, costituisce una causa
legittima di prelazione (art. 2741, comma secondo, cod. civ.) 64 accordata dal legislatore a favore del locatore di immobili, sia urbani che
rustici, per i crediti vantati come corrispettivo (pigioni, fitti), ma anche per quanto dovuto dal conduttore per mancate riparazioni a suo
carico, per danni arrecati all’immobile e, più in generale, per «ogni altro credito dipendente da inadempimento del contratto» (art. 2764,
comma terzo, cod. civ.) 65.
62
La dottrina moderna e il legislatore del 1942 hanno inquadrato tale forma di garanzia in una categoria a parte, quella ‘Dei privilegi’, disciplinata, nell’ambito del VI Libro del Codice Civile, nel Capo II del Titolo III, rubricato ‘Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale’.
Cfr. Parente 2015, 1265 ss.
63
Esula dal nostro interesse il riferimento iniziale della norma che dispone la garanzia sui frutti dei fondi rustici affittati nei commi 2 e 4 dell’art. 2764 cod. civ.
64
Sul privilegio come «diritto di prelazione, attribuito dalla legge in ragione della
causa del credito» (art. 2745 cod. civ.), che comporta un effetto preferenziale per il creditore e una deroga al principio della par condicio creditorum attribuita secondo una valutazione della legge sui singoli crediti fondata su criteri socio-economici, si vedano
Terlizzi 2018, 187 ss.; Santise 2021, 1176 s.
65
Da questa ampia dizione si ricava che la funzione della garanzia è quella di assicurare al locatore l’adempimento di tutte le obbligazioni gravanti sul conduttore per effetto della conclusione del contratto di locazione-conduzione e vi si ricomprendono, ad
esempio, il credito derivante da ritardo nella riconsegna dell’immobile locato (art. 1591
cod. civ., Cass., Sez. III, 26 luglio 1974, n. 2257), il diritto di risarcimento del danno
da risoluzione del contratto, secondo Bianca 2012, 110; il credito per spese condominiali anticipate dal locatore rientranti nella corrispettività del rapporto di locazione, secondo la giurisprudenza di merito (Trib. Bergamo 10 gennaio 1995, ma contra Trib.
Milano 1° aprile 1974) cfr. Di Marzio - Falabella 2010, 1413; Salari 2022, 3684.
INVECTA ET ILLATA
263
La dottrina civilistica italiana ha costantemente ravvisato nel pignus sugli invecta et illata del diritto romano la radice storico-giuridica dell’attuale disciplina 66. Si è evidenziato, in particolare, che l’art.
2764 cod. civ. è il portato di una durevole tradizione basata sulle
fonti romane, in una materia considerata tra le più singolari e rilevanti, recepita negli statuti italiani e nel diritto comune e, soprattutto, elaborata nella dottrina francese dalla quale derivarono le previsioni del Code civil (nell’originario art. 2102) 67 e, tramite questo, il
disposto dell’art. 1958 cod. civ. del 1865, da cui attinse (salvo qualche minima variazione) il legislatore del 1942 68.
Nel disposto è possibile, in effetti, scorgere una corrispondenza
con il regime della remota garanzia pignoratizia di nostro interesse,
dato che il privilegio ex art. 2764 cod. civ. si articola – oltre che sul
medesimo presupposto riguardante la tipica causa del credito da locazione – su una particolare «categoria di beni» che ne formano oggetto, ancora oggi designata con il sintagma ‘invecta et illata’ 69, e sul
fatto che la loro presenza nell’immobile è indispensabile per l’esercizio del privilegio (art. 2764, comma settimo, cod. civ.).
Tuttavia, la qualifica e l’inquadramento legislativo nei privilegia 70,
che seguirono a un acceso confronto dottrinale 71, rende la causa di
prelazione dell’art. 2764 cod. civ. una forma di garanzia reale da tenere
distinta da pegno e ipoteca 72. Infatti, pur presentando gli elementi tipici delle garanzie reali (assolutezza, inerenza, indivisibilità), il privilegio, che ha origine legale e ‘informa di sé la causa del credito’ in virtù
della natura dello stesso, non viene in essere come diritto accessorio ad
un’obbligazione quale espressione di autonomia negoziale privata 73.
Tabet 1972, 452; Bianca 2012, 109 s.; Villanacci 2016, 351 s.
Sulla norma del Code Napoléon e successive versioni, fra cui l’art. 2332 n. 1 ss.,
v. il seguente link https://www.legifrance.gouv.fr/codes/article_lc/LEGIARTI00000
6445850.
68
Relazione al Codice n. 1131; Andrioli 1945, 182 s.
69
Si vedano Parente 2015, 1275; Villanacci 2016, 321, nt. 2.
70
Cfr. sopra, nt. 62.
71
Si dibatteva in particolare sulla qualificazione di ipoteca privilegiata e di pegno
tacito, si vedano Chironi 1894, 246 ss.; Villanacci 2016, 322 e ntt. 6 s.
72
Per una visione d’insieme Fragali 1969, 456 ss.
73
Cfr. Torrente - Schlesinger 2011, 447; Santise 2021, 1177, il quale ricorda
quanto puntualizzato di recente dal Consiglio di Stato sulla natura dei privilegi: Cons.
Stato, Ad. Plen., 25 settembre 2013, n. 21; inoltre, Caputo - Caputo 2017, 3, nt. 3,
66
67
264
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Occorre, inoltre, tener presente che, nel più evoluto contesto socio-economico industriale, il legislatore ha confinato l’istituto in posizione secondaria nell’ordine di priorità dei crediti assistiti da privilegio mobiliare, assegnandolo precisamente al sedicesimo grado (art.
2778, n. 16, cod. civ.) 74. Cionondimeno, la identificazione dell’insieme di cose introdotte nell’immobile, che «determina l’area di operatività del privilegio del locatore sul piano oggettivo» 75, è avvertita
come «la questione di maggior rilievo, per quanto riguarda i profili
applicativi della disposizione» 76. Si comprende pertanto come sulla
stessa si sia appuntata l’attenzione e della dottrina e della giurisprudenza chiamate a vagliare svariate questioni che – ‘oggi come allora’ –
ruotano attorno ai mobili assoggettati in garanzia a tutela delle locazioni immobiliari 77.
Quale significato assegnare, dunque, alla dizione dell’art 2764,
comma primo, cod. civ.: «tutto ciò che serve a fornire l’immobile o a
coltivare il fondo locato» 78 che, chiaramente, non si riferisce in maniera indiscriminata a tutti i beni mobili che vi si trovano?
La ratio del privilegio, ricondotta all’indomani della promulgazione del Codice civile al vincolo di inerenza economica tra il godi-
precisano quale caratteristica dei privilegi il fatto di poter essere «occulti, cioè non
soggetti ad alcuna forma di pubblicità».
74
Si consideri che, in rapporto alle procedure concorsuali, alcune pronunce della
Suprema Corte hanno definito il perimetro di applicazione dell’art. 2764 cod. civ. In
particolare, in tema di ammissione al passivo fallimentare di crediti assistiti da privilegio ai sensi dell’art. 2764 cod. civ., la mancata indicazione dei beni vincolati all’uso del
fondo locato non rileva, posto che la verifica della loro esistenza, attenendo all’ambito
dell’accertamento dei limiti di esercitabilità della prelazione, è demandata alla fase del
riparto (Cass., Sez. I, 21 giugno 2012, n. 10387); diversamente, nel caso di concordato
preventivo, che prevede l’intera soddisfazione dei crediti privilegiati, anche qualora il
bene gravato di privilegio speciale sia assente, a meno che sia avanzata proposta, all’esito della stima (ex art. 160, comma 3, l. fall. novellato nell’art. 2, d.lgs. 12 gennaio
2019, n. 14 Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), di limitare la soddisfazione
dei creditori privilegiati a una parte del loro credito, che troverebbe capienza in caso di
liquidazione del bene gravato (Cass., Sez. I, 6 novembre 2013, n. 24970; Cass., Sez. I,
18 giugno 2020, n. 11882), cfr. Salari 2022, 3684.
75
Villanacci 2016, 321, nt. 2.
76
Di Marzio - Falabella 2010, 1414.
77
Trib. Milano 20 maggio 2011, n. 6901; Cass., Sez. I, 21 giugno 2012, n. 10387;
Cass., Sez. I, 6 novembre 2013, n. 24970.
78
Il legislatore ribadisce tale oggetto della prelazione nei commi 5, 6 e 7 dell’art.
2764 cod. civ.
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265
mento dell’immobile e il corrispettivo dovuto, ha finito per riflettersi
sulla definizione di ciò che ne costituisce oggetto 79. Il criterio generalmente accolto è stato chiarito anche tramite l’apporto della giurisprudenza e risulta fissato come segue, in una sentenza che costituisce
tuttora un saldo punto di riferimento al riguardo:
Cass., Sez. III, 26 luglio 1974, n. 2257: «L’esistenza del privilegio
speciale, previsto dall’art. 2764 c.c. a favore del locatore sulle cose
che servono a fornire l’immobile, è collegata ad un rapporto di
funzionalità e di inerenza economica fra tali cose e l’immobile locato e, cioè, ad un vincolo di destinazione obiettiva delle cose
stesse alle finalità economico-sociali (ed anche di comodo) dell’uso per il quale l’immobile è stato preso in locazione».
Interessante per noi è registrare come risulta declinato tale parametro, che la Suprema Corte ha reso esplicito alla luce anche di precedenti orientamenti giurisprudenziali e sviluppi dottrinali 80, ai fini
dell’identificazione della categoria degli invecta et illata oggetto del
privilegio.
Secondo un’interpretazione consolidata, dunque, si considerano
gravati ex art. 2764 cod. civ. i beni mobili vincolati al fondo perché
stabilmente e direttamente finalizzati a consentirne l’utilizzo per cui è
stato preso in conduzione. Questo rapporto strumentale di destinazione presuppone un’immissione di fatto, tale da determinare in concreto l’assoggettamento della cosa al servizio dell’immobile locato,
senza che sia necessario alcun atto formale e intenzionale del conduttore, e purché questa permanga in loco.
Come non si è mancato di rilevare, il «requisito finalistico-teleologico» 81 su cui si impernia il privilegio speciale dell’art. 2764 cod.
civ. comporta l’effettività della destinazione dei beni al servizio dell’immobile, la quale, tuttavia, non coincide con la permanenza necessariamente continuativa nello stesso. Infatti, se allontanati temporaneamente questi non cesseranno di essere vincolati; per converso, la
presenza occasionale di una cosa nel fondo, essendo priva della stabile
Andrioli 1945, 182.
Cfr. Bernini 1994, 255 ss.
81
Villanacci 2016, 328.
79
80
266
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destinazione indicata, ne esclude l’ascrivibilità al novero dei beni in
privilegio 82.
Estratto dalla realtà dei rapporti giuridici incentrati sugli ‘invecta
et illata’, tale criterio si presenta particolarmente significativo, dal nostro punto di vista, poiché si rivela in linea con il processo ermeneutico messo in atto dai giuristi romani che lo avevano già consapevolmente individuato ed esplicitato elevandolo a regola nel regime del
pegno a garanzia degli affitti, come provano, in particolare, le affermazioni di Pomponio e di Q. Cervidio Scevola, che abbiamo visto
poi cristallizzate nei Digesta giustinianei (D. 20.1.32 e D. 20.2.7.1).
La base razionale del principio, in effetti, restituisce l’essenza
stessa della categorizzazione delle ‘cose portate nel fondo’. Pertanto,
nonostante le profonde trasformazioni che si sono avvicendate nei secoli 83, la destinazione concreta dei beni agli usi dell’immobile locato
rappresenta un fatto idoneo nel diritto vivente ad affrontare l’attualità
di questioni giuridiche complesse stante anche il meccanismo legale
di assoggettamento al privilegio speciale 84.
Nel rispetto del discrimen fissato dal legislatore fra locazione di un
fondo rustico o urbano, interessanti si presentano le elencazioni dei
beni da ascrivere all’uno o all’altro rapporto contrattuale, riconosciute
e, all’occorrenza, precisate anche grazie al criterio suddetto, in relazione a fattispecie sottoposte al vaglio della giustizia di merito e di legittimità all’atto dell’applicazione dell’art. 2764 cod. civ.
Pertanto, in caso di affitto saranno assoggettati al privilegio i mobili assegnati alla coltivazione del fondo, che servano a fornirlo e a incrementarne lo sfruttamento «purché sussista un rapporto di obiettiva
82
Si pensi ad attrezzi da lavoro dislocati presso un’officina per la riparazione o ad
animali da lavoro ricoverati in una stalla situata in un fondo non vicino, Andrioli
1945, 188; Bianca 2012, 110 s.; Villanacci 2016, 328. Altresì in quest’ordine di idee
la giurisprudenza, Franzoni - Rolli 2018, 4448.
83
Proprio in occasione dello studio dell’evoluzione diacronica del pignus rilevava
Maroi 1927, 54: «il passato non di rado, di fronte alle più moderne esigenze della vita,
ispira riforme che sembrano audaci, ma che, a ben riguardarne l’essenza, non costituiscono altro che dei monotoni ritorni».
84
Indicativa a quest’ultimo proposito è una recente sentenza della Suprema Corte
(Cass., Sez. I, 16 giugno 2021, n. 17220) che ha ribadito l’esclusione del privilegio riguardo a un impianto fotovoltaico quale bene immobile locato, che ontologicamente
non consta di altri beni atti «a fornire l’immobile o a coltivare il fondo» ai sensi dell’art.
2764 cod. civ., sui quali esercitare la prelazione.
INVECTA ET ILLATA
267
inerenza agraria» 85: si pensi a utensili da lavoro, macchine agricole,
bestiame e ogni altro strumento necessario alla gestione produttiva 86.
L’individuazione dei beni sottoposti a garanzia delle locazioni urbane risulta, invece, diversamente articolata in quanto le utilità e comodità in funzione delle quali essi sono introdotti variano a seconda
della destinazione d’uso dell’immobile locato. Si comprende, dunque,
che se tale uso è di abitazione faranno parte del privilegio i mobili
d’arredamento della casa, le apparecchiature domestiche compresi gli
elettrodomestici, gli utensili e ciò che non sia impignorabile per
legge.
Ma se lo stabile sia dato in locazione per svolgervi un’attività redditizia il privilegio si eserciterà in caso di uso commerciale anche sulle
merci destinate alla vendita e su quanto fa parte del complesso aziendale ed è presente nell’immobile nel momento in cui il privilegio è
fatto valere 87; in caso di immobile adibito a studi professionali, uffici,
botteghe fra i mobili gravati rientreranno anche le macchine da ufficio 88; se, infine, lo stabile sia adoperato per un’attività industriale ricadranno sotto il privilegio macchinari, arnesi, scorte di materie
prime e manufatti nonché impianti asportabili.
L’identificazione dei beni oggetto del privilegio si completa considerando gli aspetti essenziali della posizione giuridica inerente agli
stessi spettante al creditore privilegiato stante l’art. 2764 cod. civ. Posto che il privilegio speciale è fonte di un diritto reale di garanzia 89,
l’ordinamento richiede che le cose al servizio dell’immobile siano ivi
presenti per l’esercizio in concreto della prelazione da parte del locatore. Tale regola connota il privilegio come «quasi possessuale» 90 e
comporta non solo che il credito privilegiato possa essere fatto valere
con diritto di precedenza sulle cose che si trovano nei locali oggetto
Parente 2015, 1275.
Cass., Sez. III, 27 marzo 1995, n. 3599.
87
Cass., Sez. III, 26 luglio 1974, n. 2257. Secondo Cass., Sez. I, 13 giugno 1990,
n. 5772, restano esclusi i crediti derivanti da locazioni aventi ad oggetto esclusivo mobili e altresì il canone del contratto d’affitto d’azienda, anche se nel complesso aziendale
affittato siano eventualmente compresi beni immobili.
88
Tabet 1972, 453; Di Marzio - Falabella 2010, 1414.
89
Torrente - Schlesinger 2011, 444.
90
Villanacci 2016, 323. I privilegi speciali quasi possessuali si fondano sul cd.
criterio di localizzazione, infatti, la loro «efficacia è subordinata alla condizione che la
cosa si trovi in un determinato luogo», Parente 2001, 50.
85
86
268
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del contratto di locazione nel momento in cui si innesta l’esecuzione,
ma anche la facoltà di chiedere il sequestro conservativo in due ipotesi tassativamente previste dalla legge. La ratio del disposto mira, infatti, ad evitare che venga meno la situazione di fatto cui si connette
il potere del locatore e implica l’estinzione del privilegio se i beni,
seppure esistenti, non si trovino nel fondo in quanto venduti o irreperibili. La misura cautelare si può quindi richiedere in due tipiche
situazioni di pericolo riguardanti l’integrità del privilegio.
Il rimedio del sequestro di cui all’art. 2769 cod. civ., in diretta
connessione con il requisito della permanenza dei beni nell’immobile,
può essere invocato dal locatore (che, mancando il possesso, non ha il
diritto di ritenzione) in presenza di uno specifico periculum in mora
consistente in fondati motivi che fanno temere la rimozione delle
cose gravate da privilegio dallo spazio locato ove i beni esplicano il
concreto e specifico uso (agricolo, abitativo, commerciale, industriale) al quale sono stati deputati. In questo caso, secondo alcuni
autori, il carattere sui generis della misura cautelare risiede anche nel
fatto che non si richiede la morosità del conduttore 91.
L’istanza di sequestro, inoltre, è ammessa nell’ultimo comma dell’art. 2764 cod. civ. ad asportazione dal fondo locato già realizzata, se
il locatore non vi abbia acconsentito e a condizione che sia avanzata
nei termini di decadenza di trenta giorni dalla rimozione per i beni a
servizio del fondo rustico e di quindici giorni per i beni che servono
a fornire la casa 92. Il cd. ius sequelae, nell’eventualità in cui la cosa non
si trovi nel luogo di destinazione, rende opponibile il privilegio ai
terzi in buona fede al fine di evitare che questi possano acquistare diritti reali in danno della prelazione 93; opera comunque un limite nel
91
Bernini 1994. Secondo la giurisprudenza di merito, Trib. Messina 3 marzo
2008, che si è pronunciata a proposito dell’istanza della misura cautelare riguardante i
mobili d’arredamento dopo la convalida di sfratto dall’immobile locato, il sequestro
conservativo ex art. 2769 cod. civ. è atipico perché la norma non solo non richiede un
credito attuale, ma nemmeno il pericolo per il creditore di perdere la generica garanzia
patrimoniale del debitore.
92
Ad ogni modo, se il locatore sia già in possesso di un titolo esecutivo per il soddisfacimento dei suoi crediti assistiti da privilegio non è necessario far ricorso al sequestro previsto dall’art. 2764 cod. civ. potendosi realizzare i medesimi fini mediante il pignoramento, secondo l’orientamento della Suprema Corte in Bernini 1994.
93
V. Villanacci 2016, 335, nt. 71 (Cass., Sez. III, 13 agosto 1965, n. 1946).
INVECTA ET ILLATA
269
caso in cui i terzi avessero acquistato il bene dopo la rimozione ignorando l’esistenza del vincolo reale di cui era gravato.
Anche da questo breve excursus riguardante la sistemazione legislativa e le soluzioni applicative dell’art. 2764 cod. civ. risulta che l’attuale privilegio speciale mobiliare costituisce storicamente un epigono
dell’antico pignus degli invecta et illata. L’elaborazione plurisecolare
che ha posto al centro della garanzia delle locazioni fondiarie le cose
identificate in rapporto alla funzione di stabile destinazione che assumono rispetto al godimento dell’immobile locato conferma l’obiettiva identità giuridica dell’oggetto del privilegio speciale dell’art. 2764
cod. civ. e la relativa qualificazione come «categoria di beni» 94.
4. Futuro. – Infine, qualche considerazione sul futuro degli ‘invecta et illata’ partendo dalla constatazione che, nell’attuale temperie,
le condizioni di vita dei singoli e le loro interazioni trovano espressione in un mondo plasmato ormai dalla cd. «pervasività digitale» 95.
In particolare, per quanto riguarda gli istituti civilistici le istanze
di aggiornamento provenienti dagli slanci evolutivi dell’economia
moderna e dell’innovazione tecnologica hanno determinato anche in
Italia un significativo fenomeno di rivisitazione dell’impianto delle
garanzie reali. In proposito, dottrina e giurisprudenza continuano a
svolgere un ruolo chiave nell’interpretazione delle norme giuridiche,
delineandone possibili proiezioni applicative, alla luce della ratio e
della funzione degli istituti rispetto all’effettiva pratica negoziale 96.
In questa prospettiva si comprende come il rilievo economico-sociale assunto dal moltiplicarsi di entità e risorse immateriali, parallelamente al processo di modernizzazione dei modelli di gestione del94
Così Villanacci 2016, 321, nt. 2, secondo l’espressione ricorrente in dottrina;
parla di: «categoria delle cose invecta et illata oggetto del privilegio» Parente 2015,
1275.
95
Casadei - Pietropaoli 2021, XI. Si trova immediato riscontro di tale fenomeno
e dell’impatto, in particolare, che genera sul mondo del diritto consultando il sito del
network legale internazionale www.cyberlaws.it aggiornato costantemente in merito alla
normativa e agli orientamenti specialistici che incidono sui molteplici ambiti (che
vanno, per esempio, dall’intelligenza artificiale al cyber crime, dai diritti umani alla proprietà intellettuale) interessati dalle nuove tecnologie (riconducibili a internet, tecnologie emergenti e fenomeni digitali più recenti).
96
Cfr. Sanise 2021, 1175 ss.; Battelli 2021, 1 ss., 152, 452 s.
270
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l’impresa, abbia imposto di prendere in considerazione, anche a livello legislativo, nella materia delle garanzie mobiliari ‘beni non corporali’ come oggetto di diritti 97.
Focalizzando la nostra attenzione sulle locazioni fondiarie e sulle
acquisizioni riguardanti l’ambito dei beni da considerare vincolati in
garanzia, è lecito domandarsi se il privilegio speciale ex art. 2764 cod.
civ. possa incidere anche su entità ‘non tangibili’, suscettibili di valutazione economica, quale patrimonio virtuale che, come prevede la
norma al primo comma, «serve a fornire l’immobile».
La questione non risulta essere stata oggetto di attenzione da
parte delle Corti giudicanti, tuttavia è lecito avanzarla in ragione dell’impiego di beni che sono in genere indispensabili alla gestione produttiva di un’impresa ma, con l’avvento della tecnologia digitale, tendono alla dematerializzazione e ad essere svincolati dal supporto fisico. La questione ha per noi interesse qualora l’impresa che si avvalga
di beni ‘non tangibili’ abbia la propria sede all’interno di un immobile locato o anche questi siano il prodotto della relativa attività. Si
può pensare, ad esempio, all’utilizzo di software, di uno stabile dominio internet, di archivi informatici, di un indirizzo IP e di un server
virtuale in titolarità di chi svolge l’attività imprenditoriale 98. L’osservazione dell’attuale panorama delle modalità di produzione e circolazione di informazioni e contenuti creativi dimostra l’inarrestabilità
del fenomeno.
Riteniamo, dunque, che la questione non sia estranea al privilegio
speciale mobiliare sotto la nostra lente, considerato, fra l’altro, che il
97
In proposito Camardi 2018, 1008, ribadisce che «beni giuridici» sono «le risorse
– cose o entità – sulle quali si appunta il processo normativo di qualificazione e di attribuzione», materiali o immateriali che siano, all’a. si rinvia (pp. 955 ss.) per l’inquadramento del problema della «disciplina applicabile a risorse, entità, situazioni ‘nuove’
che si affacciano in relazione ad assetti di interessi inediti ed in forme a loro volta inconsuete». Per un excursus in diacronia sulla riflessione della scienza giuridica in merito
alla categoria dei beni immateriali: cfr. Pugliese 1982, 1137 ss.; Gambaro 2009; si segnala la incongruità tra le categorie romana e moderna per cui, nell’una, le res incorporales hanno consistenza di ‘diritti’ (elementi del patrimonio), in quella moderna di ‘cose
oggetto di diritto’, v. Turelli 2012, 1 ss.
98
Per la regolamentazione delle attività che involgono strumenti informatici, attinenti al diritto dell’informatica, in particolare per la tutela del software e dei nomi a
dominio: cfr. Farina 2019, 1 ss., 191 ss.; indicativo ai fini delle nostre valutazioni si
presenta il dibattito sul pignoramento dei nomi a dominio, per una sintesi del quale si
rinvia www.svslex.it/nuove-frontiere-la-pignorabilita-dei-nomi-a-dominio/
INVECTA ET ILLATA
271
legislatore nell’introdurre nell’ordinamento italiano una nuova figura
di garanzia reale, il cd. ‘pegno mobiliare non possessorio’ 99 collegato
all’esercizio dell’attività d’impresa, ha espressamente contemplato i
‘beni immateriali’ come possibile oggetto della stessa 100. Segno che
per un istituto tradizionalmente ancorato al dato materiale del possesso come il pegno (artt. 2784 ss. cod. civ.) 101 si è accolta, invece, l’idea dell’assenza dell’aspetto strutturale della traditio al pignoratario
non solo in ordine a entità tangibili, ma anche rispetto ai ‘nuovi beni’
che ontologicamente sono connotati dalla ‘non corporeità’ e sui quali
sempre più si imperniano le realtà socio-economiche.
A tale proposito, se la ‘quasi possessualità’ del privilegio speciale
mobiliare delle locazioni prevede ab origine la conservazione della disponibilità degli invecta et illata da parte del conduttore nel diritto
antico di Roma così come in quello odierno, è soprattutto il vincolo
‘finalistico-teleologico’ stabilmente impresso agli stessi, ormai assunto
come preminente connotazione delle cose in garanzia sulla base della
già ricordata sentenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. III, 26
luglio 1974, n. 2257), a ingenerare la nostra riflessione.
Ponendoci dunque nell’ottica di ricercare regole operative e tralasciando profili di ordine prettamente dogmatico e concettuale, la
strumentazione tecnico-informatica e digitale appartenente al conduttore, ‘pensata’ eminentemente dal punto di vista funzionale «dell’uso per il quale l’immobile è stato preso in locazione» (Cass., Sez.
III, 26 luglio 1974, n. 2257) 102, potrebbe ricadere nelle previsioni
dell’art. 2764 cod. civ.
D’altronde, tramite apposita regolamentazione e mezzi informatici che vengono all’uopo impiegati, le risorse telematiche sono individuabili e, pertanto, anche rintracciabili; altro è il problema se, a tuD.l. 3 maggio 2016, n. 59, poi convertito in l. 30 giugno 2016, n. 119.
Art. 1, comma 2, l. 30 giugno 2016, n. 119: «il pegno non possessorio può essere costituito su beni mobili, anche immateriali, destinati all’esercizio dell’impresa …
». Cfr. Sanise 2021, 1189 ss.; e lo studio monografico sul pegno di beni immateriali di
Battelli 2021.
101
L’art. 2786 cod. civ. prevede la consegna al titolare del pegno «della cosa o del
documento, che conferisce l’esclusiva disponibilità della cosa». Sul regime del pegno nel
Codice Civile italiano e relativa bibliografia v. Battelli 2021, 27 ss., 27, nt. 9, 32 ss.
102
Per cui l’assoggettamento al privilegio dipende, secondo la stessa pronuncia
della Cassazione, da un «vincolo di destinazione obiettiva delle cose stesse alle finalità
economico-sociali … dell’uso per il quale l’immobile è stato preso in locazione».
99
100
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FEDERICA DE IULIIS
tela dell’interesse del locatore, quindi in ambito privatistico, i beni
immateriali possano diventare all’occorrenza oggetto di ‘sequestro’ 103.
In definitiva, la precisa identità giuridica delle cose sottoposte al
privilegio ancorata alla loro effettiva destinazione d’uso implica potenzialità applicative dell’art. 2764 cod. civ. più duttili che, in via di
ipotesi astratta e con le dovute cautele, non ci sembrano precludere in
futuro, a fronte del costante progresso tecnologico, la possibilità di ricomprendere nella medesima disciplina normativa anche i beni immateriali.
5. Conclusioni. – Dall’indagine che si è snodata partendo dalla
questione iniziale del senso che gli invecta et illata assumono al cospetto delle costruzioni tassonomiche delle res sviluppate dai giuristi
romani, alle quali paiono d’acchito estranei, è derivata la convinzione
che i iuris consulti maturarono una precoce consapevolezza della giuridica rilevanza di alcune specifiche res oggetto di un peculiare pignus
diffuso in origine nella prassi delle contrattazioni agrarie. La disciplina che si dipanò progressivamente attorno alle ‘cose introdotte’
come pegni nel contesto delle locazioni immobiliari ne comportò una
tipizzazione che si tradusse nell’accorpamento delle stesse in una categoria concettuale dai contorni definiti, il cui indice è la stessa denominazione collettiva rimasta a connotarla nell’arco storico plurisecolare del diritto romano e che la connota ancora oggi, nel presente.
La prospettiva in cui si mosse, dunque, la scientia iuris, alla luce della
visione d’insieme delle risultanze frammentarie delle fonti, ci pare assimilabile al processo di astrazione logica adottato nello studio e nella
103
Il problema è già stato affrontato a proposito, per esempio, della prova informatica e del sequestro probatorio in ambito penalistico: v. Monti 2020, 955 ss. Come
spunto di riflessione ricordiamo che nel mese di maggio del 2022 nell’ambito di indagini per il reato di bancarotta fraudolenta è stato disposto il sequestro di beni immateriali – dominio internet, archivio informativo, indirizzo IP e server virtuale – di una società esercente attività di concessionaria di pubblicità, fallita nel 2020, costituenti patrimonio virtuale della stessa per un valore di duecentomila euro. Le operazioni di
distrazione di tutte le immobilizzazioni immateriali costituenti l’attivo dalla massa fallimentare erano state compiute in violazione degli artt. 223, comma 1, 216, comma 1,
n. 1, della legge fallimentare causando un grave danno ai creditori (www.bellunopress.it/2022/05/05/ bancarotta-fraudolenta-sequestrati-beni-per-oltre-200mila-euroad-una-concessionaria-di-pubblicita-di-rovigo/).
INVECTA ET ILLATA
273
sistemazione delle res individuate come oggetto di rapporti giuridici
nelle dinamiche proprie del metodo casistico-giurisprudenziale 104.
Il ruolo delle acquisizioni riguardanti gli ‘invecta et illata’ accolte
nel nostro ordinamento non riteniamo si sia esaurito, al contrario. La
centralità di soluzioni inerenti alle ‘cose portate’ che i giuristi romani
seppero cogliere nell’essenza del fenomeno della garanzia reale che le
riguardò 105 – prima fra tutte la qualificazione di tali res rapportata alla
relazione di funzionalità anche economica rispetto al cespite locato,
tradottasi nel regime giuridico proprio che le rese a pieno titolo giuridicamente ‘res’ –, riaffiorante nel dato legislativo e applicativo del privilegio speciale mobiliare, si presta a rappresentare la chiave di volta
interpretativa di situazioni nuove plasmate dall’innovazione tecnologica e digitale, indicando la via per futuri sviluppi della disciplina.
