Società Friulana di Archeologia - odv
Museo Archeologico di Cividale
a cura di
aurizio uora,
Angela Borzacconi, M
B
Massimo Lavarone
Il castello
di
Attimis
Tra natura e cultura
ArcheologiA di frontierA 10 - 2023
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Società Friulana di Archeologia - odv
Museo Archeologico di Cividale
a cura di
aurizio uora,
Angela Borzacconi, M
B
Massimo Lavarone
Il castello
di
Attimis
Tra natura e cultura
ArcheologiA di frontierA 10 - 2023
A
rcheologiA di frontierA 10 - 2023
© Società Friulana di Archeologia - odv
© Editreg di Fabio Prenc
Via G. Matteotti 78 - 34138 Trieste, Italia
cell. 328 3238443; e-mail: editreg@libero.it
ISBN 978-88-3349-053-3
Responsabile-scientifico:
Maurizio Buora
Comitato di redazione:
Massimo Lavarone
Il volume è realizzato con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Regione Friuli Venezia Giulia
(L.R. 02/20121 Art. 3 Comma 5) misure di sostegno e per la ripartenza dei settori cultura e sport
e altre disposizioni settoriali bando ripartenza Cultura e Sport.
Progetto: Attimis Superiore. Il Castello del Crociato, approvato con decreto n. 2325/Cult. dd. 08.09.2021
INdICE
Introduzione dei curatori ...........................................................................................................................
p.
5
PRIMA PARTE. l’Ambiente
Paolo PAronuzzi, Il flysch di Attimis .......................................................................................................
p.
9
SECoNdA PARTE. Persone e culturA germAniche
Marialuisa bottAzzi, L’epitaffio di Evols: sulla cultura epigrafica delle prime élites germaniche
(secolo VIII) ......................................................................................................................................
Paolo cAmmArosAno, Il Friuli tra X e XII secolo ...................................................................................
Franco finco, Toponimi tedeschi nel Friuli medievale ............................................................................
Sebastiano blAncAto, Il nucleo originale della tradizione documentaria del castello di Attimis ..........
Maurizio buorA, Piede di candeliere in bronzo dorato ..........................................................................
p.
p.
p.
p.
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21
29
37
69
117
TERzA PARTE. i rAPPorti con il mondo bizAntino
Bruno cAllegher, Il sigillo dell’imperatore Alessio I Comneno ............................................................
Rossana VAlente, La ceramica mediobizantina ......................................................................................
p.
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125
131
QuARTA PARTE. PrimA degli scAVi
Maurizio buorA, La rimessa in luce e la ricostruzione parziale del castello di Attimis superiore negli
anni Settanta del Novecento .............................................................................................................
Alessandra Magni, L’intaglio da Attimis. Una nota .................................................................................
Marco Vignola, Pendente per finimenti da cavallo ..................................................................................
p.
p.
p.
141
173
179
Paolo Cammarosano, Nota bibliografica ..................................................................................................
p.
183
4
introduzione
Gli scavi condotti per una quindicina d’anni nel sito del castello superiore di Attimis hanno prodotto una ingente
massa di materiale, parte del quale è stata studiata e parte richiede ancora ulteriori ricerche.
Alcuni oggetti, scelti tra quelli più significativi, sono stati presentati in studi specifici – in Italia e all’estero - fin
dai primi anni Duemila. In occasione della mostra “Feudatari, cavalieri e crociati. Il castello della famiglia Attimis nel
Friuli patriarcale” organizzata all’interno del Museo archeologico nazionale dal 5 novembre 2022 al 5 maggio 2023,
si è inteso raccogliere una serie di studi, condotti non solo da eminenti specialisti, ma anche da esperti archeologi e,
non da ultimo, da giovani che si sono affacciati all’archeologia solo da pochi anni.
Gli studi sono distinti in più volumi, di cui i primi due dedicati rispettivamente a indagini di carattere generale,
dall’ambiente ai lavori condotti nel castello prima degli scavi e, con il secondo, ai risultati degli scavi, sia per quanto
riguarda la storia dell’edificio sia per quanto concerne i materiali principali. Un terzo volume, in lingua inglese, conterrà l’analisi dei numerosi resti ossei rinvenuti durante gli scavi.
Rispetto ai numerosi altri castelli del Friuli che sono stati ben scavati e ben pubblicati, il castello superiore di
Attimis ha permesso di recuperare importanti testimonianze dei rapporti della famiglia che lo possedette, specialmente
nel XII secolo, con il mondo bizantino e con il mondo germanico. A quel periodo si riferiscono anche alcuni documenti
conservati nello stesso Museo archeologico nazionale di Cividale del Friuli, i quali ci illuminano sui personaggi che li
abitarono e le vicende che li videro protagonisti. Siamo così in grado di attribuire – cosa non molto frequente nell’archeologia – alcuni oggetti ai proprietari di cui conosciamo il nome.
Merita di essere sottolineato il fatto che per la prima volta, e in maniera consistente, sono affiorate tracce della
cultura materiale dell’ “élite” germanica. Per un singolare fenomeno di rimozione, comprensibile dopo la prima e la
seconda guerra mondiale, nella cultura friulana – spesso filoceltica, spessissimo filolongobarda - sono passati sotto
silenzio i secoli in cui la classe dominante fu di etnia, cultura e lingua germanica, come sono stati sostanzialmente
sottovalutati gli apporti provenienti dal mondo slavo.
I rinvenimenti di Attimis non riguardano solo gli oggetti di lusso, giunti a noi miseramente sconciati, ma soprattutto la gran massa della ceramica grezza. Grazie a una vasca chiusa all’inizio del XIII secolo, si è potuto recuperare
un’ampia serie di stoviglie del XII secolo: ciò permetterà, d’ora in poi, di avere un solido elemento di comparazione
per i rinvenimenti di altre località.
La mostra conclude un impegno di molte persone, a partire dalle centinaia di giovani che hanno partecipato attivamente agli scavi, provenendo da ogni parte d’Europa. Essa è stata resa possibile grazie a un importante finanziamento dell’Assessorato alla cultura della Regione Friuli Venezia Giulia. Per tale motivo, e in accordo con una prassi
che la Società friulana di archeologia segue da molti anni, i volumi di studi sono diffusi prevalentemente “on line” in
maniera del tutto gratuita, al fine di rendere maggiormente accessibili i risultati degli studi.
A tutti coloro che in diversa misura e in vario modo, hanno partecipato agli scavi e alle fasi successive di ricerca
e di catalogazione, vada il più vivo ringraziamento.
I curatori
5
6
PrIMA PArTe
L’ambiente
7
8
il castello superiore di attimis.
note geologiche
Paolo Paronuzzi
9
Paolo Paronuzzi
dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura
università degli Studi di udine
paolo.paronuzzi@uniud.it
10
Il castello superiore di Attimis occupa una piccola
culminazione isolata che fa parte di una sottile dorsale
rocciosa che si sviluppa da SE verso NW, per poi piegare
leggermente in direzione NNW dando luogo ad una seconda piccola eminenza topografica sulla quale è stato costruito il cosiddetto “castello inferiore” (fig. 1). dal punto di
vista geologico questa cresta rocciosa è formata da una
sequenza di strati a litologia diversa che appartengono alla
successione arenaceo-marnosa e calcarea del “Flysch del
Grivò”, definizione informale di un membro geologico di
età Paleocene superiore – Eocene inferiore (Thanetiano Ypresiano: all’incirca da 60 a 50 milioni di anni fa) tipico
del Friuli orientale.
Questa sequenza, a sua volta, è parte della potente
successione clastica torbiditica del “Flysch del Friuli”,
che nell’insieme supera uno spessore totale di 4000 metri.
Si tratta di sedimenti particolari che si sono depositati
ad opera di flussi “torbiditici” (una sorta di franamenti
subacquei) in un ambiente marino profondo a seguito di
processi ripetutisi in un lungo arco di tempo di circa 30
milioni di anni (da 75 a 45 milioni di anni fa, all’incirca).
Il Flysch del Grivò è un membro del Flysch del Friuli ed
è la successione stratigrafica caratteristica della fascia più
meridionale delle Prealpi Giulie, dove forma la maggior
parte dei rilievi collinari e prealpini che vanno da Gemona
del Friuli a Cividale. Il Flysch del Grivò è formato da una
successione di strati rocciosi di natura anche molto diversa
ed infatti oltre alle caratteristiche sequenze arenaceo-marnose include anche potenti banchi calcarei – i principali
sono all’incirca una ventina – che possono raggiungere
decine se non centinaia di metri di potenza. Il più famoso
di questi è il cosiddetto “Megastrato di Vernasso”, che
affiora nei pressi di Torreano di Cividale e che raggiunge
addirittura i 260 metri di spessore. La bancate grigio-brune
delle calcareniti del Flysch del Grivò forniscono i materia-
li per la celebre “Pietra Piasentina” estratta in particolare
nelle cave dei dintorni di Torreano di Cividale.
dal punto di vista strutturale, che significa in pratica
la disposizione nello spazio delle varie stratificazioni rocciose acquisita per effetto delle diverse spinte tettoniche
che si sono sovrapposte nel tempo, tutte le Prealpi Giulie
risultano caratterizzate da evidenti direttrici NW-SE e
WNW-ESE. Questi lineamenti strutturali vengono in
genere definiti “dinarici” e sono attribuiti alla cosiddetta
“fase mesoalpina” (65-23.5 milioni di anni fa) dell’ultimo
ciclo orogenetico. Successive strutturazioni tettoniche
sono state acquisite per effetto della “fase neoalpina” (ultimi 23.5 milioni di anni), quella che ancora oggi è all’origine della rilevante sismicità attuale del Friuli. Le strutture
dinariche delle Prealpi Giulie, inclusa l’area che ospita
i castelli di Attimis, sono contraddistinte dalla presenza
di diversi sovrascorrimenti con il caratteristico sviluppo
NW-SE (almeno quattro i principali) che si succedono procedendo da NE verso la Pianura Friulana. A questi sovrascorrimenti si associano anche grandi faglie sub-verticali,
sempre con orientazione NW-SE, ma con spostamento
prevalentemente orizzontale (faglie trascorrenti, in genere
destre), come la “Linea Ramandolo-Attimis-Torreano di
Cividale” che attraversa il paese di Attimis e prosegue poi
con grande continuità raggiungendo la Slovenia (“Linea
della Raša”).
Il crinale che ospita i resti dei due castelli di Attimis
appartiene ad un “blocco” geologico delimitato da due
strutture dinariche dal classico sviluppo NW-SE, all’interno del quale gli strati risultano piuttosto inclinati e si
immergono con regolarità verso ENE (giacitura media
degli strati: 065/65). una caratteristica geologica tipica
di questo settore delle Prealpi Giulie è la presenza di una
sequenza “rovesciata” nella quale gli strati sono stati addirittura ribaltati dai processi tettonici, in modo tale che ciò
11
Fig. 1. Carta geologica dell’area di Attimis (da cArulli 2006).
12
che oggi noi vediamo in alto era in origine la parte bassa
del livello sedimentario.
Le litologie presenti nel Flysch del Grivò sono assai
variabili e includono materiali più deboli ed erodibili
(marne e livelli marnoso-arenacei), alcuni di media resistenza (arenarie, micro-conglomerati) ed anche litotipi più
compatti e abbastanza tenaci come i potenti banchi calcarei di spessore pluri-metrico ed i conglomerati calcarei
con ciottoli di selce e di quarzo. L’estrema varietà litologica determina delle forme del paesaggio piuttosto variabili
ed in certi casi dà luogo a delle variazioni molto brusche
che segnalano la comparsa di materiali con caratteristiche
tecniche profondamente diverse (calcari, marne, arenarie,
sequenze marnoso-arenacee).
Negli immediati dintorni del castello superiore di
Attimis, è possibile prendere visione della grande variabi-
Fig. 2. Attimis, castello superiore, veduta da sud della parete di flysch
(foto M. Lavarone).
Fig. 3. Attimis, castello superiore, veduta dell’angolo sud-est della parete di flysch (foto M. Lavarone).
13
lità litologica del Flysch del Grivò. Percorrendo il sentiero
che proviene della carrozzabile Attimis-Porzûs e conduce
al castello superiore, si incontrano dapprima strati piuttosto inclinati (60-70° verso ENE) di arenarie, seguiti da
potenti banchi calcarei con conglomerati calcareo-selcife-
ri, che passano a marne ed a alternanze arenaceo-marnose
in strati sottili (1-15 cm). Raggiunta la valletta che conduce all’accesso orientale al castello superiore si nota
una caratteristica parete piuttosto inclinata (65°) e molto
estesa, dall’aspetto piano e molto continuo, tutta attraver-
Fig. 4. Attimis, castello superiore, veduta da nord della parete di flysch (foto M. Lavarone).
14
Fig. 5. Attimis, castello superiore, dettaglio della parete di flysch (foto M. Lavarone).
sata da linee irregolari che separano diverse grandi lastre
rocciose perfettamente affiancate (figg. 2-4). Le fattezze
di questo affioramento roccioso sono davvero singolari
poiché “simulano” una struttura muraria realizzata con
giganteschi conci di arenaria perfettamente accostati, tipo
“Machu Picchu” (fig. 5). I blocchi di arenaria raggiungono
volumi variabili da 0.5 a 1 metro cubo. In realtà non si
tratta di un’opera muraria colossale fatta dall’uomo bensì
15
Fig. 6. Pulizia della parete, effettuata nel 1977 dai
sigg. Cencig, padre e figlio.
Fig. 7. I sigg. Cencig, padre e figlio, durante la pulizia
della parete, nel 1977.
di un affioramento roccioso naturale di un grande banco
di arenaria, con alla base un micro-conglomerato, che può
dare la falsa impressione di una grande opera di sostegno
artificiale. L’aspetto particolare dell’affioramento roccioso dipende dal fatto che tutta la successione rocciosa di
questa area è stata “ribaltata” dai processi tettonici e di
conseguenza oggi noi vediamo tutti gli strati rovesciati
rispetto alla loro posizione originale. Le superfici di strato rivolte verso l’alto, sono dunque la parte basale della
stratificazione originaria. L’affioramento roccioso posto
all’estremità orientale del colle del castello ci permette di
osservare la faccia inferiore di un singolo strato potente
circa 30-40 cm, con le tracce del fitto reticolato di fratture
che attraversa l’arenaria delimitando dei blocchi di forma
poligonale. Ma l’artista di questa peculiare opera è Madre
Natura ed è il risultato di una complessa successione di
eventi geologici che hanno portato alla intensa frattura-
zione dello strato ed al suo rovesciamento. Certamente,
non avviene frequentemente che uno strato come questo
si presenti all’osservazione in queste insolite condizioni
di giacitura e questo carattere inusuale può dare la falsa
impressione di un’opera artificiale. La vegetazione spontanea che tende a incunearsi tra i blocchi è stata oggetto
di più operazioni di pulizia, fin dagli anni Settanta del
Novecento (figg. 6-7).
La cima del colle, pianeggiante, è praticamente tutta
occupata dalle diverse costruzioni medievali pertinenti al
castello vero e proprio ed alla varie strutture accessorie e
di fortificazione. I conci utilizzati per le diverse strutture
murarie rivelano la natura prevalentemente arenacea del
rilievo che sostiene il castello superiore. I blocchi di calcare sono decisamente poco frequenti e spesso vengono
utilizzati solamente per le parti strutturali di una certa
importanza (stipiti, sostegni superiori e inferiori delle
16
finestre, mensole, ecc.). Abbastanza frequenti sono anche
i blocchi in arenaria di rilevante spessore (30-50 cm) che
segnalano la probabile presenza sul colle di livelli arenacei di una certa entità. La situazione si modifica radicalmente procedendo verso il castello inferiore. Infatti
scendendo dal rilievo lungo il lato settentrionale, compaiono immediatamente i potenti banchi calcarei che caratterizzano il Flysch del Grivò e l’aspetto morfologico del
crinale si modifica bruscamente a causa della scomparsa
delle sequenze arenacee e arenaceo-marnose. La natura
calcarea del substrato conferisce al sito un paesaggio più
aspro e più roccioso, con modeste coperture detritiche
superficiali. Tale connotazione morfologica contraddi-
stingue anche la piccola culminazione topografica che
ospita i resti del castello inferiore, le cui strutture murarie
risultano realizzate quasi esclusivamente con conci di
diversa pezzatura in calcare, diversamente dal castello
superiore. un’ulteriore conferma del condizionamento
geologico sulle scelte costruttive degli uomini, in questo
caso delle litologie presenti in loco sulla scelta dei materiali da costruzione e sulle loro tecniche di lavorazione.
Voluminosi blocchi di pareti prodotti dal collasso delle
antiche strutture murarie derivano dai crolli indotti dagli
eventi sismici di maggiore entità (1511 e 1976) e ci ricordano, plasticamente, il carattere sismico di questa regione
e le problematiche conseguenti.
17
18
S econdA PArTe
Persone e cuLtura germaniche
19
20
L’epitaffio di evols:
sulla cultura epigrafica
delle prime élites germaniche
(secolo Viii)
Marialuisa Bottazzi
21
Marialuisa Bottazzi
CERM Trieste
marialuisa.bottazzi60@gmail.com
22
Nella forte rarefazione documentaria che nell’alto
medioevo ha investito tutte le testimonianze archivistiche,
private e pubbliche, ed epigrafiche una sparuta tipologia
di iscrizioni, quelle funerarie, ha rappresentato un valido
aiuto per gli storici che si sono occupati della presenza,
tra il tardo VI secolo e il secolo VII, di minoranze etniche nell’Italia settentrionale. ovviamente, un confronto
numerico di quanto è stato confezionato epigraficamente
di quella tipologia incisa nell’alto medioevo con quanto
corrisponde al solo periodo tardo romano sarebbe imbarazzante; non serve, infatti, ricordare che le iscrizioni
funerarie del mondo romano e in quello tardo romano
corrisposero numericamente all’insieme più ampio tra le
altre varie tipologie di scrittura scolpita dato il successo
che quella prassi epigrafica ebbe nel quadro di una profonda eterogenea esigenza della popolazione romana, più
tardi anche cristianizzata, di perpetuare la memoria dei
propri defunti; viceversa, nel vuoto documentario dell’alto
medioevo la scrittura epigrafica fu certamente compromessa sin verso la fine della seconda metà del secolo X,
compresa quella dedicata ai defunti e in special modo
quella che riguardò l’infanzia per effetto di un insieme
di molti fattori concomitanti che portarono le iscrizioni
funerarie, come le altre testimonianze scritte, a divenire
una pratica ecclesiasticamente monopolizzata e “al servizio” delle gerarchie religiose che, ideologicamente, esclusero dal loro orizzonte il mondo infantile rivolgendosi
agli adulti laici di rango, magari, inseriti nelle “élites” di
governo e spesso benefattori di chiese e monasteri (1).
In ogni caso, in quella rarefazione documentaria che
avvolge soprattutto il secolo VIII, dunque la primissima
fase dell’inquadramento politico carolingio dell’Italia
settentrionale (2), una delle prime testimonianze in diretto rapporto con la presenza nel territorio friulano degli
Alamanni è, invece, proprio epigrafica e dedicata a un
bambino. Più precisamente, si tratta di un epitaffio che,
riflettendo molte delle affinità culturali del passato tardo
romano, evidentemente non spente, venne dedicata a
Evols, il figlio di tre anni del nobile Hirice (Hirice/Irico/
Erichs/Erich/Eric) Alemannorum stirpe genitus, che prima
di reggere il ducato forogiuliese, verosimilmente, amministrò per un periodo difficilmente precisabile, comunque
fin verso il finire dell’VIII secolo, anche la circoscrizione
carolingia di pertinenza del conte d’Asti e Albenga (3).
1 Per ciò che riguarda l’epigrafia altomedievale è sempre importante il lavoro di grAy 1948; e non meno importanti sono le considerazioni
di: trefford 2004, pp. 353-369; epigrafia degli alti ecclesiastici: rAmAckers 1964; inoltre di cAldelli 2016. Non è raro trovare iscrizioni funerarie dedicate a membri dei funzionari pubblici dell’altomedioevo; molto più raro è trovare quelle dedicate ai bambini di quelle famiglie laiche che
sostennero chiese e monasteri. Sull’impiego epigrafico dedicato ai bambini cfr. bottAzzi 2021.
2 silVAgni 1943, II, 1, Mediolanum, tav. XI, 3; per l’iscrizione di Cuniperga (secolo VIII) silVAgni 1943, II.3, Papia, tav. II, 3; e Regintruda,
silVAgni 1943, tav. II. Ancora sull’iscrizione di Adriano I; dümmler 1881, 1, p. 101; de rossi 1888a, p. 226. Sulla produzione carolingia de rossi
1888b, pp. 478-501, in particolare alle pp. 489-494; circa l’epigrafia dedicata nell’alto medioevo ai vescovi cfr. PicArd 1988.
3 L’epigrafe funeraria venne dedicata Evols, quando, il padre era presente ad Asti e ad Albenga, sempre che si ritenga plausibile l’identificazione del conte Eric con l’Hirice, conte citato nell’iscrizione come molta della storiografia ottocentesca ha ipotizzato. Sulla presenza degli alamanni
sul territorio ligure e piemontese e sull’amministrazione della stessa circoscrizione comitale di Asti e Albenga, di fatto, priva di documentazione
archivistica fino all’inizi del IX secolo si è dedicato approfonditamente anche bordone 1974, pp. 1-56 portando a testimonianza dell’alta probabilità
23
L’iscrizione di Evols venne, dunque, prodotta e rinvenuta lontano dal territorio del Patriarcato di Aquileia,
ma appare come una testimonianza intimamente legata
alla persona che, per volere di Carlo Magno, divenne la
prima personalità laica del ducato friulano capace di agire
in rappresentanza del re per ciò che concerneva l’amministrazione pubblica di quella che sarà la “marca” solo
dall’803 (4) venendo, inoltre, riconosciuto come esempio
di cultura, cristianità e valore militare dagli intellettuali
del suo periodo (5).