Per concludere, ci piace ricordare le parole di elogio che furono
rivolte, nella recensione dedicata ne L’Eco dei Tribunali del 26 febbraio 1856 alla dissertazione di laurea che Antonio Pertile aveva pubblicato a Venezia nell’anno precedente proprio sul tema: Del pegno legale sugli ‘illata et invecta’ 106. Infatti, a noi pare che queste condensino
lo spirito con cui ci siamo accostati alla riflessione dedicata ad ‘A New
Role for Roman Taxonomies in the Future of Goods’ e, nondimeno, possano rinsaldare le motivazioni e i propositi alla base dei nostri studi:
«La ragione spazia più libera nei campi della scienza, qualora sappia
farsi forte del ricco patrimonio, lasciatoci dai nostri padri» 107.
104
A proposito del ruolo dell’interpretazione casistica nell’elaborazione di un sistema scientifico che considera la pratica, si vedano le considerazioni di Vacca 2017b,
265 ss.
105
In consonanza, riteniamo, con il carattere dell’«intervento della scienza giuridica», che Cannata 1997, 15, così definisce: «Essa è conoscenza del fenomeno giuridico
in se stesso, e quindi apprezzamento del suo modo di essere in funzione dei suoi scopi».
106
Per un profilo biografico dell’eminente studioso, storico del diritto e accademico dell’Ateneo patavino: cfr. di Renzo Villata 2012, 63 ss.
107
Deodati - Zajotti 1856, 54 ss. non mancarono di rilevare come l’autore si
fosse accinto a trattare uno «spinoso e difficile punto del diritto romano» dimostrando
la capacità di «legare il presente col passato, e spiegar meglio quello col soccorso di questo». E in effetti, la ricerca che fu dedicata dal Pertile agli oggetti invecta et illata vincolati in garanzia, quindi all’estensione oggettiva del relativo diritto di pegno sui generis, spazia in vastissimi ambiti cronologici e geografici: dal diritto romano al germanico,
dallo statutario al Code Napoléon e all’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB), oltre
che al codice prussiano, sino agli ultimi sviluppi ottocenteschi del diritto austriaco, con
l’intento di rilevare l’opportunità o l’inopportunità di certe scelte legislative rispetto alle
concrete esigenze del rapporto locatore-conduttore, v. Pertile 1855, 49 ss.
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Paolo Costa
PECUNIA E RES.
LA POSTA IN GIOCO ERMENEUTICA
DI UN’IMPASSE SEMANTICA (A PARTIRE DA C. 4.18.2) *
«Das Geld, indem es die Eigenschaft besitzt, alles zu kaufen,
… ist also der Gegenstand im eminenten Besitz».
K. Marx, Ökonomisch-Philosophische Manuskripte, Berlin, 1844, n. 563.
1. Premessa. – La nozione di denaro, il suo rapporto con la moneta e la sua espressione nella materialità fisica di uno strumento di
pagamento circolante rappresentano campi di riflessione giuridica di
grande attualità. La recente collocazione normativa fra i mezzi di
scambio e fra le unità contabili non solo della cd. moneta elettronica
(art. 1, comma 2, lett. h-ter TUB; art. 2, par. 2, direttiva 2009/
110/CE), che è rappresentazione digitale di moneta realmente circolante, ma anche della cd. valuta virtuale o criptovaluta (art. 1, comma
2, d.lgs. n. 231/2007, modificato dal d.lgs. n. 90/2017; cfr. anche
d.lgs. n. 125/2019 1), del tutto dematerializzata e priva di corso legale,
*
Ringrazio i professori Mariagrazia Bianchini, James Caimi e Marco P. Pavese e il
dottor Riccardo Costa per i loro consigli nell’elaborazione di questo contributo.
1
Il d.lgs. n. 125/2019 recepisce la V direttiva antiriciclaggio (UE) 2018/843, che
definisce la ‘valuta virtuale’ «una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o
garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a
una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma
è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente». Il d.lgs. n. 125/2019 non accoglie tale
definizione lasciando aperti i problemi di inquadramento di questo mezzo di scambio;
cfr. Deotto - Zanardi 2018, 20 ss.; Befani 2019, 381 ss.; Carbone 2019, 55 ss.;
Bixio 2021, 104 ss. (ove bibliografia).
282
PAOLO COSTA
ha comportato, quanto all’impiego, la coincidenza di quest’ultima
con il ‘denaro’ lato sensu inteso. Conferma di questo indirizzo si ha
dal recentissimo d.m. del 13 gennaio 2022, che dispone che i prestatori di servizi relativi all’uso di valute virtuali e i prestatori di servizi
di portafoglio digitale siano tenuti a effettuare le stesse comunicazioni
al Ministero dell’Economia e delle Finanze della loro operatività sul
territorio nazionale previste per l’attività di cambiavalute dall’art. 17bis, comma 8-ter, d.lgs. n. 141/2010.
Queste innovazioni normative interrogano il giurista: quale relazione s’istituisce fra una valuta generata mediante un algoritmo (incapace di esprimere un valore intrinseco finanche indiretto) 2 e una
res, quale in fondo resta la ‘moneta’, anche quando attestante solo un
valore nominale? S’appalesa ictu oculi il valore ampio e polisemico di
uno dei vocaboli d’impiego più comune, ma dalla più ardua intelligibilità economica e giuridica, il ‘denaro’ appunto. Sono, infatti, notevoli le difficoltà d’inquadramento normativo, giurisprudenziale e tributario delle citate criptovalute, le quali, pur prive di valore legale,
non emesse da banche centrali né regolate da enti governativi, sono
assimilate, dall’Agenzia delle entrate e dalla giurisprudenza amministrativa, alle valute ‘tradizionali’ ai fini del monitoraggio fiscale (cfr.
T.A.R. Lazio 27 gennaio 2020, n. 1077) 3.
Dunque, nella pratica contemporanea degli affari, delle transazioni commerciali e del mercato mobiliare, l’impiego di lessemi come
‘denaro’ o ‘moneta’ – significativamente non definiti in modo generale nel nostro ordinamento 4 – induce la necessità di puntualizzazioni
normative e giurisprudenziali, dacché il loro valore semantico ha acquisito, in specie negli ultimi anni, una latitudine così ampia da renderne ostica la cognizione. Tale fatica identificatoria è dovuta principalmente agli usi metonimici di questi lessemi 5, usi originati da un
Cfr. Krogh 2018, 161; Befani 2019, 389 ss.
Cfr. Marvulli 2020.
4
Cfr. Ascarelli 1928, 1952; Stammati 1976.
5
Sulla metonimia, sulla sua distinzione dall’altro tropo per molti aspetti analogo
della sineddoche e sui criteri per l’identificazione, cfr. Littlemore 2015, 123 ss. Nel
nostro caso la metonimia si riconosce per contiguità e interdipendenza semantica fra il
significato di base del lessema ‘denaro’ nel contesto linguistico contemporaneo e quello
più esteso assunto – per ‘spostamento di limite semantico’– nei contesti giuridici in
esame; cfr. anche Coulson - Oakley 2003.
2
3
PECUNIA E RES
283
processo di dematerializzazione del referente linguistico cui i segni testuali rinviano. Il ‘denaro’ ha perso così un’ontologia percepibile nel
mondo delle cose fisiche, divenendo immateriale. D’altronde, è a
tutti chiaro che il denaro non esiste nel mondo della natura e rappresenta una creazione dell’ordinamento giuridico, come appuntava
Knapp nell’incipit del suo pionieristico studio sulla teoria cartalista
della moneta: «Das Geld ist ein Geschöpf des Rechtsordnungs» 6.
Nondimeno, un’astrazione così radicale, come quella implicata dalle
criptovalute, espone a notevoli tensioni ordinamentali.
Non intendo comunque affrontare, in questa sede, né i profili di
problematicità di una posizione tanto ‘statalista’ come quella di
Knapp, che incontrò, ad esempio, le critiche di Schumpeter 7, né approfondire i problemi legati alla digitalizzazione dei valori monetari,
ma il mio obiettivo è verificare, in prospettiva storico-giuridica, come
questioni per molti aspetti analoghe su cosa s’intenda quando si parla
di ‘denaro’, si riscontrino nell’esperienza giuridica romana. Un rimarchevole test case, legato a un negozio (la pecunia constituta) che reca
già nel nome il riferimento al ‘denaro’ 8 mi pare esemplare. Si porrà in
rilievo quanto sia necessaria, trattando di temi in cui s’intrecciano
profili linguistici e giuridici, una prospettiva ermeneutica consapevole
dell’incidenza, nell’interpretazione giuridica, anche di questioni fondamentali delle scienze del linguaggio, in particolare dei rapporti fra
etimologia, semantica e pragmatica.
2. Giustiniano e la pecunia: la retorica legislativa rivela l’impasse semantica. – L’accesso al tema è dato dall’esame di alcuni passaggi di
una costituzione di Giustiniano (C. 4.18.2) 9, emanata il 20 febbraio
531 10, durante la questura di Triboniano, e rivolta al prefetto al preKnapp 1923, 1.
Cfr. Schumpeter 1970.
8
Per un recente inquadramento generale sul tema del denaro nel diritto romano
classico, cfr. D’Alessio 2018 (ove fonti e bibliografia). Sulla funzione e l’origine della
moneta nel mondo romano, anche in relazione al pensiero greco, cfr. Marotta 2012.
9
Sul provvedimento si vedano Astuti 1941, 281 ss.; Frezza 1962, 277 ss.; Archi
1962; Luchetti 1991-1992, 470 e nt. 57 (ove altra bibliografia); La Rosa 1997a;
Fasolino 2000; Cerami - Petrucci 2010, 143 ss.; Mattioli 2019, 32 ss.; Pedone
2020, 109 ss.; Bolte 2020, 368 ss.
10
In data 20 febbraio 531 fu promulgato un gruppo di sedici (o diciassette) costi6
7
284
PAOLO COSTA
torio Giuliano 11, con cui si abolisce l’actio recepticia – per evitarne
l’astrattezza come afferma la costituzione stessa – riconducendone la
disciplina entro la cornice (contestualmente ampliata) dell’actio de pecunia constituta 12. Il provvedimento – rientrante probabilmente fra le
constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes 13 – mi pare di
peculiare rilievo perché contiene un’ampia annotazione di tipo semantico (l’unica sulla pecunia nel Codex Iustinianus), con conseguenze giuridiche, cui seguono alcune puntualizzazioni cesellate con
il ricorso a precise figure retoriche. Riporto le parti di maggiore interesse:
Imp. Iustinianus A. Iuliano pp. C. 4.18.2.1: Recepticia actione cessante … necessarium nobis visum est magis pecuniae constitutae naturam ampliare. Cum igitur praefata actio, id est pecuniae constitutae, in his tantummodo a veteribus conclusa est, ut exigeret res quae
in pondere numero mensura sunt, in aliis autem rebus nullam haberet communionem … hac apertissima lege definimus, ut liceat omnibus constituere non solum res quae pondere numero mensura sunt,
sed etiam alias omnes sive mobiles sive immobiles sive se moventes
sive instrumenta vel alias quascumque res, quas in stipulationem possunt homines deducere … Et neminem moveat, quod sub nomine pecuniae etiam omnes res exigi definimus, cum et in antiquis libris
prudentium, licet pecunia constituta nominabatur, tamen non pecuniae tantum per eam exigebantur, sed omnes res quae pondere numero mensura constitutae sunt. Sed et possibile est omnes res in pecuniam converti. Si enim certa domus vel certus ager vel certus homo
vel alia res quae expressa est in constituendis rebus ponatur, quid dituzioni, cui appartiene C. 4.18.2; sul punto, cfr. Di Maria 2010, 89, nt. 5; Mattioli
2019, 34, nt. 29.
11
Cfr. Martindale 1992, 729 s. (voce Iulianus 4). Giuliano, prefetto nel 530531, è stato identificato con l’epigrammista Giuliano d’Egitto, i cui numerosi componimenti poetici sono tràditi dall’Anthologia Palatina; cfr. Hartigan 1975, 44; Cameron 1977, 41 ss.; Schulte 1990, 13 ss.; Gullo 2019 (ove altra bibliografia).
12
La disciplina introdotta da C. 4.18.2 è richiamata anche in I. 4.6.8; cfr. Luchetti 1996, 513 ss.
13
Cfr. Longo 1907, 147, 154, che collega l’elaborazione della costituzione alla lettura della massa edittale che i commissari stavano compiendo per la redazione del Digesto; Varvaro 2000, 483, nt. 347; Varvaro 2007-2008, 343; Mattioli 2019, 35, nt.
29. Per le ipotesi sull’identità dei commissari preposti allo spoglio della massa edittale
rinvio, da ultimo, al ragguaglio bibliografico di Pedone 2020, 57, nt. 153.
PECUNIA E RES
285
stat a nomine ipsius pecuniae. Sed ut et subtilitati eorum satisfiat,
qui non sensum, sed vana nominum vocabula amplecti desiderant,
ita omnes res veniant in constitutam, tamquam fuisset ipsa pecunia
constituta, cum etiam veteres pecuniae appellatione omnes res significari definiunt et huiusmodi vocabulum et in libris iuris auctorum et
in alia antiqua prudentia manifestissime inventum est.
Giustiniano, nell’estendere l’ambito di applicazione dell’actio de
pecunia constituta, considera in una prospettiva ontologica l’istituto
stesso della pecunia constituta: necessarium nobis visum est magis pecuniae constitutae naturam ampliare. In gioco non vengono, dunque,
solo questioni di inquadramento processuale e disciplina negoziale,
ma è evocato il tema della referenza fenomenologica fra il segno pecunia e quel che l’ente così significato è in rerum natura. L’imperatore
ricorda che, secondo i veteres 14, perché una fattispecie fosse tutelata
dall’actio de pecunia constituta, era possibile la deduzione in costituto
unicamente di res quae pondere numero mensura constant 15 e che tale
actio si prescriveva in un anno, dubitandosi se potesse essere esperita
per il costituto di un debito sottoposto a condizione 16. La apertissima
lex dispone perciò, con un andamento specularmente corrispondente
alla previa descrizione delle caratteristiche ‘classiche’ della pecunia
constituta, le innovazioni al regime: la deducibilità in costituto non
solo delle cose fungibili, ma anche di tutte le altre cose mobili, immobili, semoventi (come animali o schiavi), degli instrumenta 17 e di
qualsiasi possibile oggetto di una stipulatio (perciò perfino di un incertum [cfr. Gai 4.136]) 18. L’imperatore statuisce la prescrizione trentennale dell’azione, la possibilità di costituire debiti condizionati e la
legittimazione attiva e passiva all’actio in capo agli eredi; inoltre, precisa che la pecunia constituta – suis tamen naturalibus privilegiis mi14
Per il diffuso uso di veteres per riferirsi alla giurisprudenza precedente nelle
costituzioni promulgate durante la questura di Triboniano, cfr. Honoré 1978, 78; sul
punto v. oltre par. 3.
15
Su tali res e sulle loro definizioni nella giurisprudenza romana, cfr. Pavese 2013,
146 ss. (ove fonti e bibliografia).
16
Per i profili immediatamente seguenti (contenuti in una parte qui non trascritta
della costituzione), cfr. Archi 1962.
17
Trattasi di complessi di beni organizzati per l’esercizio di un’attività economica;
cfr. Giomaro 2013.
18
Da ultimo, cfr. Pedone 2020, 55 ss.
286
PAOLO COSTA
nime defraudata – non deve essere in alcun modo dissimile dalla stipulatio.
Rimarchevoli nella costituzione sono due insistenze, che potrebbero apparire ultronee – non arricchendo il disposto normativo – ma
che lasciano cogliere la consapevolezza imperiale dell’impasse semantica in cui si pongono le affermazioni sul significato di pecunia. Giustiniano dichiara che nessuno deve essere sorpreso dalla ricomprensione di omnes res sotto il nomen ‘pecunia’, poiché anche gli antiqui
libri prudentium, trattando di pecunia constituta, non intendevano
solo la pecunia (scil. numerata), ma tutte le res quae pondere numero
mensura constant. Giustiniano afferma così che una potenzialità estensiva del significato del lessema sarebbe già stata pacifica nella giurisprudenza classica. Rileva, a livello di drafting, l’impiego di una specifica figura retorica: la praeoccupatio, che riveste la funzione di far
considerare proletticamente, al fine di prevenirle, obiezioni intravviste come possibili 19. Già questa scelta argomentativa – propria della
retorica giudiziaria antica 20 e teorizzata nei trattati tardoantichi in argomento 21 – fa intuire la consapevolezza di Giustiniano di muoversi
su un crinale piuttosto sdrucciolevole. Tale intuizione è confermata
dal seguito. Difatti, l’imperatore, con un passaggio al piano processuale, evidenzia che è sempre possibile convertire alcunché nel suo valore pecuniario (in pecuniam) 22. La deducibilità in costituto di una
certa domus, un certus ager, un certus homo, o di un’altra res determinata (parametrabili pecuniariamente) ne implica pertanto la fungibilità rispetto alla pecunia, permettendo di parlare, anche per tali cose,
di pecunia constituta.
La costituzione aggiunge, in un clímax argomentativo 23, un’ulteriore spiegazione, ancora esposta mediante figure retoriche specifiche.
L’imperatore stabilisce – per dare soddisfazione alla subtilitas di coloro
Cfr. Lausberg 1998, 383 (§ 855); cfr. anche Perelman - Olbrechts-Tyteca
1971, 169, 174 ss.
20
Cfr. Torzi 1995, ove riferimenti alle fonti.
21
Sul punto, cfr. Berardi 2017, 176.
22
Secondo Frezza 1962, 278 s., la prassi di dedurre in obbligazione l’aestimatio di
beni di vario genere, anche infungibili, così da convertire in mutui di denaro negozi di
deposito o di vendita a credito, è di origine ellenistica.
23
Mi pare non colga questa espansione retorica Bolte 2020, 369, che considera
«gänzlich neben der Sache» l’ultima puntualizzazione giustinianea.
19
PECUNIA E RES
287
che non si occupano del senso, ma delle inutili definizioni nominalistiche 24 – che omnes res possano essere dedotte in costituto, come se
(tamquam) fosse la pecunia a essere constituta, giacché, nelle parole di
Giustinano, anche i veteres denotavano come pecunia tutte le cose e il
vocabolo era così inteso nei libri dei giurisperiti e nella giurisprudenza antica. Si apprezzi il valore della congiunzione comparativoipotetica tamquam: con essa è giustificata l’equiparazione imposta
dalla lex, contestualmente riconoscendo la non piena identificazione
semantica dei diversi oggetti del costituto. L’imperatore si muove così
strategicamente incontro ai cultori dei vana nominum vocabula, mantenendo fermo, sul piano definitorio, il portato della norma. Con ciò
è implicitamente ‘concessa’ la non perfetta equiparabilità semantica
delle omnes res alla pecunia, delimitando l’area di ‘omogeneizzazione’
fra le prime e la seconda, benché Giustiniano avesse dianzi affermato:
sub nomine pecuniae etiam omnes res exigi definimus. Nella parentetica
tamquam fuisset ipsa pecunia constituta mi pare si possa, infatti, individuare, sul piano retorico, una concessio corredata da una correctio. La
concessio 25, con cui Giustiniano cede a soddisfare la subtilitas di potenziali oppositori, implica «l’ammissione delle buone ragioni dell’avversario (o dell’interlocutore), contrappesata, però, da rilievi riguardo
al maggior peso di circostanze, opinioni, fatti, prove in favore della
tesi di chi parla» 26; la correctio, qui nella forma di un «chiarimento semantico per miglioramento» 27, supporta tale implicita ammissione.
I profili di tensione dogmatica (la natura 28 dell’actio pecuniae constitutae e l’avvicinamento del negozio alla stipulatio, menzionata due
volte) s’intrecciano, dunque, con questioni semantiche, sullo sfondo
di affermazioni generali di politica del diritto e di preoccupazioni che
appaiono di ordine teorico, sistematico e perfino didattico, ancor
Cfr. similmente C. 5.27.11.2; 6.23.31.1; 6.28.4 pr.; 6.58.14.1; 7.25.1.
Cfr. Lausberg 1998, 383 (§ 856).
26
Mortara Garavelli 2014, 267.
27
Mortara Garavelli 2014, 240.
28
Sull’evoluzione dogmatica in età giustinianea del concetto di natura actionis
come struttura intrinseca dell’azione che ne informa scopo, requisiti e caratteristiche (in
inestricabile legame con la causa dell’azione stessa), si vedano, oltre ai contributi più risalenti di Longo 1905a-b; Collinet 1947, 173 ss., di recente de Jong 2013; Sciortino 2018, 154 ss. L’impiego di natura per indicare i caratteri di un istituto appartiene
al linguaggio di Triboniano, cfr. Honoré 1978, 85.
24
25
288
PAOLO COSTA
prima che pratico 29. Infatti, l’imperatore – nel momento stesso in cui
dichiara recisamente la vicinanza fra la pecunia e le omnes res – per
giustificare l’ampliamento ontologico delle fattispecie tutelate dall’azione, si dilunga, in verisimile dialettica con ambienti della giurisprudenza coeva, a motivare le proprie decisioni in forza dell’asserita fedeltà a una tendenza di espansione semantica affermata come già riconoscibile presso i veteres. Nello stesso tempo, sono chiarite
questioni semantiche, dal momento che la loro soluzione non era pacifica neppure fra i contemporanei, ai quali (e non a giuristi più antichi) – come rilevò già Archi 30 – si rivolge Giustiniano per censurararne il vano letteralismo.
La costituzione risponde indubbiamente a problemi di ordine
economico e sociale coevi 31, ma in essa si riflettono profonde speculazioni giurisprudenziali in merito al rapporto fra la pecunia e le res,
che sono state rilevate dalla dottrina più attenta. Basti dire che Yan
Thomas, nel suo saggio sul ‘valore delle cose’, prende abbrivio proprio da C. 4.18.2 per presentare il nucleo centrale della sua ‘analisi
giuridica del valore’, e nota come pecunia per i Romani designasse sia
la moneta sia il valore monetario delle cose, ma contestualmente anche le res stesse in quanto necessariamente traducibili in pecuniam, in
forza delle caratteristiche del processo (esso stesso denominato res). I
giuristi, secondo Thomas, «pensaient … que la chose se réduisait à
son prix, qu’elle était son prix: la valeur était alors l’identité de la
chose même» 32. La nostra apertissima lex non farebbe altro che confermare questa fondamentale impostazione.
A questo punto, un breve percorso à rebours, da Giustiniano alle
più antiche riflessioni giurisprudenziali sul valore di pecunia e sul suo
Così Frezza 1962, 283; Archi 1962, 144; Mattioli 2019, 35.
Secondo Archi 1962, 144, nel provvedimento si rifrangono «dispute antiche
perpetuate da esegeti nuovi più che dubbi dovuti a questioni attuali». Su questa linea
anche Schindler 1966, 76; Bolte 2020, 369 s. Pedone 2020, 118, ipotizza l’orditura
di rapporti difficilmente intelligibili fra i commissari giustinianei e l’ambiente delle
scuole di diritto, nelle quali si davano «sacche di sopravvivenza (o di recrudescenza, scatenata dalla rilettura dei veteres) dell’antico ius controversum sulla natura e sulla trasmissibilità dell’azione, e possibilmente anche sui beni che potevano costituirne oggetto (pecunia, o res quae pondere numero mensura consistunt, o tutti i beni, in quanto suscettibili di parametrazione monetaria)».
31
Cfr. La Rosa 1997a. Per un inquadramento più generale del contesto socioeconomico, cfr. Bianchini 1982.
32
Cfr. Thomas 2002, 1450 s.
29
30
PECUNIA E RES
289
rapporto con le res, potrà meglio chiarire l’impasse semantica riconoscibile in C. 4.18.2, permettendoci di apprezzare l’importanza della
posta in gioco ermeneutica, che paradigmaticamente investe il nostro
tema.
3. La semantica di ‘pecunia’ nell’esperienza giuridica romana: un poliedro di significati. – L’estensione dell’actio de pecunia constituta all’area delle res quae pondere numero mensura constant, richiamata da Giustiniano, è motivata dalla dottrina maggioritaria anche più recente 33,
assumendo il riferimento originario del constitutum al mutuo e alla legis actio per condictionem che lo tutelava. Con un constitutum debiti,
infatti, le parti potevano rafforzare l’adempimento dell’obbligazione
principale e superare così i limiti dell’azione con formula stricti iuris
esperibile de sorte, la quale non avrebbe tenuto in considerazione gli
interessi delle parti stesse circa il tempo dell’adempimento 34. Essendo
la limitazione dell’oggetto del mutuo alle sole cose fungibili un dato
giurisprudenziale stabile 35, il predetto collegamento fra il mutuum e il
constitutum consentirebbe di spiegare la diversa latitudine dell’actio de
pecunia constituta rispetto all’actio certae creditae pecuniae, con la
quale pure intrattiene rapporti di notevole prossimità (cfr. oltre, par.
3). Tale collegamento spiegherebbe, quindi, come un negozio probabilmente sorto per rafforzare debiti in denaro 36, già in un periodo
prossimo alla sua introduzione, abbia subìto un ampliamento di applicabilità, in forza di un’interpretazione estensiva della nozione di pecunia, volta a ricondurvi anche le cose fungibili, senza mutare il
nome dell’istituto stesso, giacché solo alla pecunia le fonti (letterarie 37
33
Cfr. Karlowa 1901, 1373; Astuti 1937, 124 ss.; Schulz 1951a, 561; Roussier 1958, 83 ss.; Guizzi 1959, 299; Karadeniz 1968, 95 ss.; Rüfner 2000, 44 ss.;
Bolte 2020, 59 ss. (ove altra bibliografia).
34
Questi aspetti emergono chiaramente in Ulp. 27 ad ed. D. 13.5.3.2 (frammento
significativo, ove Ulpiano menziona le opinioni di Labeone e Sesto Pedio); cfr. Costa
2011, 147 ss.
35
Cfr. Gai 3.90; Paul. 28 ad ed. D. 12.1.2; Gai. 2 aur. D. 44.7.1.2; da ultimo, cfr.
Saccoccio 2020, 36 ss.
36
Sul punto la dottrina è pacifica, cfr. Bruns 1861, 48 ss.; Leonhard 1900, 1105;
Cuq 1904, 679; Philippin 1929, 53; Astuti 1937, 126; Roussier 1958, 83, 87, 109;
Costa 2011, 147 ss.
37
Cicerone (Quinct. 5.18; Att. 1.3) impiega la locuzione pecuniam constituere; cfr.
Varvaro 2007-2008, 331 ss.; Costa 2011, 144 ss.; Bolte 2020, 45 ss.
290
PAOLO COSTA
e giuridiche 38) continuarono a riferirsi per indicare il negozio e l’azione a sua tutela 39.
Su questi profili il dibattito dottrinale, che aveva, invero, registrato già alcune isolate perplessità di Talamanca 40, è stato riaperto,
nel 2008, da Varvaro 41, il quale, in dissenso con la dottrina prevalente
(ancora ribadita, nel 2020, da Bolte 42), ritenne che non alle origini
dell’istituto, bensì solamente in piena età severiana si sarebbe riconosciuta validità a constituta di debiti aventi per oggetto beni diversi dal
denaro. Tale ampliamento non deriverebbe dall’estensione del costituto a ogni debito nascente da mutuo, ma dal riconoscimento di effetti liberatori alla cd. datio in solutum. Le differenti posizioni dottrinali si appuntano su difficoltà ed equivocità di ordine semantico, che
richiedono specifiche opzioni ermeneutiche: sono le stesse difficoltà
ed equivocità cui si riferisce la costituzione giustinianea. Esaminare
tali profili s’impone perciò come necessario.
Il tema del significato di pecunia non riguarda solo il costituto di
debito, ma attraversa l’ordinamento giuridico romano. Si può, ad
esempio, considerare l’identificazione dell’oggetto del peculato, secondo la lex Iulia peculatus 43:
Ulp. 44 ad Sab. D. 48.13.1: Lege Iulia peculatus cavetur, ne quis ex
pecunia sacra religiosa publicave auferat neve intercipiat neve in rem
suam vertat neve faciat, quo quis auferat intercipiat vel in rem suam
vertat, nisi cui utique lege licebit: neve quis in aurum argentum aes
publicum quid indat neve immisceat neve quo quid indatur immisceatur faciat sciens dolo malo, quo id peius fiat.
Per alcuni autori pecunia si riferirebbe genericamente a beni patrimoniali; per altri più specificamente a beni mobili o soltanto a de38
Si vedano anche solo la formula dell’actio de pecunia constituta (oltre par. 3) e gli
iura trascelti nel Titolo 13.5 del Digesto.
39
Cfr. Huschke 1882, 251; Arangio-Ruiz 1914, 57; Astuti 1937, 137 ss.;
Astuti 1941, 21 s.; Schulz 1951a, 561; Roussier 1958, 99; Guizzi 1959, 300; Archi 1962, 147; Karadeniz 1968, 95; La Rosa 1997b, 211.
40
Cfr. Talamanca 1990, 608.
41
Cfr. Varvaro 2007-2008, 332 ss. (il contenuto di questo articolo è ripreso anche in Varvaro 2008, 198 ss.).
42
Cfr. Bolte 2020, 231 s.
43
Gnoli 1972; Gnoli 1979, 25, colloca la data della lex Iulia tra il 59 a.C. e il
17 a.C.
PECUNIA E RES
291
naro 44. La tesi dominante considera il significato del termine in modo
ampio: oggetto del crimen sarebbe stato, in un primo tempo, l’impossessamento di bestiame appartenente alla comunità, successivamente l’appropriazione di beni qualsivoglia inerenti al patrimonio di
templi o, in generale, appartenenti alla comunità 45. Dunque, la latitudine semantica del lessema pecunia appare ampia, in coerenza con
quanto si rinviene nelle fonti antiquarie.
Infatti, una glossa festina, ricostruita da Lindsay 46, attesta un risalente significato assai esteso di pecunia. Il frammento, anche nella versione in parte compendiata da Paolo Diacono, rivela come nella nozione probabilmente arcaica di pecunia (certamente ai fini del sacrificio, ma dal passo emerge un ambito di impiego più generalizzato)
rientrassero almeno le fruges e i fructus 47.
Fest. voce Pecunia sacrificium (Lindsay 286): Pecunia sacrificium
f<ieri dicitur, cum frugum, fruc>tumque causa mola pu<ra offerebatur in sacrifi>cio, quia omnis res fam<iliaris, quam nunc pecuniam> dicimus, ex his rebus con<stat>.
Paul.-Fest. voce Pecunia sacrificium (Lindsay 287): Pecunia sacrificium fieri dicebatur, cum fruges fructusque offerebantur, quia ex
his rebus constat, quam nunc pecuniam dicimus.
Senza affrontare la controversia sull’originario valore di *pecu/
pecū- e quindi sull’etimologia di pecunia 48, che anche dall’analisi di
Cfr. Gnoli 1979, 46 ss. (ove dottrina precedente).
Cfr. Gnoli 1979, 70 s.; Santalucia 1998, 200.
46
Il lacunoso frammento festino è stato così integrato nell’edizione del 1565 di
Giuseppe Scaligero, integrazione accolta da Lindsay nell’edizione teubneriana del 1913,
in app. ad 286, 17 ss.
47
Sul punto, cfr. Scheid 2005, 136 ss.; cfr. anche: Fiori 1999, 15, nt. 11; Zuccotti 2000; De Iuliis 2017, 21 ss. e nt. 58.
48
Per le diverse ipotesi etimologiche, cfr. Walde - Hoffmann 1954, 270 ss.;
Pokorny 1959, 797; Leumann 1977, 323, 350, 441; Untermann 2000, 527; de
Vaan 2008, 454. Nei lessici della lingua latina pecunia è reso con ‘averi’, ‘ricchezza’, ‘patrimonio’ e, in senso stretto e specificante, ‘denaro’ (specie nel composto con numerata). Il tema indoeuropeo *peku-, presente nell’indo-iranico, nel germanico e nell’italico, da cui si ritiene derivi pecunia, ha probabilmente il significato di ‘bestiame’ e in
particolare di ‘bestiame posseduto come ricchezza’ (cfr. Ernout - Meillet 1960, 492).
A conforto di questa lettura sono portate anzitutto alcune testimonianze varroniane
(ling. 5.17.92; 5.19.95; 5.36.175; rust. 2.1.11). Questa ricostruzione fu contestata da
Benveniste 1969, 47 ss.; Benveniste 1970, che considerò il tema *peku- riferirsi uni44
45
292
PAOLO COSTA
questi passi ha trovato motivi per rinfocolarsi 49, è utile notare che nel
lessico di Festo l’area semantica di pecunia copre anche beni diversi
dal denaro, coincidendo con il patrimonio (res familiaris). Tale ampiezza di significato si rinviene altresì in usi letterari repubblicani (e.g.
Plaut. Aul. 186, 214) 50, ma probabilmente già nel lessico giuridico
decemvirale, ove pare alludere (insieme a tutela o a familia) al patrimonio complessivo 51:
Tab. 5.3 (FIRA, I 2, 37; Roman Statutes, II, 580 e 635 ss.): uti legassit super pecunia tutelave suae rei (o: super familia pecuniaque
sua) 52.
Questo uso esteso s’incontra anche in luoghi ciceroniani a proposito di successioni:
Cic. inv. 2.50.148: si furiosus est, agnatum gentiliumque in eo pecuniaque eius potestas esto (cfr. Tab. 5.7; FIRA, I 2, 39 s.; Roman
Statutes, II, 580 e 643 ss.) 53.
Cic. top. 29: hereditas est pecunia, quae morte alicuius ad quempiam pervenit iure 54.
In Gai 2.104 si descrive poi lo svolgimento del testamento librale
con la formula della mancipatio familiae, derivante da quella del testacamente alla ‘ricchezza mobile personale’; in rapporto con la realtà sociale dell’allevamento il lessema derivato si sarebbe poi specializzato lungo tre affinamenti progressivi,
giungendo a significare ‘bestiame’, poi ‘bestiame minuto’, infine ‘ovino’. Tale posizione
incontrò le critiche di Guarino 1972 e Gnoli 1978, che, con il suffragio di copiose
fonti, mostrarono la persistenza di un legame fra la semantica di pecunia e i beni della
pastorizia; cfr. anche Marcone 1997, 102 ss.; Marecos Casquero 2005.
49
Benveniste 1969, 53, invoca, infatti, tale fonte, priva di riferimenti al bestiame,
per suffragare la propria posizione.
50
Per altre fonti e la discussione, cfr. Nadjo 1989, 154 ss.; Feuvrier-Prévotat
2019, 121 ss.
51
Cfr. Arces 2013, 95 ss. (ove letteratura precedente); Mantovani 2014, 600 s.;
Di Ottavio 2016, 30 s.
52
L’espressione familia pecuniaque ricorre nelle versioni della norma uti legassit rinvenibili in Cic. inv. 2.50.148 e in Rhet. Her. 1.13.23; tali versioni sono considerate dalla
dottrina dominante meno attendibili rispetto a quelle in cui si trova pecunia tutelave (cfr.
Ep. Iul. 11.14; Paul. 59 ad ed. D. 50.16.53 pr.). Arces, nel contributo appena ricordato,
mostra come proprio le lectiones di Cicerone e dell’Auctor fossero probabilmente le più
corrispondenti al testo decemvirale; da ultimo, cfr. Di Ottavio 2016, 1 ss.
53
Cfr. Zuccotti 2009.
54
Da ultimo, cfr. Oliviero Niglio 2019.
PECUNIA E RES
293
mentum calatis comitiis, e vi si rintraccia di nuovo la locuzione familia
pecuniaque: quali, dunque, i rapporti tra familia e pecunia, congiunte
nella locuzione dall’enclitica -que? I due lessemi indicano beni differenti (come voleva la dottrina più risalente) o sono impiegati, a fini retorici, in un’endiadi (come suggeriscono gli studiosi più recenti 55)? Ai
nostri fini importa solo sottolineare una (probabilmente arcaica e)
persistente ampiezza semantica del vocabolo pecunia. Tale ampiezza,
attestata da numerose fonti 56, motiva plausibilmente la specificazione
con l’aggettivo numerata della pecunia quando essa consiste solo in
denaro. Perciò, Gai 3.141 suona: Item pretium in numerata pecunia
consistere debet. L’ampiezza semantica si riflette anche in altri usi propriamente giuridici; ricordo solo alcuni frammenti del Digesto, collocati nel titolo De verborum significatione 57:
Paul. 2 ad ed. D. 50.16.5 pr.: ‘rei’ appellatio latior est quam ‘pecuniae’, quia etiam ea, quae extra computationem patrimonii nostri
sunt, continet, cum pecuniae significatio ad ea referatur, quae in patrimonio sunt.
Cels. 32 dig. D. 50.16.97: Cum stipulamur ‘quanta pecunia ex hereditate Titii ad te pervenerit’, res ipsas quae pervenerunt, non pretia
earum spectare videmur.
Ulp. 49 ad Sab. D. 50.16.178 pr.: ‘pecuniae’ verbum non solum
numeratam pecuniam complectitur, verum omnem omnino pecuniam, hoc est omnia corpora: nam corpora quoque pecuniae appellatione contineri nemo est qui ambiget.
Hermog. 2 iuris epit. D. 50.16.222: ‘pecuniae’ nomine non solum
numerata pecunia, sed omnes res tam soli quam mobiles et tam corpora quam iura continentur.
Il terzo frammento si può combinare con Ulp. 50 ad ed. D.
45.1.50: Item stipulatione emptae hereditatis: ‘quanta pecunia ad te perPer un assai recente status quaestionis, cfr. Rinolfi 2020, 15 ss. (ove bibliografia).
Si considerino le attestazioni plautine e varroniane sopra riportate e la discussione di Gnoli. L’opera di Varrone ha un rilievo per il nostro tema anche perché (in
Varr. ling. 9.40.1-2) restituisce la prima testimonianza latina di una correlazione fra i
termini pondus, numerus e mensura; cfr. Pavese 2013, 148 ss.
57
Anche Thomas 2002, 1450 s., cita questi frammenti – sui quali da ultimo cfr.
D’Alessio 2018, 22 s. – in rapporto a C. 4.18.2.
55
56
294
PAOLO COSTA
venerit dolove malo tuo factum est eritve, quo minus perveniat’ nemo dubitabit quin teneatur, qui id egit, ne quid ad se perveniret. L’occasione
della spiegazione lessicale pare fornita dal commento alla formula
della stipulatio emptae hereditatis, da porre forse in relazione con l’appena ricordata norma decemvirale uti legassit 58.
Dunque, è indubitabile – e senza aver ricordato tutte le fonti pertinenti – che, nell’esperienza giuridica romana, il lessema pecunia
avesse, per la sua storia e per i suoi usi, una latitudine semantica vasta. Ora è da chiedersi se questi usi linguistici rilevino davvero per
l’interpretazione di quella particolare pecunia che viene constituta. Un
suffragio testuale, a questo fine, fu autorevolmente segnalato da Arangio-Ruiz 59 e poi richiamato dalla dottrina maggioritaria 60: si tratta di
un passo gaiano relativo alla lex Cornelia de sponsu 61, nel quale il sintagma pecunia credita viene riferito non solo alla pecunia mutuata, ma
a ogni obligatio certi sine ulla condicione:
Gai 3.124: Sed beneficium legis Corneliae omnibus commune est.
Qua lege idem pro eodem apud eundem eodem anno vetatur in ampliorem summam obligari creditae pecuniae quam in XX milia; et
quamvis sponsores uel fidepromissores in amplam pecuniam, veluti si
sestertium C milia se obligaverint, tamen dumtaxat in XX milia tenentur. Pecuniam autem creditam dicimus non solum eam, quam
credendi causa damus, sed omnem, quam tum, cum contrahitur obligatio, certum est debitum iri, id est, quae sine ulla condicione deducitur in obligationem; itaque et ea pecunia, quam in diem certum
dari stipulamur, eodem numero est, quia certum est eam debitum
iri, licet post tempus petatur. Appellatione autem pecuniae omnes res
in ea lege significantur; itaque et si uinum vel frumentum aut si fundum vel hominem stipulemur, haec lex observanda est.
Condivisibilmente Varvaro 62 non reputa cogenti queste fonti per
inferirne una generale portata semantica della parola pecunia comCosì Frezza 1962, 278.
Cfr. Arangio-Ruiz 1914, 57.
60
Cfr. Astuti 1937, 133 ss.; Astuti 1941, 23; Archi 1962, 147; Frezza 1962,
58
59
278.
Cfr. Rotondi 1912, 362 s. Da ultimo, cfr. Parenti 2010.
Cfr. Varvaro 2007-2008, 343 ss.; Varvaro 2008, 142 ss. (ove assume una condivisibile posizione differente da quella di Saccoccio 2002, 44 ss., che legge l’impiego
61
62
PECUNIA E RES
295
prendente anche beni diversi dal denaro, né per ricavarne elementi
per congetturare la risalenza di tale uso linguistico, né soprattutto per
impiegarle de plano ai fini dell’analisi del constitutum. Anzitutto Gai
3.124 e i frammenti appena citati non si riferiscono al nostro istituto 63 – e su tale profilo di esegesi ‘cotestuale’ ritornerò nel par. 3 – e
poi in nessuno di questi testi il significato di pecunia copre precisamente le res quae pondere numero mensura constant. Tale assenza è da
segnalare, anche tenendo in considerazione il dato – messo in luce da
Pavese – della diffusione di questa locuzione a indicare le cose fungibili probabilmente già dal II sec. a.C. 64.
Inoltre, la rilevanza di Gai 3.124 è assai ridotta per la definizione
dell’area di funzionamento negoziale della pecunia constituta, perché
qui il giurista commenta un testo di legge e attribuisce a un termine
di tale provvedimento un significato particolare, tecnicizzandolo: la
stessa necessità dell’argomentazione esplicativa fa pensare che il significato ivi attribuito non corrispondesse a quello comunemente accolto, neppure nel consesso dei giuristi 65. La dottrina, che ha fatto ricorso a questo passo gaiano per sostenere – nell’interpretazione del
costituto – l’ampliamento della portata semantica del termine pecunia
già per l’età classica, non spiega la discrasia fra la supposta estensione
dell’editto De pecunia constituta anche alle cose fungibili e la nozione
di pecunia ben più ampia che Gaio fornisce relativamente alla lex Cornelia, che copre omnes res, compresi i beni infungibili. Appunta Varvaro: «Si tratta, dunque, di una nozione diversa da quella con cui essa
va intesa nell’ambito dell’espressione actio certae creditae pecuniae, assai più ampia rispetto a quella originaria, secondo cui per pecunia credita si intende il denaro dato a mutuo o stipulato in connessione a
operazioni di mutuo … Nell’ambito della previsione della lex Cornelia, la locuzione pecunia credita non va intesa secondo il senso comune per quanto riguarda sia il sostantivo pecunia, sia l’aggettivo credita» 66.
di Gai 3.124 come un riferimento alla certa credita pecunia, puntualizzando come qui
non sia richiamata l’actio certae creditae pecuniae, né si tratti solo di crediti sorgenti da
mutuo).
63
Cfr. Varvaro 2007-2008, 344, 357 ss.
64
Cfr. Pavese 2013, 146 ss.
65
Cfr. Robbe 1941, 50; Albanese 1971, 136 ss.
66
Varvaro 2008, 148; così anche D’Alessio 2018, 14 s. Laffi 2001, 286 ss. riconosce nella lex Rubria, al cap. XXI un uso restrittivo di pecunia (aggettivata con nu-
296
PAOLO COSTA
Militano contro l’opinione di una generalizzata estensione semantica della nozione di pecunia alcuni ulteriori passi gaiani (3.90;
4.19; 4.33; 4.50), ove la pecunia è distinta dalle altre res. Tra questi
Gai 3.90 67 – e si veda anche I. 3.14 – è assai rilevante per la sua sedes
materiae: riguarda il mutuo e se ne desume che le res quae pondere numero mensura constant non rappresentino un tutto indistinto. Gaio è,
invece, cosciente delle differenze ‘merceologiche’ interne e, in questo
caso, pecunia non qualifica altro che il denaro. Concentrarsi euristicamente solo sull’etimo di pecunia e sui suoi usi linguistici riscontrabili in quasi un millennio di esperienza sociale e giuridica romana,
senza puntuali riferimenti contestuali, appare, perciò, poco produttivo, se si mira a risolvere le questioni di interpretazione di C. 4.18.2
con riferimento alla pluralità di significati assunti da pecunia nella riflessione dei giuristi classici che si sono occupati del costituto di debito. La polisemia degli usi impedisce di definire de plano se il termine pecunia ricomprendesse o meno anche le res fungibili, né si può
individuare il momento storico in cui si sarebbe verificata tale estensione di significato. Il rischio della fallacia della petitio principii, o
perfino dell’ignoratio elenchi, appare concreto.
Non nego che la maggior parte dei luoghi citati induca a congetturare l’antichità di un impiego ampio di pecunia, dacché testi risalenti provano il ricorso alla nozione estensiva e non a quella restrittiva. Si può anche supporre che la conoscenza di testi giuridici, quali
quelli trascelti in D. 50.16.5 pr.; 50.16.97; 50.16.178 pr.; 50.16.222,
giustifichi le affermazioni giustinianee. Infatti, la stessa terminologia
emergente in questi frammenti non è priva di assonanze con il lessico
di C. 4.18.2 e l’imperatore sta probabilmente pensando a testi giurisprudenziali di questo tipo, plausibilmente ‘sotto gli occhi’ dei commissari impegnati nella compilazione del Digesto, quando afferma
che i veteres pecuniae appellatione omnes res significari definiunt e
quando scrive che l’impiego esteso del vocabolo si ritrova in libris iuris auctorum et in alia antiqua prudentia. Nondimeno, l’interpretazione giustinianea del lessema appare indubbiamente strumentale a
merata) quanto all’applicazione dell’actio certae creditae pecuniae, mentre al cap. XXII
l’uso più estensivo.
67
Gai 3.90: Re contrahitur obligatio velut mutui datione; mutui autem datio proprie
in his fere rebus contingit, quae res pondere, numero, mensura constant, qualis est pecunia
numerata, vinum, oleum, frumentum, aes, argentum, aurum …
PECUNIA E RES
297
obiettivi di politica del diritto. Dobbiamo, a questo punto, chiederci
se, anche quando tratta della deducibilità in costituto delle res quae
pondere numero mensura constant, l’imperatore stia proponendo un’ermeneutica ‘accomodatizia’ 68 o se stia menzionando l’effettiva posizione dei veteres rinvenibile in antiquis libris prudentium. Se si accede
alla prima ipotesi, si deve anche ritenere che Giustiniano, nel riferirsi
ai veteres, richiami in realtà posizioni della giurisprudenza epiclassica
o tardoantica – come propone Varvaro – e non di giuristi di età severiana, come vuole la dottrina maggioritaria, anche recente 69. A ben
vedere, la posta in gioco ermeneutica della nostra questione investe
problemi generali dell’interpretazione filologica e giuridica.
4. La ‘pecunia constituta’ come ‘test case’ di un’adeguata ermeneutica
giuridica. – Per comprendere il significato originario del lessema pecunia nel sintagma pecunia constituta è necessaria un’interpretazione
che attribuisca il giusto peso al contesto giuridico cui appartengono i
frammenti del Digesto da cui si ricava la disciplina del costituto. A tal
fine non basta la mera ricerca lessicografica in un novero, pur vasto,
di fonti antiche. Nell’interpretazione giuridica dei termini tecnici il
contesto prossimale (o cotesto), con ciò intendendo la sedes materiae in
cui i termini si trovano, è, per molti versi, più importante del contesto distale, con ciò intendendo il contesto sociale e lato sensu ambientale di uso di tali lessemi 70. Con riferimento a un settore della filologia antica in cui tali questioni ermeneutiche sono state oggetto di
cospicuo dibattito – l’esegesi biblica – può essere qui utilmente ricordato il momento di snodo rappresentato dall’opera del semitista
James Barr, The Semantics of Biblical Languages, che contestò le interpretazioni correnti, alimentate dalle pubblicazioni di grandi lessici,
come il Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, e fondate su
approcci lessicografici analoghi a quelli di cui, in questa sede, si
stanno mostrando i limiti. In particolare, Barr notava che l’etimolo68
Mi pare in nuce questa la lettura generale che propone Varvaro nei contributi più
volte richiamati.
69
Da ultimo, cfr. Mattioli 2019, 37, nt. 37. In generale, sull’impiego del termine
veteres nei testi giurisprudenziali e legislativi, cfr. Mantovani 2017.
70
Per questa terminologia, cfr. Villa 2012, 131 ss. Per un approfondimento sulle
diverse tipologie di contesto cfr. Meibauer 2012.
298
PAOLO COSTA
gia non rappresenta una guida infallibile nella comprensione del significato di un lessema in un testo e anzi a volte può fuorviare, impedendo di apprezzarne correttamente l’uso nel caso di specie. Per
tale specifico apprezzamento non basta conoscere l’etimo del lessema
e neppure il suo sviluppo diacronico, ma occorre considerare genere
letterario, caratteristiche redazionali, obiettivi ideologici, intra- e intertestualità, in definitiva tenere adeguatamente presente il ‘cotesto’ 71.
Queste riflessioni appaiono oggi ampiamente condivise non solo fra
gli studiosi di linguistica del testo 72, ma anche – ed è per noi rimarchevole – da autorevoli filosofi del diritto, che rilevano come la pragmatica degli usi linguistici concreti riverberi, sulla semantica, effetti,
di cui si deve tener debito conto in sede d’interpretazione 73.
Tali indicazioni epistemologiche sono illuminanti: non si può
considerare la semantica di pecunia in modo assoluto e non si può
prescindere – come è ovvio – dal contesto storico e dall’evoluzione
diacronica, ma neppure dal ‘cotesto’ giuridico 74. Nel nostro caso è,
dunque, necessaria un’interpretazione, che attribuisca giusto peso alla
collocazione sistematica dell’istituto e agli usi linguistici peculiari del
quadro disciplinare, in cui la fattispecie negoziale si pone.
Al tempo della compositio edicti adrianea l’editto de pecunia constituta recitava (secondo la ricostruzione leneliana 75): QUI PECUNIAM DEBITAM CONSTITUIT se soluturum eove nomine se satisfacturum esse, in eum
iudicium dabo. La formula corrispondente suonava (secondo la recente proposta ricostruttiva di Bolte 76): Si paret Numerium Negidium
Aulo Agerio HS X constituisse neque fecisse quod constituit neque per Aulum Agerium stetisse, quominus fieret, quod constitutum est, eamque pecuniam cum constituebatur debitam fuisse, quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, Numerium Negidium Aulo Agerio condemna, si non paret absolve.
Cfr. Barr 1961, 107 ss. Per l’importanza dell’opera di Barr, cfr. Porter 2021.
Per tutti, cfr. Ferrari 2014, 49 ss.; Renkema - Schubert 2018, 153 ss.
73
Da ultimo, cfr. Villa 2012, ma si vedano anche gli ormai classici studi di Tarello 1974; Tarello 1980.
74
Sul punto si ricordino le sempre illuminanti considerazioni di Orestano 1987,
316 ss., 402 ss.
75
Cfr. Lenel 1927, 247 ss.
76
La formula proposta da Bolte 2020, 148, segue, tranne lievi e accettabili variazioni, quella suggerita da Costa 2011, 138; Platschek 2013, 31 ss. Leggermente diversa la proposta di Mantovani 1999, 68.
71
72
PECUNIA E RES
299
Non è questa la sede per esaminare i problemi ricostruttivi della
formula – a partire da quelli della presenza o meno del riferimento alla
satisfactio e della parametrazione temporale della condanna al quanti
ea res est o erit –, ma intendo evidenziare un dato: l’editto e la formula
si riferiscono alla pecunia debita (o, forse, in origine, alla pecunia credita) 77. Tale dato è inoppugnabile, dacché la locuzione pecunia debita,
come appartenente al disposto edittale, s’incontra in Ulp. 27 ad ed. D.
13.5.1.1, nell’incipit della laudatio edicti: Ait praetor: ‘Qui pecuniam
debitam constituit’, e in Ulp. 27 ad ed. D. 13.5.18.1: Quod adicitur:
‘eamque pecuniam cum constituebatur debitam fuisse’. Ulpiano non richiama una pecunia qualsivoglia come oggetto del costituto, ma precisamente la pecunia debita. Inoltre, nel Titolo 13.5, tranne quanto si
legge in un frammento che a breve esaminerò, non si menzionano casi
in cui altre res siano dedotte in costituto. Non si deve pretermettere la
collocazione sistematica, che è in armonia con questi dati: l’actio de pecunia constituta è posta nel Titolo XVII De rebus creditis dell’editto del
pretore (secondo la sistematica leneliana), come una ‘appendice’ – in
modo analogo all’actio de eo quod certo loco – dell’actio certae creditae
pecuniae 78. Rispetto a quest’ultima, l’actio de pecunia constituta è una
«Zwillingsschwester», come scrisse Karlowa 79: in entrambe le actiones,
invero, il pretore imponeva di prestare in iure una sponsio (cfr. Gai
4.171) ed era possibile ricorrere al ius iurandum in iure 80.
È ancora Ulpiano (Ulp. 27 ad Sab. D. 13.3.1 pr.) a precisare che
oggetto dell’actio certae creditae pecuniae è solo la pecunia numerata
non altre res, neppure quelle che in pondere sive mensura constent 81. Il
riferimento a debita/credita va spiegato al lume della nozione di credere edittale, come emerge da Ulp. 26 ad ed. D. 12.1.1 pr.-1. Per l’interpretazione del credere edittale richiamo i contributi di Albanese 82,
77
Bruns 1861, 49; Rudorff 1869, 106 ss., ipotizzano che l’editto più antico, in
luogo di debitam, avesse creditam, e ciò a sottolineare la forza del legame originario con
l’actio certae creditae pecuniae e forse con la legis actio per condictionem. Tale congettura
è seguita altresì da Ferrini 1906, 159, nt. c. Anche La Rosa 1997b, 290, sceglie creditam.
78
Cfr. Costa 2011, 150 s.; Bolte 2020, 144 ss.
79
Karlowa 1901, 1372.
80
Cfr. Lenel 1927, 249; Bolte 2020, 96 ss., 466 ss.
81
Cfr. Lenel 1927, 232 ss. Da ultimo, cfr. D’Alessio 2018, 15, ove bibliografia.
82
Cfr. Albanese 1971, 24 ss., 35 ss., 63 ss. Per bibliografia più recente, cfr. Costa
2021b, 70 ss.
300
PAOLO COSTA
il quale, a proposito del nostro problema ermeneutico, scrisse: «il
nome di actio certae creditae pecuniae [deve] limitarsi tecnicamente
alla sola ipotesi della pecunia credita nel senso di ‘denaro dato a mutuo’ … in sostanza riteniamo che il nome di actio certae creditae pecuniae … non è altro che una maniera di specificare la condictio si certum petetur nel caso di mutuo di denaro. Assai significativa … la celebre testimonianza epigrafica della lex Rubria, nella quale si parla di
petere in relazione a una pecunia certa credita signata forma publica populi Romani. Il riferimento specifico alla moneta, e solo ad essa, non
potrebbe essere più evidente» 83.
Questa impostazione del tema suffraga l’opinione di Varvaro, secondo cui non solo in origine, ma anche in età adrianea, il costituto
avrebbe avuto per oggetto debiti in denaro. Già Ferrini aveva ipotizzato che l’editto giulianeo riguardasse debiti in denaro 84 e tale ipotesi
mi pare convincente perché conforme ai dati testuali rinvenibili nel
Digesto. La questione, che si apre accedendo a questa congettura, è,
però, quella sul quando dell’estensione alle cose fungibili. Per rispondere a questa domanda, Varvaro richiama Ulp. 27 ad Sab. D.
13.5.1.5, da cui si ricaverebbe che la possibilità di constituere una cosa
fungibile (il frumentum) sarebbe il risultato dello sviluppo della dottrina sull’in solutum dare e del riconoscimento dell’effetto estintivo
dell’aliud pro alio solvere, se compiuto con il consenso del creditore:
Ulp. 27 ad Sab. D. 13.5.1.5: An potest aliud constitui quam quod
debetur, quaesitum est. sed cum iam placet rem pro re solvi posse,
nihil prohibet et aliud pro debito constitui: denique si quis centum
debens frumentum eiusdem pretii constituat, puto valere constitutum.
Ho altrove cercato di mostrare come questo frammento non
possa essere impiegato a conforto di questa ipotesi 85. Qui noto solo
come Ulpiano non affermi che, in ragione dei principii sulla datio in
solutum, sia ammissibile dedurre in costituto una cosa fungibile, anziché denaro, bensì risponda a un’altra questione. Essa concerne la validità di un accordo fra le parti, antecedente all’adempimento delAlbanese 1971, 130 s.
Cfr. Ferrini 1906, 159, nt. c.
85
Cfr. Costa 2011, 227 ss.
83
84
PECUNIA E RES
301
l’obbligazione fondamentale, in forza del quale il debitore della sors si
sarebbe obbligato – con un constitutum – ad adempiere, entro un termine fisso (il dies constituti), una prestazione differente, senza con ciò
novare l’oggetto dell’obligatio de sorte, ma potendo esercitare la propria facultas solvendi aliud, in sede, appunto, di solutio, con efficacia
liberatoria – ope exceptionis – dell’obbligazione fondamentale stessa. Il
giurista non argomenta, dunque, in merito all’ammissibilità o meno
di un costituto di frumento, ma in merito agli effetti liberatori producibili, stante il diverso oggetto del constitutum rispetto all’oggetto
dell’obbligazione fondamentale. Il profilo critico della fattispecie, che
resta, invero, inevaso da Ulpiano, non riguarda l’oggetto del costituto, ma una questione di natura processuale: la formula imponeva al
giudice l’accertamento, oltreché dell’esistenza del debito originario al
momento della conclusione del constitutum (pecuniam cum constituebatur debitam fuisse), anche dell’identità della prestazione originaria
con quella oggetto del constitutum (eamque pecuniam). Altrove proposi l’ipotesi che la conclusione di constitutum di un aliud imponesse
la necessità per il pretore di adeguare opportunamente la formula; di
recente Bolte ha aderito a questa ipotesi 86, benché resti sfornita di sicuro suffragio nelle fonti.
Ai nostri fini, ribadisco come in D. 13.5.1.5 non si riscontrino
difficoltà circa la possibilità di dedurre frumento in costituto. Dunque, se è ragionevole pensare che, in età adrianea, oggetto del costituto fosse solo denaro, come si evince dalla formula, in età severiana
si ammette come oggetto un bene fungibile, come si evince da D.
13.5.1.5. È per questo che Giustiniano può affermare che i veteres intendevano per pecunia le res quae pondere, numero, mensura constant.
Assumere ciò evita di dover individuare un uso raro di veteres come
identificativo di giuristi tardoantichi 87. Mi pare probabile che l’estensione dell’area oggettiva del negozio si collochi nell’intervallo temporale fra Adriano e i Severi e che sia verisimilmente motivata da una
reazione sul regime del constitutum della disciplina del mutuo, inteso
come mutuo di denaro, ma anche di altre cose fungibili 88.
Cfr. Bolte 2020, 232.
È questa la proposta esegetica di Varvaro 2007-2008, 345 s.
88
Del tutto inconferente è Iul. 11 dig. D. 13.5.23, ove parrebbe trattarsi di un costituto di uno schiavo, non perché rimaneggiato dai giustinianei (come voleva la dottrina più risalente), ma perché esempio di applicazione del meccanismo della perpetua86
87
302
PAOLO COSTA
Giustiniano realizza, pertanto, un’operazione ermeneutica piuttosto ardita componendo due direttrici di sviluppo semantico: una interna al Titolo 13.5 del Digesto e temporalmente precedente, che
aveva condotto all’estensione dell’oggetto del costituto alle cose fungibili, e un’altra correlata all’uso di pecunia in distinti campi dell’ordinamento giuridico, nei quali il lessema aveva assunto un senso più
ampio. Non è trascurabile che l’imperatore parli, in generale, di appellatio pecuniae, con ciò alludendo proprio a una definizione ampia,
valevole in ogni caso, non solo per la pecunia dedotta in costituto. Il
riferimento all’aestimatio monetaria di omnes res in sede di processo
rileva altresì per cogliere la dinamica evolutiva dell’istituto: dal piano
processuale si è probabilmente passati a quello sostanziale, secondo
una dinamica comune nell’esperienza giuridica romana, e ciò può
aver avuto un riflesso sul significato del lessema. Si noti anche che
questo riferimento è coerente con il ruolo proprio della pecunia ricavabile dall’importante frammento di Paolo (D. 18.1.1 pr.) sulla moneta e sulle sue funzioni di scambio, ove la pecunia appare funzionale
alla publica ac perpetua aestimatio, cioè a garantire (in funzione della
sua quantitas e non del suo valore intrinseco) la commensurabilità degli scambi 89.
In C. 4.18.2 la sottolineatura dell’ampiezza semantica di pecunia,
come già accennato, deriva probabilmente dalla lettura che i compilatori del Digesto stavano compiendo delle masse giurisprudenziali
edittale e sabiniana 90: è questo il contesto linguistico di riferimento
per chi scrive C. 4.18.2. Perciò, la sovversione del significato strettamente cotestuale del valore di pecunia nel titolo XVII dell’Editto avviene a causa dell’incidenza del contesto giuridico lato sensu inteso,
cioè della ‘enciclopedia condivisa’ (per usare il linguaggio della linguistica) 91 dai compilatori.
Lo sviluppo tardoantico del constitutum, per come ricostruibile,
può spiegare il retroterra in cui si muove Giustiniano. Bolte 92 ha, da
tio obligationis, in forza del quale dedotta in costituto è comunque un’obbligazione pecuniaria; cfr. Costa 2011, 250 ss.; Albers 2019, 278 ss.
89
Cfr. Marotta 2012, 180 ss.
90
Sul rapporto fra la composizione del Digesto e lo spoglio delle masse giurisprudenziali, cfr. Pugsley 1995; Pugsley 2000.
91
Cfr. Ferrari 2014, 55 ss.
92
Cfr. Bolte 2020, 365 ss., ove fonti e bibliografia; cfr. anche Costa 2021a.