L’inscrizione funeraria di Evols
+
HIC REQuIESCIT EVoLS I ||
3
NNoCENS FILIuS CoMET ||
IS HIRICE ANNoRuM TRIuM
+ cristogramma +
6
Q(u)EM doMINuS SuS C ||
EPIT IN PACE Q(u)I RECESSIT
XVI[………………..]VS
L’epitaffio di Evols scolpito su una lastra di marmo
dello spessore di cm 5,5 e delle dimensioni di cm 76 x cm
68 venne ritrovato nel 1762 o nel 1763 nel territorio della
provincia di Cuneo, a Caraglio, nei pressi dell’antica cappella di S. Lorenzo, assieme ad altre due iscrizioni cristiane più antiche dedicate ad adulti (6). Trasportato a Torino
per essere conservato presso il Museo Archeologico lì
venne giudicato “non falso” da Mommsen (7).
Tre croci latine delle medesime dimensioni e un cristogramma completo degli elementi alfabetici delle lettere
apocalittiche scolpito nel mezzo della lastra impreziosiscono e caratterizzano il breve memoriatorium dedicato
a Evols, che lo celebra, in modo stereotipato, similmente
alle iscrizioni cristiane precedenti il V secolo, come un
innocens di tre anni, figlio del conte Erich – Hic requiescit Evols innocens filius comitis Hirice annorum trium -;
poco altro segue, se non una delle formule più usuali che
secondo la prassi avrebbero dovuto ricordarlo nel giorno
che leggiamo essere stato il sedicesimo di un mese che
non è dato sapere– q[u]em dominus suscepit in pace q[u]i
recessit XVI[...]us -. La perdita dei margini inferiori destro
e sinistro della lastra dovuta alle evidenti fratture hanno,
infatti, obliterato parte della data della morte lasciando,
comunque, intendere che null’altro dell’inciso deve essere
andato perduto. Analizzando, infatti, l’organizzazione
spaziale dell’iscrizione composta in cinque righi per Evols
ed eseguendo un confronto con quanto venne predisposto, similmente, ad un altro più tardo, epitaffio ritrovato
in Francia non lontano da Nîmes dedicato, tra il IX e il
X secolo, alla figlia Agina del conte carolingio Eblo (8)
risulta che, formalmente, l’anno della morte non doveva
essere, per prassi, contemplato, mentre non mancò in
entrambi gli epitaffi dedicati ai bambini Evols e Agina di
venire segnalato il loro retaggio.
che il conte Hirice abbia retto un ufficio comitale prima di essere nominato da Carlo Magno duca del Friuli, tutta una folta schiera di voci molto
autorevoli (cfr. pp. 25-30: durAndi 1774, p. 128; ciPollA 1891, pp. 284-303; bArrelli 1901, pp. 23-54; sergi 1971, pp. 637-712, più in particolare
alle pp. 645-646).
4 ŠAŠel 1988, pp. 107-114, alla p. 113.
5 duVAl 1988, pp. 115-147.
6 cAnAlis 1836, pp. 465-476 e in particolare alle pp. 474-476 viene riportato il testo dell’iscrizione e qualche notizia riguardante l’intero
ritrovamento archeologico. Insieme all’epitaffio di Evols vennero ritrovati anche i resti del bambino avvolto in fasce, che per qualche tempo vennero
anche conservati.
7 CIL, V, II, 1004, 89.
8 bottAzzi 2021, pp. 151-152; che cita un altro caso carolingio più tardo, collocabile tra il IX e il X secolo, riportato da treffort 2007, pp.
111-114: tra il IX secolo e il X secolo, per la piccola Agina venne ricordata la morte con la solita formula di datazione – XIII K(a)lendas ottobris – e
il retaggio famigliare in modo molto simile a quanto un secolo prima venne fatto per il figlio del conte Erich - obiit Agina nobilis puella de genere
comitis nata filia Eblon -.
24
Fig. 1. Lastra tombale iscritta di Evols, VIII-IX secolo d.C., da Caraglio (©MiC - Musei Reali, Museo di Antichità, inv. 474, Autorizzazione all’uso
delle immagini d.Lgs. 42/2004, art. 106 ss.).
25
Passando ai caratteri particolari e formali più tecnici
che riguardano l’iscrizione incisa di Evols non si può
non notare l’impiego molto parco delle lettere incluse,
che vediamo attuato nel secondo rigo in filius; mancano
completamente, invece, le abbreviazioni, che sembrano
solo accennate nel quarto rigo in quem e nel quinto in
qui (9). Condizione, sicuramente, in linea con i mutati processi produttivi dell’epoca altomedievale, quando
il committente, l’autore e l’ordinator potevano spesso
coincidere, distinguendosi dallo scalpellino che, senza
saper leggere, ne avrebbe effettuato l’incisione (10). Nel
caso di Evols, poi, l’errato impiego delle abbreviazioni
e l’esilissimo uso delle lettere incluse stride, però, con
l’inserimento del cristogramma che solitamente vediamo
scolpito nelle iscrizioni cristiane prodotte dalla metà del
secolo IV al VII (11). Nell’iscrizione funeraria del figlio
del conte Erich vediamo concretizzarsi, dunque, solo alcuni dei nuovi canoni dell’epigrafia altomedievale che, di
fatto, vennero mescolati con i più forti elementi figurativi
dell’appartenenza cristiana. Il testo, a mio parere, spazialmente ben organizzato secondo le dimensioni della lastra,
risulta, poi, anche piuttosto regolare e omogeneo nel ductus dell’incisione. La dimensione dei moduli delle lettere
scolpite in una capitale, a mio avviso, piuttosto regolare
ed elegante per l’epoca non bastò, comunque, alla storiografia ottocentesca per astenersi dal definirlo un “rozzo
epitaffio” (12), quando nel descriverne i caratteri sarebbe
stato meglio concludere che si trattava solo di una delle
rappresentazioni di un’epigrafia altomedievale del primo
9
periodo carolingio. Sicuramente altri saranno, infatti, i
prodotti epigrafici confezionati al tempo di Alcuino (13).
Se già di per sé l’iscrizione può dirsi, dunque, un
documento epigrafico di grandissima importanza per il
fatto di essere, come si è cercato di far intendere, una
delle pochissime epigrafi altomedievali italiane dell’VIII
secolo, per di più dedicata a un infante (14), l’epitaffio è,
senza dubbi di sorta, anche una testimonianza dell’altissimo spessore culturale di uno dei grandi milites dell’“entourage” di Carlo Magno che nell’ultimo ventennio
dell’VIII secolo era in stretto contatto con la corte a quel
tempo culturalmente arricchita – dal 781 – della presenza
del già citato Alcuino di York (15) e di quella di Paolino
d’Aquileia, il patriarca autore di ben due opere in versi
dedicati al conte alamanno. La vicinanza del conte ad
Alcuino e, soprattutto, a Paolino è ben documentata da
una corrispondenza amichevole tra il conte e il maestro
della Scuola Palatina; mentre quella con il patriarca di
Aquileia Paolino è attestata da due composizioni, il Liber
exhortationis, un trattato morale composto tra il 797 e
il 799 (16), quindi, dai Versus Paulini de Herico duce,
composti dal patriarca subito dopo la morte del fraterno
amico dalle grandi capacità militari, dalla grande cultura
e spiritualità. Il patriarca con il suo ritmo di 70 versi celebrò e pianse la grave perdita attestando i momenti fondamentali della vita pubblica ricoperta da Erich in Italia fino
al momento della sua tragica fine (17) dando così modo a
Edward Hlawitschka d’inquadrare, all’inizio degli anni
In quem e in qui manca la u e il segno abbreviativo.
Cfr. Petrucci 1992, pp. 41-42.
11 Cfr. cArletti 2008.
12 gAzzerA 1847, p. 163.
13 treffort 2004, pp. 353-369.
14 bottAzzi 2021.
15 Circa l’arrivo di Alcuino da York alla corte franca cfr. d’onofrio 1991, pp. 340-343, alla p. 340.
16 Per un’analisi della documentazione sulla presenza di alamanni nell’Astigiano come sulla verosimile, quanto anticipata, organizzazione
comitale in quello stesso territorio cfr. bordone 1974.
17 Paolino di Aquileia, dedicò al conte un poema di 14 strofe di 5 versi celebrandone dettagliatamente la vita e la morte cfr. cAmmArosAno
1988, pp. 49-63; duVAl 1988, pp. 107-147, in particolare alla p. 119; stellA 1998, pp. 809-832; cuscito 2003, pp. 11-16.
10
26
Sessanta del Novecento, il duca/margravio del Friuli di
stirpe alamanna, nel suo fondamentale lavoro di ricerca
prosopografica sui ceti dominanti franco, alamanno,
bavaro e burgundo presenti nel territorio italico dall’anno 774 (18). In quell’importante inquadramento, che
tratteggia le diverse presenze etniche nelle varie regioni
italiane, Erich compare, sostenuto dalla poesia di Paolino
di Aquileia, come l’unico germanico a reggere l’ufficio
comitale Abstensis et Albenganus, di fatto, attestato anche
dall’epigrafe dedicata al piccolo Evols, per poi passare,
dopo alcune importanti missioni al confine estremo a
est del regno, nel ducato del Friuli, per volere di Carlo
Magno. Il ritratto che esce dagli studi di Hlawitschka
tratteggia Erich come una delle personalità più rispettate
del suo tempo ed un amministratore competente in Friuli
per il breve periodo che va da dal 795 al 799; sicuramente
un periodo breve, interrotto bruscamente da un’incursione militare che ne arrestò la vita a Tarsattico, l’odierna
Fiume (19). In quel contesto il dux limiti italici (20) venne
mortalmente ferito nell’estate del 799 e compianto dai
molti che ne diedero notizia nei vari Annales e Vitae
Karoli. Eginardo scrisse che re Carlo:
“accepit (il re) etiam tristem nuntium de Geroldi et Erici
interitu quorum alter, Geroldus… alter vero id est Ericus,
post multa proelia et insignes victorias, apud Tarsaticam,
Liburniae civitatem insidiis oppidanorum interceptus
atque interfectus est” (21).
Lo ricordò Alcuino (22), e parole piene di fraterno
affetto e amicizia furono quelle già menzionate del patriarca di Aquileia Paolino (23), inserite in quel planctus scritto
per essere anche cantato (24). Nel suo disperato pianto per
Erich il patriarca volle coinvolte la natura, le città e la
campagna dell’intera “regione” aquileiese (25); trascinò
nella sua disperazione Strasburgo, città natale, che perdeva civem famosum, nobile germine natum claroque de
sanguine; maledì la terra in cui cadde, decantò le sue virtù
militari, ricordò l’agitazione prodotta dall’annuncio della
morte e lo sconforto dei vescovi. una preghiera chiude i
versi dedicati a Erich che in vita Paolino aveva esortato
nelle pagine del suo Liber exhortationis a diventare da
miles di Carlo a soldato di Cristo. Tutte le allusioni militari
e politiche che Paolino usò divenivano delle dirette comparazioni che avrebbero potuto aiutare Erich ad entrare al
18 La ricerca condotta da Hlawitschka su tutta la documentazione a suo attivo ha dato come esito solo un piccolissimo gruppo di titolari di
ufficio dal 774 in avanti. I raggiunti dalle ricerche di Hlawitschka per l’VIII sarebbero otto e tra quegli otto fra longobardi e franchi: Aio, Erich,
Marcarius e Vulfinus solo Erich è di stirpe alamanna. Circa il margravio Erich cfr. hlAwitschkA 1960, pp. 25, 37, 176-177; bordone 1974, p. 2-13.
Sui duchi al tempo del regno longobardo e sulla continuità di governo durante il primissimo periodo carolingio cfr. cAmmArosAno P. 2015, pp.
273-280.
19 dalla ricomposizione dei numerosi momenti salienti della sua vita pubblica e militare fatta da Hlawitschka, grazie a Paolino d’Aquileia,
conosciamo le sue molte imprese militari contro gli Avari, la espugnazione del “ring” portata a compimento con l’alleato sloveno Wonomyr; si sa
della sua conquista dei grandi tesori, che si dissero rubati ad Aquileia e custoditi da tempi antichi all’interno di quella fortezza avara, concentrica e
difficilmente espugnabile e la loro consegna a Carlo Magno e la documentazione continuò, quindi, a celebrarlo vittorioso anche sui vicini ostili sul
limes della marca friulana con sede a Cividale che stabilizzò, ripristinando dopo il 788 la linea di difesa lungo la direzione che proprio da Tarsattica
andava al Nord (cfr. hlAwitschkA 1960, pp. 176-177; ŠAŠel 1988, pp. 107-114, alla p. 113).
20 Così viene detto di Erich dal Poeta Saxo negli Annales de gestis Caroli Magni imperatoris libri quinque, libr. III, verso 531 (cfr. Ibidem).
21 Annales regni Francorum, 1895, pp. 108; eginArdo 2014, p. 22.
22 dümmler 1895, Ep.98.
23 duVAl 1988, pp. 115-147 che ricompone la corrispondenza di Alcuino verso i diversi alti ecclesiastici per dare la notizia della morte del
conte Erich; nonché riprende i contenuti delle due opere prodotte da Paolino di Aquileia per Erich sul finire dell’VIII secolo.
24 Vechi 1943-51, pp. 34-40.
25 cAmmArosAno 1991, p. 83.
27
“servizio” di dio, fare da tramite ed esempio per il mondo
laico che avrebbe avuto modo di recuperare lo spazio
26
28
duVAl 1988, pp. 140-147.
perduto entro la vita della Chiesa nell’ambito di una più
vasta riforma (26).
il Friuli tra X e Xii secolo
Paolo CaMMarosano
29
Paolo Cammarosano
Centro Europeo di Ricerche Medievali (CERM)
paolo.cammarosano43@gmail.com
30
Quando, nell’aprile del 1077, Enrico IV conferì
al patriarca di Aquileia Sicardo la sovranità politica
sulla contea del Friuli ed altri complessi territoriali i
patriarchi di Aquileia erano da gran tempo titolari di
poteri ecclesiastici e di vaste estensioni fondiarie. Nella
loro espansione di ricchezza e di potere i patriarchi non
avevano incontrato, sino alla fine del secolo XI, ostacoli
importanti in Friuli. Questo perché il Friuli era rimasto
estraneo alla formazione di insediamenti aristocratici
stabili e imperniati su castelli, fenomeno che si era
svolto nel resto d’Italia e in gran parte d’Europa lungo
il corso del secolo X. Il Friuli conosceva da gran tempo
strutture di castello (si ricordano sempre quelli nominati
da Paolo diacono), ma non si erano creati attorno ad essi
assestamenti nobiliari e discendenze familiari.
Infatti il duca longobardo Rotgaudo, protagonista
dell’unica grande rivolta contro il potere dei Carolingi
e rimasto sconfitto, non aveva avuto una prosecuzione
dinastica, come non ebbero residenza stabile e discendenza
continua i grandi del Regno Italico che si sarebbero
succeduti nella titolarità di duchi, poi di conti, del Friuli.
Essi appartenevano a stirpi di provenienza lontana e i più
eminenti tra di loro, segnatamente Everardo e Berengario
nel secolo X, agirono in uno scacchiere europeo vasto,
non assiso territorialmente.
Peraltro dal ducato longobardo all’età di Everardo
e Berengario il Friuli era rimasto quale entità di ampia
circoscrizione pubblica ben definita. E non era mai
stata posta in discussione l’autorità ecclesiastica del
metropolitano di Aquileia sulle diocesi del Veneto orientale,
diminuita solamente dalla scissione con Grado, alla cui
sede metropolitana sarebbero rimaste invece soggette le
diocesi dell’Istria.
dalla crisi dell’impero carolingio fra l’887 e l’888,
dalle invasioni degli ungari nell’Italia nord-orientale
alla fine del IX secolo e dalla sofferta affermazione
della dinastia sassone degli ottoni, restauratori alla
metà del secolo X dell’autorità imperiale in occidente,
i patriarchi di Aquileia emersero con nuove risorse di
prestigio e potere. Gli ottoni cercarono infatti nelle
sedi metropolitane i principali mediatori fra il vertice
imperiale e i sudditi, in una situazione che conosceva
nella gran parte d’Italia una estrema frammentazione
dei poteri pubblici attorno a città, vescovati, abbazie,
castelli e famiglie aristocratiche. Ma in Friuli questa
frammentazione, come ho detto, si era svolta molto
meno intensamente che altrove, e fra il X e l’XI secolo
i patriarchi non avevano nessun importante concorrente,
né laico né ecclesiastico o monastico, nell’esercizio di
prerogative pubbliche. Queste in realtà avrebbero dovuto
spettare a dignitari laici, cioè a conti e marchesi del Friuli
e dell’Istria, nessuno dei quali peraltro riuscì a costruire
alcuna stabile costruzione dinastica.
Per lungo tempo le pur importanti concessioni
regie e imperiali ai patriarchi di Aquileia non avevano
mai contemplato una pienezza di diritti pubblici. Sotto
questo aspetto era stata più intensa l’alienazione di poteri
pubblici fatta nel 948 da Lotario re d’Italia al vescovo di
Trieste. Inoltre, non solo le cessioni di regalia ai patriarchi
di Aquileia erano state circoscritte quanto a contenuto, ma
erano state contemperate con concessioni a grandi laici. Va
ricordato in particolare il “doppio” privilegio di ottone III
del 1001 con l’inclusione di Gorizia e il conferimento dei
poteri per metà al patriarca e per metà al conte Werihen.
Ci vollero ancora molti anni e circostanze nuove
perché i poteri temporali dei patriarchi fossero attribuiti
loro anche formalmente e stabilmente e con larghezza
di contenuto. un passaggio decisivo si ebbe nella prima
metà del secolo XI, con il lungo patriarcato di Poppone
(1019-1042), un presule appartenente ad una dinastia
31
aristocratica germanica, come lo sarebbero stati ancora
a lungo i patriarchi, dato il loro stretto legame con gli
imperatori tedeschi e le loro corti. Poppone fu un patriarca
guerriero, si impegnò in modi anche violenti in tentativi
di recupero di Grado, regolò i rapporti con il capitolo
della sua cattedrale, promosse nel territorio aquileiese
un importante monastero (Santa Maria di Aquileia), ma
è sopratutto noto per il grandioso restauro dell’edificio
ecclesiastico. Nel catino della basilica si vede raffigurato
in atteggiamento devoto l’imperatore Corrado II, al quale
Poppone fu particolarmente fedele, approfittando anche,
pur senza intenzione, dello sfavore in cui era caduto
presso l’imperatore il metropolitano di Milano, il famoso
Ariberto. Adesso Aquileia acquistò in peso politico rispetto
a Milano, e venne considerata la sede ecclesiastica più
affidabile, in Italia, quanto a fedeltà imperiale.
Così quando, alla metà del secolo, si incrinò la
solidarietà fra la Chiesa di Roma e l’Impero, e negli anni
Settanta si accese la cosiddetta lotta per le investiture che
vide contrapposti papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico
IV, il patriarca allora in carica, Sicardo, si manifestò, pur
dopo ovvie incertezze, come un aderente allo schieramento
antigregoriano. Ebbe a compenso di ciò da Enrico IV,
nell’aprile del 1077, la concessione dei poteri temporali
sulla contea del Friuli, ed anche sulla marca d’Istria e
sulla Carniola. Queste due ultime compagini politiche non
sarebbero rimaste sotto l’autorità dei patriarchi in maniera
stabile e continua, mentre il Friuli si consolidò adesso, e
si sarebbe sempre più affermato nel tempo, come l’ambito
territoriale più saldo e sicuro del dominio ecclesiasticopolitico aquileiese.
La contea del Friuli si collocava in un quadro
complesso, un mosaico a larghe tessere, di regioni politiche
sulle quali le autorità imperiali tedesche cercavano di
fondare il loro controllo dell’area alpina orientale, che
apriva verso lo spazio danubiano ad est e verso l’Italia a
sud. Attorno e accanto alla contea del Friuli erano la marca
di Verona, il ducato di Carinzia, i ducati o marchesati
della Carniola e dell’Istria. ognuno aveva un suo titolare,
tutti principi laici ad eccezione del Friuli aquileiese e di
un altro grande organismo ecclesiastico, l’arciepiscopato
di Salisburgo, il cui titolare non aveva però ricevuto
32
l’ampiezza di poteri pubblici che era stata conferita al
metropolitano aquileiese.
Le autorità imperiali cercarono di stabilire delle
connessioni fra i grandi blocchi territoriali, talora
attribuendo alla stessa persona la titolarità di più di uno
fra essi (ad esempio Friuli, Carniola e Istria furono in
certi periodi uniti sotto il patriarca), talora attribuendoli a
persone diverse, ma di una stessa dinastia o imparentate.
Così il più importante fra i successori di Sicardo fu ulrico
I, della dinastia degli Eppenstein, abate di San Gallo,
fratello del duca di Carinzia, parente dell’imperatore
Enrico IV, patriarca dal 1085 al 1121. Talora, infine, si
tentarono forme di raccordo istituzionale.