PECUNIA E RES
303
ultimo, ripercorso tale sviluppo e alla sua ricerca rinvio; ricordo qui
gli elementi rilevanti ai nostri fini. Già dall’età severiana, quando si
colloca anche D. 13.5.1.5, il constitutum debiti proprii perdette gran
parte della sua peculiare funzione 93 e lentamente smarrì anche la distinguibilità rispetto ad altre forme di promessa. Il constitutum debiti
alieni, invece, potenziò la propria utilità di negozio con causa di garanzia; correlativamente l’actio de pecunia constituta acquisì una funzione reipersecutoria e non più penale, come si evince già da Ulp. 27
ad ed. D. 13.5.18.2 (che menziona l’opinione di Marcello) e da un
rescritto di Gordiano riportato in C. 4.18.1 94. Le connotazioni formali e terminologiche proprie del costituto ‘classico’ s’infirmarono,
come si coglie anche solo da due rilievi, uno proveniente dall’ambiente occidentale, l’altro da quello orientale.
Se in Paul. Sent. 2.21 si legge: Si quod mihi L. Titius debet, soluturum te constituas, teneris actione pecuniae constitutae, nell’interpretatio corrispondente si trova: Si quis pro alterius debito se pecuniam promiserit redditurum, ad solutionem statutae promissionis est retinendus.
Nella semplificazione dell’interprete della sententia il verbo originario
(e probabilmente tecnico in principio 95) constituere (presente in Paul.
Sent. 2.21) è sostituito con il generico promittere, il che induce a ritenere che l’istituto sia stato ricondotto, nella prassi interpretativa e
applicativa, entro l’alveo delle generiche promesse di debito. D’altra
parte, in Oriente le scuole di diritto garantivano una riflessione più
rigorosa e se ne ha prova – in mirror reading – ricordando il riferimento, in C. 4.18.2, alla subtilitas. In questo quadro si comprende la
consapevolezza giustinianea della non pacificamente condivisa riconduzione entro la pecunia di ogni res, che trova conferma anche dallo
scolio al frammento dei Basilici (sch. 9 ad Bas. 26.7.1 [Schelt. BS
1793, 25]) corrispondente a D. 13.5.1.5, ove si legge: ajnti; nomismavtwn ajntifwnhvsa~ dou`nai si`ton kalw`~ ajntefwvnhsen. Significativamente l’anonimo scoliaste bizantino rende ancora in modo restrittivo il lessema pecunia con novmisma, a indicare la pecunia numerata, contrapponendola a un’altra cosa fungibile, quale il si`to~. Il
Astuti 1941, 318 ss.
La datazione della lex non è chiara, dacché la subscriptio colloca il provvedimento
nel 294 d.C., mentre l’inscriptio lo attribuisce a Gordiano; sul punto cfr. Pedone 2020,
116 e nt. 19, ove bibliografia.
95
Cfr. Costa 2011, 138 ss.
93
94
304
PAOLO COSTA
dato conferma come non fosse un’opinione unanime, in età tardoantica, il ravvisare un pieno inserimento – che sarebbe stato operato già
dai giuristi classici – delle res quae pondere, numero, mensura constant
sotto la categoria della pecunia.
Nondimeno, Bolte mostra come nella prassi si sia verificato un
ulteriore incisivo fenomeno di sostanziale avvicinamento del costituto
(l’ajntifwvnhsi~ delle Novelle greche e delle fonti papiracee) 96 alla stipulatio, che a sua volta aveva subito un’evoluzione deformalizzante 97.
Ciò probabilmente motiva i riferimenti al contratto verbale in C.
4.18.2. Già Astuti scriveva: «è … veramente significativa l’insistenza
con cui nella costituzione del 531 è fatto riferimento alla stipulatio,
tale da confermarci nella persuasione che a questa precisamente l’imperatore tenesse rivolto lo sguardo nel sopprimere le antiche limitazioni del constitutum, nell’intento di una piena equiparazione di questa figura pretoria alla generale forma contrattuale civile» 98. Veniva
così a modificarsi il rapporto fra il constitutum e il vincolo fondamentale e ciò plausibilmente comportò l’attenuazione della rigidità
nella delimitazione dei confini oggettivi del negozio 99.
Per meglio precisare il contesto tardoantico, in cui si pone l’intervento giustinianeo, adduco ancora due elementi, il primo piuttosto
generale e di per sé non dirimente, il secondo specifico e assai rilevante. Anzitutto ricordo una fonte che presenta un linguaggio simile
a quello di C. 4.18.2; infatti, Agostino (Sermo 399.6.6; CC 46, p.
213) scrive: totum…quidquid homines possident in terra, omnia quorum domini sunt, pecunia vocatur; servus sit, vas, ager, arbor, pecus;
quidquid horum est, pecunia dicitur. Et unde sit primum vocata pecunia. Ideo pecunia, quia antiqui totum quod habebant in pecoribus habebant. A pecore pecunia vocatur. L’assonanza con la lex giustinianea
appare evidente. In entrambi i testi si propone una definizione ampia
e generale di pecunia, evidentemente diffusa nel linguaggio comune,
entro la quale sussumere anche cose infungibili, due delle quali (ager
e servus/homo) del tutto corrispondenti.
Se il testo dell’Ipponate rappresenta un indicatore della continuità tardoantica degli usi linguistici notati per l’età repubblicana e
Da ultimo, cfr. Pedone 2020, 122 s.
Sulla stipulatio tardoantica, cfr. Lombardo 2020.
98
Astuti 1941, 315.
99
Cfr. Costa 2021a, 53 ss.
96
97
PECUNIA E RES
305
altoimperiale, elementi di grande rilievo si rinvengono in una fonte
papiracea: P. Ryl. III, 474 (b) verso (FIRA, II 2, 314) 100. Il frammento,
oggetto di una recente riedizione di Fressura e Petito, presenta il seguente testo leggibile 101: ] p(?) ad ed(ictum (?)) …. t potu …. m et pecuniae …. atione uti. nam … a≥ appellatio …. [q]u≥idquid in pat- … t ≥io
e(st) significa- … test … Schulz ne propose un’ingente ricostruzione,
ipotizzando che il documento conservasse un brandello, mai prima
tràdito, del commento ulpianeo all’editto de pecunia constituta 102:
Ul]p(ianus) ad ed(ictum) / [… rem pr(aetor) a]it potu / [it aute]m et pecuniae [appell]atione uti nam / [pecunia]e appellatio / [ne q]uicquid in
pat / [rimon]io i(nest) significa / [tur elegi]t [r]em [u]t [.] / [verbum generale]. Tale ipotesi è stata autorevolmente condivisa da Liebs, Bürge
e Jung 103. Se le parole fossero davvero ulpianee il percorso finora compiuto andrebbe ab imis ripensato e sarebbe altresì necessario chiedersi
le ragioni dell’assenza di un frammento corrispondente a tale testo in
D. 13.5, poiché questo contenuto, conforme al dettato di C. 4.18.2,
sarebbe stato del tutto funzionale agli obiettivi giustinianei. Petito
apre, invece, una prospettiva differente: «Sembra che i frustuli acquistati nel centro della Tebaide, lungi dal risultare ascrivibili al giurista
severiano, fossero parti di un’antologia giurisprudenziale dedicata alla
materia edittale, un utile e agevole strumento per la prassi, ma non
sconosciuto, anzi, concepito, nelle scuole di diritto» 104. Lo studioso
nota che, in questi strumenti della prassi e della scuola, i testi della
giurisprudenza classica ivi collazionati subivano significativi rimaneggiamenti e aggiornamenti. Peraltro, proprio il contesto didattico era
quello in cui più si svilupparono definizioni come quelle in esame 105.
Inoltre, gli studi papirologici collocano paleograficamente il fram100
L’editio princeps è in Roberts 1938, 63 ss. (n. 474). Per successive edizioni, cfr.
Stroux 1950, 1 ss.; Schulz 1951b, 1 ss.; Cavenaile 1958, 173 ss. (n. 88); Sierl
1960, 15; Seider 1981, 65 s. (n. 16); Petito 2018, 145 ss.
101
Il testo è tratto dalla preliminare versione online (http://papyri.info/dclp/
61414) a cura di M. Fressura e A. Petito.
102
Cfr. Schulz 1951b, 17. A Stroux 1950, 11, si deve la congettura che l’incipit
del frustulo presentasse Ul]p(ianus) ad ed(ictum).
103
Cfr. Liebs 1972, 234; Bürge 1982, 156, nt. 111; Jung 2002, 30, nt. 38.
104
Petito 2018, 152. Già Roberts 1938, 64 scriveva: «474 may quite possibly
have consisted of quotations from various jurists, as did Fragmenta Vaticana». Lowe
1971, 16, non attribuì i frustuli a Ulpiano, a differenza di FIRA, II 2, 313 s. e di Sierl
1960, 15.
105
Cfr. Carcaterra 1966, 117 ss.; Martini 1966, 367 ss.
306
PAOLO COSTA
mento in questione al V-VI sec. 106 e Fressura e Petito, nella loro edizione, propongono gli anni fra il 500 e il 533, cioè i decenni precedenti alla pubblicazione del Digesto. In questo contesto, il frammento può rappresentare traccia documentaria della pratica forense o
scolastica che recepisce (non necessariamente a proposito della pecunia constituta) l’appellatio di pecunia che, nel 531, entra – con un atto
che può considerarsi di interpretazione autentica 107 – nella legislazione imperiale. Il papiro conferma la presenza, almeno nell’ambiente
di una scuola di diritto egiziana, della prospettiva accolta in C.
4.18.2: su queste posizioni Giustiniano poteva verisimilmente appoggiarsi, opponendosi, allo stesso tempo, alla subtilitas connotante ambienti forse segnati da maggiore perizia tecnica o da ‘tradizionalismo’.
Concludendo, si può notare come la lunga storia del valore tropizzato del lessema pecunia, a ricomprendere res ben lontane dal denaro, confermi la diffusività – rilevata dai linguisti 108 – della metonimia nel nostro parlare e ragionare e anche nei testi giurisprudenziali e
legislativi. Roman Jakobson, in uno studio imprescindibile sul tema,
notava che tutta l’attività linguistica si articola fra il polo metaforico
e quello metonimico. Ciò vale anche per il linguaggio giuridico di ieri
e di oggi, con conseguenze di non trascurabile valore, che investono
tutta l’attività ermeneutica. Si è visto come non sia sufficiente verificare il significato di un lessema nel suo contesto storico d’impiego;
tanto meno può bastare ricercarne l’etimologia, ma è necessario, anche nello studio diacronico del diritto, che sia il cotesto a illuminare il
contesto per evitare confusioni semantiche che possono riverberarsi in
aporie esegetiche e fallacie argomentative.
106
Questa è la datazione di Lowe 1971, 16; Seider 1981, 66; McNamee 1995,
413; Cavallo 2008, 184, nt. 3; Ammirati 2010, 89.
107
Così Pedone 2020, 119.
108
Lakoff - Johnson 1980, mostrarono come la metafora e la metonimia non
siano solo figure retoriche, ma meccanismi fondamentali del nostro linguaggio e dei
nostri processi cognitivi; cfr. anche Mortara Garavelli 2014, 155 ss.
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Laura Velázquez
CRIPTOMONEDAS.
PECUNIA Y BIENES VIRTUALES.
ANÁLISIS DESDE LA PERSPECTIVA ROMANA DE RES *
«Eigentum ist immer dort, wo Verfügungsmacht ist»
L. von Mises, Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über den Sozialismus,
Jena, 1932 248.
1. Introducción. – Posiblemente cause sorpresa que en el presente
trabajo se trate de un tema tan reciente como las criptomonedas vinculándolo con el contexto de la taxonomía romana de res. Lo anterior
se debe a que, aun y cuando la teoría de derecho privado alrededor de
las criptomonedas se encuentra aún en proceso de desarrollo, existe
una clara aceptación básica que admite su reciente creación como resultado del desarrollo tecnológico, y que pertenecen a la subcategoría
moderna de bienes virtuales, la que a su vez es situada por algunos
dentro de la categoría de bienes inmateriales. Por otra parte, es obvio
que un fenómeno como las criptomonedas no existieron en absoluto
en el derecho romano.
Situación similar experimentaron los bienes inmateriales modernos, por ejemplo, las creaciones intelectuales u obras del ingenio humano, puesto que en Roma no se les atribuía el carácter jurídico de
cosa, ni su creación otorgaba algún derecho a su autor, aunque copiar
*
Este trabajo se desarrolló en mi estancia de investigación en la Robbins Collection de la Universidad de Berkeley, durante el 2022, por lo que quiero agradecer al
Prof. Mayali por su amable invitación y apoyo.
316
LAURA VELÁZQUEZ
creaciones literarias como las comedias, traía aparejada serias críticas
y ataques 1.
Por lo que el surgimiento de los bienes inmateriales en el siglo
XVII y la reflexión de la ciencia del derecho, en el siglo XVIII, producida por el movimiento codificatorio que se preocupaba por encontrar el lugar más adecuado para las creaciones intelectuales dentro
del sistema jurídico. Lo que implicó la necesidad de analizar si los
bienes inmateriales podrían considerarse dentro de la clasificación
(gayana) existente o, por el contrario, se debería configurar una nueva
categoría, lo que se verá sintéticamente, más adelante. Por lo anterior,
es importante precisar que la categoría romana de res incorporales no
se corresponde, ni podría utilizarse para referir a los bienes inmateriales, como ya ha sido puntualizado con gran cuidado por Giovanni
Pugliese en Dalle ‘res incorporales’ del diritto romano ai beni immateriali di alcuni sistema giuridici odierni 2. Sin embargo, ambas categorías, tanto la romana como la moderna, se constituyen en dos momentos diversos dentro de un mismo desarrollo histórico diacrónico
de la tradición romana, lo que los lleva a tener cierta conexión (interrelación) 3. Lo mismo se puede afirmar de los bienes virtuales.
A partir de estas precisiones, analizaremos la distinción romana
entre res corporales y res incorporales. Después, observaremos brevemente de qué forma se relacionan las res incorporales con los bienes
inmateriales, y de qué manera esta relación alcanza a las criptomonedas. Finalmente, nos adentraremos en el análisis de las criptomonedas, para explicitar la manera en la que funcionan en el derecho desde
la perspectiva de res romana.
2. ‘Res corporales’ y ‘res incorporales’. – La distinción entre cosas
corporales e incorporales había sido ya claramente delimitada en la fi1
V. por ejemplo, las críticas contra Terencio, de sus contemporáneos, que sostenían que había plagiado a Nevio y Plauto. Desde mi punto de vista, injustificadas,
puesto que posiblemente se criticaban más las relaciones de amistad con el círculo de
los Escipiones, más que el plagio de las obras, pues es claro observar cierta adaptación
de la comedia griega a la comedia latina, que nos llevaría a cuestionar la originalidad de
la última. V. Velázquez 2020, 51.
2
Pugliese 1982, 1137 ss.
3
De manera similar lo analiza Turelli 2012, 72, quien también retoma a Pugliese.
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
317
losofía griega 4 cuya influencia permeó en la cultura jurídica latina
desde finales del siglo II a.C., como se puede observar en Elio Gallo 5
y la cultura latina en general como se advierte en Cicerón, Lucrecio,
Séneca y otros 6.
Parece ser que Gayo fue el primer jurista en retomarla, a través de
la obra de Cicerón 7 y teniendo como precedente a Elio Gallo 8, y darle
un carácter meramente jurídico. En sus Institutiones 9 es clara la desigV. Pl. Sph. 246 b 8; 247 d 1; Phdr. 85 e 5-86 a 1; Plt. 286 a 5. Por su parte, Arist.
Methaph. 988 b 25; EN 1117 b 28.
5
Ael. Gall. 1 verb. sign. fr. 8 (Bremer, I, 248) = Fest. voce Possessio (Lindsay 260):
Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usu quidam agri aut aedificii, non ipse fundus aut
ager. Non enim possessio est in rebus, quae tangi possunt, nec qui dicit se possidere, is suam
rem potest dicere. Itaque in legitimi actionibus nemo ex iure Quiritium possessionem suam
vocare audet, sed ad interdictum venit … Sobre la fecha de la obra de Elio Gallo, v. Falcone 1990, 5 ss.
6
Cic. top. 5.27: esse ea dico quae cerni tangique possunt, ut fundum aedes, parietem
stillicidium, mancipium pecudem, supellectilem penus et cetera; quo ex genere quaedam interdum vobis definienda sunt. Non esse rursus ea dico quae tangi demonstrarive non possunt, cerni tamen animo atque intellegi possunt, ut si usus capionem, si tutelam, si gentem,
si agnationem definias, quarum rerum nullum subest corpus, est tamen quaedam conformatio insignita et impressa intellegentia, quam notionem voco. Ea saepe in argumentando
definitione explicanda est; Lucr. 1.303-305; Sen. dial. 10.8.1; 11.8.3; epist. 117.2;
Quint. inst. 5.14.34; 11.2.41; Char. gramm. 2.6 (Keil, I, 152.20 ss.). Otras citas de autores romanos y latinos se pueden encontrar en Scialoja 1933, 21 ss.
7
En este sentido se pronuncian Arangio-Ruiz 1994, 162; Pugliese 1951, 261;
Pugliese 1982, 1138.
8
Ael. Gall. 1 verb. sign. fr. 8 (Bremer, I, 248), v. nt. 5. El primero en llamar la
atención en este paso fue Voci 1967, 155, nt. 30, 160; posteriormente Orestano
1968, 145 s.; Orestano 1981, 298, nt. 4.
9
Gai 2.12-14: Quaedam praeterea res corporales sunt, quaedam in <corporales>. 13.
Corporales hae <sunt> quae tangi possunt, veluti fundus homo vestis aurum argentum et
denique aliae res innumerabiles. 14. Incorporales sunt quae tangi non possunt, qualia sunt
ea quae iure consistunt, sicut hereditas, ususfructus, obligationes quoquo modo contractae.
Nec ad rem per<tinet, quod in hereditate res corporales con »tinentur et fructus, qui ex
fundo percipiuntur, corporales sunt, et quod ex aliqua obligatione nobis debetur, id plerumque corporale est, veluti fundus homo pecunia; nam ipsum ius successionis et ipsum ius
utendi fruendi et ipsum ius obligationis incorporale est. Eodem numero sunt iura praediorum urbanorum et rusticorum … (FIRA, II2, 49). Esta distinción es retomada en las Instituciones de Justiniano (I. 1.2.2); el Digesto (D. 1.8.1.1) y en las Sentencias de Paulo
(Paul. Sent. 3.6.11). Es considerada como una antinomia en algunas partes del Digesto
(D. 39.3.8; D. 39.2.13.1; D. 43.26.2.3). No analizaremos estos fragmentos, sino sólo
mencionaremos que, en términos generales, no son considerados como genuinos, lo
que será profundizado en un trabajo posterior. Estamos de acuerdo con Orestano en el
sentido de que Gayo es original al acoger el criterio físico de la tangibilidad y lo restringe al ámbito jurídico (Orestano 1968, 149 ss.) para definir en sentido negativo a
lo incorporal (no tangible cuyo fundamento reside en el derecho), mientras que Cice4
318
LAURA VELÁZQUEZ
nación de res corporales como aquellas quae tangi possunt, que se pueden tocar – y las ejemplifica con un fundo, un esclavo, los vestidos, el
oro, la plata y muchos otros –; mientras que, en sentido contrario, las
res incorporales son quae tangi non possunt, no se pueden tocar, pero
quae iure consistunt, tienen fundamento en el derecho 10 – ilustrada
por la herencia, el usufructo, las obligaciones, las servidumbres urbanas y rústicas –.
No analizaremos a detalle la importancia de la distinción de
Gayo. Para efectos de este trabajo es significativo considerar que
Gayo se aboca en presentar un panorama clasificatorio didáctico en
su manual de derecho, organizándolo en tres partes: personae, res y actiones. No se enfoca a todas las cosas que son objeto de derechos, sino
que, solamente incluye dentro de la categoría res, a ciertos elementos
que no eran considerados como tales antes, tampoco eran considerados res, i.e., las res incorporales 11, y, así, extiende el término res para
comprender a los derechos de contenido económico-patrimonial 12 –
sucesiones, obligaciones y derechos reales sobre bienes ajenos – dando
rón razona en términos de representación intelectual. Podemos observar que ambas
obras se encuentran en niveles epistemológicos diversos. Cicerón está enfocado en el
proceso verbal de definir las cosas ostensibles (las que son porque existen materialmente) y las no ostensibles (no se pueden tocar pero existen en la mente del sujeto que
conoce), se encuentra en el ámbito de la filosofía, y Gayo, al buscar aplicar una clasificación de las cosas jurídicamente importantes basada en la corporeidad o incorporeidad
de éstas, se coloca en el ámbito de la Jurisprudencia (ciencia del derecho). Sin embargo,
podemos observar que Elio Gallo ya se ubicaba en el ámbito meramente jurídico al definir términos concretos, en este caso la possessio y desvincularla de las res corporales. En
este sentido, las res incorporales son un elemento importante en la sistemática gayana,
como lo señala Arangio-Ruiz 1994, 13.
10
En este mismo sentido, sigo la traducción de Orestano 1968, 152, nt. 93,
construida a través del verbo consistere + abl. que modifica el significado del pasaje del
plano subjetivo al plano objetivo. Sin embargo, en Gai. 2 inst. D. 1.8.1.1; I. 2.2.2. se
reproduce el texto de Gayo con una variante: en lugar del consistere + abl. se introduce
la preposición in antes de iure consistunt, siguiéndose más el texto de la compilación,
por lo que se interpreta que las res incorporalis en vez de tener ‘fundamento en el derecho’, son derechos o relaciones jurídicas. En este sentido, v. Fadda - Bensa 1926, 185
(nt. g del § 42). Por su parte, Voci 1967, 155, nt. 30, 160, lo interpreta como derechos.
11
En este sentido v. Guarino 1992, 330, nt. 26.2.
12
Algunos consideran que las res incorporales son elementos patrimoniales como
Windscheid 1886, 118 ss.; Girard 1909, 265; Pugliese 1982, 1140 s.; Pugliese
1991, 430 s. También hay quienes sostienen que son derechos, v. Arangio-Ruiz 1994,
113 s.
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
319
coherencia a su manual tripartita, no a los derechos en sentido amplio 13.
Son determinantes las aportaciones de Windscheid, en el estudio
de esta diferenciación, quien considera que la corporalidad es fundamental para hablar de res en sentido estricto por lo que los antiguos
romanos solo habrían conocido las cosas corporales, y que la distinción pudo realizarse por juristas posteriores que la refirieron a las cosas que pueden fungir como elementos del patrimonio, no a las cosas
en general que pueden ser objeto de derecho 14. Asimismo, considera
que no tiene razón de ser fuera del patrimonio.
En esta tesitura, y por razones que no expondremos aquí porque
excede el objeto de este trabajo, es altamente factible considerar que
la distinción no tiene un valor jurídico ni consecuencias prácticas en
el derecho romano clásico, sino hasta Justiniano, como lo señala Baldessarelli 15. En síntesis, antes de este momento su valor es meramente
filosófico derivado de la influencia aristotélica, pues es una mera
construcción intelectual 16.
3. ‘Res incorporales’ y bienes inmateriales. – Ahora bien, en lo que
respecta a la relación entre res incorporales y bienes inmateriales,
como es bien sabido, en los países de sistema jurídico civilista, la consideración de los derechos dentro de la categoría de los bienes, se vincula a la categoría de res incorporales gayana. Esta noción se retomó y
consideró válida por los doctrinarios del movimiento codificador 17.
El impacto más importante de la categoría de cosas incorporales
se puede observar, a mediados del siglo XVIII, cuando la noción
misma marca la pauta para calificar y clasificar nuevas cosas o tipos de
13
Consideran que la distinción se extiende, de manera general, a todo el régimen
jurídico de res romana, cfr. Scialoja 1933, 21, 25; Fadda - Bensa 1926, 187; Biondi
1953, 22.
14
V. Windscheid 1886, 658.
15
Baldessarelli 1990, 87: «A proposito della rilevanza giuridica della distinzione
tra res corporales e res incorporales nel diritto romano classico». Tampoco parece que la
diferenciación entre corpora e iura haya sido importante para los juristas romanos
(p. 91).
16
V. arriba Res corporales y res incorporales, en especial la nt. 10.
17
Sobre el uso de ‘cosa o bien incorporal’ en la doctrina anterior y posterior al
movimiento codificatorio v. Pugliese 1980, 1160, nt. 30.
320
LAURA VELÁZQUEZ
bienes que surgían como resultado del desarrollo económico, que no
existían en la realidad jurídica gayana, ni justinianea, ni en la tradición romanista previa a este momento 18. En este punto, es fundamental el trabajo de Pugliese, Dalle ‘res incorporales’ del diritto romano
ai beni immateriali di alcuni sistemi giuridici odierni, mencionado con
anterioridad 19.
Estos nuevos tipos de bienes son las creaciones intelectuales u
obras resultado del ingenio de su autor 20, actualmente consideradas
bienes inmateriales. Ante estos nuevos bienes, la doctrina considera
necesario, en primer lugar, buscar si ya existía una institución o categoría dentro de la cual pudiesen encuadrarse o tomarse como punto
de referencia para su estudio, siendo consideradas las cosas incorporales gayanas como la clase más apropiada. En este sentido, se formularon dos posturas que trataban de explicar la relación entre la clasificación romana y la moderna de res corporales-incorporales, principalmente en relación con los nuevos bienes.
La primera sostenía que entre la clasificación romana y la moderna existía una equivalencia entre ambas clasificaciones, siendo la
moderna una continuación de la romana y, por ende, correlaciona las
cosas incorporales romanas (la herencia, el usufructo, las obligaciones
y las servidumbres) con los objetos de derecho, lo cual permitió ubicar a las creaciones intelectuales como objetos de derecho sin corporeidad, al lado de las cosas corporales 21. La segunda, considera un total divorcio entre ambas clasificaciones al punto de abandonar la terminología romana y crear una nueva categoría de bienes que sea
acorde a la creación intelectual moderna: bienes inmateriales que
comprende solamente los derechos patrimoniales 22; o, como señala
Pugliese 1980, 1160.
V. arriba, nt. 8.
20
En el derecho romano no eran consideradas cosas o bienes, por ende, su autor no
tenía ningún derecho derivado de la misma, en este sentido, v. Pugliatti 1959, 164 ss.;
Pugliatti 1962, 19 ss.; Guarino 1992, 330, nt. 26.2; Pugliese 1982, 1175 y nt. 56.
21
A este respecto v. Turelli 2012, 82. Algunos que sostuvieron esta postura son:
Scialoja 1933, 21 ss.; Fadda - Bensa 1926, 187; Biondi 1953, 21 ss. Windscheid fue
el primero en presentar el desarrollo conceptual de las cosas incorporales de manera
más estructurada, al considerar que las creaciones intelectuales deben ser consideradas
como cosas incorporales – al lado de las romanas derechos y universalidades de cosas.
V. Windscheid 1886 § 42 y § 137.
22
Sobre la acuñación de la nueva terminología v. Pugliese 1982, 1183 ss., nt. 74.
En esta vertiente, al proponerse una separación total entre ambas categorías, se formu18
19
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
321
Pothier y ha seguido la doctrina francesa, que los bienes incorporales,
dentro de los cuales se encuentran los derechos, sean clasificados
como muebles o inmuebles, según su especie u objeto 23.
En este sentido, podemos observar que de una u otra forma, la
clasificación gayana se toma como punto de partida o punto de quiebre de la clasificación del siglo XVII y XVIII.
Ahora bien, a partir de la aparición de nuevas cosas cuya importancia trasciende al ámbito del derecho, como los bienes digitales, virtuales, etc. es necesario discutir dentro de qué categoría podría clasificarse para, así, vislumbrar un régimen jurídico que permita resolver
las controversias que se presenten de la manera más clara posible.
4. Bienes inmateriales y las criptomonedas. – Las criptomonedas
son un fenómeno muy reciente (2009), consistentes en monedas virtuales que, a su vez, pertenecen a una categoría más amplia: los bienes virtuales (1997) 24.
4.1. Bienes virtuales. – Un proceso similar al experimentado por
los bienes inmateriales sucedió en el caso de los bienes virtuales. El
moderno concepto de bienes virtuales, donde el adjetivo “virtual”
proviene del latín medieval virtualis, cuya evolución semántica sigue
un camino muy sinuoso hasta llegar al significado actual 25, que es el
que se incluye en el lenguaje de la informática presente. La connotación moderna de ‘virtual’ fue formulada con anterioridad por Santo
Tomás y transmitido hasta el siglo XX, en el que virtualis deriva de la
concepción de virtus entendida como una fuerza concebida como la
laron teorías que explicaran la nueva realidad de los bienes inmateriales, por ejemplo,
la teoría de los Immaterialgüterrecht de Kohler 1895, 241 ss. (v. también Kohler
1894, 141 ss.).
23
Pothier 1830, 140.
24
Sobre este tema, v. Barfield - Sheridan - Zeltzer - Slater 1995.
25
Como claramente señala Biosca i Bas: «Desde el uir masculino hasta la ‘realidad
virtual’ el trayecto ha sido largo e impredecible. Y el camino no se detiene nunca. Estamos siendo testigos de un reciente cambio semántico en la larga evolución semántica
de las palabras, como lo fue la uirtuositas entre los autores cristianos o la uirtualitas entre los escolásticos. El último cambio, el último significado de ‘virtual’, lo encontrará
usted seguramente a diario en esta misma pantalla en la que está terminando de leer
este artículo» (Biosca i Bas 2009, 37).
322
LAURA VELÁZQUEZ
capacidad de que algo se convierta en lo que actualmente no es 26. En
otras palabras, es aquello que tiene la capacidad de funcionar como
algo, aunque realmente no lo sea, pero que es algo que sin ser real
produce el mismo efecto como si lo fuera. Este concepto tomista es
tomado claramente de la dicotomía aristotélica de duvnami~ (dýnamis)
- ejnevrgeia (enérgeia): potencia y acto 27.
En relación con los bienes inmateriales, desde el siglo XIX la
ciencia jurídica europeo-continental y, en cierta forma, el Common
Law 28 se ha ocupado de la categoría romana de las res incorporales
mientras reflexiona sobre los bienes inmateriales y su funcionamiento
jurídico. De esta forma, la doctrina instauro una conexión entre las
producciones del intelecto humano y las romanas res incorporales 29, lo
que producía una confusión entre las creaciones intelectuales, los derechos sobre sobre los derechos y la apropiabilidad de las energías en
el mundo físico 30.
Sin embargo, como fue precisado anteriormente, tanto los bienes
inmateriales como las romanas res incorporales no existe una relación
de congruencia, sino que son dos categorías constituidas en dos momentos diversos dentro de un mismo desarrollo histórico diacrónico
de la tradición jurídica romana.
En este mismo orden, buscamos la relación existente entre los
bienes inmateriales y las criptomonedas, puesto que en sentido gene26
Así se refiere virtus: al principio de las cosas – semper virtus nominat principium
alicuius (Scriptum super sententiis 4.1.1.4) –; al principio de toda acción – virtus dicitur,
secundum quod est principium actionis et tenet se ex parte (Summa Theologiae I.2.P.) y virtus dicitur secundum quod est principium actionis (Scriptum super sententiis 4.46.1.1) –;
o como principio de un movimiento o de una acción – virtus significat principium motus vel actionis (Summa Theologiae I-II.26.2). Por ello, el cuerpo humano está virtualmente en el semen, porque este tiene la capacidad deconvertirse en un cuerpo humano
– corpus humanum in semine est virtualiter (De potentia 3.9.9); el árbol entero se encuentra virtualmente en la raíz del árbol – radix virtute dicitur esse tota arbor (Summa
Theologiae II-II.19.7); cada causa tiene un efecto virtual, ya que en la causa existe virtualmente el efecto de que llegue a ocurrir, la capacidad de que ese efecto se produzca
– Effectus enim virtute praeexistit in causa (Summa Theologiae I-II.20.5); y todo lo que
existe de manera virtual u original puede convertirse en una realidad, en un acto – id
quod est in eis originaliter et virtualiter, … in actum educi potest (De veritate 11.1.5). V.