Il raccordo destinato ad essere il più duraturo fu
quello che si fondò sulla creazione di una contea laica
attorno a Gorizia e quindi sull’attribuzione ai conti di
Gorizia dell’ufficio di avvocati (rappresentanti laici in
giudizio) della Chiesa aquileiese. Era stato il fratello del
patriarca Sicardo, Federico, ad avere attribuito beni nel
territorio goriziano ai signori di Lurn, un castello nell’alta
valle della drava, fondatori nel 1090 del monastero di
Millstatt, infine capostipiti dei conti di Gorizia.
Ma nel corso del secolo XI, ben prima del
fondamentale privilegio di ottone III del 1001 per
il patriarca e per il conte Werihen, si erano andate
affermando copiose presenze aristocratiche germaniche.
Valorosi studiosi, soprattutto tedeschi, hanno delineato
con puntualità le complessissime genealogie e i rapporti
di parentela dei ceppi maggiori, franconi, sassoni, turingi
e soprattutto bavaresi: i Sigardinghi e i Mainardinghi ad
essi imparentati, il loro radicamento tra Moosburg, il più
importante castello carinziano, e la sede goriziana, gli
Eppenstein e gli Spanheim, destinati al dominio sul ducato
di Carinzia ma anch’essi implicati nel dominio goriziano,
non senza le prosecuzioni del conte Werihen, variamente
imparentate con tutte quelle altre stirpi carinziane e
bavaresi.
Al di fuori del complicato intreccio nel quadro di
queste stirpi germaniche si erano svolti peraltro dei processi
di stabilizzazione aristocratica intorno a villaggi e castelli
friulani. Fu quella che possiamo chiamare una “ondata
aristocratica di secondo livello”. Le sue attestazioni
si dislocano fra il 1070 circa e il 1120 circa e sono
connotate onomasticamente in base alla sede di origine o
di assestamento. Compaiono dunque, in posizione sociale
eminente, personaggi di Latisana, Castions, zoppola,
Manzano, Artegna, Pozzuolo, Sagrado, Salt, Prampero,
Premariacco, seguiti un poco dopo dai nobili di Lavariano
(i futuri Strassoldo), dai nobili di Colloredo, da quelli di
Prata e Porcia, infine dai signori di Attems.
È significativo di questo svolgimento – anche se ebbe
al momento carattere episodico – il fatto che nel 1122
succedesse al patriarca carinziano ulrico di Eppenstein
un Gerardo che apparteneva a una famiglia nobile di
Premariacco. Più importante, per cogliere l’importanza
dell’aristocrazia locale, il fatto che nel 1204 l’elezione del
patriarca Wolfger sia avvenuta ad opera dei canonici ma
con l’assenso di liberi et ministeriales: si era già affermata
la distinzione interna all’aristocrazia friulana, distinzione
funzionale all’origine delle famiglia e alla posizione
che avevano nel quadro istituzionale patriarchino. Ma
lo sviluppo di tale distinzione e il ruolo delle famiglie
affermate fra XI e XII secolo nel consilium del patriarca,
il Parlamento, esulano dal quadro cronologico che mi è
stato affidato qui.
Rientra invece in tale quadro l’affermazione degli
Attems, che adesso possiamo ascrivere a quella “ondata
aristocratica di secondo livello” che ho definito qui sopra.
Ma occorre prima dire dello svolgimento di quella che
sarebbe rimasta la più potente struttura aristocratica locale
di stirpe germanica, i conti di Gorizia. Il loro ruolo di
avvocazia si sviluppò ampiamente nel secondo decennio
del secolo XII, con il conte Mainardo, ma presto i conti si
posero come signori territoriali autonomi, sovente rivali
ed antagonisti dei patriarchi aquileiesi: un aspro conflitto
insorse con il patriarca Pellegrino (1130-1161) e nel
1150 si stipulò una pacificazione, che non sarebbe stata
definitiva.
La complessità della posizione patriarchina e
la contemporanea complessità della collocazione dei
patriarchi nei conflitti tra Chiesa ed Impero vennero in
piena luce nei decenni centrali del secolo XII, sotto il lungo
patriarcato di Pellegrino che ho appena ricordato e sotto
quello del suo successore ulrico II (1161-1182). Mentre
Pellegrino rimase nella sostanza un fedele di Federico
Barbarossa, ricevendone in compenso i poteri temporali su
Belluno, ulrico II tenne un atteggiamento più cauto nello
scisma che opponeva il Barbarossa a papa Alessandro III:
rifiutò di farsi consacrare dall’antipapa imperiale, si vide
revocata Belluno, entrò decisamente nello schieramento
alessandrino, fu dal 1169 legato della Sede Apostolica ed
infine, nel 1177, fu importante mediatore nella pace stretta
a Venezia tra il papa e l’imperatore: nel contesto delle
trattative diplomatiche svoltesi a Venezia venne anche
sistemata la questione gradese, con l’attribuzione in via
definitiva alle province ecclesiastiche di Aquileia e Grado
delle rispettive diocesi. dello schieramento alessandrino
di ulrico II è una bella testimonianza la raffigurazione,
nell’antepedio della basilica di Aquileia, dell’arcivescovo
di Canterbury Tommaso Becket, che era stato assassinato
nel 1170 dai baroni inglesi del re Enrico II ed era stato
canonizzato da papa Alessandro, promotore veloce del
suo culto come simbolo della supremazia dello spirituale
sul temporale.
Complessa fu anche la situazione degli Attems. Come
sovente accade nelle ricostruzioni genealogiche delle
famiglie nobili, l’origine degli Attems (Attimis, Attens,
Athenes) non è stata definita con certo fondamento. Ma
se ci atteniamo a una sicura documentazione l’esordio
della dinastia suggerisce una ben decisa e interessante
contestualizzazione. E ci riconduce, come il privilegio
di Enrico IV per il patriarca Sicardo che ho ricordato a
fondamento dello Stato patriarchino aquileiese, al grande
conflitto tra Impero e Sede Apostolica che si era innescato
negli anni Settanta del secolo XI. Agli inizi del secolo XII
il conflitto era ancora in atto e Enrico IV compì un nuovo
pesante intervento. Il teatro fu adesso l’arciepiscopato di
Salisburgo, dove l’imperatore fece deporre il titolare e
impose in sua vece il proprio fratello Bertoldo, esponente
della dinastia dei Moosburg. Bertoldo era di legge
bavarese, ma come presule seguiva la legge romana e
inoltre si adeguò a una tipica istituzione longobarda, il
“launechild”, nel momento di alienare per compravendita
suoi beni importanti. Si trattava niente di meno che del
castello di Attems, venduto adesso, nel novembre del
1106, con tutte le sue pertinenze, ai parenti e affini più
33
prossimi del presule, tali Corrado (un nome che ricorrerà
poi spesso nella dinastia degli Attems) e Matilde.
un vuoto documentario separa questo importante
testo dalle successive attestazioni di Attems, né è dato
sapere quale sia stata la prima discendenza di Corrado
e Matilde. Sei anni dopo il loro acquisto del castello di
Attems Matilde vendette per una forte e forse simbolica
somma a un sacerdote di nome Pietro, del quale nulla
sappiamo, tutti i propri beni “in toto regno Italico, in
Bauuaria seu Carintia atque Foro Iulii”; era riservato
l’usufrutto ai figli che Matilde aveva avuto dal marito
Corrado, adesso defunto. Non vi è alcuna menzione di
Attems né di alcun luogo particolare e si nomina solo
quell’ampio circuito pluriregionale. Inoltre di nessuno dei
figli di Matilde e Corrado è fatto il nome. Tutto il contesto,
a cominciare dal sacerdote Pietro, è oscuro. E così occorre
arrivare all’anno 1134 per avere menzione di Vodolrico
di Attems, con buona probabilità uno dei figli di Matilde
e Corrado. Vodolrico figura come testimone in una
importante compravendita di beni a Castions, nella quale
era acquirente l’abate dell’antico monastero di fondazione
longobarda di Sesto al Reghena.
due anni dopo, nel 1136, Vodolrico compare
nuovamente in qualità di testimone in due atti importanti.
Il primo, rogato a Villach, era la risoluzione, promossa
da Corrado arcivescovo di Salisburgo, di un conflitto
che opponeva il patriarca di Aquileia Pellegrino all’abate
dell’importante monastero di ossiach intorno alle
decime di alcuni mansi. La lista dei testimoni era
aperta da odalrico (ulrico) duca di Carinzia, seguito da
odalrico (Vodolrico) di Attems. Nello stesso anno 1136
il patriarca Pellegrino riceveva a titolo di permuta da tre
nobili carinziani un fondo nella località di Sittich sul
quale fondare un monastero benedettino; alla fondazione
erano astanti alcuni tra i maggiori vescovi, altri prelati e
abati presenti tra Istria e Friuli. Nella sua articolazione
è un testo di molto interesse per la prosopografia e la
geografia anche ecclesiastica di quest’area friulanoistriano- austriaca, ma qui ci interessa solamente per
la presenza nella lista testimoniale di “Wodalricus de
Atenis”, preceduto adesso da Mainardo (di Gorizia)
avvocato del patriarca aquileiese.
34
Vodolrico di Attems era dunque adesso persona di
molto rilievo, e non ci sorprende trovarlo nuovamente
nell’elenco dei testimoni a una donazione in favore
dell’abbazia di Moggio compiuta nel 1147 da un nobile
che si accingeva a partire per la crociata. Non solo:
adesso Vodolrico è insignito del titolo di marchese di
Toscana, che gli era stato conferito nell’estate del 1139
dall’imperatore Corrado III. Nel 1140 faceva rogare un
documento in Pisa, la grande città imperiale, “in publico
parlamento civitatis”. Vodolrico si muoveva dunque tra
Friuli e Toscana, come avrebbe poi fatto per alcuni anni.
Non molti, perché nella situazione della Toscana percorsa
da intricate liti intercittadine tra Firenze e Siena, Pisa
e Lucca ulrico si barcamenò, attirandosi per il futuro
uno sprezzante giudizio di Robert davidsohn. Il titolo
di marchese di Toscana ricorre nel 1149, ancora in una
lista di illustri testimoni e ancora in un diploma in favore
dell’abbazia di Moggio, emanato dall’imperatore Corrado
III. una vicinanza di Vodolrico alla cancelleria imperiale
dunque, e sappiamo che il conferimento del marchesato
di Toscana era stato promosso dall’imperatore. Ma alla
morte di Corrado III e con la successione di Federico I
Barbarossa, nel 1152, l’avventura toscana di Vodolrico
terminò.
La prossimità agli imperatori svevi, nonché l’accertata
origine degli Attems nel contesto dell’ultima fase della
cosiddetta lotta per le investiture, rendono ragione della
loro lunga fedeltà imperiale. Essa si manifestò nel corso
del nuovo conflitto tra Impero e Sede Apostolica, che vide
adesso protagonisti Federico Barbarossa e papa Alessandro
III. In questi anni, gli anni Cinquanta e Sessanta del
secolo XII, Vodolrico compare ancora in qualità di
testimone in documenti importanti. Era definito adesso
“marchese di Attems”, dunque il titolo marchionale era
rimasto ma non era più ancorato alla Toscana bensì al più
circoscritto ambito friulano. Questo ambito configurava
però una circoscrizione ampia, un marchesato. In una
lista testimoniale del 1169 Vodolrico è nominato quale
“quondam Tuscie marchio”, cioè con la percezione che
quell’alta dignità era terminata.
Poco dopo egli venne a morte, prima dell’ottobre
1171. La data è accertata da un diploma del patriarca ulrico
II, con il quale veniva restituito ai canonici del capitolo di
Aquileia il possesso del villaggio di Muzzana con tutte le
sue pertinenze. Il villaggio era stato dato ai canonici dal
patriarca Poppone ed era stato poi indebitamente occupato
e lungamente tenuto da altri. Nella narratio che dà conto di
questi fatti si ricorda anche come il patriarca ulrico avesse
sottratto Muzzana agli occupanti e lo avesse conferito nella
forma di un usufrutto vitalizio a Vodolrico marchese di
Attems. ora che Vodolrico era morto la proprietà sarebbe
dovuta tornare definitivamente ai canonici aquileiesi.
Nell’esporre i fatti il patriarca dice che Vodolrico era un
suo consanguineo. Noi non sappiamo esattamente quale
sia stato il legame di parentela tra Vodolrico e il patriarca:
certamente un legame stretto, un rapporto di agnazione
e non di cognazione, e che ci fornisce un importante
tassello per ricostruire, pur fra molte incertezze, il tessuto
di rapporti tra l’autorità ecclesiastica aquileiese e la nobile
famiglia.
dopo la morte di Vodolrico essa era rappresentata
da suo figlio Corrado, testimone in documenti come
al solito importanti fra il 1173 e il 1186. Nel 1193
l’imperatore Enrico VI, il figlio del Barbarossa, volle
confermare al patriarca di Aquileia l’antico privilegio di
Enrico IV, adesso includendo accanto al Friuli, all’Istria
e alla Carniola come erano stati a quel tempo (1077)
conferiti i castelli di Treffen (era stato il luogo di origine
del patriarca Poppone) e di Attems. Si confermava così il
legame fra gli Attems e la corte imperiale, alla vigilia dei
forti mutamenti politici che si sarebbero aperti al volgere
fra XII e XIII secolo.
Erano infatti insorti adesso dei fatti strutturali nuovi,
uno fra i più importanti dei quali, forse il più importante,
era stato l’emergere e il consolidarsi in Friuli di una
nobiltà locale. Così nel 1204, come ho già ricordato, la
complessa elezione del patriarca Wolfger vide intervenire
accanto ai chierici della cattedrale anche i nobili, sia quelli
che si dicevano “liberi” sia quelli vincolati al patriarca
perché titolari di un ufficio presso la corte patriarchina (i
“ministeriali”). Per legare a sé le famiglie aristocratiche,
ed anche per promuovere insediamenti e popolamenti
di castelli e cittadine, i patriarchi largheggiarono adesso
ancor più che nel passato in concessioni, fatte soprattutto
in forma feudale, di beni e redditi della Chiesa aquileiese.
Molti erano però già da tempo saldamente posseduti dalle
famiglie nobili che già dagli inizi del secolo XII si erano
assestate in Friuli, come era il caso degli Attems.
35
36
toponimi tedeschi nel Friuli medievale
FranCo FinCo
37
Franco Finco
Institut für Mehrsprachigkeit und Interkulturelle Bildung
Pädagogische Hochschule Kärnten, Viktor Frankl HS
Kaufmanngasse 8, 9020 Klagenfurt am Wörthersee
franco.finco@ph-kaernten.ac.at
38
AbbreViAzioni e simboli utilizzAti nel testo
a.
a.a.t.
a.t.pm.
a.t.m.
ant.
ca.
cfr.
cit.
class.
col., coll.
dat.
dial.
es.
f.
fr.
frl.
gen.
gr.
id.
lat.
loc.
locat.
long.
m.
m.a.t.
mod.
n.
anno
antico alto tedesco
alto tedesco protomoderno
alto tedesco moderno
antico
circa
confronta
citato, opera citata
classico
colonna, colonne
dativo
dialetto, dialettale
esempio
femminile
francese
friulano
genitivo
greco
idem
latino
locale
locativo
longobardo
maschile
medio alto tedesco
moderno
neutro
p., pp.
pl.
p.sl.
r.
s.l.
s.n.
s.v.
sg.
sgg.
slov.
stand.
str.
ted.
v.
v.
vv.
vol., voll.
volg.
pagina, pagine
plurale
protoslavo
recto
sine loco
sine nomine
sub voce
singolare
seguenti
sloveno
lingua standard
strofa
tedesco
verso
vedi, vide
versi
volume, volumi
volgare
[]
‹›
<
>
*
§
trascrizione fonetica
trascrizione grafica
deriva da
si evolve in
forma linguistica ricostruita (non documentata)
paragrafo
39
1. linguA e culturA tedescA nel friuli medieVAle
Nella storiografia del Friuli è stata già da tempo
rimarcata la svolta determinata dall’incorporazione di
questa regione nell’impero germanico nel 952, che ne
determinò – fino alla metà del XIII sec. – l’orientamento politico, economico e socio-culturale verso il mondo
tedesco, separandola ed escludendola per più di due secoli
dai processi in corso nel resto dell’Italia centro-settentrionale (1). La politica degli imperatori ottoniani (962-1024)
favorì i patriarchi di Aquileia, scelti tra i ministri più fedeli
della corte imperiale e comunque sempre nell’ambito delle
grandi famiglie dell’aristocrazia tedesca, come ad esempio i duchi di Carinzia. Anche con la dinastia salica (10241125) si accrebbero il potere e le proprietà dei patriarchi
tedeschi, fino ad ottenere nel 1077 la piena investitura
feudale con prerogative ducali dall’imperatore Enrico IV.
Con questo atto il patriarca di Aquileia diventò di fatto un
signore feudale, unendo in sé potere civile e spirituale,
secondo il modello dei principati ecclesiastici del mondo
tedesco. Assieme ai patriarchi tedeschi giunsero in Friuli
anche molte famiglie nobili d’oltralpe con il loro seguito,
contribuendo all’orientamento socio-culturale e linguistico
delle “élites” regionali verso l’ambiente tedesco, sebbene
tra la nobiltà friulana vi fossero anche famiglie di origine
locale (cAmmArosAno 1988, pp. 148-149; cAmmArosAno
1999, pp. 27-30; begotti 2001, pp. 269-271).
“Il prevalere dei potentati tedeschi – qualche
volta sia pure dissidenti e in contrasto per motivi
personali con i patriarchi – determina una evoluzione
tutta particolare della società friulana. Manca praticamente in Friuli l’elemento propulsivo dei comuni; la
1
struttura politica e sociale fa riferimento piuttosto ai
castelli e alle ville, cioè a quei complessi economici
rurali, che si venivano sviluppando attorno ai castelli
[...]” (frAncescAto, sAlimbeni 2004, p. 118).
Con i patriarchi ghibellini si consolidarono i rapporti
economici con il mondo tedesco, non solo con la crescente
circolazione e il commercio con i territori d’oltralpe, ma
anche perché le famiglie nobiliari e i monasteri d’Austria e
Baviera possedevano molti beni e feudi in Friuli e – a loro
volta – i patriarchi, i feudatari e i monasteri friulani avevano
beni nei territori tedeschi (2). Questo insieme di circostanze
economiche e socio-politiche aveva dato vita a un vasto
processo di scambi – compresi quelli culturali – tra il Friuli
e il mondo tedesco. Proprio sul piano socio-culturale si può
cogliere meglio l’essenziale diversità del Friuli nei secoli
XI-XIII rispetto al resto dell’Italia centro-settentrionale
con le sue conseguenze sulla storia linguistica della nostra
regione. Accanto al latino medievale – lingua dell’alta cultura, dell’amministrazione e della vita religiosa – in Friuli
“la nobiltà laica e quella ecclesiastica usava comunemente
come lingua materna o come lingua acquisita un dialetto
alto tedesco” (londero 1954, p. 122).
“[Q]uasi tutti i patriarchi, tra il 1019 e il 1250,
furono di stirpe tedesca: e tedesca doveva essere la
lingua che si parlava e si prediligeva nella loro corte.
[...] la corte patriarcale era quasi tutta formata da
nobili tedeschi. I prelati aquileiesi e i grandi proprietari del Friuli erano anch’essi in gran parte di origine
germanica; soldati tedeschi erano chiamati a rafforzare le truppe patriarcali.” (frAncescAto, sAlimbeni
2004, p. 122) (3).
Sugli aspetti culturali e linguistici di questo periodo storico è essenziale frAncescAto, sAlimbeni 2004, pp. 115-124, 133-137; si vedano
anche londero 1954; frAu 2015a, pp. 79-82.
2 schmidinger 1954, pp. 82-87, 135-141, 155-161; hAusmAnn 1984; härtel 1995; tilAtti 2014, pp. 59-60; grönwAld 2014, pp. 277283; riedmAnn 2020.
3 Sulla lingua e cultura tedesca nel Friuli medievale v. torrettA 1904-05, pp. 25-27; mArchetti 1933-1936 [1933], pp. 129, 180-182;
londero 1954; Pellegrini, frAu 1969, pp. 269-270; Pellegrini 1972a, pp. 56-62; Pellegrini R. 1987, pp. 36-39, 105-106; scAlon 1987, pp. 1419; härtel 1988, p. 199; härtel 1995, pp. 298-299; frAncescAto, sAlimbeni 2004, pp. 115-124, 133-137; frAu 2015, pp. 282-284 (e bibliografia
ivi indicata).
40
I patriarchi tedeschi accolsero alla loro corte cantastorie, giocolieri e poeti di preferenza tedeschi. Basti
qui ricordare il patriarca Volchero di Erla / Wolfger von
Ellenbrechtskirchen (1204-1218) che ospitò alla sua corte
poeti e cantori tedeschi, tra i quali famosi “Minnesänger”
come Walter von der Vogelweide (4). Familiarità con il
Friuli aveva anche lo stiriano ulrich von Liechtenstein,
che nel 1255 scrisse il Frauendienst (Vrouwen dienest “Il
servizio delle dame”), una sorta di autobiografia poetica
parzialmente ambientata in Friuli, in particolare a Sacile
(Schetzîn, str. 550-556) dove il protagonista giostra con il
conte di Gorizia (der grâve von Gorze, str. 552, 555), a S.
odorico (sant Uelrîch, str. 557) dove duella con ser ottone
di Spilimbergo (Von Spengenberc her Otte, str. 559), a
Gemona (Clemûn, str. 563-586) dove affronta ser Mattia
(Her Mathie, str. 564, 565) e passa poi per Chiusaforte
(ze Clûse, str. 587) rientrando in Austria (5). Significativo
al riguardo anche il ben noto caso del letterato friulano
Tommasino di Cerclaria che, pur essendo di madrelingua
romanza, compose per la corte patriarcale e la nobiltà del
Friuli un poema didascalico in lingua tedesca, il Wälscher
gast, scritto nell’inverno 1215-1216 (6). Anche i monasteri
del Friuli erano strettamente legati al mondo germanico
e alla sua cultura: fondati e/o dotati di beni da signori
tedeschi, essi erano retti quasi esclusivamente da abbati
e badesse appartenenti a casate d’oltralpe – ma v’erano
anche numerosi semplici religiosi provenienti dai paesi
tedeschi – e l’uso orale e scritto della nativa lingua tedesca (accanto al latino) doveva essere comune (londero
1954, pp. 121-122; frAncescAto, sAlimbeni 2004, pp.
123-124).
Tale situazione produsse in Friuli tra XI e XIII secolo
una profonda scissura tra la parlata popolare di origine
romanza (il friulano) e gli usi linguistici delle “élites”
laiche ed ecclesiastiche, una scissura favorita anche dalla
rigida separazione degli ordini sociali e dall’orientamento
delle classi dominanti verso il mondo culturale tedesco e
non quello italiano o romanzo. In termini sociolinguistici
nella regione vigeva un regime di diglossia, cioè di una
netta ripartizione dei domíni comunicativi tra codici linguistici alti (latino, tedesco) e bassi (il volgare locale, cioè
il friulano). Va sottolineato però che questi sono secoli
decisivi per la fissazione della particolare fisionomia del
friulano (fonologia e morfo-sintassi), che rimase separato
dagli altri idiomi dell’Italia padana, diversificandosi progressivamente da essi (frAncescAto, sAlimbeni 2004, pp.
124, 133-137).
L’influenza linguistica tedesca in Friuli nei secoli XI-XIII non è ravvisabile solo nella toponomastica,
oggetto di questo contributo, ma anche nel lessico friulano
che ha accolto un certo numero di prestiti dal medio alto
tedesco. Le attestazioni documentarie e l’analisi linguistica permettono di riconoscere quei vocaboli penetrati in
friulano nel medio evo, distinguendoli da altri elementi
lessicali di origine germanica recepiti o in epoca più antica (come i gotismi, longobardismi e franconismi) o più
recente (i tedeschismi d’epoca moderna) (7). In molti casi
si tratta di parole cadute in disuso, in particolare quelle
del lessico giuridico-amministrativo che compaiono nei
documenti medievali latini o volgari: es. delesmann(us)
o dyenisman(us) “gismano” dal m.a.t. dienestman, ted.
Dienstmann; galait(um) “tributo per la scorta” dal m.a.t.
geleit(e), ted. Geleit; garitt(um) “giurisdizione piena, diritto di giudicare” dal m.a.t. geriht(e), ted. Gericht; niderlech
o inderlec “diritto di deposito delle merci in transito” dal
m.a.t. niderlege, cfr. ted. Niederlage; morgengab(ium)
4 londero 1954, p. 122; Pellegrini R. 1987, p. 37; morgAnA 1992, pp. 286-287; frAncescAto, sAlimbeni 2004, p. 122. begotti (2001,
pp. 269-271) afferma che nelle corti castellane non si parlasse esclusivamente tedesco, ma anche parlate romanze (e in qualche caso slave).
5 Si cita dall’edizione curata da Reinhold Bechstein, Leipzig 1888.
6 torrettA 1904-05, pp. 27-31; F. Neumann in rückert 1965, pp. xxxix-xliii; Pellegrini R. 1987, pp. 36-38; schulze-belli 2006. Va
comunque detto che anche in Friuli ebbe circolazione la letteratura provenzale e francese, soprattutto dalla seconda metà del XIII sec. (Pellegrini
R. 1987, pp. 38-41; Pellegrini R. 1994, pp. 241-242; morgAnA 1992, pp. 286-287; beldon, rusconi 2000, p. 320).
7 Sui germanismi in friulano si vedano Pellegrini 1972, pp. 335-359, 450-451; fAggin 1981; orioles 1983; fAbbro 1986; fAbbro 1988;
frAu 1999; frAu 2015.
41
“dono nuziale dello sposo alla sposa” dal m.a.t. morgengâbe, ted. Morgengabe; purchuta “custodia di un castello”
dal m.a.t. burchuote, ted. Burghut (Piccini 2006, pp. 26,
30, ad voces); ungelt “dazio” dal m.a.t. ungelt, ted. Ungeld
(finco 2021b, pp. 629-630, 636).
Alcuni tedeschismi, recepiti in friulano in quei secoli
e attestati nei documenti medievali locali, sono adoperati
ancor oggi. Ad esempio àme “spalla del maiale salata e
affumicata” (NP, p. 12) dal m.a.t. hamme “Hinterschenkel,
Schinken” (lexer, I, p. 1164): a. 1260 unam amam de
porco, a. 1433 unam amam porci anteriorem (corgnAli
1965-67, pp. 266-267); cramâr o cràmar “merciaio
ambulante” e cràme “cassetta in cui il merciaio ambulante (cramâr) porta le sue merci” (NP, p. 193) dal m.a.t.
krâmære, -er, kræmer “Handelsmann, der seine Waare
in einer krâme feilbietet, Krämer” (8) e krâme, krâm
“Krambude, Marktbude” (lexer, I, p. 1705): a. 1307
Benvenutus Cramarius, a. 1378 si quis speciarius seu
cramarius extra suam stationem sua mercimonia vendere voluerit (Piccini 2006, p. 188); gàtar o gàter “grata,
inferriata di finestra” (NP, p. 370) dal m.a.t. gater “Gatter,
Gitter als Tor oder zaun” (lexer, I, pp. 743-744): a. 1370
gatera ferrea supra puteis, a. 1376 ad gaterum simiterii
Ecclesie S. Marie (Piccini 2006, p. 253); licôf «Merenda
o pasto che il proprietario dà di regola agli operai occupati
nella costruzione d’un edificio, quando giungono al coperto [...] Nei vecchi testi Licôf ha lo stesso senso di Bevuta
o piccola merenda, per il compimento di qualsiasi opera,
od a conclusione, quasi a ratifica, di qualunque affare»
(NP, pp. 521-522) dal m.a.t. lîtkouf “Gelöbnistrunk beim
Abschlusse eines Handels, Leikauf” (lexer, I, p. 1940),
parola composta da m.a.t. kouf “acquisto, compera” e lît
-des “sidro, vino speziato” (9), corrisponde al ted. Leikauf
(oggi desueto) “bevanda consumata alla conclusione di un
affare come segno di accordo”: a. 1332 Expendit Henricus
xxviii parvulos in die quando ipsi dederunt ad laborandam
terram, pro licofium (Piccini 2006, p. 287), a. 1377 ad
8
9
42
bibendum licoffum quando dicta campana conducta fuit
(NP, p. 521), a. 1380-81 spendey per lu licof e per la carta
s. x, a. 1381-82 spendey quant Iançil feys testament per
lo legat ch-el feys ala chamira çoè con lo nodar et per lo
licouf dnr. iiijor (VicArio 2007-13, II, p. 168; IV, p. 196).
La particolare situazione socio-linguistica nei secoli
XI-XIII non ha però portato a una germanizzazione linguistica del Friuli, come avvenuto in altre aree alpine, ad
esempio in gran parte dell’Alto-Adige / Südtirol e in parte
dei Grigioni. La svolta guelfa dei patriarchi dalla metà
del duecento riaprì la regione al mondo politico, socioeconomico e culturale dell’Italia centro-settentrionale,
riducendo l’influenza tedesca – sebbene i rapporti con
i paesi d’oltralpe siano rimasti ancora cospicui, data la
particolare posizione geografica del Friuli (frAncescAto,
sAlimbeni 2004, pp. 139-142; frAu 2015, p. 80).
2. medio Alto tedesco e diAletti Austro-bAVAresi
Prima di affrontare l’argomento di questo contributo
– cioè la toponomastica tedesca medievale in Friuli e in
particolare i nomi dei castelli – è necessario precisare, sia
dal punto di vista diacronico che diatopico, quale varietà
della lingua tedesca abbia prodotto nei secoli XI-XIII i
toponimi in oggetto.
Il termine alto tedesco (“Hochdeutsch”) si riferisce
alle varietà tedesche – compresa la lingua standard odierna – caratterizzate dalla seconda rotazione consonantica
(“zweite Lautverschiebung”); esse sono parlate a sud
della cosiddetta linea di Benrath, che grosso modo attraversa la Germania da Berlino ad Aquisgrana e separa i dialetti alto tedeschi da quelli basso tedeschi o settentrionali
(“Niederdeutsch” o “Plattdeutsch”). Convenzionalmente
si distinguono quattro fasi nella storia dell’alto tedesco:
1. antico alto tedesco (a.a.t., “Althochdeutsch”) dal 700
(o 750) fino al 1050,
In origine, chi vendeva merci in una bancarella del mercato (kluge 2002, p. 537).
corgnAli 1965-67, pp. 330-331; lexer, I, 1692-1693, 1939; frAu 1999, p. 27; frAu 2015b, p. 291.
2.
medio alto tedesco (m.a.t., “Mittelhochdeutsch”) dal
1050 fino al 1350,
3. alto tedesco protomoderno (a.t.pm., “Frühneuhochdeutsch”) dal 1350 fino al 1650,
4. alto tedesco moderno (a.t.m., “Neuhochdeutsch”) dal
1650 al presente.
Gli anni di inizio e fine di ogni fase vanno intesi
come indicazioni approssimative e hanno solo un valore
di riferimento: le transizioni tra le varie fasi sono fluide,
poiché il mutamento linguistico è avvenuto su più livelli e
non si è verificato contemporaneamente nelle diverse aree
(meibAuer et alii 2015, p. 301; schmid 2017, pp. 3-4, 29;
bergmAn, moulin, ruge 2019, pp. 19-20).
L’epoca di cui ci occupiamo in questa sede (XI-XIII
sec.) ricade, come si vede, nella fase del medio alto tedesco
(m.a.t., “Mittelhochdeutsch”), ma è importante tener conto
anche della variazione dialettale. Le varietà alto tedesche
che hanno interessato il Friuli medievale sono quelle
dell’area orientale del tedesco superiore (“oberdeutsch”),
che appartengono al gruppo dialettale austro-bavarese
(“Bairisch” o “bairisch-österreichische Mundarten”). Esse
sono parlate in Baviera (esclusa la Svevia e i distretti
della Franconia), in Austria (escluso il Vorarlberg), in Alto
Adige / Südtirol, nella Boemia sud-occidentale e nelle
isole germanofone delle Alpi centro-orientali (10). Nelle
fonti scritte medievali provenienti da quest’area si notano
mutamenti e tratti linguistici che caratterizzano il medio
alto tedesco austro-bavarese: ad esempio già nel XII sec.
emergono (soprattutto in Carinzia e Stiria) i primi esempi
della dittongazione protomoderna e nel XIII sec. si notano
apocopi, sincopi e contrazioni (krAnzmAyer 1956, pp.
20-71; reiffenstein 2003, pp. 2890, 2896, 2904, 29102913, 2918, 2926, 2933; schmid 2017, p. 93).
Va detto inoltre che le isole germanofone del Friuli
(Sappada/Plodn, Sauris/zahre e Timau/Tischlbong), fondate nel XIII sec. da coloni provenienti dal Tirolo orientale
e dalla Carinzia, nel loro secolare isolamento hanno potuto
conservare fino ad oggi tratti linguistici tipici del medio
alto tedesco austro-bavarese (11).
L’analisi delle caratteristiche linguistiche (fonetiche, morfosintattiche, semantiche), sia diacroniche che
diatopiche, è fondamentale per interpretare correttamente
l’origine dei nomi e assegnarli a una determinata fase e/o
varietà linguistica. In questa sede saranno precisate – e a
volte integrate e corrette – le spiegazioni che sono state
date negli studi precedenti sull’etimologia e sviluppo di
alcuni toponimi friulani di origine tedesca.
Tra i fenomeni fonetici che si riscontrano nei toponimi tedeschi del Friuli medievale ci sono alcuni tratti
dialettali tipici delle varietà austro-bavaresi meridionali e alcuni mutamenti che caratterizzano il passaggio
dall’a.a.t al m.a.t. e poi all’a.t.pm. Citiamo qui solo i
fenomeni principali, riscontrati nei nomi di luogo della
nostra regione.
– La metafonia secondaria (“Sekundärumlaut”) è già
presente nell’a.a.t. ed appare sporadicamente in alcuni manoscritti già intorno al 1000, ma viene trascritta
sistematicamente nei testi m.a.t. a partire dal XII sec. Si
tratta della palatalizzazione delle vocali toniche [a], [u],
[o] > [æ] ‹æ, ae, ä›, [y] ‹iu, ue, ü›, [ø] ‹œ, oe, ö› prodotta
per effetto di una i o j nelle sillabe seguenti (schmidt
2013, p. 72; bergmAn, moulin, ruge 2019, p. 74):
es. a.a.t. mahtig, hōhir, wurfil > m.a.t. maehtec, hoeher,
wuerfel (ted. mod. mächtig, höher, Würfel).
– Nell’a.a.t. le consonanti labiodentali [f] sorda e [v]
sonora avevano una distribuzione complementare: tra
10 Nella classificazione delle varietà austro-bavaresi si distingue poi specificatamente il gruppo dei dialetti austro-bavaresi meridionali
(“südbairische Mundarten”) parlati in Tirolo, in Alto Adige / Südtirol, in un’area dell’alta Baviera (Werdenfelser Land), in Carinzia, in alcune zone
della Stiria occidentale e nelle isole germanofone del Veneto, del Trentino e del Friuli Venezia Giulia. Tali dialetti mostrano caratteristiche in parte
differenti dal resto delle varietà austro-bavaresi, come ad esempio la conservazione dell’affricata [kx] (> [kh]) della seconda rotazione consonantica
(krAnzmAyer 1956, pp. 107-110; reiffenstein 2003, pp. 2908, 2925, 2928).
11 Pellegrini 1972a, pp. 62-74; geyer 1984, pp. 57 sgg.; hornung 1995, pp. 16-26; Prezzi 2004, pp. 169-170, 176-178, 214-215; geyer
2018, pp. 325-328; denison 2021, pp. 119-121, 155-158, 249-261.
43
vocali e all’inizio di parola davanti a vocale poteva
comparire solo la [v], mentre nelle altre posizioni compariva solo la [f]. Questo fenomeno continuò anche nel
m.a.t. e coinvolse anche i nomi presi da altre lingue, in
cui una [f] iniziale o intervocalica venne resa con [v] in
m.a.t. (es. Friûl > m.a.t. Vriaul). In seguito, nell’a.t.pm.
(ma non nelle isole germanofone), la [v] si desonorizzò in [f] (es. m.a.t. vrâge, veder(e) > ted. mod. Frage,
Feder), alcune parole però mantennero la vecchia grafia
‹v› pur avendo la pronuncia [f]: es. ted. mod. Vater,
vier, Volk (PAul 2007, pp. 154-156; bergmAn, moulin,
ruge 2019, pp. 130, 169-170).
– La riduzione delle vocali nelle sillabe atone (“Nebensilbenabschwächung”) iniziò già nell’a.a.t. per proseguire poi nel m.a.t. (e ancora nell’a.t.pm.), ed è un
effetto della fissazione e forte prominenza dell’accento
lessicale sulla sillaba radicale. Il risultato di questo
mutamento fu l’indebolimento in [ǝ] e la caduta delle
vocali atone (talvolta intere sillabe), comprese le desinenze (hArtweg, wegerA 2005, pp. 140-143; PAul
2007, pp. 108-114; hArtmAnn 2018, pp. 99-100): es.
Schœnenberge > Schœnberc (Schönberg).
– La desonorizzazione delle consonanti finali (“Auslautverhärtung”) probabilmente ha avuto luogo durante il passaggio dall’a.a.t. al m.a.t. Essa consiste nel
passaggio delle consonanti [b, d, g, v, z] alle corrispondenti sorde [p, t, k, f, s] in fine di parola o di
sillaba. Nel m.a.t. tale pronuncia era riprodotta anche
nella scrittura (es. m.a.t. berc “monte” ma berge pl.,
kint “bambino” ma kinder pl.), ed è la situazione
che troviamo anche nelle attestazioni toponimiche
(krAnzmAyer 1956, p. 76; PAul 2007, pp. 131-132).
A partire però dall’a.t.pm. non si seguì più la pronuncia effettiva, ma prevalse il principio di coerenza
grafica dei morfemi che regola anche l’ortografia del
tedesco moderno (hArtmAnn 2018, p. 100): es. Berg
[-k] e Berge [-g-] pl., Kind [-t] e Kinder [-d-] pl.
– La dittongazione dell’alto tedesco protomoderno (“frühneuhochdeutsche diphthongierung”) colpisce le vocali
accentate lunghe chiuse: ī, ū, ǖ ‹iu› > [ae] ‹ei›, [ao]
‹au›, [oe] ‹eu, aeu, äu›: es. m.a.t. mîn, hûs, diut(i)sch
> mein, Haus, deutsch. Essa compare precocemente in
44
Carinzia, cioè nell’area tedescofona più vicina al Friuli,
dove le prime testimonianze scritte risalgono già al XII
secolo. Alla fine del XIII secolo tale dittongazione era
presente nei testi dell’intera area linguistica austrobavarese, estendendosi ulteriormente nei secoli successivi (hArtweg, wegerA 2005, pp. 134-136; bergmAn,
moulin, ruge 2019, pp. 78-80).
– I dittonghi m.a.t. ei, ou e öu si sono evoluti qualitativamente nell’alto tedesco protomoderno (“qualitativer
diphthongwandel”). Il m.a.t. ei (pronunciato probabilmente [eı]) si è evoluto in [ae], ma è stata mantenuta
la consueta grafia ‹ei› o ‹ey›, tuttavia nell’alto tedesco
compaiono spesso le grafie fonetiche ‹ai› o ‹ay›. Nel
tedesco odierno però ‹ai› è limitato a pochi lessemi ed
è usato principalmente per distinguere gli omonimi:
es. m.a.t. keiser > Kaiser, Laib ≠ Leib, Saite ≠ Seite. Il
m.a.t. ou > [aʊ] era trascritto con le grafie ‹au› o ‹aw›
che si sono diffuse da sud a partire dal XIV secolo:
es. m.a.t. ouge, boum > Auge, Baum. Il m.a.t. con öu
> [øʊ] è stato inizialmente reso per iscritto in a.t.pm.
‹eu› o ‹ew›, poi in parte anche come ‹äu› per ragioni
di coerenza formale nella flessione e derivazione dei
lessemi: es. m.a.t. vröude, öugelīn > Freude, Äuglein
(hArtweg, wegerA 2005, pp. 129-130; schmid 2017,
p. 73).
– Rispecchia un fenomeno dialettale già antico dell’area
austro-bavarese il frequente scambio tra ‹b› e ‹w› [v],
rispecchiato nella pronuncia delle isole germanofone
del Friuli: es. bossar, baip per Wasser, Weib. un tratto
conservativo di quest’area linguistica sono poi le grafie ‹p› e ‹kh› o ‹kch› in corrispondenza rispettivamente
di a.a.t. b e k frequenti nei testi d’area austro-bavarese
fino al XV sec. (krAnzmAyer 1956, pp. 74-76, 86,
107-110; reiffenstein 2003, pp. 2908, 2915, 2925;
hArtweg, wegerA 2005, pp. 143-144; schmid 2017,
p. 93).
3. toPonimi tedeschi
La situazione di diglossia e la diffusione della lingua tedesca nel Friuli medievale si sono riflesse anche
Fig. 1. distribuzione dei toponimi tedeschi e loro corrispettivi italiani.
45
sulle denominazioni dei luoghi. Molte località della
nostra regione presentano quel fenomeno che Cornelio
Cesare desinan ha definito ‘polimorfia toponimica’, cioè
l’esistenza e uso di nomi diversi (varianti toponimiche)
per denominare una stessa località in lingue e dialetti
diversi (12). oltre alle denominazioni latine o latinizzate
delle scritture notarili d’epoca medievale e a quelle italiane ufficiali d’età moderna, in Friuli sono usati nomi
friulani e/o veneti e in molti casi anche tedeschi e sloveni.
I toponimi tedeschi sorti in Friuli nel medioevo
presentano un netto rapporto preferenziale con le sedi
signorili e i centri di potere e si addensano particolarmente
lungo la pedemontana orientale, in corrispondenza della
linea dei castelli posti a sorvegliare gli sbocchi delle valli,
in ben evidente posizione strategica (fig. 1), ma comunque
nell’ambito di un più generale processo di Landesausbau
(desinAn 1984, p. 33; grönwAld 2014, pp. 278, 281). I
nomi di luogo tedeschi della nostra regione – soprattutto i
nomi dei castelli – sono stati oggetto di indagine da parte
di studiosi come Joseph von zahn, Carl Storm, Giovanni
Frau e il già citato desinan (13). Questi toponimi sono
sorti e sono stati impiegati soprattutto nel medioevo e
nella prima età moderna, conservandosi più a lungo nelle
zone orientali della regione sottoposte al dominio asburgico. Inoltre la toponomastica delle isole germanofone
del Friuli fondate nel XIII sec. (Sappada/Plodn, Sauris/
zahre e Timau/Tischlbong) si è conservata fino ad oggi,
mantenendo le caratteristiche linguistiche del dialetto
medio alto tedesco parlato dai coloni all’epoca del loro
insediamento.