Biosca i Bas 2009, 27.
27
Dicotomía desarrollada en Arist. EN 1127a34; 1099b16; 1117b24 y Metaph.
1045b21; 1051a4. V. también GC 327b22; de An. 412a27 y 415a18.
28
Pugliese 1982, 1189 ss.
29
Pugliese 1982, 1175 ss.
30
Ascarelli 1970, 285 ss.
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
323
ral se afirma que las últimas son bienes inmateriales, lo que es de considerarse cuestionable, si refieren a las creaciones literarias como bienes inmateriales. Por otro lado, es razonable si se habla de criptomonedas como bienes que no pueden tocarse, i.e., bienes incorporales en
el sentido romano.
De manera sintética, es imprescindible comentar que los bienes
virtuales considerados los antecesores y el género de las criptomonedas 31 son aquellos que permitieron la creación de riqueza digital, a
través de grabar en los discos duros, como créditos, los avances de los
juegos de computadoras y, más tarde, juegos en internet. Posteriormente, los desarrolladores de estas plataformas se aprovecharon de los
patrones de juego de sus usuarios para venderles bienes, de mundos
virtuales de juego, por los que estaban dispuestos a pagar. Finalmente,
se inicia la venta directa de riquezas digitales obtenidas por los jugadores, a cambio de dinero corriente. Entonces, estos bienes virtuales
surgen en el ámbito de la tecnología como objetos no físicos; como
bienes y dinero utilizado en comunidades y juegos on-line 32; que configuran una riqueza virtual; asimismo, son intangibles (incorporales)
por definición, inmateriales por lo que son consideradas servicios que
pueden ser objeto de contratos de licencia 33 pero no objeto de propiedad para los jugadores, protegidas como propiedad intelectual de
los creadores de contenido digital en el juego 34.
Al ser estos los antecesores de las criptomonedas, para muchos es
razonable extender las características de los bienes que anteceden a los
31
Esta relación deriva de la existencia de ciertas características comunes entre ambas monedas, que ninguna otra moneda previa, ni el dinero electrónico, compartía, i.e.,
no tienen respaldo físico, pero aún así, cumplen características económicas esenciales
del dinero corriente, pues son escasas y excluyentes – no se pueden poseer por dos personas al mismo tiempo. V. LeBlanc 2016.
32
El concepto de ‘crédito’ en los juegos on-line inicia el proceso de evolución que
lleva a las criptomonedas, pues la posibilidad de grabar los juegos y sus avances permitió que se crea la riqueza digital y su acumulación. Esta riqueza digital surge y se desarrolla siguiendo el principio de escasez, que llevó a los jugadores-trabajadores a vender
directamente las riquezas digitales (recompensas escasas) por dinero real – conocido
como RMT (real money trading) o cosecha de oro (goldfarming) –. En general, esta industria ha tenido un crecimiento económico exponencial en los últimos años. Más información sobre estos mundos virtuales y su proceso de evolución v. Barroilhet Díez
2019, 29 ss.; Bartle 2004; Lastowka - Hunter 2004, 24.
33
V. bibliografía en bjt35 2012 y Bartle 2004.
34
Sobre este punto véase Barfield 2006.
324
LAURA VELÁZQUEZ
bienes que les continuaron. Sin embargo, como se verá más adelante,
ambas situaciones son diversas e, incluso, los derechos que se argumentan existen en cada caso, son disímiles, puesto que los bienes virtuales de los juegos permiten atribuir a su creador un derecho sobre
los mismos, cuyo uso puede permitirse a otros a través de un contrato
de licencia a cambio de dinero corriente, pero siguen siendo virtuales,
no tienen una realidad material, más allá del juego, mientras que las
monedas virtuales como el Bitcoin, consisten materialmente en un
código numérico y funcionan como dinero corriente para comprar
cualquier tipo de bienes que pueden tener una existencia material o
no. Las criptomonedas nos permiten reconocer en el tenedor a un poseedor civil en el sentido romano – llamado por algunos control. Son
dinero virtual en el sentido Tomista: una fuerza concebida como la
capacidad de que algo se convierta en lo que actualmente no es 35, i.e.,
ese código numérico se convierte o funciona como dinero – gracias a
un reconocimientos y aceptación general en una comunidad determinada, en términos de Menger 36.
4.2. Criptomonedas. – Con la aparición, en 2009, del ensayo Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System y su puesta en marcha en
2010, inició un proceso de innovación tecnológica con la implementación del blockchain en el ámbito del comercio electrónico, lo que
implicó una trascendencia del mundo virtual al mundo real – más
allá del intercambio de la riqueza digital por dinero real – 37. Pues con
blockchain se crea una moneda virtual ex professo, para llevar a cabo
pagos de comercio electrónico de bienes y servicios del mundo real,
i.e., una moneda virtual que generalmente funciona como una moneda real – en sentido económico y jurídico, más no en el tecnológico-fáctico –, para todos aquellos que aceptan utilizarla. Sin embargo, las características tecnológicas que la diferencian de cualquier
otro fenómeno previo, su surgimiento y funcionamiento de facto, inV. arriba, nt. 27.
V. más adelante: Criptomonedas ¿moneda o dinero virtual?
37
Lo que implicó la superación de ciertos problemas técnicos de las monedas virtuales previas: la centralización del control, posibilidad de modificación, por parte del
emisor, cambio de costo en el tiempo de usar la moneda frente a retenerla (tasa de interés de descuento básica de cada economía virtual), y el aumento de la emisión (impuesto inflacionario). Cfr. Barroilhet Díez 2019, 39.
35
36
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
325
dependiente al derecho, su creciente toma de importancia en el ámbito comercial y financiero, la extensión de su uso a otros ámbitos,
entre otras cuestiones, dejan en evidencia la falta de categorías jurídicas modernas coherentes para regularlo, pero más importante, plantean dificultades para interpretar los derechos y las relaciones jurídicas que podrían surgir.
El blockchain está en proceso de desarrollo y es cada vez más utilizado en diversos escenarios. De ello deriva la complejidad de querer
delimitar su naturaleza jurídica. No consideraremos los detalles tecnológicos, sólo es importante mencionar los datos generales relativos
a su configuración. Como lo explica claramente Matthias Lehmann,
la DLT (Distributed Ledger Technology) no exige ni garantiza la existencia de un acuerdo entre las partes, simplemente requiere que se
cumpla con los requisitos tecnológicos, a saber, el uso de la clave privada y pública correctas. Por ello, el resultado producido por DLT
puede, en muchos sentidos chocar con el derecho privado clásico.
Asimismo, permite transferir activos en Internet sin ninguna intervención de los bancos u otros intermediarios que puedan ser controlados por el Estado a través de un procedimiento sencillo: una transferencia DLT se inicia cuando el cedente introduce una clave digital
única que solo él conoce (‘clave privada’) así como la clave públicamente conocida del cesionario (‘clave pública’) en una cadena de firmas digitales en internet. Posteriormente puede compartir la transferencia mediante un ‘hash’ único (una cadena de números) a servidores
informáticos (los llamados ‘nodos’), que verifican la validez de las claves y la conformidad con las transferencias anteriores de la cadena 38.
Cada uno de los nodos guarda su propia copia de todas las transferencias (el ‘registro’) con el que comprueba la nueva transferencia.
Los nodos trabajan de forma descentralizada y están dispersos por
todo el mundo (‘registro distribuido’). Se les asigna una ‘tarifa’ para
incentivarles a realizar el trabajo de verificación. Su esfuerzo de verificación se traduce en la adición de un nuevo bloque a la cadena (de
ahí ‘blockchain’). Una vez que se demuestra que se ha invertido suficiente trabajo en el proceso de verificación, el bloque más largo – que
representa la decisión de la mayoría de los nodos – será aceptado por
38
Lehmann 2019, 100.
326
LAURA VELÁZQUEZ
todos los demás. A partir de este momento, la cadena ya no puede ser
alterada sin rehacer todo el trabajo de verificación que se ha llevado a
cabo, lo que se hace aún más difícil a medida que se añaden nuevos
bloques. Todo este proceso es independiente de cualquier norma legal 39.
La transferencia se produce mediante la combinación por parte
del cedente de su clave privada con la clave pública del cesionario y la
posterior confirmación de la transferencia mediante el proceso de verificación. Nada de esto requiere la intervención de notarios, abogados o intermediarios que puedan ser supervisados, por ejemplo, bancos, agentes de compensación o depositarios. Tampoco necesita un
contrato o cualquier otro acuerdo o acto legal. En este sentido, la caracterización del código como ley que argumentan todos los defensores de la autonomía del Bitcoin parecería totalmente adecuada.
Dentro de su desarrollo podríamos señalar las siguientes etapas:
1. Etapa inicial se caracteriza por la irrupción del Bitcoin como
un sistema de pagos electrónico entre pares, dirigido a eliminar la relación de dependencia exclusiva que se tiene en las instituciones financieras como terceros de confianza para procesar los pagos electrónicos 40; sustentada en la tecnología (DLT) que es un sistema descentralizado que busca escapar a la manipulación del Estado y a la
ineficiente y costosa intermediación financiera de los pagos electrónicos internacionales; además, una tecnología inmutable, ya que, cualquier dato de información que una vez entrado en la tecnología distribución de bloques no puede ser alterado, cambiado, borrado o hackeado; tiene un mayor grado de privacidad en comparación con el
sistema bancario u otros sistemas de pago en línea; es fácil de verificar a través de la cadena de bloques pública, por lo que a su vez es
transparente; escapa de la inflación al separar la creación de dinero
del Estado 41; es autónomo, es decir, se gestiona automáticamente, sin
Lehmann 2019, 100.
De ahí el llamado de su creador Satoshi Nakamoto: «an electronic payment system based on cryptographic proof instead of trust, allowing any two willing parties to
transact directly with each other without the need of a trusted third party». V. Nakamoto 2008, 1.
41
Aunque, con relación a la inflación, se ha presentado un problema reciente, pues
la desaparición de la stablecoin Luna UST se produjo como consecuencia de la inflación
y de que fue creada con una paridad 1-1 con el dólar.
39
40
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
327
la necesidad de que exista confianza en un tercero que lo valide, y
que, a su vez, se configura como activos digitales de inversión 42.
2. En lo que podríamos llamar una segunda etapa, la tecnología
del blockchain experimenta un boom en 2017 y se crea una gran cantidad de divisas o monedas digitales para múltiples actividades económicas; también se utiliza el blockchain en los servicios financieros
por bancos y como mecanismos de recaudación de fondos (Initial
Coin Offerings, ICO) que fueron prohibidos en varios países saliendo
de las bolsas de valores, dando paso a los Security Token Offering
(STO) 43; el dinero se vuelve programable dando pie a los contratos
inteligentes (Smart Contracts) 44; aumenta la inclusión financiera de
aquellos que fueron excluidos del sistema financiero; surgen los blockchains corporativos y privados; se tokeniza la economía; permite un
comercio de igual a igual, en el comercio de energía, por ejemplo;
también se utilizó en la gestión de cadenas de suministros, en la minería de materias primas preciosas; suministros de alimentos e industria de la moda; también ha trascendido a la industria de seguros, por
ejemplo, implementando seguros entre iguales, etc.
3. Actualmente, si pudiésemos referirla como tercera etapa, el uso
de la cadena de bloques está en constante ampliación (por ejemplo
internet 3.0).
Como se puede observar, cuando se habla de criptomonedas, en
específico de Bitcoin, no se habla de derechos de autor derivados de
la creación tecnológica, como se hablaba en las comunidades y juegos
on-line. Sino que se habla de los derechos reales que tiene aquel que
compro monedas virtuales.
De lo antes dicho, surge la cuestión de si las criptomonedas pertenecen a la categoría moderna de bienes inmateriales o si tiene convergencia con la clase de las res incorporales romana. También es, relativamente fácil percatarse que, desde su funcionalidad, se comportan
como dinero pecunia 45 – que entran en la clasificación de bienes muebles y, por ende, corporales, objeto de propiedad y posesión.
42
En el presente estudio no profundizaremos en la forma en la que la tecnología
del blockchain funciona técnicamente, se presume el conocimiento del lector.
43
Para más información sobre este punto, v. Lambert 2022, 299 ss.
44
Un contrato inteligente es un contrato autoejecutable en el que los términos del
acuerdo entre el comprador y el vendedor se escriben directamente en líneas de código.
45
V. lo expresado por su creador Satoshi Nakamoto: «an electronic payment sys-
328
LAURA VELÁZQUEZ
4.3. Las criptomonedas y su consideración jurídica. – Cuando aparece el Bitcoin, iniciaron las indagaciones en diversos ámbitos de la
economía, el Estado, la tecnología y el derecho para dar respuesta a
una serie de preguntas sobre su naturaleza, recurriendo a las categorías existentes, pues, como todo fenómeno nuevo, las criptomonedas
aún siguen en desarrollo experimentando con los elementos del sector financiero, económico, político, etc. 46. En este sentido, no obstante las fuertes pérdidas de valor que experimentan las criptomonedas desde mayo 2022, siendo la primera criptomoneda que surgió, la
más fuerte y que se siguió como modelo, su importancia está en ascenso, y las discusiones teóricas para comprender este fenómeno siguen, sin que se vislumbre un resultado más o menos uniforme. Por
ello, este análisis se hará sobre la base del modelo DLT de Bitcoin 47.
Las principales discusiones se centraron alrededor del derecho público, y en un contexto del Common Law, tratando de responder las
preguntas ¿si el Bitcoin debía regularse financieramente, imponiendo
una licencia a los operadores de plataformas, con el objeto de proteger a los consumidores de fraudes y evitar el lavado de dinero?, ¿si se
debía establecer un impuesto a las ganancias generadas?, buscar evitar
que se utilizara en el mercado de bienes prohibidos, que se utilizara
para el chantaje, fraude, el lavado de dinero, robo de Bitcoins, entre
otros.
En el ámbito del derecho civil, las discusiones fueron menos y se
orientaron en dos sentidos: proponer una teoría integral de las Criptomonedas o analizar los efectos jurídicos que se producen en el ámbito privado, derivados de su uso. A este respecto, siguen existiendo
fuertes desacuerdos sobre su naturaleza jurídica, derivados de las diversas interpretaciones de las criptomonedas como dinero, bienes inmateriales, propiedad o posesión, o como una obligación. Dichos detem based on cryptographic proof instead of trust, allowing any two willing parties to
transact directly with each other without the need of a trusted third party» (Nakamoto
2018, 1).
46
Tanto que el 10 de mayo 2022 experimentó su caída más fuerte en los últimos
10 meses, llegando a valer 29.000 USD por unidad.
47
Las otras criptomonedas tomaron como modelo DLT de Bitcoin, pero buscando
mejorar sus protocolos incluyeron algunas variaciones, por ejemplo, Ethereum y Peercoin tienen un protocolo denominado ‘prueba de interés’ (proof-of-stake) que implica
un cierto grado de centralización ya que da más peso al consenso requerido para validar las transacciones al usuario que tiene un mayor interés en el destino de la moneda.
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
329
sacuerdos derivan también de la diversidad de regulaciones y de variaciones en las categorías de derecho privado que se dan en países de
tradición jurídica romano-germánica (Alemania) y en países que pertenecen al Common Law (EE.UU. e Inglaterra, por ejemplo).
No podemos ser exhaustivos con el análisis jurídico de las criptomonedas, sino que solamente se llevará a cabo un breve examen de algunas posturas que buscan explicar el estatus de las criptomonedas
para, posteriormente, analizar y de qué manera las taxonomías romanas podrían aportar en su comprensión y en una propuesta de interpretación jurídica de esta reciente realidad que desafían las categorías
existentes.
5. Naturaleza jurídica de las criptomonedas. – Originalmente el
Bitcoin es descrito como «a purely peer-to-peer version of electronic
cash [that] 48 would allow online payments to be sent directly from
one part to another without going through a financial institution»; y
una moneda electrónica definida como una cadena de firmas digitales en la que el propietario transfiere la propiedad de la misma firmando digitalmente con un número (hash) las transacciones previas,
mientras que quien recibe la propiedad utiliza una key pública para
agregar otro bloque al final de la moneda 49.
Sin duda, se pueden observar un elemento importante, que no
presenta problemas en su aceptación, i.e., su naturaleza virtual, el Bitcoin está constituido por una cadena de datos, es algo único y específico, i.e., formalmente es un bien intangible, inmaterial. Sin embargo, no puede ser consideradas dentro de la creación intelectual,
porque está protege toda actividad que represente una creación intelectual y está compuesta por reglas que tutelan el software, pero en el
caso de las criptomonedas no se busca proteger como tal la creación
intelectual personal ni el uso de software – la cadena de bloques fue
Los corchetes son míos.
Nakamoto 2018, 1 s. Sustancialmente, en el mismo sentido, definen MerriamWebster Dictionary online, s.v. Criptocurrency (https://www.merriam-webster.com/dictionary/cryptocurrency); European Central Bank 2012, 6. Y en su versión revisada:
«a digital representation of value, not issued by a central bank, a credit institution or
e-money institution, which in some circumstances can be used as an alternative to
money» (European Central Bank 2015, 4).
48
49
330
LAURA VELÁZQUEZ
creada con el objeto de que se utilice públicamente, de manera
abierta, por todos aquellos que hayan adquirido Bitcoins –, sino el resultado de un proceso de software, constituido por el protocolo.
Sin embargo, sus cualidades no se agotan en los elementos tecnológicos, sino, todo lo contrario. Esos elementos tecnológicos son un
punto de partida en el desarrollo las criptomonedas, ya que tienen
una función más amplia en los ámbitos mercantil, económico, financiero y jurídico. En este sentido, las características con las que surgieron y en las que nos centraremos son: que constituye cash digital, que
se configura como un medio de cambio basado en una tecnología
descentralizada, independiente de todo control financiero, que sobre
el mismo existe un derecho de propiedad que puede ser transferida.
6. Criptomonedas ¿moneda o dinero virtual? 50 – Para poder contestar a esta cuestión, analizaremos brevemente las teorías del dinero
para observar si las criptomonedas pueden ser consideradas como tal.
Es bien conocido y generalmente aceptado que, en las civilizaciones griega y romana antiguas, la acuñación de moneda era una actividad monopolizada por la autoridad de la comunidad política. Estas
ideas son aceptadas desde Platón 51, Aristóteles 52, los juristas romanos
y, seguida, por los escritores medievales. Todo esto, fundándose en la
idea de que la moneda, especialmente la metálica, había sido instiPara efectos de este trabajo, consideramos dinero y moneda como sinónimos.
En la República Platón, como es sabido, desprecia la propiedad privada, el trabajo de comerciante, el trabajo en sí mismo y el uso del dinero. Sin embargo, el dinero
facilita el intercambio, por lo que se erige como moneda, por tal función. En las Leyes
rechaza el uso del oro y la plata como dinero (moneda de uso cotidiano en alguna polís griega en concreto) pues al ser metales preciosos se perciben como riqueza y, por
ello, se buscará acumularlos (reserva de valor). Sin embargo, son útiles para el intercambio internacional derivado de expediciones, visitas al extranjero, embajadas o misiones de Estado (moneda helénica universal), esta moneda está respaldada por la comunidad política que la emite. Platón tiene una visión más avanzada sobre el dinero
que Aristóteles, pues comprende la naturaleza dual de la moneda (intrínseca y extrínseca). Cfr. Pl. R. 2.371b ss.; Lg. 5.742a.
52
Las ideas de Aristóteles sobre el dinero parecerían estar más articuladas. En la Política considera que todas las cosas tienen una utilidad directa que es natural y justificada; y otra derivada del intercambio directo que recurre al dinero como medio de intercambio, por ello es antinatural. Sostiene que la función principal del dinero es fungir como medio de intercambio de mercancías, por ello, también es una mercancía.
Reconoce el carácter ficticio de la moneda, cuyo valor recae en un acuerdo tácito de los
usuarios de la misma (contratantes). Cfr. Arist. Pol. 1257a36 y b; EN 1133a20 y b.
50
51
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
331
tuida por causa de interés público, como medio de cambio universal
por una convención o ley general. Idea que carece de sentido si se le
vincula al origen, puesto que parecería que el surgimiento del dinero
se dio institucionalmente y de manera espontánea y automática en
múltiples lugares del mundo.
La consideración anterior fue formulada en una teoría por Georg
Knapp, Staatliche Theorie des Geldes 53, conocida como la teoría estatal
de dinero, que en la actualidad cuenta con gran aceptación. Esta postura establece que el concepto de dinero, desde un punto de vista estrictamente legal, está vinculado con la soberanía del Estado, que monopoliza el establecimiento de los sistemas monetarios y es el encargado de emitir moneda y determinar sus propias políticas monetarias
y cambiarias, dentro del marco legal. Lo que reafirma esa idea es el
hecho de que, hoy en día, basados en su estructura constitucional, los
Estados contienen en sus respectivas Cartas Magnas el establecimiento de sus sistemas monetarios.
Por otra parte, en el ámbito del derecho privado, el dinero es considerado un bien mueble. Desde el punto de vista sociológico y económico el dinero debe cumplir con las funciones de ser a) medio de
cambio; b) unidad de cuenta y 3) depósito de valor.
Ahora bien, observando detenidamente esta teoría, es factible advertir que no explica con claridad al dinero como tal, sino que lo restringe a su momento de institucionalización como un fenómeno formal, estatal, estricto e institucionalizado. Además, parece ignorar la
realidad cambiante en la que el dinero surge, en un contexto de comercio, para resolver determinados problemas de intercambio de bienes, en el ámbito de derecho privado.
Por otro lado, considerando la teoría de Karl Menger en su
Grundsätze der Volkwirtschaftslehre (Principles of Economics) 54, presenta
un origen e idea del dinero fundada en el comercio, como resultado
de la evolución social, que permitió a los comerciantes observar qué
53
V. Knapp 1905, 47 ss. Tesis que fue muy criticada por economistas, ya que ignoraba la realidad de las prácticas del mercado en cuando al uso del dinero, cfr. Mises
1924. Asimismo, vinculada con el concepto de autoridad soberana del Estado con respecto al sistema monetario, se ha formulado una teoría institucional del dinero que
pone énfasis en el papel independiente de un banco central, cfr. Sainz de Vicuna
1871.
54
Viena, 1871.
332
LAURA VELÁZQUEZ
bienes o mercancías podían ser vendidas con mayor sencillez (liquidez
de las mercancías, Absatzfähigkeit), hasta llegar a la adopción de los
metales preciosos como divisas o medio de cambio. En esta tesitura,
en su origen, cualquier bien funcionó como medio general de cambio
y, por ende, de acuerdo con las costumbres y practicas mercantiles,
cualquier cosa pudo, ser considerada dinero. Esto se puede observar a
lo largo de la historia cuando, por ejemplo, el ganado 55 y la sal 56 en
Roma, el arroz en China y Filipinas, el cacao en México, té (tea
bricks) en China, Mongolia, Tíbet y Asia central, entre otros bienes,
fungieron como medios generales de cambio en diferentes lugares. En
síntesis, la realidad social-comercial ha podido fehacientemente crear
sus medios generales de cambio y pago en la economía, sin requerir,
en primera instancia, a las instituciones de la comunidad política y,
por ende, sin referir necesariamente al marco jurídico 57, pero basados
en un reconocimientos y aceptación general en una comunidad determinada.
Por lo que respecta a las criptomonedas, haciendo una interpretación de la teoría estatal, su carácter de dinero o mecanismo de moneda se niega de manera contundente puesto que, por su origen descentralizado e independiente del Estado, nunca podrían considerarse
como tal.
Sobre las funciones del dinero, las criptomonedas, al surgir como
una propuesta de dinero electrónico para realizar pagos por internet
cumplen, aunque primigeniamente, con la función de ser una medida de pago o de cambio siempre y cuando haya personas que deseen aceptarlos. Sin embargo, hasta ahora pueden sugerir que las monedas digitales se consideran principalmente como almacenes de valor y no se suelen utilizar como medio de intercambio por que han
sido usadas de manera muy limitada. Por el momento, hay pocas
pruebas de que las monedas digitales se utilicen como unidad de
cuenta 58.
Es importante remarcar que, aun y cuando, la propuesta de Menger se formula alrededor del origen del dinero y de la necesidad del
Pecus, ganado menor, de donde deriva pecunia.
Salarium, la sal también se utilizó como moneda en algunas provincias de China
(por ejemplo, Kain-Du) en el siglo XIII y en Etiopía hasta el siglo XX.
57
Roscher 1854, 116; Menger 2007, 315 ss.; Block 1890, 59 ss.
58
Gerba - Rubio 2019, 22; Proctor 2012, parr. 1.49-1.60.
55
56
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333
reconocimiento y aceptación social generalizado de los medios de
cambio e, incluso, cuando al presente, la teoría ampliamente aceptada
sea la teoría estatal del dinero, la realidad que podemos observar, en
el caso de las criptomonedas, es que el reconocimiento generalizado
falta, pero se observa el reconocimiento progresivo de las mismas,
más allá de que el ordenamiento legal no las haya considerado anteriormente, pues son percibidas como una propuesta real de solución
a diversas necesidades de pago directo en un mundo que trasciende
las fronteras de la soberanía estatal. La realidad ha superado al derecho y, genera una incipiente, pero masiva aceptación de la sociedad a
las criptomonedas, legitimándolas. En este sentido, hay una mayor
regulación, por parte de los Estados, aunque no lo esté haciendo de la
forma más adecuada, pues debido a su carácter internacional, requiere una regulación en el mismo sentido, internacional, y las regulaciones se están dando, principalmente en el derecho nacional.
De lo anterior, surge una cuestión más compleja, las criptomonedas, al no ser consideradas dinero, en sentido formal, y al no provenir ni estar bajo el control completo por parte del Estado, ¿qué debemos hacer con los problemas jurídicos que se proyectan como resultado de su utilización? ¿Desconocerlas e incluso prohibirlas como
medio de pago válido? En un contexto de derecho privado, parece no
ser la solución. Ahora bien, ¿cuál es el trato jurídico que se justificaría? La respuesta no es simple. De acuerdo con sus características, la
categoría más cercana es la de dinero o moneda. Los economistas,
que son los más preocupados por establecer un concepto unívoco de
dinero, centran la importancia en la política monetaria, mientras los
juristas, por el contrario, se ocupan más por la protección de los derechos privados de las partes contratantes y el cumplimiento de las
obligaciones monetarias 59.
Ahora bien, en el ámbito del derecho, especialmente en el derecho público, el concepto de dinero se ha ido ampliando a nivel internacional. Cuando la moneda metálica fue sustituida por el papel moneda, el concepto de dinero tuvo que ampliarse para incluirlo. Lo
mismo sucedió cuando el dinero bancario desplazó al papel moneda.
Otrora, la diferencia más importante, entre el dinero institucionalizado y las criptomonedas, como métodos de pago, es su origen y con59
Proctor 2012, par. 1.17.
334
LAURA VELÁZQUEZ
trol de los últimos, que se da fuera del Estado 60. Sin embargo, si se
observa claramente, dicha diferencia no es tal, pues el dinero bancario también es producido y controlado por los bancos, que en muchos países se instituyen cómo entidades privadas, reguladas por el
Estado 61, además de que las tarjetas de crédito, cómo funciona en la
práctica, al igual que las criptomonedas, ambas son especies de dinero
manejado a través de un programa computacional.
Esta ampliación conceptual también puede observarse, desde la
fase inicial, en organismos internacionales intergubernamentales
como la proporcionada por el Grupo de Acción Financiera Internacional 62 (FATF de sus siglas en inglés, Financial Action Task Force):
«Virtual currency: is a digital representation of value that can be
digitally traded and functions as (1) a medium of change and/or
(2) a unit of account and/or (3) a store of value, but does not
have legal tender status (i. e., when tendered to a creditor as a valid and legal means of payment) in any jurisdiction. It is not issued or guaranteed by any jurisdiction, and fulfills the above
functions only by agreement with the community of users of the
virtual currency» 63.
Como se puede observar, se reconoce como una representación
digital de valor que tiene las mismas funciones del dinero. Se reconoce el carácter de moneda, pero una moneda especial ‘digital’ 64.
Fox 2019, 18.
En la actualidad, prácticamente su regulación es muy laxa, pues son estas entidades, las que de una u otra forma tienen un control sobre las políticas del dinero,
tanto que el Bitcoin surge como una reacción a los gastos que representa la participación de los intermediarios en el pagos internacionales.
62
El GAFI es la institución internacional intergubernamental más poderosa, creada en 1989 para promulgar normas de lucha contra el blanqueo de dinero procedente
del narcotráfico y lucha contra la financiación del terrorismo tras el 11-S. Una vez que
el GAFI emite una recomendación, los 38 países miembros del grupo de trabajo aplican su interpretación de la norma a nivel nacional. en junio 21 de 2019 formuló una
propuesta para que los intercambios de criptodivisas actúen como bancos, recopilando
información de identificación no sólo de sus propios clientes, sino también de las personas a las que estos clientes envían criptodivisas.
63
Financial Action Task Force 2014.
64
En el mismo sentido se pronuncia la Corte de Justicia, sentencia del 22 de
octubre de 2015, en causa Case C- 264 14/, Skatteverket v Hedqvist, para 55, en el
contexto de la UE Value added tax (VAT), cuando refiere que el Bitcoin es equivalente
60
61
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
335
7. El dinero como medio de intercambio. – El dinero es un bien
que tiene características propias muy especiales. En Grecia antigua se
pueden observar las primeras ideas abstractas que lo delimitan. Dentro de sus características, su función como medio de intercambio es
fundamental. Al respecto, Platón sustenta una visión idealista, cuyas
ideas se podrían afirmar hoy en día. Defiende la tesis de que el dinero
debe ser un símbolo arbitrario que permita el intercambio con un valor independiente del material del que estuviesen hechas las monedas.
En este sentido, estuvo más adelantado que otros al diferenciar entre
el valor intrínseco y extrínseco del dinero, y prefirió el papel-moneda
al metal moneda en oro y plata 65.
En el derecho romano se regula la propiedad del dinero tomando
en consideración el mismo papel. Sobre este punto, es imprescindible
el estudio de Max Kaser, Das Geld im römischen Sachenrecht 66, que expone las peculiaridades de la regulación romana del dinero, delineando, grosso modo, la regulación moderna.
De acuerdo con Kaser, las características del dinero en Roma y sus
funciones son prácticamente las mismas que las actuales, i.e., la moneda o dinero portan un valor monetario y están determinados a fungir como un medio que permita su intercambio por bienes y servicios
de todo tipo. De lo anterior, deriva una serie de particularidades del
dinero: goza de una mayor grado de fungibilidad, pues cualquier pieza
de dinero puede ser sustituida por otra pieza de la misma clase de dinero de igual valor, pero, además, por piezas de otras clases de la
misma moneda o, incluso, por cualquier otro tipo de dinero, como dinero digital, siempre que la suma de dinero constituya el mismo valor
monetario; el dinero, al desarrollarse en el ámbito mercantil, como
medio de cambio general, está en permanente intercambio en los negocios, por lo que su propósito esencial se despliega solo en el momento de ser gastado o consumido, en el cambio continuo, infinito de
a dinero. En esta, también se señala: «is neither a security conferring a property right
nor a security of a comparable nature … To the contrary, ‘the Bitcoin virtual currency
has no other purpose than to be a means of payment and … it is accepted for that
purpose by certain operators».