La toponomastica tedesca medievale in Friuli è sorta
fondamentalmente attraverso due processi linguistici: a)
l’adozione di nomi preesistenti (romanzi o slavi), adattati
alle caratteristiche morfo-fonologiche del m.a.t. o tradotti
come calchi linguistici; b) la creazione ex novo di denominazioni toponimiche (soprattutto nomi di castelli) in m.a.t.
12
Adattamento di toponimi preesistenti
Tra i nomi preesistenti adattati al m.a.t. c’è innanzitutto il nome della regione (lat. Forum Iūlii >) Friùli,
frl. Friûl, reso dapprima con Frîûl(e) e poi regolarmente
con Vriául (forma usata ancor oggi a Sappada, Sauris
e Timau), in cui û lungo si è dittongato in [au] (v. § 2),
la labiodentale sorda [f] è resa con la [v] (v. § 2) e che
nell’a.t.pm. diventa [f] con l’esito del ted. mod. Friaul:
a. 1225-29 (o 1260-75) auf dem Charst und in Vriaul
(MGH, Dt. Chron. 2, p. 340); a. 1312 graf Heinr(ich) uon
Gorcz vnd uon Tyrol [...] gemainer hauptman in Vriaul
(sAntifAller, APPelt, I/1, p. 175); ante 1394 Nach dem
kam Berengarius von Veriaulen [...] gross chrieg in ganczem Vriaul [...] den patriarchen und gewon Vriawl, stëtt
und kastell (MGH, Dt. Chron., VI, pp. 80, 218, 233); a.
1424 Frigawl, a. 1433-37 Friaul (rossebAstiAno bArt
1983, II, pp. 524, 525). Il nome tedesco della regione
compare anche in opere letterarie, come nel romanzo in
versi Parzival di Wolfram von Eschenbach, composto
tra il 1200 e il 1210: ich fuor von Sibilje / daz mer alumb
gein Zilje, / durch Frîûl ûz für Aglei (lAchmAnn 1930,
p. 238) “andai da Siviglia in giro per il mare verso la
Sicilia, attraverso il Friuli fino ad Aquileia”; nel già citato
Wälscher gast del 1215-16: ich bin von Frîûle geborn [in
apparato frigul e friawl] (rückert, pp. 3, 424) “io sono
nato in Friuli”; nel poema didascalico satirico Der Ring di
Heinrich Wittenwiler, scritto attorno agli anni 1408-1410:
Jn Freyaul ist Weyden / Der was auch nicht zefersweigen. / Peuschendoerff an vnderlaess / Phligt der besten
lantstraess (wittenwiler, pp. 348, 349, 474) “in Friuli
c’è udine che non si può tralasciare. Venzone mantiene
sempre la migliore strada pubblica”. Infine nel poemetto
Von der statt Triest di Michel Beheim, composto tra il
1463 e il 1474: Czwuschen vriaul vnd isterreich / vnd der
windischen mark des gleich / den selben landen zw geniest
/ leit ain stat haist Triest / vnderm Cast an dem mere / gar
desinAn 1975, p. 149; desinAn 1977, p. 127 segg.; desinAn 1998, p. 5 segg.
Questo argomento è stato toccato – non senza forzature (cfr. grönwAld 2014, p. 275) – anche in opere storiografiche e corografiche
dell’ottocento: ad es. Antonini 1865, pp. 85-86; Antonini 1873, pp. 13-14; czoernig 1873, p. 461; noé 1875, pp. 469-478; krones 1889, pp.
418-420; Schiber 1902-03 [1902], pp. 46-47; Merkh 1916.
13
46
Nelle figg. 2-3 si vedono alcune strofe del poema Frauendienst (1255) di Ulrich von Liechtenstein (qui in un manoscritto della fine del XIII sec.
della Bayerische Staatsbibliothek, online ‹https://bit.ly/3S24xQT›) dove sono nominate alcune località friulane e personaggi del Friuli (nelle foto
sono riprodotte le strofe dove sono citati il cavaliere ser ottone di Spilimbergo e Gemona Clemûn).
vest zw aller were [...] die stet die dan Friaul noch hat /
aine genant waz Sibedat / Teruis weiden vnd ander / in
dem land (beheim, pp. 211, 253) “tra il Friuli e l’Istria e
del pari la Marca Vendica (Bassa Carniola / dolenjska), a
vantaggio di queste stesse regioni, giace una città che si
chiama Trieste sotto il Carso, sul mare, molto forte in ogni
difesa [...]”, “le città che il Friuli ha ancora: una era chiamata Cividale, Treviso, udine e altre nella regione”.
Il nome tedesco di Aquileia Aglei, Agley, Aglay
(desinAn 1977, pp. 144, 149) è l’adattamento del nome
romanzo antico *Aguléia (< lat. volg. *Aculeia per il
class. Aquilēia, cfr. gr. Άκυληΐα in Strabone) (14) da cui
il friulano medievale Aulee, Olee e il gradese Agolèa
(Pellegrini 1972a, pp. 286-287; mArcAto 2010, p. 324):
a. 1260 Wir Gregorius von gots gnaden des heiligen
stůls ze Aglay patriarch [...] von vnser heiligen kirchen
ze Aglay, a. 1307 Wir graf H(einrich) von Gorcz vnd von
Tyrol, vogt der chirchen ze Aglay (PreinfAlk, bizjAk, I,
pp. 60, 76), a. 1300-21 hinz Aglei reit er [...] von Aglei
(MGH, Dt. Chron., V/1, pp. 134, 140), a. 1349 vogt der
gotzhueser Agley, a. 1350 die vogtey Agley (MGH, Const.,
IX, p. 296; X, p. 41). L’etnonimo derivato agleier e aglaier designava i denari aquileiesi: a. 1288 sol mir die selben pfenninge geben an Agleieren (FRAustr., I, 238), a.
1299 an der summe achtzich march aglaier (sAntifAller,
APPelt, I/2, p. 302).
14 Forse per tramite dello sloveno Oglêj e Voglêj (con prostesi di v- come in Videm udine, da cui la variante tedesca Wogley) sorto dal romanzo antico *Aguléia (skok 1921-22, p. 26; Pellegrini 1972b, pp. 286-287; desinAn 1977, pp. 144, 149; Katičić 1980, p. 29; ESSzI, p. 528;
holzer 2015, p. 20).
47
Altri toponimi tedeschi mostrano il dittongo au ‹aw›
‹au›, esito dell’a.t.pm. di un û lungo (da un ó chiuso romanzo) o di un dittongo ou (û > au, ou > au, cfr. § 2) nei nomi
romanzi recepiti dal medio tedesco. Cordenóns, ted. Naun,
Cortenaw (desinAn 1977, p. 149): a. 1189 in Naum [...] de
Naun (VAlentinelli 1865, pp. 3, 4), XIII sec. Portenowe
unt Nawen (MGH, Dt. Chron., III, p. 707), a. 1483 zu
Cortenaw (VAlentinelli 1865, p. 348); Cormóns (< lat.
Cormōnes), ted. Kremaun, Karmaun (desinAn 1977, pp.
130, 144, 149): a. 1342 in Friaul Cremawn (huber 1864,
p. 158), a. 1370 e 1398 Cremawn, a. 1434 Cremawn (kos
M. 1954, pp. 114, 124, 160); Gemona, frl. Glemóne (<
lat. Glemōna), ted. Clemaun, Klemaun (desinAn 1977,
pp. 142, 149), a Sappada Klamáaun (hornung 1995, p.
536): a. 1300-21 Klemûn (MGH, Dt. Chron., V/1, p. 140),
a. 1412 der ganczen gmayn der stat zu Clemawn (zAhn
1872, p. 98); Pordenone, frl. Pordenón, ted. Portenau
(desinAn 1977, p. 149): a. 1305 Wier Ruedolf von gottes
genaden herczhog von Ößtereich vnnd von Steÿer, her von
Crain, von der March vnnd Von Portunau (PreinfAlk,
bizjAk, I, p. 74); a. 1318 auf der March und ze Portenawe,
a. 1330 ze Portenawe (MGH, Const., V, pp. 414, 701),
a. 1357 gen Portenaw, a. 1360 zu Portenaw, a. 1368 ze
Porttnaw (VAlentinelli 1865, pp. 57, 62, 63, 85).
Adegliacco, frl. Dedeà (a. 762 in Adeliaco, da un
prediale lat. *Atiliācum) è stato recepito in tedesco nella
forma Ed(i)lach (desinAn 1977, p. 149; a. 1043 predium
[...] quod Edilach dicitur aput Forum Iulii, kos 1902-15,
III, p. 86) che mostra la metafonesi secondaria a > ä ‹e, ae›
per effetto della i postonica (v. § 2).
Bùttrio, frl. Bùri, ted. Budriach (desinAn 1977, p.
149) a. 1140 in uilla Budriach, a. 1146 apud Budriach
(zAhn 1875-1903, I, pp. 189, 254): il ted. Budriach ha
15
recepito e adattato il nome romanzo Bùdri (a. 1254 de
Budri) prima che cadesse la d etimologica in friulano.
Sia in Ed(i)lach che in Budriach compare la terminazione -ach che nella toponomastica tedesca proviene
solitamente dal m.a.t. ach(e) “acqua” (a.a.t. aha), diventato un suffisso produttivo di idronimi (cfr. Fellach o
Vellach nome ted. del fiume Fella), oppure dall’a.a.t. -ahi
(collettivo di -ah) > m.a.t. -ach suffisso unito a fitonimi
per indicare gruppi di alberi o piante, che ha prodotto
microtoponimi ma anche nomi di insediamento (bAch
1953, pp. 154-155, 160-162; niemeyer 2012, p. 18). Nel
caso di Ed(i)lach / Adegliacco si tratta invece dell’esito
del suffisso gallo-latino -ācum, da confrontare con altri
toponimi prediali come Villach / Villaco (< *Biliācum, a.
878 Uillach), mentre in altri casi -ach riproduce la desinenza del locativo plurale slavo -axъ dei toponimi in -jane
come in Friesach (a. 860 Friesah) derivato dal p.sl. brěza
“betulla” o brěgъ “riva, pendio” (bAch 1953, pp. 220223; mertelj, bezlAj 1960-61; niemeyer 2012, pp. 18,
189, 654-655; Pohl 2020, pp. 39, 61-62) (15).
Cividale del Friuli, frl. Cividât (< lat. civitātem), la
forma ted. Sibidat ossitona rende con ‹s› l’affricata iniziale romanza (desinAn 1977, pp. 129, 144, 149, 151) (16):
a. 1158 Hiltegardam de Tuensperch et Fromuedamde
Sibdat (zAhn 1875-1903, I, p. 379); XIII sec. die vogtay
ze Sybidat, a. 1300-21 gegen Sibedâte (in rima con drâte)
[...] dô er hinze Sibedât kam, ante 1394 Sibedat [..] stett
Beyden und Sibdatt (MGH, Dt. Chron., III, p. 724; V/1,
p. 453; VI, pp. 214, 218); a. 1477 Sibidat (giustiniAni
1987, p. 87).
Ragogna, frl. Ruvìgne (< lat. Reūnĭa), ted. Ruwin,
Rewein, Rowein, Rewin (desinAn 1977, pp. 141, 149):
XIII sec. Ruwin unt Spengenberch (MGH, Dt. Chron.,
Ci sono vari paesi e località di nome Edlach e Edla in Alta Austria e in Stiria, riconducibili a una base slava je(d)la “abete” con desinanza
-axъ, ma in alcuni casi le attestazioni antiche riportano a un tipo Erlach (zAhn 1893: 161), che nella maggior parte dei casi risale all’antroponimo
a.a.t. Arila (förstemAnn 1916, II/1, pp. 194-195). Anche per Adegliacco era stata proposta un’origine dal fitonimo slavo je(d)la sulla base del nome
tedesco Edlach (rAmoVŠ 1917, p. 669; bezlAj 1956-61, I, p. 238), ma visti gli esiti romanzi è ipotesi da scartare (cfr. finco 2021a, p. 220).
16 Per Cividale erano usati anche i nomi tedeschi Altenstadt (vedi sotto) e Öst(e)rich, quest’ultimo corrisponde alla denominazione Civitas
Austriae sorta in epoca carolingia e utilizzata lungo tutto il medioevo, dove Austria è il nome germanico latinizzato (dal long. *austra- “orientale”)
che indicava l’Italia nord-orientale già in età longobarda (leicht 1931-33, p. 350; desinAn 1977, pp. 129, 144, 151).
48
Fig. 4. Veduta di Gorizia, da cAsPAr meriAn 1656.
III, p. 707); le varianti con ‹ei› potrebbero però riferirsi a
Rovigno in Istria.
Artegna, frl. Artìgne (< lat. Artenĭa), ted. Ardingen
o Artingen (desinAn 1977, p. 142): a. 1122-28 unum
[mansum] in Ardigen (härtel 1985, p. 89), a. 1149 ad
Ardingen unum [mansum] (MGH, DD IX, Ko. III, p. 362);
la nasale palatale romanza è resa con velare.
In alcuni casi il toponimo tedesco non è stato tratto direttamente dal romanzo, ma ha avuto un tramite
slavo, cioè è stato recepito dalle popolazioni slovenofone
della Carinzia meridionale, della Valcanale e della valle
dell’Isonzo. L’analisi dell’evoluzione fonetica mostra
chiaramente questo passaggio. Ad esempio il nome di
Ùdine, frl. Ùdin (a. 983 Udene), in tedesco è Weiden
(zAhn 1879, p. 56; desinAn 1977, pp. 144, 149, 151,
241), oggi disusato nel tedesco “standard”, ma ancora
vivo nelle isole germanofone (Baidn a Sappada e Sauris,
Bain a Timau con caduta di d). Il nome sloveno di udine
Vídǝn, gen. Vídna (slov. stand. Vídem -dma con m anetimologico) e le varianti dialettali (es. a Resia 'Vïden 'Vïdna,
'Uuden 'Uudnë) sono state recepite in epoca molto antica,
̑ nei ̑primissimi secoli dell’insediamento slavo nelle
cioè
Alpi orientali. Esse mostrano che un’antica forma romanza *'Ūden(e) o *'Ūdin(e) è stata dapprima adattata nel
tardo p.sl. come *Uydьnъ *Uydьna (con u prostetico poi
̑
̑
̑
diventato v), poi si è evoluta in *Uíden *Uídna, da cui poi
̑ 2006, pp. 203gli esiti moderni Vídǝn Vídna ecc.̑ (merkù
204; ESSzI, p. 454, s.v. Vídem2; Šekli 2009, p. 153). La
forma slov. Vídǝn con [iː] è stata adottata dal m.a.t., dove
la î si è poi dittongata regolarmente in ei (e poi ai): a. 1260
Ludwig von Weyden [...] Dicz ist geschechen vnd geben
cze Weyden (PreinfAlk, bizjAk, I, p. 258); ante 1394 gen
Agle und gen Weiden [...] stett Beyden und Sibdatt (MGH,
Dt. Chron., VI, pp. 204, 218); a. 1406 Der geben ist in
vnnsern gschloß Weÿden (PreinfAlk, bizjAk, II, p. 79);
1408-10 Jn Freyaul ist Weyden (wittenwiler, p. 348); a.
1477 zu der Weiden (giustiniAni 1987, p. 87). Sia le isole
germanofone che le attestazioni Beyden mostrano la resa
occlusiva [b] di [v] già vista in Sibidat (cfr. § 2).
Il nome di Gorizia, frl. Gurìze, frl. loc. Gurìza, ted.
Görz, slov. Gorica (fig. 4), è sorto dallo slov. goríca [-ts-],
diminutivo di góra “monte”, ed è stato recepito sia dalle
parlate romanze, che dal tedesco: a. 1001 medietatem unius
castelli quod dicitur Siliganum et medietatem unius ville
que Sclavorum lingua vocatur Goriza [...] in illis predictis
locis Syligano atque Goriza; a. 1001 medietatem predii
[...] Sil[i]k[a]no [et] Gorza nuncupatum (Štih 1999, pp.
29, 32); a. 1015 Goriza, a. 1064 Meginardus de Guriza,
a. 1139 Comes de Gorza, a. 1146 Heinricus de Guorze
(di PrAmPero, p. 70); a. 1317 graf Hainr(eich) von Gortz
Fig. 5. Castelnovo da Von zAhn 1883.
49
vnnd von Tirol, a. 1318 Das ist geschehen zu Görtz auf der
burg in den neuen gezunber, a. 1324 graf ze Tyrol vnd ze
Goercz (PreinfAlk, bizjAk, I, pp. 81, 87, 95); a. 1343 Anna
[...] comª de Goertz, a. 1370 Meinardus com. de Goercz
(MGH, Necr., V, pp. 88, 124); fine XIV sec. dem grafen
von Görcz zu gemëhelt, und do der selb graf von Görcz [...]
die ward versprochen von Görcz graf Hainreichen (MGH,
Dt. Chron., VI, pp. 196, 212); a. 1477 Görcz (giustiniAni
1987, p. 87). Nel nome tedesco si è verificata la metafonia
secondaria della vocale tonica o > ö (cfr. § 2) provocata
dalla i postonica, che successivamente è caduta.
Nomi tradotti o calchi
un gruppo di toponimi tedeschi non si è limitato a imitare la forma fonetica dei nomi romanzi preesistenti, ma ne
ha riprodotto la struttura interna, ‘traducendone’ gli elementi
costitutivi: si tratta di quel fenomeno detto calco linguistico
che richiede uno sviluppato bilinguismo, cioè la competenza e un prolungato e intenso rapporto tra due lingue in contatto in un determinato territorio (gusmAni 1986, p. 222).
Ad esempio Fontanabona, frl. Fontanebuìne (a. 1126 de
Fontanabona) in comune di Pagnacco, in ted. Gutenbrunn,
Chotinprun, Guotenprunn dal m.a.t. brunne “fonte, fontana,
pozzo” con ordine inverso dei due elementi (determinante
+ determinato) secondo la sintassi del tedesco (Pellegrini,
frAu 1969, p. 295; desinAn 1977, p. 151), cfr. Gutenbrunn
in Bassa Austria. Ma non è sempre facile determinare se il
calco sia avvenuto dal romanzo al tedesco o viceversa. Nel
caso di Castelnovo del Friuli, frl. loc. Cjastelnóuf (fig. 5)
(a. 1140 de Castelnovo, a. 1150 de Castello novo, a. 1176
de Castro Novo), di etimologia evidente, troviamo anche
il corrispondente tedesco Neu(en)burg che è un tipo toponimico comune nelle aree germanofone (zAhn 1883, pp.
52-53; Pellegrini, frAu 1969, p. 292; desinAn 1977, p.
151; begotti, bulfon, fAdelli 2006, pp. 9-27): a. 1208
17
apud Niwenburch (zAhn 1875-1903, II, p. 137; zAhn 1879,
p. 333), a. 1342 in Friaul [...] Newnburch (huber 1864, p.
158). Le attestazioni Neuhaus menzionate dagli autori citati
qui sopra (che dipendono da czoernig 1873, p. 626) in
realtà si riferiscono a Castelnuovo d’Istria / Podgrad.
Nel caso di Villacaccia, frl. Vilecjàsse in comune di
Lestizza – che fu possesso dell’abbazia carinziana di St.
Paul in Lavanttal – si può ipotizzare che il calco sia avvenuto dal tedesco al romanzo. La documentazione del nome
latino (poi romanzo) e di quello tedesco risale al XII secolo: a. 1145 villa quae vocatur Chazil, a. 1174 juxta Villam
Cacilini, a. 1196 juxta Villam Cazil, a. 1196 Katzlinsdorf,
a. 1196 Kecilinstorf, ecc. Il toponimo è un composto di lat.
villa / m.a.t. dorf “villaggio” e dell’antroponimo ted. Katzil;
probabilmente si tratta di quel conte Cacelino (a. 1072 de
militibus Chazili de Muosiza) che lasciò i suoi beni per la
fondazione dell’abbazia di Moggio. da confrontare con i due
paesi Katzelsdorf in Bassa Austria (a. 1112 Chazilinesdorf,
a. 1186 Checelinesdorf, a. 1183 Cazelinisdorf), Katsdorf
nel Mühlviertel (a. 1112 Chazilinistorf) e con Kazlinsdorf
(a. 1196) in Carinzia, oggi non più noto (bAttisti 1963, pp.
11-12; finco 2008, pp. 172-174).
A volte il calco non è avvenuto su un toponimo
romanzo, ma sulla denominazione slava (slovena) di una
località, come nel caso del nome tedesco di Venzone, che
si presenta in più varianti (17): Peuscheldorf, Peischeldorf
e simili (la forma Peitscheldorf è frutto di paretimologia):
a. 1247 hominibus ipsius de Lusendorf [recte Pusendorf]
sive de Venzono (biAnchi 1861, p. 56; zAhn 1879, pp.
330, n. 1; 387, n. 4); a. 1296 Chunradus de Peuscheldorf;
a. 1302 Peter von Pevsscheldorf; a. 1306 Chunradus de
Venzono oder Peuscheldorf; a. 1335 zue unserre muemen
Kathreinen von Paeuscheldorf (finco 2021b, pp. 630631). Si tratta di una forma completamente dissociata
da quella italiana e friulana (frl. Vençón) ed è un calco
parziale (18) sul nome sloveno di Venzone Púšlja ves
(slov. stand. Púšja vas). Questo risale a un p.sl. *Pūšьlja
Si riassume qui quanto esposto più distesamente in finco 2021b (pp. 624-634) cui si rinvia.
È detto calco parziale o calco-prestito un composto modellato sul nome straniero in cui un elemento è tradotto e l’altro è semplicemente
adattato alla fonetica, alla morfologia ecc. della lingua ricevente (gusmAni 1986, p. 72).
18
50
vьsь (19), dove vas / ves significa “villaggio” (reso in
tedesco con l’equivalente dorf), mentre la prima parte
deriva probabilmente dall’antroponimo p.sl. *Puxъ o
*Pušь (bezlAj 1956-61, II, p. 129), che il tedesco ha
adattato fonologicamente in Peuschel- con trafila fonetica *ū > m.a.t. ṻ (Umlaut) > a.t.pm. eu (äu) (finco 2021b,
p. 634).
In altri casi di polimorfia toponimica, dove i nomi
tedeschi e sloveni sono dissociati da quelli romanzi, non è
chiaro in quale direzione sia avvenuto il calco. Ad esempio per Cividale erano in uso anche il ted. Altenstadt e lo
slov. Staro m(j)esto (usato accanto a Čedad soprattutto
nei dialetti della Slavia veneta) ed entrambi significano
“città antica, vecchia città” (desinAn 1977, pp. 129,
133, 145, 151). Anche per Monfalcone troviamo il nome
ted. Neumarktl (a. 1493 auf dem Meer daselbshin gen
Newmerkhtl, kAndler, V, [p. 467]) e quello slov. Tržič,
entrambi sono diminutivi del termine ‘mercato’, rispettivamente Markt e trg (desinAn 1977, p. 203) (20). È probabile che il nome tedesco, almeno nel caso di Cividale,
dipenda da quello sloveno, ma non ci sono argomenti
definitivi per stabilire con certezza quale sia il modello e
quale il calco.
Totalmente dissociato dal toponimo romanzo è il
nome tedesco di Tolmezzo, Schönfeld o Schönfelden
(desinAn 1977, p. 152), forma disusata nel tedesco
“standard” moderno, ma conservata nei dialetti tedeschi
locali: Schavelde a Sappada, Scheanevelde a Sauris,
Schunvelt a Timau, Scheanfelt, nel dialetto del Lesachtal
(denison 2021, p. 241). Si tratta di un composto di m.a.t.
schœn(e) “bello” e vëlt “campo”, ted. mod. Feld (lexer,
III, p. 57; kluge 2002, pp. 285-286), da confrontare con
Schönefeld nel Brandeburgo (a. 1352 Schönenuelt, a. 1375
Schonenvelde; niemeyer 2012, p. 568). Come si vede le
forme usate nelle isole germanofone della nostra regione
hanno conservato la [v] del m.a.t. (v. § 2).
Fig. 6. Il toponimo Attimis negli attuali cartelli stradali.
In Friuli troviamo pochi toponimi composti con
l’elemento -dorf “villaggio” (m.a.t. dorf, ted. mod. Dorf,
lexer, I, p. 449; kluge 2002, p. 212) che nell’area germanofona è un tipo toponimico estremamente prolifico e
diffuso. Nelle varie regioni tedesche si osservano sviluppi
diversi: in Baviera, ad esempio, le prime testimonianze
risalgono già all’VIII secolo. Questa tipologia di nomi
diventa molto produttiva alla fine del periodo più antico dell’espansione tedesca: nelle aree tedesche orientali
(deutsche Ostsiedlung) il tipo in -dorf è il più frequente ed
è particolarmente produttivo nei secoli XII-XIII. Questi
toponimi sono formati prevalentemente con antroponimi in forma genitivale (niemeyer 2012, p. 133). oltre
ai già citati Kazlinsdorf (Villacaccia) e Peuscheldorf
(Venzone), in Friuli troviamo altri tre casi. Haseldorf (a.
1507 Hasenndorf) è un calco parziale approssimativo del
nome di Nogaredo al Torre, frl. Naiarêt, dove il toponimo
friulano è una forma collettiva di noiâr “noce”, confuso
però con il frl. noglâr “nocciolo” e reso quindi col ted.
Hasel “nocciolo” (desinAn 1977, p. 151; finco 1999,
19 Tale tipo corrisponde a un antico modello compositivo particolarmente frequente e produttivo nella toponomastica slovena, soprattutto
prima del 1100 (krAnzmAyer 1956-58, I, pp. 88 segg.; Pohl 2020, pp. 26, 62-63).
20 In Slovenia troviamo il centro abitato di Tržič nell’Alta Carniola / Gorenjska, il cui nome tedesco è anche qui Neumarktl (a. 1383 Newenmärchtlein, a. 1399 Newn Mercktlein, SHT 1, p. 1580).
51
p. 15). Weißendorf è il nome tedesco di Resiutta, dal ted.
weiß “bianco”, ma si tratta di una coniazione tarda (documentata dal XVI sec.) (21) mentre il nome tedesco più
antico di questo paese era Vellach (a. 1090 Uelach) che
a sua volta è un adattamento con suffisso -ach del nome
sloveno Béla (resiano Ta-na-Bíli) di Resiutta che significa
“bianca”, con riferimento al fiume Fella (krAnzmAyer
1956-58, II, p. 67; desinAn 1977, p. 166). Klandorf
nome tedesco di Fiumicello, da klein “piccolo” (a. 1667
Giacintho Andriani von Clandorff; doerr 1900, p. 152;
Puntin 1995, p. 49).
4. Attimis, (d)Atimis, Attems, Ahten
Concentriamoci ora sul nome del castello cui è
dedicata la mostra (fig. 6). Si tratta di un altro esempio di
polimorfia toponimica con più forme del nome di luogo:
in italiano Àttimis, in friulano Àtimis o Dàtimis (oggi
meno usato), in tedesco Attems, in sloveno Ahten. oltre a
queste troviamo anche altre varianti del toponimo, sia nei
dialetti che nella documentazione scritta. Tale varietà di
denominazioni è dovuta sia alla posizione geografica di
Attimis, situato in una zona di parlata romanza (friulano
e italiano), ma confinante con l’area slovenofona (le fra-
21
zioni e località orientali del comune di Attimis), sia per
le origini tedesche della famiglia nobiliare che assunse il
nome dal castello e per le sue vicende successive in Italia
e in Austria (22).
Le attestazioni documentarie del toponimo compaiono
a partire dal principio del XII secolo (23): a. 1106 Castrum
unum infra Comitatum Forojulii, & jacet ad locum qui dicitur Attens (de rubeis 1740, col. 609) (24); a. 1107 Actum
in Atins (jAksch 1904, p. 220; kos f. 1902-15, IV, p. 15);
a. 1136 Wodalricus de Atenis (schumi 1882-87, I, p. 89;
kos f. 1902-15, IV, p. 81); a. 1166 Ulricus de Atens (de
rubeis 1740, col. 591; hAusmAnn 1984, p. 562); a. 1169
Marchio de Attens [...] Conradus de Attens (kAndler,
I, [p. 219]); a. 1170 de castro Attens [...] Hirmindem de
Attens cum filiis & filiabus, Henricum de Attens cum filia,
Arponem de Attens, Wodalricum Gastaldionem de Attens
(de rubeis 1740, coll. 604-605) (25); a. 1170 Arbo, &
Henricus de Attems (liruti 1776-77, IV, p. 134); a. 1171
obitum [...] Volrici marchionis de Attens (PAschini 1915,
p. 56); a. 1173 Conradus de Attens (kAndler, I, [p. 225]);
a. 1177 negocium fidelis nostri C(onradi) de Atenes;
Negocium Cov(nradi) de Attenes (MGH, DD F I., III, pp.
196, 198; MGH, Briefe dt. Kaiserzeit, VIII, pp. 86, 95);
a. 1180 castrum de Atens (MGH, DD F I., III, p. 355); a.
1180 castrum de Attemps (kos f. 1902-15, IV, p. 317); a.
Ad esempio in Martin zeiller, Fidus Achates, ulm, 1653, p. 638.
sPreti 1928, pp. 441-443; hAusmAnn 1984, pp. 559-564; buorA 2018, pp. 304-307.
23 cinAusero, dentesAno (2011, p. 79) riportano quella che dovrebbe essere la più antica attestazione del toponimo, risalente all’anno
1025, traendola da di PrAmPero (p. 55, s.v. Faedis): a. 1025 unam turrim seu fortilium pro beneficio ville de Faedis... inter locum Soffumbergi et
Marchionatum Attimis (M. Cod. Dipl.). La forma Attimis (invece di Attens, Attems, ecc.) a questa altezza temporale avrebbe dovuto però mettere
in guardia i due malaccorti autori. Ad un esame più attento risulta infatti che non si tratta di una citazione ricavata dal documento del 1025, ma è
in realtà il testo di un regesto redatto in latino da Giuseppe Valentinelli (1805-1874) prefetto della Biblioteca Marciana di Venezia, con il quale egli
intendeva precisare la posizione di Faedis scrivendo appunto inter locum Soffumbergi et Marchionatum Attimis (cfr. VAlentinelli 1866: 403). Il
Valentinelli aveva effettuato una vasta opera di regestazione dei documenti relativi al Friuli conservati alla Marciana per la costituzione di un codice
diplomatico forogiuliese (VAlentinelli 1856, p. 7) e a questo si riferisce la sigla (M. Cod. Dipl.) riportata dal di Prampero. Come si vede non si
tratta di un’antica attestazione del toponimo e per questo motivo il di Prampero non l’aveva elencata tra quelle riferite ad Attimis. Va peraltro detto
che alcune attestazioni del toponimo riportate in di PrAmPero (p. 12, s.v. Atemps) non sono trascritte precisamente o recano una datazione inesatta,
perciò qui si è preferito far riferimento alle sedi bibliografiche originarie e ad altre fonti.
24 La stessa attestazione è riportata anche in altre opere: castrum... Attens (jAksch 1904, p. 218); castrum unum infra comitatum Forojulii et
jacet ad locum, qui dicitur Attens (kos f. 1902-15, IV, p. 12).
25 Citato anche in liruti (1776-77, IV, pp. 133-134); a. 1170 de castro Attens (anche in kos 1902-15, IV, p. 257).
22
52
1214 castrum de Attemps (schumi 1882-83, p. 155); a.
1214 Piligrini de Attens (härtel, scAlon 2017, p. 160);
a. 1214 castrum de Atems (biAnchi 1861, p. 19); a. 1220
castrum de Aten [Attemps in apparato] (schumi 1882-83,
p. 44); a. 1221 Rodulphus de Attems (biAnchi 1861, p.
26); a. 1226 Attems [...] in feudum d. Diemotae filiae d.
Ottachi de Attems (biAnchi 1861, p. 34); a. 1234 a domino
Petro de Attens [...] vidit marchionem de Atens qui vocabatur Wodolricus quia sepe intrabat curiam eius in Atens
[...] Wodolricus marchio de Attens (härtel, scAlon 2017,
pp. 168, 171, 173); a. 1234 Hottach de Attens (härtel,
scAlon 2017, p. 180); a. 1240 Wolrici de Attens (härtel
1985, 126); a. 1246 domini Otaci de Atens [...] dominus
Otacus de Atens (dellA torre 1979, pp. 230, 231); a.
1256 Petrum de Attems (biAnchi 1861, p. 72); a. 1270
presentibus dominis [...] Henrico de Attems (blAncAto
2013, p. 281); a. 1278 accipere ligna mortua in nemore de
Attemps (biAnchi 1861, p. 122); a. 1278 Dominus Wezelo
presbiter ecclesie de Attems (blAncAto 2013, p. 336); a.
1283 Fredericus de Attens (blAncAto, Vittor 2018, p.
111); a. 1289 Odoricus de Attems (biAnchi 1861, p. 175);
a. 1296 coram d. Gulielmino de la Turre gastaldione de
Attems (biAnchi 1861, p. 221); a. 1296 Desideratus qm.
d. Petri de Attems [...] gastaldioni de Attems (biAnchi
1861, p. 225); a. 1296 Warientus dictus Zochetoch de
Attems (biAnchi 1861, p. 228); a. 1318 D. Federicus et
Wargendus fratres, filii q.m D. Janisi de Attems (biAnchi
1844, p. 140); a. 1318 Hermanno de Attems [...] D.
Vargendus de Attems q.m Janisi [...] suos custodes in
Castro de Attems [...] presbiteri Benevenuti notarii de
Utino commorantis in Attems (biAnchi 1844, p. 163); a.
1318 D. Federico de Attems [...] Presentibus Presbitero
Benevenuto Vicario Ecclesie de Attems, Berthulo filio
q.m D. Odorlici commorante in Attems (biAnchi 1844, p.
199); a. 1321 Artuico de Attems (biAnchi 1844, p. 455); a.
1322 Nicolaum filium Jupili de Attemps preconem fabrum
(biAnchi 1844, p. 517); a. 1322 D. Wargendum de Attems
26
27
28
filium olim D. Janisi (biAnchi 1844, p. 547); a. 1375-79 in
Centa de Atems sub lozia Comunis [...] omnibus de Atens
[...] in plena Vicinantia hominum de Atens [...] in villa seu
centa de Atens [...] in centa de Atens et in Villa de Atens
(joPPi 1879, p. xiii), ecc.
Se qui abbiamo abbondato con le attestazioni del
nome del castello e del predicato nobiliare è per documentare meglio l’evoluzione grafo-fonetica del toponimo. Le
prime occorrenze riportano maggioritariamente la forma
A(t)tens, mentre dal XIII secolo in poi compare più spesso
la variante A(t)tems con la bilabiale m, talvolta con epentesi di p (Attemps), forse solo grafica (26). da ciò ne consegue che per ricostruire l’origine etimologica del toponimo
bisognerà partire dalla forma A(t)tens e ciò costringe a
rivedere le ipotesi formulate finora (v. sotto).
L’evoluzione successiva ci mostra – attraverso le
attestazioni dal XIV secolo in poi (sia nei testi redatti in
latino medievale che in volgare friulano o tosco-veneto)
– una chiusura della vocale postonica e > i (scritta anche
come y) (27) che sappiamo essere un’evoluzione del
friulano centro-orientale (frAncescAto 1966, p. 202;
mArchetti 1977, p. 87): cfr. lat. iuvĕne(m) > ant. frl. a.
1391-92 ‹çoven› / a. 1416-34 ‹çovin› (28) > frl. mod. zòvin
(NP, p. 1321).
Nei testi in latino: a. 1320 In villa de Atyns [...]
Presentibus Henrico dicto Brand de Atyns [...] Virchmano
de Atyns, Hermanno de Atyns, Birtulo et Jacobo Fratribus
q.m D. Odorlici de Atyns [...] Vargendus q.m D. Jacobi de
Atyns [...] Federicus q.m D. Jacobi de Atyns [...] intrare
Castrum de Atyns [...] Nobilis vir Nicholussius filius D.
Artuichi de Atyns [...] D. Vargendi, et suorum amicorum de Atyns (biAnchi 1844, pp. 416-417); a. 1321 jure
Feudi Marchisatus de Atyns, quod hereditant masculi et
femmine [...] dictum feudum jure Marchisatus de Atyns
[...] jure feudi Marchisatus de Atyns (biAnchi 1844,
pp. 456-457); a. 1321 Nichulussius filius D. Artuici de
Atyns [...] Wargendum de Atyns [...] Federicho de Atyns
La forma Attems, meno spesso Attemps, sarà quella che si fisserà come predicato nobiliare e anche come forma tedesca del toponimo.
Tale passaggio e > i nel toponimo compare solo sporadicamente nella documentazione precedente.
<www.dizionariofriulano.it> (consultato il 14.04.2022).
53
(biAnchi 1844, pp. 461-462); a. 1321 D. Wargendus de
Atyns (biAnchi 1844, p. 489), ecc. Nei testi medievali in
friulano: a. 1381 Salvestri di Percut e Toni filg Iacumuca
d-Atims (VicArio 2006-08, II, p. 92); a. 1381 Toni filg
Iacumuca d-Atims habitant in Udin e Dus di Cerneglons
(VicArio 2006-08, II, p. 94); a. 1382 yo dey a ser Çuan
d-Atims ed a Çuanin lu Lunç [...] lu det dì yo dey a ser
Çuan d-Atims dn. xlviij per cason c-el fo mandat inbasadòr a Trasesim (VicArio 2007, p. 104); a. 1382 mestri
Antony tesedor e Toni filg Iacumuca d-Atims tuti habitanti
in borc d-Aulega (VicArio 2006-08, II, p. 101); a. 1400
Vugelm di Lupot dié a Ser Zuan nodar d’Atims chi tols
per se (joPPi 1878, p. 200); a. 1435 fo comperado per la
fradagla predicta de dona Margareta di Atims per presio
de lxxxv marchas (VicArio 2002-05, IV, p. 24); a. 1450 ser
Piero de Atims, prior de la fradaia; a. 1451 Zorz Progniat
chamerar e ser Pieri d’Atims, prior vechio (scArton,
VicArio 2014, pp. 40, 43), ecc.
L’ultima fase dell’evoluzione del nostro toponimo è
l’anaptissi, cioè l’inserimento di una i a sciogliere il nesso
consonantico finale -ms: Àtims > Àtimis. Ciò si rileva sia nei
documenti in latino che in volgare: a. 1328 Hermannus de
Atimis (leicht 1917, p. 77); a. 1395 lo pascolo de Quas in
sompo rio maior la qual tigniva Niculau de Atimis (Venuti
1969, p. 26); a. 1470 ser Nicolosius de Atimis [...] ser Lusius
de Atimis (leicht 1955, p. 102); a. 1500-01 el contrascrito
de ser Simon de Atimis (VicArio 2006-08, III, p. 117), ecc.
Si giunge così alle forme friulane odierne Àtimis e Dàtimis
(desinAn 2002, p. 335), quest’ultima – oggi meno usata – è
sorta dall’agglutinazione della preposizione d’ al toponimo
ed è testimoniata dagli antichi testi friulani (la separazione
d-Atim(i)s è stata inserita dagli editori dei testi) e da altre
fonti (ad es. ostermAnn 1876, pp. 286-287).
Le spiegazioni etimologiche del toponimo – proposte
finora – sono concordi nel ritenere che si tratti di un nome
di origine prelatina. Giovan Battista Pellegrini avanzò
cautamente l’ipotesi che si trattasse di un nome composto
dalla particella gallica (celtica) ati- at- “trans, ultra, supra”
e la radice *tim-/*tem- – significante “acqua”, “palude”
o simile – che si trova anche in altri toponimi prelatini
come Timavus, Timachus ecc., dando origine a una forma
*at-tim-as o simile (Pellegrini, frAu 1969, p. 269) (29).
Quella che per Pellegrini era solo «una timida congettura»
fu adottata da altri linguisti, che attribuirono tale etimo al
celtico o ad altro sostrato indeuropeo (venetico, illirico
o non precisato): doriA 1972, p. 28; desinAn 1977, p.
142; frAu 1978, p. 29; frAu 1979, pp. 122-123; desinAn
1983, pp. 5, 30-31, 33; desinAn 1990, pp. 38, 68; Carla
Marcato (dT, p. 46); desinAn 2001, p. 48; desinAn 2002,
pp. 335-336 e altri. Il desinan ha accostato il nome di
Àttimis a quello del piccolo borgo carnico di Àutimis
presso Givigliana, in comune di Rigolato, ma ritiene che
possa trattarsi di una differente base indeuropea, cioè *au
“acqua” (desinAn 1983, p. 30; desinAn 1990, p. 68).
data l’accentazione proparossitona del nostro toponimo
Maurizio Puntin ha ricostruito una base non indeuropea
*àtin-/*àten- di significato oscuro (Puntin 2010, p. 409),
ma per motivi fonetici (la mancata lenizione di t intervocalico) non è accettabile.
Pavle Merkù ha richiamato l’attenzione sul nome sloveno di Attimis, cioè Áhten ['a:xtən] (gen. Áhtna), dial. Áhte
o Áhta (30), dove la lettera h nella grafia slovena rappresenta
una consonante fricativa velare sorda [x] (come l’Ach-Laut
del tedesco). Le forme slovene del toponimo sono un antico
prestito dal volgare neolatino parlato in Friuli, ma «il nesso
consonantico sia slavo che sloveno ht non può derivare
La doppia t dell’etimo proposto si spiega non solo con le attestazioni documentarie, che nella maggior parte dei casi presentano la grafia
tt, ma anche con l’esito del nome friulano Àtimis, dove la t sorda non può derivare da una t scempia etimologica, che sarebbe diventata d in friulano
a causa della lenizione intervocalica.
30 merkù 2001, pp. 703-704; merkù 2006, 37, s.v. Áhten. Nei dialetti sloveni del Torre (terski): Áxtan m.sg., Áhtne f.pl., tu Áhtnœ̆ locat.
(sPinozzi monAi 2009, p. 473); a Subit (frazione slavofona di Attimis) A:x'tan, gen. A:x'na; a Bergogna / Breginj (frazione di Caporetto / Kobarid)
Uá:xtən, gen. Uá:xtna (Šekli 2009, p. 150); a Cergneu (frazione slavofona di Nimis) Uáxtan, locat. tjé-u-Uáxne; a Platischis (frazione del comune
̑
̑
slavofono
di Taipana)
Áhten (merkù 1970-71, p. 188); a Masarolis e Reant (frazioni slavofone di Torreano) Ahtán (Puntin 2008, p. 93). L’accento sulla
sillaba finale di alcune varianti è secondario, cioè è frutto di un processo di metatonia dialettale (Šekli 2009, p. 155; rePAnŠek 2016, p. 222).