65
Cfr. Pl. Lg. 5.742 a. Aunque en la actualidad, también se debería dejar fuera de
la influencia de hombres e instituciones que quieran dictar las políticas monetarias en
beneficio de unos pocos.
66
Kaser 1958, 169 ss.
336
LAURA VELÁZQUEZ
la propiedad; la gran cantidad de billetes en circulación contribuye a
aumentar la fungibilidad y a debilitar la individualidad de los billetes,
y el dinero tienen su valor monetario desde que es emitido sin tener
que ser estimadas en dinero como otros bienes muebles 67.
En los casos de propiedad del dinero en la actualidad, es difícil
rastrear el camino en el que el dinero llegó a un propietario concreto,
lo que sí puede realizarse con el Bitcoin y otros tipos de dinero. Sin
embargo, según el derecho general de los bienes muebles, a menudo
será necesario probar este camino, si se quiere probar, limitadamente,
la pertenencia al derecho de propiedad de los instrumentos monetarios, pero, por otro lado, el interés de la persona que tiene derecho al
dinero está vinculado al valor del dinero, no a las piezas individuales.
Quien ha perdido dinero busca recuperar el valor del dinero perdido,
no las mismas monedas.
En contraste, entre el derecho romano y el derecho moderno, los
juristas romanos trataban el dinero de una manera algo diferente al
derecho moderno, puesto que, en general, se vinculaban con más
fuerza a la individualidad física de las piezas concretas de dinero, debido probablemente a que seguían vinculando, relativamente, el valor
del dinero al valor del metal en que estaban acuñadas 68, pues solo conocían rudimentariamente, un valor monetario desvinculado del metal del dinero, como es el caso del papel moneda. Esta vinculación a
las monedas en concreto, daban al propietario romano un interés
digno de protección en el ejercicio de su derecho a la moneda individual (vindicatio nummorum).
En lo referente a las criptomonedas, la tecnología permite crear
algunos lazos con el derecho romano, ya que el hombre actual se debe
adherir a la individualidad tecnológica de cada uno de los bloques de
la cadena, pero por cuestiones propias, no se puede solicitar una reivindicación de lo transferido y, por ende, que se deshagan los bloques, sino solamente que quien haya recibido las criptomonedas,
haga una transferencia del mismo valor de regreso.
Ahora bien, analizando la propiedad del dinero desde la categoría
de cosa mueble, lo que interesa es determinar si en el derecho romano
Kaser 1958, 171 ss.
Sobre las monedas utilizadas para intercambiar bienes y las políticas relativas a
las mismas, v. Crawford 1970, 40 ss.
67
68
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
337
se regula, en mayor medida, como las demás cosas muebles, que en el
derecho moderno, lo que parecería ser razonable. Sin embargo, concordamos con Kaser en el sentido de que no es así 69. El derecho romano de la propiedad muestra ciertas reglas especiales para el dinero
que son ajenas al derecho moderno. Se debe destacar que en derecho
moderno no existe una regulación especial del derecho de propiedad
del dinero, mientras que en el derecho romano existen reglas generales a los bienes muebles y, además, varias consideraciones especiales.
Estas últimas establecen una clara diferenciación, con respecto de los
bienes muebles (vindicatio nummorum 70, commixtio nummorum 71,
consumptio nummorum 72 y traditio nummorum 73).
8. Consideraciones finales. – Tomando como base las categorías romanas de bienes corporales o incorporales, en el sentido que las expone Gayo (Gai 2.13.14), dentro de las cuales considera al dinero
como perteneciente a la primera clase porque tiene una entidad material y puede percibirse por los sentidos (quae tangi possunt … pecunia);
y las res incorporales (quae tangi non possunt) ya sea que se acepte como
bienes cuyo fundamento reside en el derecho o que son derechos.
El Bitcoin no podría ser encuadrado, en sentido estricto, dentro
de ninguna de estas dos categorías. Lo anterior porque no tiene una
existencia corporal, real, tangible, sino que se manifiesta físicamente
en una serie alfanumérica 74, pero que funciona como dinero y virKaser 1958, 172.
Como es sabido, se refiere a la vindicación de piezas de dinero determinadas individualmente, práctica que no es habitual en las transacciones monetarias cotidianas.
V. por ejemplo: D. 12.6.53; D. 23.3.67; D. 12.6.46; D. 15.1.37.1; D. 24.1.39;
D. 45.3.1.1; D. 46.1.19; D. 15.1.38 pr.; Gai 2.82 (= I. 2.8.2); D. 42.8.8; D. 7.1.25.1;
D. 10.4.9.4; D. 12.1.11.2; D. 12.1.14; D. 12.6.26.9; D. 12.6.29; D. 14.6.3.2;
D. 14.6.9.1; D. 24.1.33.1; D. 40.7.3.5,9; D. 42.5.24.2; D. 46.3.14.8; D. 12.1.31.1;
D. 15.1.52 pr.; D. 46.3.15; C. 3.41.1; C. 4.34.8; D. 49.14.18.10.
71
Se adquiere la propiedad del dinero ajeno mediante la mezcla con el dinero propio de acuerdo con Javoleno, v. D. 46.3.78.
72
El buen uso del dinero ajeno permite la adquisición de la propiedad por parte de
quien recibe el dinero del consumidor. V., por ejemplo, D. 12.6.4; D. 46.3.17.
73
Si el pago se ha realizado sin razón jurídica válida, entonces las fuentes suelen
permitir que el receptor del dinero se convierta en propietario y se remita al pagador a
la condictio, v., por ejemplo, D. 12.4.7 pr.; D. 12.4.8; D. 12.4.9 pr.; D. 12.7.
74
Se podría reinterpretar y concebir a la llave privada que utiliza quien envía la
transferencia (34 caracteres, serie alfanumérica, denominada técnicamente hash) y
69
70
338
LAURA VELÁZQUEZ
tualmente lo es porque tiene la capacidad de convertirse en lo que actual y materialmente no es.
Tampoco constituye una obligación 75, en el sentido romano, porque no hay un acuerdo de voluntades y quien recibe el valor de la
criptomoneda no puede rechazarlo, ni cualquier otro puede ser obligado a pagar con criptomonedas.
Igualmente quedan fuera de la categoría moderna de bienes inmateriales, vinculados con cosas producto de una creación intelectual
o de manifestaciones culturales que carecen de soporte material (consideradas por la UNESCO patrimonio cultural de la humanidad).
Sin embargo, las criptomonedas pueden ser consideradas inmateriales en un sentido lato, no técnico-jurídico, derivado de su carácter
abstracto. En el sentido que señala Pothier, podría ser más adecuado
que los bienes incorporales sean clasificados como muebles o inmuebles según su especie u objeto 76. Como consecuencia de lo anterior, al
ser consideradas dinero, las criptomonedas entrarían en la categoría
de bienes muebles, y como tal tienen una regulación propia dentro
del derecho de propiedad y en el derecho de las obligaciones romano
y moderno – en el estricto sentido de deudas monetarias.
Es fácil cuestionarse que las criptomonedas no son dinero en el
sentido tradicional o, mejor dicho, no se asemeja a ninguno de los tipos de dinero previamente existentes (fiat, legal, bancario, mercancía,
pagaré y electrónico). Pero, por otra parte, su aceptación se ha incrementado vertiginosamente, lo que exige una reformulación o ampliación del concepto de dinero para que incluya completamente al dinero digital, virtual y, por ende, a las criptomonedas.
Este replanteamiento conceptual implicaría, no solo una ampliación en el concepto de dinero para que se incluya a las criptomonedas, proceso ya avanzado internacionalmente, en el ámbito del derecho público, sino, lo que es más importante, también adscribirles a
éstas las consecuencias jurídicas de la regulación del dinero. Lo antes
dicho es más adecuado que reformular el concepto de propiedad o de
obligación, como muchos teóricos proponen.
considerarla como representación corporal de su valor pecuniario, como sucede con el
papel moneda, las tarjetas de crédito, etc.
75
Para analizar esta cuestión, se requiere una investigación independiente que
excede la presente.
76
V. arriba, nt. 24.
CRIPTOMONEDAS. PECUNIA Y BIENES VIRTUALES
339
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Daniel Navarro Sánchez
DE LA RES ROMANA AL PLENO RECONOCIMIENTO
DE LA PERSONALIDAD JURÍDICA:
EL AVANCE IMPARABLE DEL DERECHO ANIMAL
«Los animales no son propiedades o cosas,
sino organismos vivientes, sujetos de una vida,
que merecen nuestra compasión, respeto, amistad y apoyo»
M. Bekoff
1. Introducción. – La influencia del derecho romano en los sistemas jurídicos de Europa continental y Latinoamérica ha sido tan pronunciada que aún se mantiene latente y de forma transversal en las
ramas del derecho actual. Lo anterior, ha ofrecido a las sociedades herramientas suficientes para dotar de soluciones jurídicas a las diferentes problemáticas que se venían suscitando en el ámbito privado y público de los seres humanos.
Este influjo ha tenido un impacto muy beneficioso en muchas
áreas del derecho, dado que ha coadyuvado a regular situaciones tan
distintas que de no haber sido positivizadas habrían generado conflictos entre sujetos que hubiesen hecho muy compleja la convivencia;
sin embargo, la regulación romana también ha perpetuado a lo largo
de los siglos conceptos jurídicos que se mantienen vigentes en la actualidad y que han podido incidir en la estigmatización de aquellos
seres vivos que, derivado del proceso de domesticación, han formado
parte de nuestras vidas desde hace milenios.
En este sentido, el concepto de res en el derecho romano fue atribuido a los animales y esclavos, siendo regulados ambos dentro del
estatuto jurídico de propiedad. Por tanto, animales y esclavos – con
344
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
las salvedades que les distanciaban –, formaban parte de la esencia de
las cosas en propiedad. Esta circunstancia, ha supuesto que, a lo largo
de los años, gran parte de los sistemas jurídicos hayan seguido manteniendo a los animales dentro del concepto jurídico de las cosas en
propiedad con los efectos jurídicos y sociales que ello comporta.
Sin embargo, en los últimos años, con base en el conocimiento
científico-técnico, se ha producido un giro trascendental en la sociedad civil y en el derecho, lo que ha supuesto dar lugar a un nuevo paradigma en lo que a la conceptualización jurídica de los animales se
refiere, así como una posible nueva taxonomía del concepto de res e
incluso la posibilidad de subversión del concepto mismo en lo que a
los animales se refiere.
Este nuevo paradigma pone en cuestión, la esencia misma del
concepto de res atribuido al animal, y da lugar al inicio de un proceso
descosificador imparable con base en la dignidad y sentiencia de los
animales.
El citado proceso de descosificación que supone una revolución
en la concepción romana de las cosas en propiedad, no necesariamente debe suponer una ruptura inmediata en la taxonomía inicial,
dado que muchos de los sistemas jurídicos impregnados por el derecho romano comienzan a llevar a cabo modificaciones en sus Códigos
civiles que, aunque reconocen que los animales «no son cosas», siguen
regulando las relaciones con estos desde la misma conceptualización
que la res romana.
Lo anteriormente indicado, es el modelo que se ha seguido en los
códigos austríaco, alemán y suizo, poniendo de manifiesto que la ruptura brusca con las instituciones romanas es compleja, porque forman
parte de la esencia misma del derecho.
Esta evolución en la conceptualización de los animales en los códigos actuales forma parte de un proceso que no solo se ha visto reflejado, entre otros, en los Códigos mencionados, sino que cuenta
con el amparo del art. 13 del Tratado de Funcionamiento de la Unión
Europea 1 (en adelante, TFUE) de 2009, en el que se les reconoce juEl citado artículo es del siguiente tenor literal: «Al formular y aplicar las políticas
de la Unión en materia de agricultura, pesca, transporte, mercado interior, investigación y desarrollo tecnológico y espacio, la Unión y los Estados miembros tendrán plenamente en cuenta las exigencias en materia de bienestar de los animales como seres
1
DE LA RES ROMANA
345
rídicamente como seres sentientes. Añadido a lo anterior, incluso algunos países han reforzado sus sistemas jurídicos dando cabida a la
protección de los animales en sus Constituciones.
Pues bien, asumir que los animales son seres sentientes y que el
concepto de res romana empieza a conferirles escasa protección y seguridad jurídica, vislumbra un apasionante y productivo camino,
dado que los sistemas jurídicos actuales deberán ofrecer herramientas
adaptadas a los nuevos tiempos y dar cabida a aquellos seres sentientes que solo eran considerados cosas a los efectos jurídicos.
En este arduo camino, algunos juristas comienzan incluso a debatir la posibilidad de que los animales sean dotados de personalidad jurídica, para que puedan ver protegidos sus derechos. Este debate está
alcanzando a muchos Estados, que analizan la cuestión con grandes
divergencias jurídicas entre sí, e inclusive algunos Tribunales norteamericanos y latinoamericanos comienzan a dictar resoluciones, donde
se reconoce la posibilidad de que haya animales a los que se debe conferir el estatuto jurídico de persona.
El hecho de que los animales sean considerados personas a efectos
jurídicos podría ser esencial para dar comienzo a una ola de derechos
que sin duda sería, tan inevitable como irreversible o «una tendencia
imparable» 2 como indica Giménez-Candela.
2. Los animales en el derecho romano. – El derecho romano ha tenido una influencia decisiva en la codificación europea y latinoamericana, incluso japonesa y turca 3, esta circunstancia ha impactado de
manera decisiva en el desarrollo del derecho de todos aquellos países
que lo asumieron como propio en su codificación.
Esta influencia ha sido capital no solo en lo que al derecho se refiere, sino en otros muchos aspectos que trascienden ampliamente el
ámbito normativo, concretamente, por todos, Ihering indica que: «la
importancia del derecho romano para el mundo actual no consiste
sensibles, respetando al mismo tiempo las disposiciones legales o administrativas y las
costumbres de los Estados miembros relativas, en particular, a ritos religiosos, tradiciones culturales y patrimonio regional». Se puede acceder al texto en https://eur-lex.europa.eu/legal-content/ES/TXT/PDF/?uri=CELEX:12012E/TXT&from=ES.
2
Giménez-Candela 2015a.
3
Giménez-Candela 2019a, 9.
346
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
sólo en haber sido por un momento la fuente u origen del derecho:
ese valor sólo fue pasajero. Su autoridad reside en la profunda revolución interna, en la transformación completa que ha hecho sufrir a
todo nuestro pensamiento jurídico, y en haber llegado a ser, como el
cristianismo, un elemento de civilización moderna» 4.
Las palabras de Ihering representan a la perfección el impacto que
ha tenido el derecho romano en la sociedad actual, erigiéndose como
un elemento que ha penetrado hasta el punto de ser «un elemento de
civilización moderna». Esta circunstancia no es trivial porque pone en
liza que su revolución ha creado una estructura que se encuentra
asentada en todas nuestras instituciones lo que, para lo bueno y lo
malo, impacta de forma notoria en la visión jurídico-social que tenemos de todo lo que nos rodea.
Así pues, analizaremos la regulación de los animales en el derecho
romano relativa a su taxonomía y su consideración como res, así
como sus posibles efectos sobre la cosificación de los animales en la
codificación europea y latinoamericana que tuvo lugar desde el Código Napoleón.
2.1. La taxonomía romana de ‘res’ y los animales. – Como es sabido, el concepto de res es muy amplio, podríamos decir que el concepto jurídico de cosa «varía de época a época y de civilización a civilización» 5. Concretamente, Giménez-Candela, referenciando a Bonfante, indica que «cosa es una entidad externa al sujeto, que tiene
valor económico, y que en la conciencia económico-social viene aislada y concebida como un objeto independiente» 6.
Detenernos en la necesidad de realizar una taxonomía de la res romana y, concretamente, respecto de los animales, aunque pudiera parecer banal, no lo es, y ello porque la historia del derecho ha enseñado
que, para poder entender las cosas, debemos tratar de clasificarlas.
A este respecto, debemos partir de la esencia de que las grandes
clasificaciones respecto de las cosas en el derecho romano se las debemos, como es conocido, a Gayo y Justiniano. Todo ello con base en
la idea de que «el estudio del Derecho tiene un objeto triple: las perIhering 2001, 2.
Giménz-Candela 2020a, 163.
6
Giménez-Candela 2020a, 163.
4
5
DE LA RES ROMANA
347
sonas, las cosas y las acciones» 7, esta idea que pertenece a Gayo, «fue
Justiniano, casi cuatro siglos después, quien canonizó “esa tríada didáctica de personas-cosas-acciones como si fuera una divisio de partes
sistemáticas del ordenamiento jurídico”» 8.
Concretamente, Gayo (Gai 2.1), en lo referente a las cosas que
ofrecen una utilidad de carácter económico, distingue entre (i) res
mancipi y, (ii) res nec mancipi, las primeras exigían un acto formal para
su adquisición y las segundas eran de libre cambio y no exigían de ese
acto que dotase de «eficacia el acto adquisitivo de la propiedad» 9.
Entre la res mancipi, encontraríamos ubicados a los «los esclavos,
los animales de tiro y carga y los fundos itálicos con sus servidumbres
rústicas» 10. Aunque pudiera resultar llamativo que animales y esclavos
formasen parte de las cosas en el derecho romano, no debemos olvidar el carácter eminentemente rural de la economía romana y que estos eran «las fuerzas de trabajo más relevantes» 11 de la economía de los
primeros siglos romana.
Es importante destacar, a este respecto, que existe una concepción
errónea sobre que los esclavos y los animales eran cosas de igual
rango, dado que no era así en modo alguno, la realidad es que el derecho romano no trató «del mismo modo (salvo en el procedimiento
relativo a la asunción de la responsabilidad noxal) a los esclavos y a
los animales» 12.
Así, como indica Giménez-Candela, «en los textos se distingue
perfectamente a los esclavos, como personas in potestate y no como
cosas, de los animales, aunque ambos formen parte de la categoría de
res mancipi» 13. Podría decirse, por tanto, que hasta para ser res había
clases, dado que el esclavo aun siendo res, era reconocido de forma diferente por su condición de ser humano 14.
Esta clasificación de «mancipi y nec-mancipi, fundada en un factor socioeconómico, fue perdiendo importancia hasta decaer con JusNava 2019, 49.
Nava 2019, 49.
9
Giménez-Candela 2014, 4.
10
V. Giménez-Candela 2020a, 165, nt. 5.
11
V. Giménez-Candela 2020a, 165, nt. 5.
12
Giménez-Candela 2018a, 12.
13
V. Giménez-Candela 2020a, 165, nt. 5.
14
Contreras 2014, 48.
7
8
348
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
tiniano» 15. Concretamente, desde las I. se alcanzó una clasificación de
las cosas que se dividía entre «las cosas dentro del comercio» 16 que incluiría a la mayor parte de los animales y «las cosas fuera de él (como
los animales salvajes en libertad)» 17.
Igualmente, otra de las clasificaciones que se ha perpetuado desde
Gayo (Gai 2.14 ss.), en los Códigos actuales bajo el influjo romanista
– también se observa en la Compilación justinianea –, es aquella que
parte de la diferenciación entre «animales domésticos, amansados y
silvestres, entre los que se incluyen los animales que se pescan y se cazan, así como los animales exóticos, procedentes de tierras lejanas» 18.
La realidad es que ese afán por tratar de entender el mundo animal ha hecho que a lo largo de los siglos desde el derecho romano se
haya tratado de clasificar a los animales, siempre desde una perspectiva económica y antropocéntrica, extremo que, aunque justificable,
podría haberse evitado dado que «la Antigüedad se mostró reluctante» 19 a clasificarlos, porque «los animales formaban parte de un
todo con una naturaleza respetada en la llamada scala naturae» 20.
2.2. La cosificación de los animales derivada del derecho romano. –
La regulación de los animales en los ordenamientos jurídicos europeos y latinoamericanos como cosas ha sido un hecho cierto y generalizado, y ello, con base en la visión romanista de estos como res.
No obstante, cabría preguntarse si el derecho romano, efectivamente, ha sido el generador de la cosificación de los animales y, en última instancia, de las actitudes de desprecio de las sociedades actuales
para con ellos. De hecho, se ha perpetuado «el reproche común de que
en Roma se consideraba al animal como una materia sin vida y que la
noción de propiedad sobre los animales es el punto de arranque del
maltrato animal o, al menos, de la inferioridad de los animales» 21.
Esta circunstancia, según Giménez-Candela no resulta exacta, no
solo por la importancia de las palabras de Justiniano, en el Digesto,
Contreras 2014, 53.
V. Nava 2019, 49, nt. 7.
17
V. Nava 2019, 49, nt. 7.
18
V. Giménez-Candela 2020a,
19
V. Giménez-Candela 2020a,
20
V. Giménez-Candela 2020a,
21
V. Giménez-Candela 2020a,
15
16
168,
168,
168,
168,
nt.
nt.
nt.
nt.
5.
5.
5.
5.
DE LA RES ROMANA
349
en las que se indicaba de forma clara que existía un «derecho propio
de la naturaleza que es común a todos los seres vivos (sin distinción
de si se trata de humanos o animales)» 22, sino, también, por distintas
expresiones en este sentido de, por ejemplo, Cicerón y Séneca 23.
Del mismo modo, la visión sobre un derecho romano que consideraba a los animales como seres sin vida o inertes no es válida en
atención a las fuentes existentes en esta materia – solo hay que analizar la definición del término animal para dar cuenta de ello 24 –, sino
que era un elemento que era usado en las relaciones económico-jurídicas y, por tanto, requería la ubicación en alguna parte del derecho.
De hecho, «los romanos consideraban a los animales – respetando su
esencia de seres vivos –, como res sui generis» 25.
Podemos aseverar, que el derecho romano fue precursor en esta
materia, porque, aunque resulta una obviedad indicar que en todas
las sociedades de la antigüedad animales y esclavos existían, ninguno
de ellos formaba parte de una figura jurídica cierta, eso cambió en la
visión romanista y es que «otorgar a los esclavos y a los animales el
mismo estatuto jurídico, … es lo que ha permitido que la situación
de los esclavos, … mejorara a través de la manumisión y, definitivamente se aboliera» 26, por lo que «en aplicación de la misma lógica,
hoy nos planteamos el cambio de estatuto jurídico de los animales,
como cosas en propiedad, porque están identificados como una categoría jurídica y éstas admiten cambios, mejoras y supresiones» 27.
En el mismo sentido, de esa visión respetuosa con la animalidad,
debe destacarse la referencia que hace Torres Silva a Nussbaum donde
citando a Plinio indica que: «En el año 55 a.C. el general romano
Pompeyo ofreció el espectáculo de una lucha entre hombres y elefantes. Rodeados en la arena, los animales advirtieron que no tenían posibilidad alguna de salvación. Entonces refiere Plinio que “suplicaron
a la multitud tratando de despertar su compasión con ademanes casi
indescriptibles; se dolían de su difícil situación emitiendo una suerte
Giménez-Candela 2017a, 299.
V. Giménez-Candela 2020a, 168, nt. 5.
24
Giménez-Candela 2021, 10.
25
Giménez-Candela 2021, 10.
26
V. Giménez-Candela 2017a, 300, nt. 22.
27
Giménez-Candela 2017b.
22
23
350
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
de lamento”. El público, movido a la piedad y contrariado por sus dificultades, comenzó a maldecir a Pompeyo, sintiendo, escribe Cicerón, que entre los elefantes y el género humano había un vínculo de
comunidad (societas)» 28.
Esta convivencia pacífica y en armonía con la naturaleza, «en
nuestro mundo occidental, se ha ido desdibujando con el paso de los
siglos, pero … es el que nos ha transmitido toda la literatura clásica
greco-romana» 29, todo ello sin negar la obviedad de que los animales
en el derecho romano formaron parte del concepto de res, desde una
visión puramente patrimonial, con base en una economía eminentemente agraria.
En consecuencia, podría ser más acertado aseverar que fue el Código Francés – que se promulgó en el año 1804, que plasmó la visión
justinianea y que «constituyó el modelo de codificación del derecho a
lo largo de los siglos XIX y XX» 30 – el que ignoró «los avances científicos que, sobre la naturaleza de los animales, ya se había producido
en aquel tiempo, o la reflexión filosófica tendente a considerar a los
animales como elementos integrantes de una naturaleza que merecía
respeto, así como las corrientes de pensamiento que acentuaban la capacidad de sentir de los animales» 31, lo que, sin duda, «tuvo un influjo directo e innegable en el resto de las Codificaciones europeas y
latinoamericanas» 32.
3. El proceso de descosificación de los animales. De la sentiencia a la
personalidad jurídica, un recorrido apasionante. – Desde los años 60 se
ha venido produciendo un «giro animal» 33 («animal turn» 34), que ha
puesto en cuestión la taxonomía de los animales como cosas y ha originado el desarrollo de teorías sobre la personalidad jurídica de los
animales.
A este respecto, se podría decir que se han producido diversas etapas en el desarrollo de la cuestión animal, que nos hacen ubicarnos en
Torres Silva 2016, 2.
Torres Silva 2016, 2.
30
V. Contreras 2014, 63, nt. 15.
31
V. Giménez-Candela 2014, 7, nt. 9.
32
V. Giménez-Candela 2014, 7, nt. 9.
33
Giménez-Candela 2018b, 8.
34
Giménez-Candela 2018b, 8, en el que se hace referencia a RITVO.
28
29
DE LA RES ROMANA
351
diferentes contextos históricos y que explican perfectamente el momento en el que nos encontramos hoy.
En este sentido, debemos destacar el análisis exhaustivo que realiza Giménez-Candela 35, donde de forma rigurosa establece el avance
que se ha producido en la cuestión animal y las diferentes etapas existentes en esta materia.
En dicho artículo, se puede observar que, se establece a la dignidad, como elemento precursor de la lucha animalista desde una vertiente jurídica, circunstancia que ha sido palanca de cambio en las legislaciones y jurisprudencia sobre la materia, así como constituyeron
las bases de un nuevo paradigma jurídico.
En este sentido, el iter lógico que se ha seguido, se estructura en
tres hitos fundamentales, (i) dignidad, (ii) sentiencia y, (iii) personalidad jurídica. Además de lo anterior, y derivado de este proceso, podemos incorporar un cuarto hito a alcanzar: (iv) la generación de derechos individuales.
En el presente apartado se analizarán cada una de estas fases que
se han erigido y se erigen como elementos vertebradores de la descosificación de los animales en los ordenamientos jurídicos, proceso que
«no significa en lo absoluto que estos seres o entes pierdan su condición ontológica de animales, sino la de que cambie su estatus o condición jurídica. Es decir, no se trata de que a partir de su de-cosificación el animal adquiera la condición ontológica de ser humano o que
adopte algún tipo de forma o apariencia humana, sino la de que adquiera un estatus jurídico diferente al de cosa u objeto ligado a la propiedad» 36, en consecuencia, se trata de que vean protegidos sus intereses.
3.1. Dignidad. – Una primera fase, en lo que denominaremos
olas del movimiento jurídico-animalista, ha sido el reconocimiento
de la dignidad de los animales, elemento capital para que se alcancen
fases ulteriores.
En este sentido, para Kant, el ser humano «posee una dignidad
(un valor interno absoluto), gracias a la cual infunde respeto hacia él
35
36
Giménez-Candela 2018b, 6 ss.
V. Nava 2019, 52, nt. 7.
352
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
a todos los seres racionales del mundo» 37. Para este autor la dignidad
no engloba a otros seres, sino que solo afecta al ser humano per se.
Desde un punto de vista práctico, el respeto no puede entenderse más
que como la esencia de la dignidad, por lo que es casi un imperativo
colegir que la primera fase de cualquier movimiento debe perseguir el
reconocimiento de la dignidad.
Las primeras referencias expresas a la «dignidad de la criatura»,
como tal, aparecen en la Constitución de Suiza de 18 de abril de
1999, posteriormente en el año 2008 esa criatura mutaría a «dignidad
del animal» 38 como consecuencia de las modificaciones en la Ley de
protección de los animales, por tanto, podríamos considerar a este país
como disruptor en el reconocimiento de la dignidad a los animales 39.
A este respecto, la dignidad del animal y los debates filosóficos
que se venían manteniendo, generaron «el caldo de cultivo» 40 necesario para que los Códigos civiles austríaco (ABGB - 1988), alemán
(BGB - 1989) y suizo (BGB - 1990) comenzasen a realizar modificaciones en el estatuto jurídico de los animales, suprimiendo su consideración como cosas mediante una formulación negativa que los definiría como no-cosas – en el mismo sentido Cataluña en el año
2006 –. Formulación negativa no exenta de controversias.
Sobre esta materia se pronuncia también Capacete González, referenciando a Doménech Pascual, dejando patente que existe «una
preocupación que una parte cada vez más importante de la sociedad
muestra por el bienestar animal, considerado no como un instrumento para la consecución de fines humanos sino como algo intrínsecamente valioso, digno de consideración y de respeto por sí
mismo» 41.
Esta preocupación de parte de la sociedad por el bienestar animal
pone de relieve un nuevo escenario que otorga un respeto por los animales que les dota de forma directa de una concepción ajena a la alteridad y más propia de hacerlos converger dentro de una sociedad
que hasta hace pocos años era exclusiva y excluyentemente humana.
Kant 1913, 434.
Giménez-Candela 2020b, 198 s.
39
V. Giménez-Candela 2018b, 6 ss., nt. 33.
40
V. Giménez-Candela 2018b, 10, nt. 33.
41
Capacete González 2017, 2.
37
38
DE LA RES ROMANA
353
No se trata, de convertir a los animales en seres humanos, se trata
de ofrecer protección a otros seres vivos que sienten y padecen. Por
tanto, se trata de extender a estos, aquello de lo que ya disponen el
común de los humanos – circunstancia que no siempre fue así-. Se
trata, pues, de no ser especista 42, de evitar el prejuicio de especie.
3.2. Sentiencia. – Conceptualización. La palabra sentiente la popularizó el filósofo español, Xavier Zubiri, derivado de su teoría sobre la
inteligencia sentiente que fue plasmada en una trilogía sobre esta materia. A este respecto, Giménez-Candela indica que estaríamos ante
una «teoría del conocimiento aplicada al ser humano como teoría de
la inteligencia no meramente racional – según la acepción tradicional
–, sino como inteligencia que precisa de los sentidos para poder completar el acto de conocer» 43.
Por tanto, su teoría del conocimiento iría más allá del simple razonamiento, ya que exige que la inteligencia se vea complementada
por los sentidos, para poder alcanzar el discernimiento pleno. Estamos enmarcados en la importancia de los sentidos frente a la razón,
extremo, este último, que ha sido el eje tradicional de la filosofía.
La importancia de la sentiencia se erige como un elemento capital en la teoría de Zubiri, también lo ha sido para otros autores, que
mostraron que esta era la unidad de medida de los seres y no la razón
o el habla, concretamente Bentham, en 1789, indicó que «la cuestión
no es si pueden razonar, o si pueden hablar, sino ¿pueden sufrir?» 44.
La honda reflexión de Bentham tiene la fuerza de esas afirmaciones que perduran con el paso del tiempo que, aunque evidente para
muchos, es muy reveladora para otros. Podemos decir que dicha máxima, ayudó en el inicio de un cambio de paradigma 45 en nuestra re-
42
La palabra especismo fue acuñada por Richard R. Ryder en los años 70, podría
definirse en palabras de Horta como «la consideración o trato desfavorable injustificado
de quienes no pertenecen a una cierta especie». V. Horta 2020, 166. Actuar con actitudes de especismo, en palabras de Jackson y Gibbings, es «comparable en forma y función a otros ‘ismos’ como el racismo y el sexismo», se puede consultar en Jackson Gibbings 2016, 151.
43
V. Giménez-Candela 2018a, 8, nt. 12.
44
Bentham 1789, 282 s.
45
Bentham y Darwin representan el cambio en un paradigma que evidenciaba la
diferencia entre hombre y animal con base en el habla o el raciocinio y que pasó a
354
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
lación con los animales y produjo, con posterioridad, el germen necesario para la aparición de las nuevas teorías animalista y el modo de
ver al resto de seres que habitan nuestra misma casa; sin embargo,
¿qué debemos entender por sentiencia?, la visión de Bentham constituye un elemento muy primigenio del significado real de la palabra.
A este respecto Horta, indica que la sentiencia es: «la capacidad de experimentar cosas, o sea, de poder vivenciar lo que nos pasa. La sintiencia no consiste en poder recibir estímulos del exterior. Un termostato o una bacteria pueden recibir estímulos y actuar en respuesta
a ellos, pero no experimentan esos estímulos como vivencias. En
cambio, los seres con sintiencia (o seres sintientes) no son objetos inconscientes. Por el contrario, se enteran de lo que les pasa. Un animal
que ve algo experimenta eso que ve. Cuando alguien tiene algún pensamiento o algún recuerdo, tiene la experiencia de eso en lo que está
pensando. Los seres sintientes son, pues, todos los que tienen experiencias, sean tales experiencias y tales seres del tipo que sean. A veces
esas experiencias son buenas, placenteras. En otros casos son negativas, desagradables» 46. A mayor abundamiento, Donaldson y Kymlicka, referencian a Francione que explica la sentiencia, del siguiente
modo: «señalar que los animales son sintientes no es lo mismo que
decir que están vivos. Tener sintiencia implica que se es un tipo de ser
que es consciente del dolor y el placer; hay un yo que tiene experiencias subjetivas» 47. Es destacable el concepto transmitido por Francione, porque enraíza con lo más profundo del concepto de individualidad, de ser algo diferente al resto, en definitiva, de ser un yo característico.
En consecuencia, la sentiencia es algo más que el solo sufrimiento
al que se refería Bentham abarca la propia experimentación de la vida,
el deseo, el placer, etc., pero sobre todo la consciencia. Por tanto, la
sentiencia es ser consciente de lo que sucede a tu alrededor y percibirlo, por lo que pasamos del paradigma cartesiano del «pienso, luego
existo», a un movimiento animalista que irrumpe con fulgor desde los
años 60 con Singer, Regan y Francione, entre otros, para en palabras
basarse en un «iluminismo de los sentimientos» según indica Pollo referenciado por
Giménez-Candela 2021, 10, nt. 24.
46
Horta 2017, 45 s.
47
Donaldson - Kymlicka 2011, 53.
DE LA RES ROMANA
355
de Kundera, establecer un nuevo paradigma basado en el «siento,
luego existo» 48.
De todos los autores mencionados, se detrae que el eje central
que debe guiar la valoración de los animales a nivel moral no es la razón, la palabra o la inteligencia, sino que debe ser exclusivamente la
sentiencia, entendida como algo más complejo incluso de lo que expresaba Bentham.
Proceso histórico, religioso y cultural. A lo largo de la historia, la relación del ser humano con los otros animales ha sido bastante problemática y, quizás, como indica Giménez-Candela, «que los animales
son seres que experimentan emociones, dolor, sufrimiento, alegría,
placer, como cualquier ser vivo, no parece hoy en día una novedad,
sino un dato científicamente demostrado desde hace algunos siglos» 49.
Nótese la expresión de quizás, no como una salvedad a lo que indica Giménez-Candela, sino a la escasa penetración de esta idea en la
sociedad actual, circunstancia que hace preguntarse si las teorías científicas, las incluso constatadas y contrastadas, como la presente, llegan
realmente al común de la sociedad.
Esta idea, no es en absoluto baladí por cuanto no son pocas las
veces que los seres humanos muestran perplejidad ante las muestras
evidentes de sentimientos por parte de los animales.
Esta perplejidad es síntoma inequívoco de que la ciencia ha alcanzado un grado de discernimiento del comportamiento animal
mucho más profuso de lo que el conocimiento común haya podido
aprehender, circunstancia que nos debe hacer recapacitar sobre, no
solo la transmisión de la información a la sociedad, sino sobre el
componente educativo, puesto que el eje de progreso de las sociedades no solo se debe medir por los avances que se logren, sino porque
esos avances penetren en lo más profundo de estas.
En este mismo sentido, se han pronunciado Bekoff y Pierce,
cuando indican que «padecemos lo que los científicos sociales llaman
un problema de ‘traducción del conocimiento’: hay un abismo grande
y cada vez más ancho entre nuestro conocimiento básico y la traducción o aplicación de este conocimiento en forma de políticas prácti48
49
Kundera 1990, 242.
V. Giménez-Candela 2020b, 168, nt. 38.
356
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
cas» 50. Los citados autores, referenciando a Jones, indican que «el estatus moral de los animales, tal como se refleja en casi toda – incluso
en las más progresistas- políticas de bienestar, está muy por detrás, ignora o desdeña arbitrariamente nuestra mejor producción científica
sobre la sentiencia y la cognición» 51.
De nada sirve que la ciencia alcance un grado de conocimiento
excelso si eso no se traduce en que el motor de las sociedades haga
uso de este. ¿A qué se debe esta asincronía? Fundamentalmente a la
cultura y a la religión – que forma parte de la primera –.
En este mismo sentido, Choza Armenta, mantiene que la cultura
es «el conjunto de procedimientos mediante los cuales los diversos
grupos de la especie homo sapiens mantienen su vida y la propagan, y
las religiones son esa parte de la cultura que regula el trato con el poder del que depende la vida y la muerte de los hombres, de los restantes seres vivos y del universo todo» 52.
Cobra así especial relevancia la religión como parte de la cultura
que «regula el trato con el poder» no solo respecto de los seres humanos, sino «de los restantes seres vivos», este elemento tiene una especial trascendencia por cuanto la religión ha estado tan anclada a nuestro ser que, como sociedad, estamos absolutamente endoculturados
por ella, por lo que se hace muy complejo poder subvertir estos sentimientos tan enraizados.
Derivado de lo anterior, y en lo que se refiere al trato que dispensamos a los animales con base en nuestra cultura, es destacable el
capítulo 1, versículo 26 del Génesis, en él se indica que «Dios dijo:
‘Hagamos al hombre a nuestra imagen, según nuestra semejanza; y
que le estén sometidos los peces del mar y las aves del cielo, el ganado, las fieras de la tierra, y todos los animales que se arrastran por
el suelo’» 53.
No cabe duda de que semejante afirmación de Dios, pone en serios aprietos al mundo animal, – ya que difícilmente se pudo encontrar una traducción al castellano con más impacto que el sometiBekoff - Pierce 2018, 26.
Bekoff - Pierce 2018, 26.
52
Choza Armenta 2018, 31.
53
Se puede hacer una atenta lectura del pasaje referenciado en el siguiente enlace:
https://www.vatican.va/archive/ESL0506/__P2.HTM
50
51
DE LA RES ROMANA
357
miento –. Así, la Real Academia Española (RAE) lo define como acción y efecto de someter, siendo que la primera acepción de someter
no es otra que «sujetar, humillar a una persona, una tropa o una facción» 54.
Ante tales deseos del Altísimo, de un libro con tanta incidencia
en el mundo religioso como es el Génesis, se hace cuanto menos evidente que existe no solo un abismo ontológico entre seres humanos y
animales, sino que estos últimos estarán a merced y bajo el mandato
divino de los primeros, lo que será clave para entender no solo nuestro momento histórico actual, sino también las sucesivas teorías que
en nombre de la razón se produjeron con posterioridad al Génesis.
No obstante, como bien es sabido, los matices nos hacen diferentes, y los soportes que fundamentan la desigualdad entre animales antes referida, así como la visión de estos como meros elementos propiedad del ser humano, podrían no ser más que fruto de una mala interpretación de las sagradas escrituras, lo que no solo resultaría
inicuo, sino también bastante cínico.
Así, Goodall, se refería a esta cuestión indicando que «muchos estudiosos hebreos creen que el dominio [sometimiento] del mundo es
una traducción muy pobre de la palabra original hebrea v”yrdu, que
significa en realidad ‘gobernar con solicitud y respeto’, como un rey
sabio gobierna a sus súbditos. Implica un sentido de la responsabilidad y de poder ilustrados» 55.
En definitiva, una posible nefasta interpretación/traducción con
consecuencias desastrosas para el resto de los seres vivos y que como
indica Pelluchon, se basa en, «este afán de control, que también denota miedo a la vulnerabilidad propia y ajena, va unido a la tentación
de negar la alteridad del otro y la necesidad de dominio» 56.
Las bases religiosas, las traducciones erróneas o interesadas, sembraron un escenario dantesco para el resto de los seres vivos, y fueron
precursoras de que, desde la antigüedad, muchos autores sostuvieran
la animalidad como algo ajeno al ser humano y que estos solo eran
meros objetos entregados por voluntad divina.
Se puede acceder a la definición de someter en el siguiente enlace: https://dle.
rae.es/someter?m=form
55
Goodall 2000, 261.
56
Pelluchon 2018, 51.
54
358
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
Sin embargo, no solo la religión ha tenido impacto en el trato
que dispensamos a los animales, grandes pensadores griegos como
Aristóteles iniciaron el camino tortuoso de los animales puesto que
sus tesis concedieron a la razón, logos, el elemento esencial de diferenciación con el resto de los seres. El propio Aristóteles indica que,
«las plantas existen para los animales, y los demás animales, en beneficio del hombre» 57.
Este pensamiento, también fue compartido por Santo Tomás de
Aquino en su Summa teológica o por el propio Kant, que llegó a indicar que «los animales existen únicamente en tanto que medios y no
por su propia voluntad, en la medida que no tienen conciencia de sí
mismo, mientras que el hombre constituye el fin. … no tenemos ningún deber para con ellos de modo inmediato; los deberes para con los
animales no representan sino deberes indirectos para con la humanidad» 58.
En atención a lo anterior, si cabe algún deber frente a los animales no es por respeto directo a estos, puesto que están desprovistos de
razón, sino meramente porque los comportamientos indeseables
frente a estos seres pudieran ser en última instancia perturbadores, en
el futuro, de actos frente a humanos.
Es evidente que estas visiones de Aristóteles, Kant o Tomás de
Aquino hacen sostener en el tiempo las bases fundamentales de la cosificación animal y la visión sesgada de la alteridad; ese otro que está
al servicio del ser humano y respecto de los cuales no se tienen obligaciones morales per se.
En palabras de Lara y Campos, «Aristóteles, Aquino y Kant son
solo unos ejemplos, muy significativos, de diferentes formas de explicar lo que ha sido, y sigue siendo, una misma concepción dominante
sobre cómo hemos de considerar tratar a los animales. Según esta, los
animales no pertenecen a la comunidad de los seres que importan
moralmente» 59.
No obstante, esta visión, aunque cosificadora, dotaba a los animales la posibilidad de ser seres receptores indirectos de deberes morales, aunque el fin último fuese una visión antropocéntrica en la se
Aristóteles 1999, 16 s.
Kant 1988, 287 ss.
59
Lara - Campos 2015, 29.
57
58
DE LA RES ROMANA
359
tratase de salvaguardar los intereses últimos de una posible degradación moral humana. Además, se debe destacar la aportación de Descartes al debate, que consideró que los animales pasan a ser meros autómatas, simples máquinas que ni sienten ni padecen.
Así, Lara y Campos, se hacen eco de una de las cartas que remite
Descartes a More en febrero de 1649, en la que indica que «los animales hacen muchas cosas mejor que nosotros, pero esto no me sorprende. Esto puede ser usado para probar que ellos actúan como un
reloj, que dice la hora mejor que lo hace nuestro propio juicio» 60.
La visión cartesiana como exponen los citados profesores fue «calando muy hondo en las distintas áreas de conocimiento» 61, circunstancia que coadyuvó a que aún hoy gran parte de los seres humanos
sigan sorprendiéndose con actitudes afectivas de los animales o consideren que estos sean meras mercancías a su disposición.
No obstante, la humanidad en algunos momentos ha realizado
reflexiones de carácter compasivo respecto de los animales, como
ejemplos: Pitágoras 62, Plinio 63, Ovidio 64, Plutarco 65, Porfirio 66, San
Francisco de Asís 67, San Basilio 68, Michel Eyquem de Montaigne 69,
Voltaire 70 o Hume 71.
Como se puede observar, aunque hubo pensadores de prestigio
que consideraban a los animales como algo más trascendente que meros seres autómatas o que quedasen meramente a merced de los humanos, este ha sido un pensamiento muy minoritario, cultura, religión y pensadores prestigiosos han generado los resortes suficientes
Lara - Campos 2015, 38 s.
Lara - Campos 2015, 39.
62
Riechmann 2017, 42.
63
V. Giménez-Candela 2020b, 168, nt. 38.
64
Lenoir 2018, 93.
65
V. Riechmann 2017, 49, nt. 62; v. Lenoir 2018, 149, nt. 64.
66
V. Riechmann 2017, 49, nt. 62.
67
A él se refiere el papa Jorge Bergoglio en su famosa encíclica Laudatio si – Sobre
el cuidado de la casa común. Se puede acceder en el siguiente enlace: https://www.vatican.va/content/francesco/es/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
68
Singer 2018, 200.
69
V. Lenoir 2018, 65, nt. 64.
70
V. Lenoir 2018, 52, nt. 64.
71
V. Riechmann 2017, 65 ss., nt. 62.
60
61
360
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
para que el conocimiento científico actual no se haya traducido en
conocimiento social democratizado.
Difícilmente, el ser humano podría ser el único con la capacidad
de sentir dolor o placer, cuando provenimos de los mismos ancestros
y cuando la sentiencia es un mecanismo no solo de disfrute, sino
también de alerta y protección ante el peligro, esencia consustancial a
la evolución y supervivencia de las especies. En este mismo sentido se
pronuncian los profesores Lara y Campos, cuando indican que «la experiencia del sufrimiento es, por tanto, producto de la evolución biológica» 72.
La cultura, la tradición y las costumbres nunca deben ser un impedimento para el conocimiento, porque sin este último nunca habríamos alcanzado las metas que nos hemos establecido como sociedad, en ese sentido lo expone Choza Armenta citando al reconocido
antropólogo Edwar T. Hall, «para evitar esa locura colectiva hay que
aprender a trascender la propia cultura y adaptarla al propio tiempo y
al propio organismo. Para alcanzar estos objetivos, y dado que la introspección no enseña nada de esto, el hombre necesita experimentar
otras culturas» 73.
Por tanto, necesitamos trascender nuestra cultura, si ello supone
un óbice al reconocimiento de los animales como seres sentientes y
con posibilidad de ser sujetos de derechos.
La relevancia científica y jurídica de la sentiencia. La sentiencia ha
supuesto el eje principal de articulación de la mayor parte de las teorías contemporáneas que afectan al derecho Animal con base en el conocimiento científico, tal es así que ha supuesto y supone el motor
del cambio en el giro animalista.
A este respecto, debemos subrayar la importancia de declaraciones científicas de enorme valor como la Declaración de Cambridge
de 2012 74, en la que un grupo de científicos de reconocido prestigio,
V. Lara - Campos 2015, 41, nt. 59.
V. Choza Armenta 2018, 9, nt. 52.
74
La Declaración de Cambridge ha supuesto un hito dentro del derecho Animal,
no solo a los efectos de poner de manifiesto que los animales tienen consciencia, sino
que incluso añade «la capacidad de mostrar comportamientos intencionales», algo que
añade un elemento importante al debate moral (https://fcmconference.org/img/CambridgeDeclarationOnConsciousness.pdf ).
72
73
DE LA RES ROMANA
361
reforzaron el mensaje de que los animales sienten y son conscientes
de lo que les rodea, indicando que: «La ausencia de un neocórtex no
parece impedir que un organismo pueda experimentar estados afectivos. Hay evidencias convergentes que indican que los animales no
humanos poseen los sustratos neuroanatómicos, neuroquímicos y
neurofisiológicos de los estados de consciencia, junto con la capacidad de mostrar comportamientos intencionales. En consecuencia, el
peso de la evidencia indica que los humanos no somos los únicos en
poseer la base neurológica que da lugar a la consciencia. Los animales, incluyendo a todos los mamíferos y aves, y otras muchas criaturas, entre las que se encuentran los pulpos, también poseen estos sustratos neurológicos».
A nivel académico, dicha declaración ha supuesto un elemento
capital que ha inspirado innumerables documentos de investigación
dado que la misma goza de un respaldo científico de calado, reforzando el proceso descosificador de los animales y su empoderamiento
social.
Va a ser, por tanto, la sentiencia un elemento «principal, que ha
permitido y permite al legislador introducir cambios para dotar a los
animales de una mejora de su condición jurídica» 75.
A este respecto, este proceso descosificador se le debe en gran
parte a la legislación europea en materia de bienestar animal 76, concretamente cobra especial relevancia, la expresión «sentient beings»
recogida en el art. 13 TFUE, que pretende plasmar que los animales
sienten y padecen, en definitiva, que no son cosas, dejando patente
que los animales son seres que tienen sentiencia y son conscientes de
lo que tienen a su alrededor.
La normativa europea citada es de obligado cumplimiento por los
Estados miembros, a pesar de «las limitaciones que el mismo artículo
impone en la segunda parte de su redacción» 77; sin embargo, el proceso de modificación de los Códigos civiles europeos no ha sido todo
lo fulgurante y uniforme que cabría haber esperado, si bien, tampoco
las traducciones del art. 13 han resultado de ayuda al proceso descosificador de los animales.
V. Giménez-Candela 2021, 12, nt. 24.
V. Giménez-Candela 2018b, 14, nt. 33.
77
V. Giménez-Candela 2018b, 14, nt. 33.
75
76
362
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
Podemos destacar que Francia en el año 2015 procedió a la modificación de su Código civil, reconociendo a los animales como «seres vivos dotados de sensibilidad» 78, desde luego, como indica Giménez-Candela, «el Código Napoleón, ha sido un revulsivo para los restantes Códigos continentales» 79, quizá, para saldar la deuda histórica
contraída con los animales desde 1804.
La modificación de la normativa francesa se auspiciaba no solo en
la legislación europea y la vinculación al art. 13, sino a que la «situación jurídica de los animales, no se sostiene en la sociedad actual y
deriva de ello la propuesta de cambio de dicho estatuto y la creación
de la categoría de los animales, separada de la de las cosas» 80, no obstante, «el legislador no se atrevió a modificar la ‘summa divisio’ personas-cosas» 81.
Por tanto, se podría aseverar que Francia dio comienzo a «una
nueva Revolución Francesa» 82, que está teniendo calado en todo el
derecho europeo continental y ha ido avanzando de forma sostenida
y sin pausa en todos los países del entorno, tal es así que, en diciembre de 2016, Portugal procedió a modificar su Código civil 83 reconociendo la «naturaleza de seres vivos dotados de sensibilidad» 84 de los
animales.
El caso de Portugal, «presenta rasgos de originalidad» 85, dado que,
sin atribuirles personalidad jurídica, creó una nueva clasificación para
los animales, al entender que estos «no encajan como cosas en la cla-
78
LOI n° 2015-177 du 16 février 2015 («relative à la modernisation et à la simplification du droit et des procédures dans les domaines de la justice et des affaires intérieures»: https://www.legifrance.gouv.fr/loda/id/LEGIARTI000030249593/2015-0218/). En su art. 2 establece que «les animaux sont des êtres vivants doués de sensibilité».
79
V. Giménez-Candela 2018b, 15, nt. 33.
80
V. Giménez-Candela 2018a, 13, nt. 12.
81
V. Giménez-Candela 2018a, 13, nt. 12.
82
Giménez-Candela 2015b.
83
Giménez-Candela 2016.
84
Lei n.º 8/2017 de 3 de março estabelece um estatuto jurídico dos animais, alterando o Código Civil, aprovado pelo Decreto-Lei n.º 47 344, de 25 de novembro de
1966, o Código de Processo Civil, aprovado pela Lei n.º 41/2013, de 26 de junho, e o
Código Penal, aprovado pelo Decreto-Lei n.º 400/82, de 23 de setembro (https://files.dre.pt/1s/2017/03/04500/0114501149.pdf ). En su art. 1 establece que «… reconhecendo a sua natureza de seres vivos dotados de sensibilidade …».
85
V. Giménez-Candela 2018a, 14, nt. 12.
DE LA RES ROMANA
363
sificación de las cosas en propiedad» 86, creando así una nueva figura
jurídica, la de los animales.
Lo anterior, como indica Giménez-Candela, «abre una puerta importante a la reflexión jurídica, va más allá que otras reformas acerca
de los animales ya realizadas por otros Códigos civiles europeos y Latinoamericanos» 87.
Igualmente, esta nueva revolución, se ha visto con posterioridad
plasmada en otros Códigos como los de Liechtenstein, República
Checa, pero no solo estos, sino que otros países occidentales también
han «introducido cambios en el mismo sentido de considerar a los
animales como seres sintientes. Me refiero a países con un sistema jurídico codificado, como serían los casos de Colombia, Brasil, Nicaragua o, parcialmente, México o de países del common law como Nueva
Zelanda o Canadá» 88.
En este mismo sentido, después de varias idas y venidas, a principios de 2022, se ha producido la modificación del estatuto jurídico
animal en España, que ha reconocido que, los animales, «son seres vivos dotados de sensibilidad» 89, ajustándose a lo preceptuado por la legislación europea.
En suma, los hallazgos científicos-técnicos en materia de sentiencia animal, se han erigido como esenciales para dar comienzo a un
proceso de descosificación y modificación del estatuto jurídico de los
animales que pretende poner de relieve no solo que estos no están
fielmente representados por el régimen jurídico de las cosas, sino que
deben ser protegidos por figuras jurídicas que les doten de amparo
suficiente en atención a su condición de seres sentientes, ya sea mediante una categoría jurídica diferenciada o, en su defecto, mediante
otras ya existentes en la actualidad para el ser humano como, por
ejemplo, la personalidad jurídica.
3.3. Personalidad jurídica. – Esta tercera fase, como indica Giménez-Candela, «cabalga sobre la de la sintiencia» 90, lo cierto es que los
V. Giménez-Candela 2018a, 15, nt. 12.
V. Giménez-Candela 2018a, 15, nt. 12.
88
V. Giménez-Candela 2018a, 19, nt. 12.
89
Ley 17/2021, de 15 de diciembre, de modificación del Código Civil, la Ley Hipotecaria y la Ley de Enjuiciamiento Civil, sobre el régimen jurídico de los animales
(https://www.boe.es/eli/es/l/2021/12/15/17/dof/spa/pdf ).
90
V. Giménez-Candela 2018b, 15, nt. 33.
86
87
364
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
cuatro hitos mencionados «cabalgan» sobre el inagotable motor de la
sentiencia.
No obstante, en atención al proceso histórico que se ha producido en lo que al derecho de los animales se refiere, podemos aseverar
que la sentiencia ya no es suficiente para garantizar jurídicamente la
integridad de estos en sentido amplio; se hace necesario, hacer uso de
otros mecanismos, ya existentes, que sean extrapolados a los animales
y que les protejan plenamente, es ahí donde entra en liza la personalidad jurídica.
No cabe duda de que, este tema puede generar rechazo por parte
de muchos sectores e incluso puede que «repugne a quienes identifican el término persona, con el de ser humano» 91; sin embargo, no
existe óbice para que se pueda extrapolar la figura de persona jurídica
a los animales.
En este sentido, es importante subrayar que persona era «la máscara funeraria que portaban los parientes de un difunto, en los cortejos fúnebres, a través de las que representaban los distintos roles que
el finado había desempeñado a lo largo de su vida» 92, del mismo
modo, persona era «también la máscara teatral, que usaban los actores para representar distintos personajes o estereotipos durante las actuaciones dramáticas» 93.
En consecuencia, el derecho lo único que hizo fue atribuir al ser
humano todos aquellos roles que podría representar dentro del ámbito jurídico normativo. No se niega, pues, la relación estrecha del ser
humano y el concepto persona, circunstancia que, por otra parte, es
lógica, por cuanto el derecho es una creación humana; sin embargo,
la realidad es que el término persona «no es más que una abstracción
atribuible a cualquier realidad que desempeñe un papel, un rol, una
actuación contemplada, regulada y protegida por el Derecho» 94.
Efectivamente, el término persona, a estos efectos, es una creación
o ficción jurídica, «cuya característica principal es la abstracción» 95,
que ha sido extrapolada, por ejemplo, a sociedades mercantiles que
V. Giménez-Candela 2020b, 203 ss., nt. 38.
V. Giménez-Candela 2020b, 203 ss., nt. 38.
93
V. Giménez-Candela 2020b, 203 ss., nt. 38.
94
V. Giménez-Candela 2020b, 203 ss., nt. 38.
95
Giménez-Candela 2019b, 10.
91
92
DE LA RES ROMANA
365
operan como personas jurídicas. Lo anterior, si bien podría generar
controversias desde una perspectiva jurídica del derecho como revelación natural, lo cierto es que desde un enfoque jurídico positivista y
más contemporáneo no parece revestir mayor problemática que transferir a la norma el reconocimiento de la personalidad jurídica de los
animales.
En este mismo sentido, podemos encontrar argumentos que justificarían desde el punto de vista jurídico el acceso de los animales al
concepto de persona, como, por ejemplo, el máximo exponente del
positivismo, Kelsen, que entiende el derecho como un orden normativo creado por la voluntad de los seres humanos 96, por tanto, puede
ser alterado cuando así se precise.
Así, Kelsen referenciado por Riechmann, indica «que los órdenes
jurídicos modernos solo regulen la conducta de los hombres y no la
de los animales, las plantas o la de los objetos inanimados, en cuanto
dirigen sanciones solo contra aquellos, pero no contra estos, no excluye que esos órdenes jurídicos prescriban una determinada conducta humana no solo en relación con seres humanos, sino también
en relación con animales, plantas y objetos inanimados» 97.
A mayor abundamiento, Pelayo González-Torre, indica que «así
pues, no hay objeción alguna para que desde una perspectiva positivista los animales sean destinatarios de deberes jurídicos … supondría
la posibilidad de hacer a los animales titulares de tantos derechos
cuantos un legislador pudiera hacer eficaces» 98.
En consecuencia, dependerá de la voluntad del legislador y de la
sociedad en último término, que el derecho sea una herramienta útil
en la generación de derechos de los animales, circunstancia que por sí
misma no es suficiente, pero sí necesaria. Si bien la sociedad civil
tiene mucho que decir y es moldeadora en último término del derecho, por aquello de que este último siempre «llega tarde»; en determinadas esferas de la vida pública, con los movimientos sociales no es
suficiente. Hay elementos jurídicos que son la base del reconocimiento social, no es posible que la defensa de los derechos de los animales pueda quedar al albur de los ciudadanos.
Kelsen 2020.
V. Riechmann 2017, 117, nt. 62.
98
Pelayo González-Torre 1990, 543 ss.
96
97
366
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
Se puede coincidir en la idea de que los movimientos sociales, son
potenciadores del progreso social; sin embargo, hay una cobertura de
mínimos que debe estar regulada por el derecho porque esa ha sido
una de las claves del progreso de las sociedades. Dicho de otra forma,
el contrato social al que hacía referencia Rousseau es lo que debe producirse en el ámbito del derecho Animal, dado que debe llevarse a
cabo una reconciliación no solo con la naturaleza, sino con todos los
seres que la componen. Esa reconciliación, solo es posible mediante
un nuevo contrato social.
Así, una vez las sociedades han sido válidamente constituidas y
protegen a los seres humanos por igual, al menos en el plano formal,
se deben generar las estructuras de poder y protección respecto del
resto de seres con los que compartimos nuestras vidas y vivencias, y la
única herramienta que ha demostrado que, con sus defectos, puede
coadyuvar a que se obtengan estos fines, es el derecho. Y la figura jurídica concreta que ha demostrado suficiente solvencia como para garantizar la igualdad, al menos en su vertiente formal, ha sido el reconocimiento de la personalidad jurídica y, por derivación de esta, la
generación de derechos individuales.
En esta línea, hay hitos destacables en lo que a dotar de personalidad jurídica a los animales se refiere, estos hitos se han producido en
forma de declaraciones desde ámbitos como la Universidad o el judicial. A este respecto, destacamos la Declaración de Toulon de 29 de
marzo de 2019, que fue proclamada, «durante la sesión solemne del
coloquio sobre La personalidad jurídica de los animales (II)» 99. De la
citada Declaración, destacan cuatro elementos:
(i) «los animales deben considerarse universalmente como personas y no como cosas»,
(ii) «debe reconocerse [a los animales] la condición de persona, en
términos jurídicos»,
(iii) «desde la perspectiva del derecho, la situación jurídica de los
animales cambiará en la medida en que se los eleve al rango de sujetos de derecho»,
La Declaración de Toulon de 29 de marzo de 2019 (https://www.univ-tln.fr/
IMG/pdf/declaracio_n_de_toulon_esp_.pdf ), debe ser entendida como un refuerzo de
lo establecido en la Declaración de Cambridge de 2012. Es «una respuesta de los universitarios del área del derecho» a aquella.
99
DE LA RES ROMANA
367
(iv) «el derecho aún no se apropie de este desarrollo para lograr
una evolución significativa del corpus jurídico relativo a los animales».
La citada declaración hace un alegato por la personalidad física
jurídica de los animales que pone de relieve uno de los problemas que
ya se había avanzado al comienzo del documento, y no es otro que, el
hecho de que la sociedad no se ha hecho eco y, en consecuencia, el
derecho, de lo que ya es una evidencia a afectos científicos: estamos
ante seres que tienen consciencia, por lo que deben tener una protección jurídica que les permita el reconocimiento pleno de sus derechos.
Tan importante como la declaración mencionada, han sido los
pronunciamientos judiciales que se han venido produciendo a lo
largo de estos últimos años y que han dotado a algunos animales de
la consideración de persona o sujeto de derecho. Especial consideración tienen los pronunciamientos judiciales producidos en Argentina,
un país que está siendo abanderado de la protección jurídica de los
animales con base en interpretaciones jurídicas de la normativa vigente. Para ello, los jueces, han tenido que realizar un ejercicio de
abstracción de la norma para, sin legislar, interpretarla y dar protección a los animales en cuestión.