29
54
in alcun modo da una preesistente consonante romanza o
romanizzata t, ma può essere sorto da un nesso ct [kt]. La
forma nominale slovena può quindi forse offrire una traccia
per ripensare l’etimologia del nome antico» (merkù 2001,
p. 704) (31). Lo studioso triestino suggerì dunque di cercare
in altra direzione l’origine antica del nostro toponimo, ma
non propose un etimo alternativo (32).
Il linguista sloveno Luka Repanšek ha ipotizzato che
questo toponimo fosse stato recepito in sloveno quando nel
nome proto-romanzo era ancora pronunciato il nesso ct [kt].
La ricezione del prestito si collocherebbe temporalmente
dopo che si era compiuta la completa palatalizzazione del
p.sl. *kt > *ḱť (> ć) davanti a vocale anteriore e dopo il
passaggio *a > *o (33), in un’epoca in cui si erano formati
nuovi nessi ht [xt] prodotti da processi morfo-fonologici:
es. p.sl. *nȍgъta > nohta “unghia” gen. (rePAnŠek 2016,
p. 222). Repanšek ricostruisce una forma protoromanza
*Áktimu ma non propone un’etimologia (34). L’ipotesi
dello studioso sloveno andrebbe verificata sul versante
romanzo dell’evoluzione fonetica del toponimo, poiché il
nesso ct in latino era pronunciato con la fricativa palatale
[çt] o velare [xt] (lAusberg 1976, I, pp. 321-322), ma si
è poi semplificato in [t] in friulano. Non è possibile dire
fino a quando sia durata in Friuli la pronuncia fricativa di
questo nesso, non c’è documentazione in merito, ma verosimilmente non si sarà protratta oltre il X secolo.
Se l’ipotesi di Merkù e Repanšek è corretta, per
Attimis / Attens / Ahten va ricercato un etimo che contenga
il nesso consonantico ct. un proficuo scambio di idee con
il prof. Guido Borghi dell’università di Genova, che qui
si ringrazia vivamente, ha portato a formulare un’ipotesi
etimologica diversa da quelle precedentemente proposte.
Per Borghi il nostro toponimo potrebbe risalire al fitonimo
celtico *actinos, ricostruibile sulla base dell’antico irlandese aittenn m. “ginestrone, ginestra spinosa”, cimrico
eithin “id.”, antico cornico eythinen “ramnus”, antico
bretone ethin “rusco”, derivato da una radice indeuropea
*ak̂- “punta, pungente” con prototonia (Vendryes 1959,
p. 57; cAmPAnile 1974, p. 45; delAmArre 2003, p. 31).
5. nomi tedeschi di cAstelli
Come precedentemente detto, un buon numero di
neoconiazioni in tedesco riguarda i nomi dei castelli in
Friuli, che sono stati oggetto di studi specifici da parte di
Joseph von zahn (zAhn 1879; zAhn 1883) e Giovanni
Frau (Pellegrini, frAu 1969, pp. 269-282; frAu 1981), e
a questi studi si farà qui costante riferimento. Le famiglie
nobiliari provenienti d’oltralpe, infeudate nella nostra
regione, nel costruire il loro castello o il loro palazzo,
quando non adattarono un nome preesistente alla lingua
tedesca (v. § 3), attribuirono alla nuova sede un nome
tedesco, in alcuni casi passato poi a designare il paese
sorto nei suoi pressi (frAu 1981, p. 74; frAu 2015, pp.
80-81) (35). In tutti i paesi tedescofoni sono sorti fin
dall’alto medioevo nomi di castelli e fortilizi per la maggior parte composti da due elementi, dei quali il secondo
è più frequentemente rappresentato da -berg, -burg, -eck/,
-egg, -fels, -stein, -au(e) (36).
31 Sul nesso ht [xt] nella fonetica storica dello sloveno e dei suoi dialetti v. rAmoVŠ 1924, II, pp. 229-230; rePAnŠek 2016, p. 222. Sull’integrazione di elementi latini con nesso -ct- nelle lingue slave meridionali v. holzer 2007, pp. 111-112.
32 merkù 2001, pp. 703-704; merkù 2006, p. 37, s.v. Áhten; l’opinione di Merkù è stata ripresa anche da Marko Snoj (ESSzI, p. 43, s.v. Áhten).
33 Entrambi i mutamenti si erano verificati entro il IX secolo (rAmoVŠ 1924, II, pp. 229-230, 254-255; greenberg 2000, pp. 64-65, 74;
Šekli 2014, p. 275).
34 La ricostruzione di Repanšek prevede una bilabiale m poi passata a n per processi morfo-fonologici (rePAnŠek 2016, pp. 222, n. 749), ma
come si è detto sopra le attestazioni più antiche presentano già una n, che deve ritenersi etimologica.
35 Sul processo di incastellamento del Friuli e le sue caratteristiche v. schmidinger 1954, pp. 35-37, 112-113; settiA 1983, pp. 224-225,
229-235, 240-241; cAmmArosAno 1988, pp. 129, 148-149; Piuzzi 2001; frAncescutto 2012; grönwAld 2014, pp. 277-282.
36 «die Namen der d[eutschen] Burgen werden zu fast 4/5 mit den GW [Grundwörtern] -burg = -berg, -stein, -fels, -eck gebildet, die von
Wasserburgen vielfach mit -au» (bAch 1954, p. 229).
55
Nomi in -berg
Il termine m.a.t. bërc / përc m. “collina, montagna”
(ted. mod. Berg) è in relazione di apofonia (Ablaut) con
il m.a.t. burc f. che originariamente indicava un’“altura
fortificata” e poi un “castello” (ted. mod. Burg) (lexer,
I, pp. 184-185, 390; kluge 2002, pp. 110-111, 163). La
semantica, che nel caso di Berg ha condotto al significato
specifico di “insediamento fortificato su una collina o su
un monte”, ha prodotto precocemente uno scambio tra
i due termini. Questo spiega la frequente alternanza di
-berg e -burg nella toponomastica tedesca (es. Siegburg:
a. 1065 Sigeburch, a. 1068 Siberch). Gli insediamenti
potevano essere denominati con -berg anche se sorti da
un castello Burg (es. Nürnberg, Bamberg); al contrario -burg ha talvolta sostituito un originario -berg (es.
Dillenburg: a. 1255 Dillenberg, a. 1341 Diellinberg, a.
1495 de Dillemburch) (37). Berg o Bergen dat. pl. possono
presentarsi anche da soli come nomi di insediamenti. In
Friuli sembrano essere documentati per lo più toponimi in
-berc / -berg, mentre -burc / -burg compare solo nel nome
tedesco di Castelnovo (v. sopra); questa è la tipologia di
toponimi tedeschi più frequente (bAch 1953, pp. 393-394;
Pellegrini, frAu 1969, pp. 270-271; desinAn 2002, pp.
122-123). Nelle attestazioni dei toponimi friulani si nota
spesso la fortizione austro-bavarese b > p e la desonorizzazione delle ostruenti finali -g > -c(h) (v. § 2).
Ahrensperg, i ruderi di questo castello si trovano presso Biacis, in comune di Pulfero (miotti, III,
pp. 33-37; minguzzi 2015): a. 1149 Hermannus de
Ariperch (de rubeis 1740: col. 570), a. 1251 quod
castrum Arensperch debeat pertineri D. Patriarche, a.
1274 expugnavit novum castrum apud Arensperch, a.
1292 Comorettus de Arisperch, a. 1297 Hermannus q. D.
Gamoretti de Arensperch (di PrAmPero, p. 10). Secondo
Frau il nome è composto dal m.a.t. are, arn “aquila”, ted.
mod. Aar (Pellegrini, frAu 1969, pp. 271-272; lexer, I,
p. 96; kluge 2002, p. 2). Si può confrontare con le forme
antiche di Adelsberg, nome tedesco di Postumia / Postojna
37
56
Fig. 7. Castello di Gronunbergo, da Von zAhn 1883.
in Slovenia: a. 1226 Arnsberg, a. 1250 de Harnsperg, a.
1251 castra Arensperch et Wipach, a. 1261 Wipach et
Arnesperch, a. 1265 Arisperch (SHT 2, p. 363).
Gronumbergo, a nord-est di Cividale, su una balza
del monte di Purgessimo (fig. 7) (miotti, III, pp. 263272): sec. XIII subter Gronumberg, a. 1308 Gronumbergo,
a. 1317 Castrum de Gronumbergo, a. 1388 Castris [...]
Grunumbergi (zAhn 1879, p. 333; Pellegrini, frAu
1969, pp. 272-273). dal m.a.t. grüene “verde”, ted. mod.
grün (lexer, I, p. 1097; kluge 2002, p. 2) e si riferisce al
terreno verdeggiante strappato alla foresta con il disboscamento: cfr. Grünberg in Stiria (zAhn 1893, p. 240; a. 1164
Grunenberch, a. 1197 Gruninberc, a. 1307 Gruenenberch),
Grünberg presso Gießen e Grünberg in Slesia (niemeyer
2012, pp. 228-229; a. 1186 castrum Gruninberc, a. 1302
Grunemberg) nonché il castello di Grünburg in Carinzia
(krAnzmAyer 1956-58, II, p. 94). Il primo elemento è
unito al secondo tramite la desinenza genitivale -en- della
flessione debole, che in seguito si è ridotta o è caduta del
tutto (niemeyer 2012, p. 228), mentre in Gronumbergo
rimane conservata (cfr. Solimbergo).
bAch 1953, pp. 393-396; bAch 1954, p. 229; kluge 2002, pp. 110-111, 163; niemeyer 2012, pp. 57, 103.
Grossembergo sorgeva sul Monte Cumieli, tra
Gemona e ospedaletto (miotti, I, pp. 292-294): a. 1222
colles de Glemona et de Grozumberch, a. 1252 castrum de
Grossumberch, a. 1297 de Grossemberch (zAhn 1879, pp.
331, 397; Pellegrini, frAu 1969, pp. 272-273). dal m.a.t.
grôз “grande”, ted. mod. groß (lexer, I, pp. 1093-1094;
kluge 2002, pp. 376-377) che in toponomastica è usato a
volte in contrapposizione a klein “piccolo”, oppure può aver
sostituito il più antico termine m.a.t. michel “grande” (bAch
1953, pp. 428, 439; niemeyer 2012, pp. 223-224).
Harperch, denominazione tedesca del castello di
Manzano, i cui ruderi si trovano su una collinetta a nordest dell’abitato (colussA, tomAdin 2000): a. 1251 quod
Castrum de Harperch apud Manzanum noviter edificatum
per D. Comitem, penitus destruatur et statim, a. 1274 ut
ponatur in potestate sua Castrum Carsperch cum pertinentiis suis, 1277 in Castro Haresperch nihil remanserat,
a. 1277 in castro Harperch nil remanserat nisi stipula una,
in qua quedam antique mulieres reconderant sua, a. 1277
super facto Castri Asperch (di PrAmPero, p. 76). Secondo
Frau il toponimo deriverebbe dal m.a.t. hare “altura”
citando il Bach (Pellegrini, frAu 1969, p. 273), non
accorgendosi però che l’autore tedesco menziona il medio
basso tedesco hare (bAch 1953, pp. 196, 258), usato quindi nella Germania settentrionale e non nell’area austrobavarese. Nei lessici del medio alto tedesco tale accezione
è infatti sconosciuta, mentre il m.a.t. har(e) her(e) significa “pungente, tagliente, appuntito (di piante)” o “amaro,
aspro” (lexer, I, p. 1183). Secondo un’altra spiegazione il
toponimo deriverebbe dal ted. Haar “capelli, peli” e sarebbe una traduzione del nome friulano del colle Mont/Cueste
Pelose, ital. Monte Peloso, dove ‘peloso’ va inteso come
ricoperto di alberi o cespugli (beltrAme, Peruzzi, Puntin
2001, pp. 106, 175). un’altra ipotesi potrebbe essere quella di una derivazione dal m.a.t. hart, dat. harde “bosco”
o “brughiera, terreno non coltivato” (lexer, I, p. 1189),
come per il castello di Hartberg in Stiria (niemeyer 2012,
p. 246; a. 1141 Hartbergum, a. 1147 de Hartberc, a. 1286
Hartberg) e da confrontare con il castello di Hardegg in
Carinzia, qui con il formante -eck/-egg (krAnzmAyer
1956-58, II, p. 99; a. 1134 Hardeche).
Haumberc, nome tedesco del castello di Buttrio
(zAhn 1879, p. 333; zAhn 1883, pp. 45-46): a. 1219
Jacobus de Houmberch (zAhn 1879, p. 398), a. 1362 de
Havnbergo, a. 1363 in castro Haumberch (zAhn 1877, pp.
167, 220). Secondo Frau proverrebbe dal m.a.t. hou “area
di foresta disboscata”, ted. mod. Hau (lexer, I, 1346;
Pellegrini, frAu 1969, p. 274), e dunque corrisponderebbe al tipo toponimico Hauberg, Hauberge (bAch 1953, p.
375; niemeyer 2012, p. 228, s.v. -grün).
Mocumbergo, castello che sorgeva presso Villanova
S. Antonio, in comune di Fossalta di Portogruaro (miotti,
IV, pp. 192-193): a. 1213 Mucimbergo, a. 1291 loci
Mucumberch, sec. XIII Mocumberg (frAu 1969, pp.
31-32); a. 1291 partem castri de Muchumberch (zAhn
1879, p. 397); a. 1310 domini Asquini de Muchimberch
(cAmeli 2017, p. 295); ante 1554 Mochumberg (joPPi
1878, p. 220). Non è il nome tedesco di Varmo, né si tratta
di un Münchenberg “castello dei monaci” (così in zAhn
1879, pp. 328, 396; zAhn 1883, p. 48), ma secondo Frau
deriverebbe piuttosto da un m.a.t. mocke “cumulo di terra”
(Pellegrini, frAu 1969, p. 274), che però nei repertori del medio alto tedesco ha un altro significato (“Sau,
zuchtsau”, lexer, I, p. 2193) (38).
Sattimbergo, sorgeva presso Venzone, a sud del torrente Venzonassa (miotti, I, pp. 239, 242-246): a. 1190
Esendrico de Satimberc, a 1214 Satimberg, a. 1247 D.
Clizojo de Satemberch, a. 1265 in Castro de Sazenberch,
a. 1285 tradidit castra de Venzono scilicet Sazimberch
(Pellegrini, frAu 1969, p. 275). Forse dal m.a.t. schate(we)
“ombra”, ted. mod. Schatten (lexer, II, pp. 671, 672; kluge
2002, p. 796), riscontrabile in composizioni toponimiche
per indicare località in ombra, in contrapposizione ai luoghi
esposti al sole (zAhn 1879, p. 331; Pellegrini, frAu 1969,
p. 275; cfr. Schattenhalb e Sonnenhalb in bAch 1953, p.
301; cfr. Schattenhof, Schattental in krAnzmAyer 1956-58,
38
Nei dialetti alemannici della Svizzera mocke indica una “piccola area con terreno grumoso o ceppi d’albero” <https://search.ortsnamen.
ch/de/record/6009179>.
57
II, p. 197). Ma forse il toponimo deriva dal m.a.t. satel, ted.
mod. Sattel “sella” (lexer, II, p. 612; kluge 2002, p. 788),
a indicare un qualche avvallamento nel terreno (Pellegrini,
frAu 1969, p. 275; cfr. bAch 1953, p. 419).
Soffumbergo, frl. Sofumbèrc (fig. 8), in comune di
Faedis (miotti, III, pp. 418-429): a. 1184 de Sorfenber, a.
1202 de Scorfenberch, a. 1212 de Sorfuberc, a. 1219 apud
Soumberch, a. 1234 de Sarphenberch - de Sorfemberch,
a. 1247 Sorphenberch, a. 1249 apud Schorphenberch
(Pellegrini, frAu 1969, p. 275; härtel 1985, p. 104;
mAffei 2006, p. 17), a. 1292 Scleso de Sorfumberch, a.
1293 habitatore castri de Sorfumberch, a. 1293 dominus
Ulricus de Sorfumberch [...] Artronum de Sorfumberch
(PAni 2009, pp. 279, 289, 340-341) (39). da un tipo
Fig. 8. Indicazioni stradali a Valle di Soffumbergo.
Fig. 9. Indicazioni stradali a Solimbergo.
39
Fig. 10. Castello di Solimbergo da Von zAhn 1883.
Attestazioni del toponimo nei testi medievali in volgare (friulano o tosco-veneto): a. 1340 dedi adì iij de çugno a Çuvanin de Prestento
per uno runcino ch’elo alà a Sofumbercho per fare rendire li pegni che li avea tolti sula comugna iiij dnr (VicArio 2006, p. 501); a. 1382 Item yo
dey per comendament delg pervededòs ad i una guida <g> chi menà gli soldadi a Sofunbe[r]go dn. vj gli qualg soldadi si furin mandadi al det
Sofunbergo per dubit di ser Fidrì di Savorgnan chu iara vignut a Cucagna cun lx ii cavalg e si dè alg deç soldadi piloç lxxx per comendament delg
deç parve[de]dòs [...] Item yo dey a Cuanin lu Lunc pervededòr dn. iiij c-el dis c-el avè dat ala garda del tor di Sofinberc per labea alada Suma
acesta faça m. xxxij dn. [...] yo dey a Nichulùs di Cararia per lu nauli di ij cavalg dn. xx di fin a Sofunberc c-el fo mandat inbasador (VicArio 2007,
pp. 102-103); a. 1422 Çuan di Sofunberç mamul dè avere ll. xxxj e non altro adì [...] fito dela chasa e in prisinça Çuan Novo e Çuan di Sofunbergo
(VicArio 2002-05, III, pp. 119, 121); a. 1440 Vendey adì xxv di may sorgo star jº per sol. xviij a Iachum del Barbe di Sofumberç s. sol. xviij [...]
Vendey adì xij di novembry melg star v per sol xxxvj lu star a [C]liment di Sofumberç s. ll. di sol. viiij (VicArio 2006-08, III, p. 19).
58
Scharfenberg (zAhn 1879, p. 332; Pellegrini, frAu 1969,
p. 275), composto con l’aggettivo m.a.t. schar(p)f, ted. mod.
scharf “appuntito, aguzzo, acuto” (lexer, II, p. 666; kluge
2002, p. 795), da confrontare con il castello di Scharfenberg
a donzdorf nel Baden-Württemberg (a. 1194 Scharfinberg;
bAch 1953, p. 259; cfr. bAch 1954, p. 234; krAnzmAyer
1956-58, II, 167, 196). La sibilante iniziale era originariamente postalveolare [∫] (come nel tedesco moderno scharf),
ma nella forma romanza del toponimo la pronuncia è poi
slittata verso l’alveolare [s].
Solimbergo, frl. Solombèrc (figg. 9-10), castello e
frazione in comune di Sequals (miotti, IV, pp. 375-379):
a. 1149 de Soneberch (härtel 1985, p. 88), a. 1196
Soemberg, a. 1202 de Sconbemberg, a. 1219 Sonumbergum
- Sonembergum - Senemberch, a. 1234 de Sconenberch, a.
1288 de Schoenumberch (Pellegrini, frAu 1969, pp. 275276); a. 1274 Dietrico de Suonumberch [...] Leonardus de
Svonumberch [...] Dietricus de Svonumberch [...] Leonardus
filius quondam domini Hermanni de Suonumberch (PAni
2009, pp. 95, 99, 100, 101, 110, 111); nei testi in volgare:
a. 1422 spendi adì viiijor per iiijor cavalli per ambaxadori
mandadi a Udene per lo garito de Solimbergo (VicArio
2000-01, p. 517); ante 1554 Solunbergh (joPPi 1878, p.
220). Corrisponde al tipo toponimico alquanto frequente
Schön(en)berg (zAhn 1879, p. 333), dal m.a.t. schœn(e),
ted. mod. schön (lexer, II, 768; kluge 2002, p. 824), forse
non nel significato di “bello”, quanto di “lucente, bianco”
(zAhn 1883, pp. 52-53; zAhn 1893, p. 428; krAnzmAyer
1956-58, II, p. 201). Schönberg avrebbe indicato in origine un monte (e il castello che vi sorgeva) illuminato per
primo al mattino e dal quale per ultimo scompare la luce
(bAch 1953, p. 271). Ma secondo un’altra interpretazione
tale tipo toponimico sarebbe sorto dall’espressione m.a.t.
(ze/bī deme) schœnen berge “presso/vicino al monte
‘bello’ = ben utilizzabile” (niemeyer 2012, p. 567). I vari
toponimi Schönberg delle aree germanofone risalgono al
composto m.a.t. *Schœnenberg(e), ma in essi si è verificata già in epoca medievale la sincope della sillaba atona
mediana -en-, che era la desinenza genitivale della declinazione debole; ciò ha condotto alla forma Schœnberc /
Schönberg (niemeyer 2012, p. 567), mentre il toponimo
Solimbergo / Solombèrc è stato precocemente recepito
dalla parlata romanza locale che ha mantenuto la sillaba
mediana originaria (cfr. Gronumbergo). Nell’etnonimo
friulano solombergàn (mArcAto, Puntin 2008, p. 122) si
Fig. 11. Cartelli stradali a Spilimbergo.
Fig. 12. Castello di Spilimbergo, da Von zAhn 1883.
59
vede la pronuncia sonora di g che nel toponimo Solombèrc
è assordita in posizione finale.