A este respecto, aun conociéndose otros supuestos que han sido
analizados por la doctrina científica 100, desde un enfoque puramente
jurídico, es destacable sobre todos ellos el caso de la perra Poli, dado
que es la primera ocasión que se considera a un animal como persona
no humana, – sentencia 1927 de 20 de abril de 2015 del Primer Juzgado Correccional, San Martin, Mendoza 101.
Concretamente, la citada Sentencia indica que «no cabe desconocer el llamado jurisprudencial reciente y producción científica que
atribuyen a determinadas especies de animales la condición de ‘personas no humanas’ en razón de presentar un cierto grado de raciocinio
y características emocionales similares a la de los humanos, y como
tales, dignos de la protección de los derechos básicos fundamentales».
También, es destacable la reciente sentencia de 27 de enero de
Baggis 2017.
Se puede acceder a la sentencia en el siguiente enlace (https://s3.amazonaws.
com/public.diariojudicial.com/documentos/000/059/768/000059768.pdf ).
100
101
368
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
2022 del Tribunal Constitucional de Ecuador No. 253-20-JH/22, en
la que se declara a la mona Estrellita como sujeto de derecho 102.
En consecuencia, en las sentencias que se han dictado sobre esta
materia, se observa un mismo hilo conductor, que pasa por cuatro fases, (i) reconocimiento de la dignidad del animal, (ii) se pone en valor el elemento científico de la sentiencia, (iii) se estaría ante una evidente personalidad jurídica no humana y, de ello, (iv) inferimos la generación de derechos subjetivos individuales.
Todos estos elementos que se han analizado en el presente apartado justifican sobradamente que la posibilidad de extender la figura
jurídica de persona a los animales no solo es jurídicamente posible,
sino también deseable para poder tener herramientas jurídicas suficientes para defender los derechos de los animales y, a su vez, que estos dispongan de un reconocimiento social suficiente en atención a su
condición de seres sentientes.
Como referencian Donaldson y Kymlicka, «cuando un ser humano se relaciona con un ser no humano individual como un objeto
anónimo, en lugar de como un ser con su propia subjetividad, es el
humano, y no el otro animal, quien está renunciando a la cualidad de
persona (Smuts 1999:118)» 103.
Por tanto, estamos ante una relación bidireccional donde el ser
humano es el que debe dar reconocimiento jurídico pleno a los animales, ya sea en forma de persona no humana o persona jurídica no
humana, etc., según las diferentes aproximaciones que ha realizado la
doctrina a este respecto.
En consecuencia, «se trata de una ampliación del término persona, coherente con las necesidades de una nueva sociedad y consciente de que en el s. XXI los animales no pueden ser tratados, tampoco desde la teoría jurídica, como meros objetos» 104.
3.4. Derechos individuales. – La clasificación que realiza GiménezCandela culmina con la personalidad jurídica, debemos tener en
102
Se puede acceder a la sentencia en el siguiente enlace: http://esacc.corteconstitucional.gob.ec/storage/api/v1/10_DWL_FL/e2NhcnBldGE6J3RyYW1pdGUnLCB1
dWlkOic3ZmMxMjVmMi1iMzZkLTRkZDQtYTM2NC1kOGNiMWIwYWViMW
MucGRmJ30=.
103
V. Donaldson - Kymlicka 2011, 200, nt. 47.
104
V. Giménez-Candela 2019b, 12, nt. 95.
DE LA RES ROMANA
369
cuenta que aún no hemos alcanzado plenamente esa fase, por lo que
su categorización ya es visionaria por sí misma. No obstante, es necesario dar un paso hacia delante, para que así el horizonte se encuentre trazado. Así, esta nueva fase, es lo que podemos denominar una
cuarta ola de derechos, dentro del giro animalista que deberá culminar con un reconocimiento pleno de derechos individuales subjetivos.
Por tanto, una vez reconocida legalmente la personalidad jurídica
a los animales, quedará mucho trabajo por hacer por los legisladores
y la sociedad, dado que en este proceso la concienciación se erige
como piedra angular.
Pues bien, la generación de derechos individuales, en principio,
podría ser consecuencia directa del reconocimiento de la personalidad
jurídica de los animales y, por añadidura, de las anteriores fases que
han sido analizadas. Sin embargo, por desgracia, el planteamiento no
es tan inmediato. Se puede estar de acuerdo en que la personalidad
jurídica pudiera ser una condición sine qua non para que los derechos
subjetivos individuales se generen, pero no necesariamente lo uno llevará a lo otro, aunque por supuesto, ayudará.
Dicen Lara y Campos, que «cuando se reclaman derechos para alguien se está exigiendo que se le trate con respeto» 105. Este elemento
es fundamental porque arraiga con lo que hemos analizado hasta este
momento, el respeto como esencia de la dignidad y la generación de
derechos.
Por tanto, estamos ante una fase que exigirá el reconocimiento
pleno de que existen intereses particulares de los animales y no solo
de los seres humanos. Como indican a este respecto Lara y Campos,
«decir que una persona tiene un derecho es admitir que posee intereses que podrían resultar perjudicados si, por consideraciones de utilidad general, se viola tal derecho» 106.
En atención a lo anterior, para alcanzar esta fase no solo necesitaremos el reconocimiento pleno de la personalidad jurídica por el derecho positivo desde una visión kelseniana 107, sino que se hará necesario que a esta nueva ola se llegue por la propia inercia de la tercera
y que sea la sociedad la que sea generadora de la misma.
V. Lara - Campos 2015, 68, nt. 59.
V. Lara - Campos 2015, 68, nt. 59.
107
V. Giménez-Candela 2019b, 10, nt. 95.
105
106
370
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
Lo anteriormente mencionado, tiene un corolario que, puede ser
inevitable, y es que tras esta cuarta ola de derechos, no solo será posible reconstruir las relaciones de víctima-verdugo que se han generado
y alimentado a lo largo de la historia, sino que podremos dar lugar a
sistemas de ciudadanía similares a los que preconizan Donaldson y
Kymlicka en su Zoopolis, una revolución animalista 108, o ir más allá hacia el abolicionismo propugnado por Francione y Charlton en su Derechos de los animales: El enfoque abolicionista 109.
4. Conclusiones. – El derecho romano ha impregnado la codificación de Europa continental y Latinoamérica, lo que ha supuesto que
muchas de las taxonomías implementadas en el pasado se hayan perpetuado a lo largo de los siglos.
A este respecto, la conceptualización romana de los animales
como res se trasladó a la codificación europea y latinoamericana, sin
solución de continuidad, por medio del Código Napoleón, eternizando una cosificación de los animales que aún perdura en nuestros
días, y ello a pesar de que la visión romanista de los animales no parece que fuese precisamente cosificadora, sino más bien respetuosa.
Es a partir de los años 60, con base en el rigor científico, que se
ha venido produciendo un giro en la visión de los animales como cosas, lo que ha generado un proceso de modificación de los Códigos
civiles europeos, así como la pretensión de una adaptación jurídica de
los animales a la realidad actual. En este sentido, el motor inagotable
del cambio que se está presenciando trae consecuencia de los hallazgos científicos respecto de la sentiencia animal, un concepto que ha
propiciado que las estructuras jurídicas del pasado que, en su mayoría, derivan del derecho romano y su plasmación en el Code Napoleón, se hayan visto soliviantadas.
La sentiencia de los animales es una cuestión indubitada que
cuenta con el respaldo y rigor científico, que ha servido de base para
propiciar un nuevo paradigma jurídico que está generando los resortes necesarios para proteger a aquellos que permanentemente han
sido olvidados por los ordenamientos jurídicos, por lo que estamos
108
109
V. Donaldson - Kymlicka 2011, 53, nt. 47.
Francione - Charlton 2015.
DE LA RES ROMANA
371
siendo espectadores de lujo de un proceso de descosificación de los
animales que es tan complejo como alentador.
El mencionado proceso de descosificación aleja paulatinamente a
los animales del concepto de res romana porque es ya una obviedad
que el derecho de las cosas no ofrece las soluciones que se exigen por
parte de las sociedades del s. XXI, así como tampoco protege las necesidades de unos seres vivos que tienen capacidad plena de sentir.
Estamos, por tanto, ante la incipiente creación de un nuevo derecho
de los olvidados que deberá ser eminentemente protector respecto de
aquellos que hasta hace poco eran considerados cosas.
Este proceso, que aleja a los animales, cada vez más, de la taxonomía de res, porque «ellos son alguien, no son algo» 110, probablemente culmine con el reconocimiento de la personalidad jurídica de
los animales y, posteriormente con el desarrollo de los derechos individuales que se derivarían de la misma, abriendo el debate sobre las
fronteras del derecho y la justicia interespecie.
Parece factible, por tanto, que los animales puedan quedar enmarcados en el concepto de persona jurídica no humana o sujeto de
derecho, lo que protegería sus intereses formalmente y facilitaría su
protección material, si bien para esto último se requiere, también, de
otros aspectos fundamentales como la sensibilización de la sociedad,
así como que las teorías científicas permeabilicen en esta.
No cabe duda de que esta situación genera, por un lado, un escenario tan ignoto como emocionante en las relaciones que el ser humano mantiene con aquellos seres con los que comparte su existencia
y, por otro lado, quiebra las estructuras jurídicas que aún imperan en
la actualidad, entre ellas el concepto de res, extremos que permitirán
que, su conceptualización y taxonomía sigan siendo objeto de debate
en el futuro.
Un futuro, el de los animales, que cada vez parece más próximo
al estatuto jurídico de persona o sujeto de derecho que al de las cosas
en propiedad; sin embargo, será el tiempo y la sociedad quienes determinen si, en relación con los animales, la taxonomía de res romana
es subvertida o, simplemente ampliada.
110
Giménez-Candela 2018c, 6.
372
DANIEL NAVARRO SÁNCHEZ
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Carlos Amunátegui Perelló
LEGAL STATUS OF ARTIFICIAL AGENTS
1. Introduction. – Just ten years ago, the idea of establishing a legal status for artificial agents felt awkward. It belonged to a kind of
unlikely futures that had failed to become true. In the blink of an
eye, nowadays, artificial agents are writing press articles, designing inventions, creating artwork and music, and in general, accomplishing
feats that just a decade ago were the exclusive province of human ingenuity. In the last decade, when neural networks finally became
mainstream 1, the power of artificial agents has become apparent, and
legal scholars have started to adapt and design legal institutions to
regulate the status of artificial agents.
In the most general terms, artificial agents are entities that can interact in the world taking decisions or making predictions 2, some of
which are deemed to have legal consequences 3. The set of technologies that underlies the functioning of artificial agents is usually called
‘artificial intelligence’, which is really a commercial name given in the
1950’s to a set of techniques used to make machines act in a way that
1
We could take as a starting point the famous ImageNet challenge of 2012, where
a team of students from Toronto University simply wiped out all competitors using a
model based on neural networks based on the developments made by Hinton and
LeCun. On the matter see Krizhevsky - Sutskever - Hinton 2012, 1097 ff.
2
We use the expression ‘agent’ in a wide sense to refer to entities that are capable
of interacting in the world, but not necessarily implying the technical legal sense of
agency law in Common law systems. In this sense, we take the usual meaning of the
word used in Computing science defined by Russel and Norvig: «an agent is anything
that can be viewed as perceiving its environment through sensors and acting upon that
environment through actuators» (Russell - Norvig 2020, 36).
3
In a similar sense, see Chopra - White 2011, 5.
376
CARLOS AMUNÁTEGUI PERELLÓ
would suppose intelligence, or at least sentience, if a human was to
do them 4. In the 1990’s a vast discussion on the regulation of internet agents emerged, particularly focused on the problem if they were
simple projections of the will of their users or independent agents 5.
In the 1990’s the question was usually answered by stating that artificial agents were simple mechanisms to project the will and agency
of their users, which made sense according to the technical possibilities of the era. In fact, an e-mail was nothing more than a new
method to send a letter, and therefore, the regulation for the first
should not be different from the latter 6. This doctrine was even
adopted by some legal texts in the 2000’s 7.
Nowadays, the situation has varied significantly due to the capabilities which neural networks have provided to artificial agents.
Neural networks 8 are designed by the programmer, and their outputs
are not simply determined by preprogrammed logical statements, but
are rather learned by the agent during its training phase. In this sense,
when the artificial agent makes a prediction, it is not necessarily following a simple set of rules, as in a decision tree 9, but it is applying a
learned probability from the data it was trained with. Due to neural
networks, artificial agents have acquired a certain independence from
4
The classic definition on the matter is contained in the paper by McCarthy, Minsky, Rochester and Shannon to fund a summer project to develop the research on the
matter. The definition states: «every aspect of learning or any other feature of intelligence can in principle be so precisely described that a machine can be made to simulate
it» (McCarthy et al. 2006, 13). Another such definition can be found in the now derogated Bill of the State of Nevada (NV Rev Stat 482A.020 2011) that defined artificial
intelligence as «the use of computers and related equipment to enable a machine to duplicate or mimic the behavior of human beings». See on the matter Turner 2019, 12.
5
For the Chilean legal context, see Pinochet Olave 2004, 267 ff. For a wider
context see Chopra - White 2011, 36.
6
This is what Easterbrook ironically called to Law of the Horse, warning that not
every object of legal transactions should have its own regulation. See Easterbrook
1996, 207 ff.
7
For instance, the United Nations Convention on the use of Electronic Communications in International Contracts, arts. 8.1 and 12, or the directive 2000/31/CE of
the European Union, art. 9.1.
8
For the structure of neural networks and their learning qualities see Russell Norvig 2020, 750 ff.
9
Decision trees are one of the simplest artificial intelligence models that can be
constructed. They are based on tree like models of logic, where possibilities are
described as branches of a tree. They are rule based and work on deduction, something
that makes them predictable. For details see Russell - Norvig 2020, 657.
LEGAL STATUS OF ARTIFICIAL AGENTS
377
their users and programmers, making decisions or proposing predictions that are not implied by a simple set of instructions of any given
programmer. To put it in simple terms, when someone buys an item
in an electronic marketplace, such as Amazon, E-Bay or other similar
digital platform, there is an Internet portal provided with artificial
agents, but there are not real people consenting to the sale contract
proposed. Most of the relevant conditions, such as the price, the delivery and the other important facts are given by the artificial agents,
directly negotiated by them, without any reference to a real person
behind the screen. All the essential conditions of the contract are directly negotiated by the machine, which conducts itself more like a
seller in a Moroccan souk than a simple translator of the legal intentions of the owner. In this sense the emerging autonomy which artificial intelligence technology is giving to artificial agents has brought
the traditional ‘messenger’ doctrine to question, for it is difficult to
establish that the machine simply carries the intentions of its user. An
interesting case happened in Chile on 2018, where an airline offered
air tickets from Santiago to Australia for just 120 US$, an extremely
low price. The company alleged an error facti from the portal and refused to deliver for the consumers who bought the tickets. Although
the case never got to court, it is rather interesting that the conditions
bargained by the artificial agent seemed to be discordant with the alleged intentions of the seller.
Given the autonomy artificial agents have gained, and their pervasive presence in the economy, it is important to define a legal status which may be applied to them. For this work, we will focus on
two different aspects of the matter, first we will try to determine they
legal nature, to then try to construct a legal status for them. In both
aspects, Roman law scholarship will be fundamental.
2. What is an artificial agent? – From a legal perspective, an artificial agent is an object of rights, and therefore, a res, although it is
hard to determine what specific kind of res would fit its description.
Artificial agents are made up from information, and although it can
be embodied in a physical entity, such as a robot 10, or be contained
10
A nice definition of robots is: «physical agents that perform tasks by manipulating the physical world» (Russell - Norvig 2020, 925).
378
CARLOS AMUNÁTEGUI PERELLÓ
in a storage device, like a memory unit, its constituent parts are simply information. There is usually a set of rules that determines the
way the information is to be treated, and a set of data which is
processed by according to those rules. In traditional symbolic systems, the data was built as an ontology 11, a set of definitions about
the meaning of the variables that were used by in the processing of
the data. In neural networks this ontology is replaced by a training
process in which the agent is shown cases from which the network
learns correlations and predictions, which are translated into weights
and biases that act as a multiplier for the axons that connect its neurons, corrected through an algorithm of backpropagation. Although
it sounds quite obscure at a first glance, its meaning its quite easy to
grasp: in symbolic systems knowledge is programed, while neural networks learn their knowledge – that is to say, to make appropriate predictions – from the data they are trained with. In this sense, artificial
agents are constructed with two different elements, rules and data, although they might also include physical elements such as storage
units or even a body which incarnates them, as in the case of robots.
Its parts form a coherent unit that acts in the world. In a sense, it is
the union of information and, eventually, some form of embodiment.
This seems to fit the idea of corpora ex contingentibus, used by Pomponius to admit usucapion for entities made of parts 12.
A remarkable difference between Roman law and the modern
theorization around artificial agents is the fact that while in the first
all the parts of a corpus ex contingentibus were subject to the same
right – property –, in the latter this is not quite clear-cut. Different
legal status emerge for each part of the agent, without a coherent
connection between them. Firstly, there seems to be no problem regarding the possibility that the incarnation of the artificial agent is
subject to property. In fact, the acquisition of a self-driving car, a
For ontologies see Russell - Norvig 2020, 314 ff.
See Pomp. 30 ad Sab. D. 41.3.30 pr.: Rerum mixtura facta an usucapionem
cuiusque praecedentem interrumpit, quaeritur. Tria autem genera sunt corporum, unum,
quod continetur uno spiritu et Graece hJnwmevnon [continuum] vocatur, ut homo tignum
lapis et similia: alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se cohaerentibus constat, quod sunymmenon vocatur, ut aedificium navis armarium: tertium, quod ex distantibus constat, ut corpora plura non soluta, sed uni nomini subiecta, veluti populus legio
grex. Primum genus usucapione quaestionem non habet, secundum et tertium habet.
11
12
LEGAL STATUS OF ARTIFICIAL AGENTS
379
smartphone or a storage unit follows the traditional rules of acquisition of property in every legal system, whatever that might be. Nevertheless, the ownership of such physical devices does not generally
imply the acquisition of the artificial agents that inhabit the physical
entity. Usually, the owner of the device is granted a license for the use
of the software, and even this is not quite clear-cut as it might seem
at first glance.
To most Western legal systems, the Bern Convention of 1886 is
usually the basic legal framework to protect software. According to
it 13, software is under copyright regulations, whatever form they take.
A definition for computer programs can be found in the WIPO
Model Provisions on the Protection of Computer Programs, which
include the following definition in article 1:
«‘computer program’ means a set of instructions capable, when
incorporated in a machine-readable medium, of causing a machine having information processing capabilities to indicate, perform or achieve a particular function, task or result».
To say in short, the definition and the protection seems to point
specifically to the set of rules that an artificial agent uses to process
information, but not to the training of the agents, which constitutes
its most valuable part. Two artificial agents can have the very same set
of rules to construct their neural network, but act in vastly different
way if they are trained with different data sets, or even with the same
but fed in a different order or using a different technique of training.
This can affect not only their efficiency, but their abilities and economic value.
The problem is not specific of the Bern convention nor the
WIPO treaties that complement it, but common to most national
and regional regulations 14. Many companies have opted for protecting such training as a trade secret. At its core artificial agents seem to
13
We refer to art. 4 of the WIPO Copyright Treaty, which complements the Bern
convention, referring to computer programs and art. 5 of the same treaty which gives
copyright protection to databases.
14
See the Chilean Ley 17336 art. 3 N° 16; the Spanish Ley 1/1996, art. 96-1; the
United States, Copyright Act 17 USC, § 101 and for the European Union, the Computer Programs Directive, 2009/24/EC.
380
CARLOS AMUNÁTEGUI PERELLÓ
be composed of different elements. There is a part of the agent, the
program or rules that govern its actions, under copyright, others, as
its training, might be protected as trade secrets, while others, as its
embodiment seem to be under regular property. This amalgam of res
and iura is what we call an artificial agent, and, as the old corpora
plura non soluta category of res, seem to be unified by the fact that we
refer to it through one name (uni nomini subiecta). These parts may
even change, as the agent might be retrained, its physical embodiment might change and even parts of its code and rules can be modified, but its name keeps the agent together. This brings to mind the
paradox of Theseus ship. The case, described by Plutarch 15, consists
in questioning if the ship that originally was used by Theseus is still
the same boat if all its parts have been replaced. Is the ship something
different from its parts? Is the ship the information or the physical reality that contains it? To Plato, apparently, the name is the essence of
things 16, and therefore, while the name is kept, the thing subsists, as
in the case of the grex or the legio, whose members may vary, but its
name keeps its existence.
3. Information and Agent. – Now, the nature of the agents is highly
discussable. Should they be considered corporal or rather incorporeal
things? Can they be, in consequence, subject to property? The problem of artificial agents is that, regardless of their incarnation, they are
mainly composed of information, which makes its legal treatment
shady at most. In Roman sources, information is only casually referred
to in some literary texts, usually connected to the status of res. Typically, before Gaius’ famous legal classification of res into corporales and
incorporales (Gai 2.12), the discussion was rather philosophical. On
the problem, Aulus Gellius reports a vivid discussion on the nature of
sound, where the Platonic school of thought declared that it was incorporeal, while the Stoics, atomists and epicureans believed it had a
corporeal nature 17. From this point, the discussion seemed to turn to
the nature of ideas. One of the most interesting texts on the matter is
Plut. Thes. 23.1.
Pl. Cra. 401d.
17
Gell. 5.15.7-9.
15
16
LEGAL STATUS OF ARTIFICIAL AGENTS
381
given by Plato, who distinguishes between things that can be seen,
and therefore have a material nature, and things that cannot be seen,
but can be thought (Pl. R. 6.507b-c) 18. The discussion had projections
into Roman philosophy 19, where materialists stated that only things
that could be sensed had a real existence 20, while stoics believe that
things that are not directly perceived by the senses also have a kind of
existence 21. In this context, Cicero differentiates between things that
can be perceived by the senses, and therefore are of corporal nature,
and things that are understood by intelligence, and are incorporeal 22.
Apparently, following this rational, is that Quintilian asserted that law
was an incorporeal thing 23:
Quint. inst. 5.10.116: ius, quod sit incorporale, adprendi manu
non posse.
The famous Gaian classification seems to follow this same path,
for it distinguishes between res corporales and incorporales, regarding
two different criteria, the ability to perceive them by the senses and
their legal consistence. The legal category established by Gaius 24
On the matter see Guzmán Brito 1995.
On the problem there is quite abundant bibliography. See Giglio 2012, 8;
Giglio 2013, 135; Baldessarelli 1990, 87 f.; Grossi 2001, 11; Bonfante 1966, 10;
Guzmán Brito 1995.
20
Most famously Lucr. 1.303-5: Quae tamen omnia corporea constare necesse est
natura: quoniam sensus impellere possunt, tangere enim et tangi, nisi corpus, nulla potest res.
21
Again, famously Seneca has many interesting fragments on the matter. He asserts that all res are either corporeal or incorporeal: Sen. epist. 58.14: ‘Quod est’ in has
species divido, ut sint corporalia aut incorporalia; nihil tertium est. And that incorporeal
things are not destroyed, because they are not made of matter: Sen. ben. 6.2.2.1 Illud
incorporale est, inritum non fit; materia vero eius huc et illuc iactatur et dominum mutat.
On the matter, Seneca even discusses the value of incorporeal things: Sen. dial.
10.8.1.5: Re omnium pretiosissima luditur; fallit autem illos quia res incorporalis est, quia
sub oculos non uenit, ideoque uilissime aestimatur, immo paene nullum eius pretium est.
22
Cic. top. 5.27: Definitionum autem duo genera prima: unum earum rerum, quae
sunt; alterum earum, quae intelliguntur. ‘Esse’ ea dico quae cerni tangive possunt, ut fundum, aedes, parietem, stillicidium, mancipium, pecudem, suppellectilem, penus, caetera:
quo ex genere quaedam interdum nobis definienda sunt. ‘Non esse’ rursus ea dico, quae
tangi demonstrarive non possunt, cerni tamen animo atque intelligi possunt, ut si usucapionem, ut si tutelam, si gentem, est tamen quaedam insignita et impressa inintelligentia
quam notionem voco.
23
For an in-depth analysis, see Falcone 2012, 142; Di Pietro 2021, 29.
24
As Pugliese puts it: «la sua distinzione [di Gaio] tra res corporales e res incorporales
18
19
382
CARLOS AMUNÁTEGUI PERELLÓ
– probably with pedagogical ends rather than systematic – was followed by Justinian’s Institutes (I. 2.2) and, therefore, was universally
present in Western legal tradition until the 19th century codifications.
The Code Napoléon did not include it, and therefore, was marginalized from most European successive legal systems, excepting the Austrian empire (ABGB 291-292) and the Dutch civil code of 1829 (art.
559). Meanwhile, because of the influence of Pothier 25 and Delvincourt 26, the distinction was maintained in Andrés Bello’s Code (art.
565), and therefore in many Latin American legal systems.
Meanwhile, Pandectism 27 attacked the Gaian schema, mainly because of its inconsistence. It seems evident that legal consistence is
not the opposite of the possibility of perceiving through the senses,
and it is quite evident that ideas have an intellectual nature, but not
necessarily a legal one. So, the BGB limited its definition of things to
corporeal, and did not recognized the old Gaian tradition. This led to
the reconceptualization of the distinction, now in academia, as pointing to material and immaterial things 28.
In this context, information seems to be rather inconsistent
with the philosophical and legal categories just analyzed. Firstly, information is not mater nor energy 29, but can be embedded in both.
Matter and energy are simply means of transmission, and they can
be a channel of communication if they are reversible and copiable 30.
Information is contained in corporal things and can only enter consciousness through sensible perceptions, but it seems to be different
from the means of transmission that contain it. While it is perceived through the senses, it is not the object directly perceived, but
something that is derived from it. Information is only intellectually
grasped from the perception, processed by the mind into knowl-
può infatti considerarsi la prima applicazione giuridica dei concetti di corporalità e
incorporalità alla materia delle cose in senso giuridico» (Pugliese 1982, 1139).
25
Pothier keeps the distinction right at the start of his treatment of things. See
Pothier 1846, 87.
26
Delvincourt, who had a deep influence in Bello, re-introduced the distinction
because he maintained it had an evident usefulness. See Delvincourt 1834, 139, 143.
27
See Baldessarelli 1990, 76; Giglio 2012, 1 ff.; Giglio 2013, 129.
28
See Diez-Picazo 1978, 122; Biondi 1961, 51.
29
Wiener 1948, 204.
30
Marletto 2021, 52.
LEGAL STATUS OF ARTIFICIAL AGENTS
383
edge through perception. It can be expressed in different formats,
but it is not the format. A novel is not the physical object we commonly call a book, but the information that is contained in it, and
it can be expressed in paper, in a computer screen, read out loud, or
in whatever format which seems appropriate. Information is always
embedded in res corporales, but must not be confused with them. It
is a pattern that is contained in the physical manifestation where it
is embedded.
Another interesting problem regarding information is that it cannot be transmitted without copying it. To transmit is always to copy
the pattern contained in one media into another. So, when it is transmitted, it is not necessarily lost to the emitter, and can be held both
by the receiver and the emitter in a complete form. Contrary to corporal things, two people can hold the same information at the same
time, and tradition seems equivalent to communication. In this
sense, ownership of information means the right to control its communication.
In Roman times there were only limited means of reproduction.
To communicate the information contained in a corporal res, there
was the need to remake the whole corporal thing again. One of the
most important differences that modernity brought to communication is the possibility of mechanically copying the object, and therefore, communicating the information contained in it. The printing
press brought the possibility of massively reproducing the information contained in books, and therefore, the need to create monopolies over the right to print them, as early as the 15th century 31. The
basis of the copyright system lays on establishing an exclusive right
over reproduction of the information contained in an object.
What information technologies of the 20th century brought to the
discussion is the possibility of reproducing the information, the pattern contained in the material thing, without remaking the vessel
where it is embedded 32. Information technologies allow us to take an
See Pugliese 1982, 1176.
It was Walter Benjamin who made the observation that the revolution brought
first by the printing press, and then by photography and cinematography consisted in
the possibility of reproducing the object by technical means, and that this produced a
problem of authenticity. See Benjamin 2019, 85 ff. Nevertheless, information
31
32
384
CARLOS AMUNÁTEGUI PERELLÓ
object and copy the information it contains in a formalized way, that
permits its reproduction in many different formats, some of them
material (like a printer), others merely energetical, like an image in a
screen. To communicate the information, it is no longer necessary to
re-create the object, but it is sufficient to copy the formalized version
of it.
This seems foreign to Roman law, basically because the means of
reproduction were limited. To have the information contained in a
book, one should rewrite it, and in this way, the transmission of information was intimately linked to the tradition of the corporal
thing. Nevertheless, in the basis of the ciceronian res quod intelleguntur, lays the difference between information and the corporal res that
contain it. Information is a pattern and it can only be grasped by intellectual means.
Anyhow, Gaius identifies incorporeal things with rights, which,
in a sense, puts information on the side of corporeal things. In fact,
information is always perceived by the senses and, besides the case of
copyright, it does not have a legal consistence. Following this rational, in principle, information does not seem to have a separate status
from res corporales, save from the case of copyright.
For artificial agents, this means that they are compound things,
made from information and embedded in physical elements. The tradition of the corporal thing where the agent is embedded, does not
mean the communication of the whole agent, for usually most of the
algorithm’s functions are housed in a cloud service, from where it operates and is modified (actualized) whenever it is necessary. For instance, when one acquires a Tesla car, only part of the agent that controls it is present in the device and communicated through it, while
most of the algorithms to operate it – the Hydra system – are in a
cloud service that belongs to the maker and is not communicated
when acquiring the device.
When compared with the status of things, artificial agents seem
closer to res corporales in the Gaian sense. They can be perceived by
the senses and only part of their nature can eventually be subject to
copyright, so they do not consist in iura, or only partially. This
technologies imply a deeper problem, for they imply the extraction and formalization
of the information contained in the object, without needing to reproduce it.
LEGAL STATUS OF ARTIFICIAL AGENTS
385
should point out accordingly that they are subject to regular property
in the Pandectist sense 33, but this seems also a bit shady, for transmission and tradition are not entirely equivalent.
Tradition of a corporal thing – when all requirements are met –,
implies that the tradens loses control – possession – of the thing that
is given, while the acquirer gains it. In transmission of information
this does not seem an accurate description. The transmitter and the
acquirer both still have the whole information because communicating implies copying. What the acquirer gains is a copy of the agent,
which may be a complete version or not. To determine if the transmission implies a change of the property status of the agent, the obvious answer would be to regard the terms and conditions which
serve as title for the transmission/tradition. As in any tradition, its
cause can imply a change in the property status 34, depending on its
content. If the cause is to license the agent, then the transmission
does not imply a transmission of property, but if the cause implies a
change in the property status, as with emptio-venditio or donation,
then it does, although this is rather exceptional.
Property status for artificial agents would also correctly qualify
the acquisition of products developed by an artificial agent, for they
would be incorporated to the patrimony of the owner through accessio.
To conclude, we believe that artificial agents are, generally speaking, compound things, made of information and sometimes, a material vessel in which it is contained. They are closer to the status of res
corporales, and therefore, should be regarded as subject to property.
33
According to Pandectism, only corporeal things are subject to property, while res
incorporales are rights with their own legal status. See Windscheid 1882, 42.
34
Gai 2.20.
386
CARLOS AMUNÁTEGUI PERELLÓ
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Finito di stampare
nel dicembre 2022
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