Spilimbergo, frl. Spilimbèrc o Spilinbèrc (figg. 11-12)
(miotti, IV, pp. 384-401): a 1120 Spengenberch, a. 1174
de Spengenbergo, a. 1220 Spengenberch, a. 1227 von
Spengenberc, a. 1244 de Spinebergo [...] in platea burgi
de Spineberg, a. 1244 de Speninbercto, a. 1251 Maignardi
de Spingnenberc [...] Otto Bergongna de Spingnenberc, a.
1251 de Spingnemberch, a. 1252 de Spinemberch, a. 1255
Bregonia de Spegimberch, a. 1262 de Spegnimberch,
a. 1266 Spignimbergum, a. 1268 de Spegnembergum,
a. 1274 Walterobertoldo de Spengembergo, a. 1291 de
Spegnimberch, a. 1292 Sibelli de Spegnimberch (zAhn
1879, p. 333; Pellegrini, frAu 1969, p. 276; bortolAmi
1997, p. 120; begotti 1999, pp. 13-20, 121-124; mAffei
2006, p. 70; PAni 2009, pp. 95, 103, 107, 127, 161, 221);
in un vocabolario veneto-tedesco del 1424: Spilimbergo
Spamberck (rossebAstiAno bArt 1983, II, p. 524). Frau
trova confusa la tradizione documentaria del toponimo
ritenendo che siano coesistite forme in Spengen- e forme
in Spilim-, perciò suppone che si siano incrociati due
distinti nomi con differenti etimologie (Pellegrini, frAu
1969, p. 276). un’analisi allargata a un numero maggiore
di attestazioni – che qui non riportiamo per ragioni di
spazio – (40) mostra però che le occorrenze più antiche
presentano costantemente una consonante nasale (scritta
variamente ‹ng› ‹gn› ‹n› ‹ngn›) nel primo elemento del
toponimo (41). Se questa nasale è interpretabile come
palatale [ɲ] (sorta tra vocali palatali) secondo gli usi grafici dell’epoca, allora è plausibile pensare a una dissimi-
lazione [ɲ-m] > [ʎ-m] (con laterale palatale al posto della
nasale palatale per effetto della nasale m seguente) e successiva depalatalizzazione [ʎ] > [l] (42) che si riflette nelle
scritture con ‹gl› ‹l›, più frequenti a partire dal XVI sec.:
a. 1333 Albertucius quondam Francisci de Spelimbergo
[...] Pregonie et Bartholomei fratrum de Spelimbergo
(scAlon 1982, p. 420); a. 1333 Nicolao filio Mathiussii
de Speglembergo [...] Bregoniam et Bertholameum fratres
de Speglembergo [...] Bregonie et Bertholamei fratrum
de Speglembergo [...] ser Thomaxii, quondam Bellamici
notarii de Speglembergo (VAlentinelli 1865, pp. 42,
43), a. 1340 Martino Scapino de Spilimbergo notario
(moro 1991, p. 192), a. 1345 omnibus istis habitantibus in Spilimbergo (bortolAmi 1997, p. 240), a. 1352
Henricus de Spilimbergo, a. 1365 de Spilimbergo, a.
1390 ex Spilimbergo, a. 1399 Venceslaus de Spilimbergo
(VAlentinelli 1865, pp. 55, 81, 106, 114). A questo
punto l’etimo potrà essere ricondotto a un lessema con
nasale, del tipo del m.a.t. spengel “tipo di falco” (lexer,
II, p. 1079) secondo una delle tre ipotesi formulate da
Frau (Pellegrini, frAu 1969, p. 276; frAu 1978, p. 112;
begotti 1999, pp. 18-20; desinAn 2002, p. 122).
Stagnimbecco, loc. Stagnimbèc, a est di Frattina in
comune di Pramaggiore: a. 1327 Francisci de Staggmberch,
a. 1333 Vulvinus de Steimberch, a. 1478 in Stagnabecho, a.
1480 Stagnimbech (Pellegrini, frAu 1969, p. 276), a. 1568
Stagnimbecco (VAlVAson di mAniAgo, p. 136), a. 1680
Stagimbecho (cAstellArin 1995, p. 131). Rappresenta il
tipo Steinberg (cfr. zAhn 1893, pp. 443-444) ed è quindi
composto con m.a.t. stein “pietra” (Pellegrini, frAu
40 Si rinvia alla ricca raccolta in begotti 1999, pp. 121-124. Ci limitiamo a riportare qui alcune attestazioni del toponimo tratte da testi medievali in volgare friulano o tosco-veneto: a. 1350 spendey per lb. xiij d-olio ch-io fes vignir di Spigninberg per uno d-Avasines per la guera dn. lxij;
a. 1392 per nauli di ij chavalli suli quali chavalchà pre Durlì chon j chonpagn a Spegninberch per far vignì pre Rubert s. xx (VicArio 2007-13, I,
p. 57; III, p. 187); a. 1393 un baiarz puest sot Vinzons apreso Iacum Micòs e lis viis publichis paiant lu dì di sante Marie de marzo per man di Durì
di Spignimberch, a. 1402 Instrument fat per man di mestri Durì di Spignimberch sovre la rason del-aghe che ven menade over tolete per la roie che
ven ala Siegha (VicArio 2006-08, II, pp- 40, 46); a. 1414 glay mitut in roson selis iiij di teran chu gly die marchuz quant chi jo jaro a spigunberch
(corgnAli 1965-67, p. 138); a. 1440 io manday a Denel e a Cristoful del Minutin di Spiglinberç s. sol. xlij [...] Spendey adì vij di março sol. xliij
per ij cedulis chi io manday a Cristoful e a Denel del Minutin a Spiglinberç per lu seont tiarmit (VicArio 2006-08, III, pp. 34, 38).
41 Non fa fede l’attestazione del 1204 de Spilimbergo riportata in di PrAmPero (p. 186) e in Pellegrini, frAu 1969 (p. 276) che è tratta da
una copia tarda (cfr. begotti 1999, p. 14).
42 Sulla dissimilazione fonetica in Spilimbergo e Solimbergo v. begotti 1999, pp. 19-20.
60
1969, p. 276; mArcAto 1995, p. 117; cfr. krAnzmAyer
1956-58, II, p. 213) con evoluzione simile a quella del
secondo elemento di Partistagno e Ravistagno (v. sotto).
Si noti qui la precoce caduta di r.
Stahremberg sorgeva alle falde del monte San
Simeone, di fronte a Venzone (miotti, I, pp. 239-242):
a. 1335 de duobus Castris, videlicet Storchernberch et
Hasenstain (de rubeis 1740, col. 850); per Frau la denominazione tedesca rappresenta un calco (con il m.a.t.
starc, ted. mod. stark “forte”, lexer, II, p. 1142; kluge
2002, p. 877) sul nome romanzo del castello Mon(t)fort
(Pellegrini, frAu 1969, pp. 276-277): a. 1285 vendit
castra de Venzono, scilicet Sazimberch et Monfort cum
villa et foro de Venzono; a. 1286 Castra de Venzono,
de Sattimberch et Monfort (di PrAmPero, p. 172). In
Germania è noto Starkenburg come traduzione del francese Montfort (rettig 1973, pp. 32 segg.) e lo stesso
rapporto tra ted. Starkenberg e fr. Montfort si ritrova nel
nome del castello crociato costruito dall’ordine Teutonico
nel 1228 in Siria (oggi Israele). In Tirolo c’è poi il castello
Starkenberg in rovina (oggi Alt Starkenberg) e Starkenberg
è il nome di un picco in Stiria (zAhn 1893, p. 438; a. 1434
Starkchenperig, a. 1480 Starkenperg).
Fig. 13. Cartello stradale a Prampero.
Prampero e Gusper(g)o - Uruspergo
Il castello di Pràmpero, frl. Pràmpar (figg. 13-14),
sorge ancor oggi nel comune di Magnano in Riviera
(miotti, I, pp. 213-220): a. 1107 Gotscal de Prantperc
(jAksch 1904, p. 220) (43), a. 1161 de Pramberch, a.
1250 de Prambergo, a. 1252 de Prampergo, a. 1258 de
Pramperch, a. 1259 de Prambergo, a. 1263 de Pramberg,
ecc. (di PrAmPero, pp. 144-145). Il toponimo compare
anche nei testi volgari medievali (friulani e tosco-veneti):
a. 1350-51 Velmo nevot di ser Adurlig di Pramper lo qual
fo sepelido agli frari [...] per la sepultura dela mogler di
sar Indrig di Pramper; a. 1363 Reçevey di ser Nicolao di
Pranper et di tuta la brigada di cavalaria chi donarin ala
camera adì xx agosto; a. 1366 Lenart di Guriçiç ch-el alà
ad Udin in sirvisi di ser Miculau di Pranper per ij dies; a.
1378-79 per lo so ficto chi lasà dona Agnolla muglir di ser
Simon di Pramper; a. 1382 chi lasà ser Artich di Pramper
per j fit passat; a. 1383 io manday a Pranper per lo masar
chi lasà lo Çinulin et per scoder altri ficti; a. 1396-97
Fig. 14. Castello di Prampero da Von zAhn 1883.
43
ro,
Va corretta in Prantperc l’attestazione del 1107 riportata in de rubeis (1740, col. 612: Prantpero) e poi ripresa in altre opere (di PrAmPep. 144; Pellegrini, frAu 1969, p. 274; desinAn 1973, p. 17; frAu 1978, p. 96, ecc.).
61
per lu legat di dona Agnula muglir chu fo di sar Simon
chavalir di Pramper (VicArio 2007-13, I, pp. 65, 140;
II, pp. 148, 244-245; III, p. 403; IV, pp. 64, 155). Come
aveva già spiegato lo zahn il nostro toponimo è composto
da -berg e dal m.a.t. brant “incendio”, ted. mod. Brand
(lexer, I, pp. 340-341; kluge 2002, p. 146), a indicare
un monte spogliato o dissodato tramite il fuoco (44). Come
si può ricavare dalle attestazioni nei testi in volgare, la
consonante velare finale (-ch, -g) nella pronuncia popolare
era già caduta nel XIV secolo, ma si è conservata più a
lungo nelle opere storiografiche o corografiche, pur con
molte oscillazioni: a. 1567 Prampergo [...] Prampero (di
PorciA 1567, pp. 26, 32, 53, 70); a. 1568 Prampergo [...]
Prampero [...] Pramparo (VAlVAson di mAniAgo 1568,
pp. 45, 46, 144).
Uruspergo o Guspergo (Guspero), in frl. Gùspar
(loc. Gùsper) (fig. 15), le sue rovine sono situate su un
costone del Monte dei Buoi, sopra Sanguarzo in comune di
Cividale del Friuli (zAhn 1879, pp. 332-333; miotti, III,
Fig. 15. Castello di Guspergo da Von zAhn 1883
pp. 449-455): a. 1219 Henricus de Villalta obligat Villaltam
et Uruspergum (biAnchi 1861, p. 22), a. 1267 Gebhardum
q.m D. Gebhardi de Wrusperch [...] de Castro de Wrusperch
(biAnchi 1847, p. 174), a. 1294 Conrado de Welsperch,
a. 1294 Francisco filio Conradi de Wrumspergo, a. 1294
Francisco filio Conradi de Wrumspergo [...] Iltigrinus
filius condam domini Weçelonis de Wrumsperch, a. 1295
Conrado de Welsperch Civitate morantibus testibus, a.
1297 Conrado de Werisperch (mAffei 2006, pp. 287, 291,
292, 294, 300, 330), a. 1297 Wurusperch (di PrAmPero,
p. 209), a. 1299 castrum Urinsperch (biAnchi 1861, p.
246), XIV sec. obsidione castri de Wrisperch [...] castrum
de Wrunsperch (tAmbArA 1905, pp. 38-39), a. 1309 Ser
Iohanni de Wrusperch (leicht 1917, p. 45), a. 1318 de
feudo quod in Uruspergo dictus d. Johannes habebat
(biAnchi 1864-69 [1866], p. 453), a. 1337 sub Uruspergo
(di PrAmPero, p. 209), a. 1337 apud Urusperch (brozzi
1981, p. 225), a. 1364 in Wruspergo [...] ad castelaticum
dicti Vruspergi, a. 1364 castrum Wruspergi [...] nos socii
de Wruspergo [...] in supradicto castro de Wruspergo, a.
1364 Franciscus de Vrauspergo castellanus [...] oppidum
regale et inexpugnabile Vrauspergum, a. 1366 castrum
ecclesie quod uocatur Vramsperch [...] in eodem castro
Vramsperch false monete cudebantur (zAhn 1877, pp.
224, 238, 240, 241, 328). Nei testi medievali in volgare:
a. 1340 Item in quelo die dedi a Ferico Sclisulino Chandit
a Urusperc iiij dnr. [...] dedi adì vij de çugno a Otobono
che dè a Duminicho ch’elo alà a Urusperc per li armenti
ch’eli tolse iiij dnr [...] dedi adì viiij de çugno al chastaldo
e a Nichuluso che alarin al Patriarcha per la questione de
queli de Urusperc xl dnr (VicArio 2006, pp. 499, 501); a.
1358 ti mando mostrando sopra a qul de Wspergo chi e
stado in la villa de Vilalta (joPPi 1878, p. 329). Il toponimo
è stato spiegato già dallo zAhn (1879, pp. 332-333) come
composto col m.a.t. ûr(e) “uro”, appartenente a una razza
selvatica estinta di bovini, di statura notevole, da cui sono
derivati i bovini domestici attuali, ted. mod. Auer(ochse)
44 zAhn 1879, p. 332; Pellegrini, frAu 1969, p. 274; desinAn 1985, pp. 43, 49; cfr. anche bAch 1953, pp. 387-388. Secondo desinan il
toponimo potrebbe anche essere un composto con la parola di origine germanica brando “spada” e avere una motivazione araldica (desinAn 1973,
pp. 17-18; desinAn 1985, p. 43; desinAn 2002, p. 123).
62
(lexer, II, p. 1999; kluge 2002, p. 71) (45). Secondo Frau
potrebbe essere la traduzione del nome del monte sul quale
è sorto il castello, cioè il Monte dei Buoi, frl. la Mont dai
Bûs (Pellegrini, frAu 1969, pp. 270, 273; ma si veda al
riguardo Perco, Puntin 1998, p. 290). Il nome trova confronti nella toponomastica tedesca (szAlAy 1915-19, pp.
36-80; bAch 1953, pp. 183, 203, 319; niemeyer 2012, pp.
42, 43) e nella vicina Slovenia con il castello di Auersperg,
slov. Turjak (fig. 16), nella Bassa Carniola: a. 1162 de
Vrsberch, a. 1177 de Ursberg, 1214-20 de Vrsperg, a. 1220
in castro nostro apud Owersperch, a. 1230 de Uresperch,
a. 1232 ab Aversperg, a. 1234 de Owersperch, a. 1237 de
Owersperc, a. 1239 Voresperch, a. 1241 de Awersperch,
a. 1248 de Aursperc, a. 1249 de Owersperch, a. 1250 von
Auersperg, a. 1252 de Awersperg, ecc. (SHT 1, pp. 15861587). Il confronto con il nome del castello sloveno ci
permette di evidenziare il diverso sviluppo fonetico nei
due nomi. In Auersperg si è verificata la dittongazione di
û > ou > au (v. § 2) con epentesi di e (cfr. m.a.t. sûr > ted.
mod. sauer “acido”), ma in Uruspergo il dittongo appare
solo in due attestazioni (Vrauspergum, Vramsperch dove la
m andrà emendata in w) mentre nel resto della documentazione compare la u (scritta ‹u› ‹w› ‹wu›) e ciò potrebbe
dipendere da una diversa posizione dell’accento.
A questo riguardo va chiarita l’evoluzione fonetica
che ha portato al nome popolare friulano della località
Gùspar, frl. loc. Gùsper (NP, p. 1760; costAntini 1999,
pp. 148, 172) (46), che trova confronto con la forma italiana Guspergo o Casali Guspergo nelle pubblicazioni e
nella cartografia del XIX e XX secolo. una forma frl. più
antica doveva essere Grùsperc, che poi si è semplificata
in quella attuale con dissimilazione di [r-r] e caduta della
velare finale [k] a semplificare la coda policonsonantica
nella sillaba atona finale. una tale forma Grùsperc è presupposta dalle attestazioni in fonti del XV e XVI secolo:
Fig. 16. Castello di Auersperg-Turjak da Valvasor 1689.
XV sec. in villa S. Georgii de Grusperch (biAsutti 1979,
p. 19); a. 1567 San Guarzo, ove sul monte era il Castello
di Grusbergo della famiglia nobilissima di Villalta, e
Chiauriaco, rovinato giá 200 anni dalla Communità di
Cividale: appaiono ancora i vestigi (di PorciA 1567, p.
62); a. 1568 Gruspergo, appellato nelle croniche castello
regale (VAlVAson di mAniAgo 1568, p. 59).
Per spiegare la presenza di una g- velare iniziale in
queste varianti è possibile ipotizzare che la pronuncia del
toponimo presentasse una [v] iniziale già in età medievale
per effetto di prostesi o di consonantizzazione di u- iniziale, come potrebbero lasciar pensare le attestazioni di
tipo Wrusperch (cfr. zAhn 1883, p. 39). Com’è noto, nelle
scritture fino al XVII secolo (ma anche oltre) i grafemi
v e u non venivano distinti, ma erano semplici varianti
grafiche di una stessa lettera. Nei testi medievali queste
varianti all’inizio dei nomi possono essere state trascritte come ‹U› (invece di ‹V›) dai curatori delle edizioni a
stampa – in questo l’uso dei medio-latinisti (soprattutto
nell’ottocento e nel primo Novecento) è oscillante – (47),
45
Questa etimologia va però perfezionata aggiungendo che il toponimo è composto con la forma genitivale ûres del sostantivo (cfr. szAlAy
1915-19, pp. 36, 38).
46 La forma frl. Uruspèrc o -bèrc (NP, p. 1797) dalle grafie con ‹U›, ma non è quella di tradizione popolare.
47 tognetti 1973, pp. 279-280; tognetti 1982, pp. 15-16, 19. Nelle parole o nomi di origine germanica la uu viene trascritta ‹w› o ‹vu›
nell’edizione di documenti medio-latini (tognetti 1973, p. 277; tognetti 1982, p. 16).
63
interpretando il grafema dell’originale come una vocale
[u] e non come una consonante labiodentale [v]; cfr. il
nome di Friesach in Carinzia, pronunciato [vr-] nel medioevo: a. 1136 Uriesach, a. 1187 Urisach, a. 1136 Vriesach,
a. 1184 iuxta Vrisacum (jAksch 1896, pp. 112, 113, 247,
254). Se dunque la ‹U› iniziale nelle attestazioni edite del
nostro toponimo fosse stata in realtà una consonante [v]
si spiegherebbe meglio la successiva evoluzione fonetica:
la fortizione [v] > [g] di Grùsperg(o), cioè il passaggio
da una consonante fricativa labiovelare a una occlusiva
velare, indotta anche dalla presenza della vocale tonica
velare u. I mutamenti successivi (Grùsperc > Gùsperc >
Gùsper), spiegati sopra, sono sviluppi regolari della fonetica friulana.
Questioni di accento
Il ruolo dell’accentazione nello sviluppo fonetico
dei toponimi tedeschi in Friuli non era stato mai trattato
negli studi precedenti. Negli esiti popolari dei toponimi
Pràmpero - Pràmpar e Gùsper(g)o - Gùspar / Gùsper
si riscontra prototonia, cioè l’accento cade sul primo
elemento del composto, diversamente dagli altri toponimi friulani derivati da -berg in cui l’accento cade sul
secondo elemento del composto (ossitonia): Spilimbèrc,
Solombèrc ecc.
Nella toponomastica tedesca si possono osservare
entrambe le accentazioni e la fissazione dell’accento
primario sul primo o sul secondo elemento del composto
dipende da fattori cronologici, geografici, socio-culturali
e ritmico-intonativi, nonché dal tipo e lunghezza dei lessemi costitutivi (bAch 1953, pp. 46-54). In Alta Austria i
toponimi in -berg portano solitamente l’accento primario
sul primo elemento, ma in altre aree tedescofone – soprattutto a livello dialettale – l’accento può cadere sul secondo
elemento (bAch 1953, p. 50). L’accentazione di uno dei
due elementi ha spesso portato a un indebolimento e a una
riduzione fonica dell’altro elemento del composto (bAch
1953, pp. 45, 47).
Inizialmente i tipi Spilimbèrc (*Spéngelbèrc),
Solombèrc (*Schœ́nenbèrc) ecc. possono aver avuto un
64
accento primario sul primo elemento e un accento secondario sul secondo elemento, con successivo scambio del
grado di prominenza avvenuto già in tedesco (cfr. bAch
1953, p. 45), oppure quando i toponimi sono stati recepiti
dalla lingua romanza locale e adattati alla sua fonologia e
prosodia: in questo caso l’accento cade sull’ultima sillaba
se è chiusa. Nel caso di Pràmpar (*Brántperc) e Gùspar
(*Vrúsperc) l’accento primario è rimasto sul primo elemento, probabilmente a causa del minor numero di sillabe
rispetto al tipo Spilimbèrc, Solombèrc.
Nomi in -stein
Meno numerosi sono i nomi di castelli friulani composti con il m.a.t. -stein (lexer, II, p. 1161) come secondo
elemento (Pellegrini, frAu 1969, pp. 277-278; desinAn
2002, pp. 280-281). Esso corrisponde al ted. mod. Stein
“pietra” (kluge 2002, pp. 880-881) e nei toponimi si
riferiva alla presenza di rocce naturali, ma già anticamente
denominava anche il solido edificio in pietra, e in tale
accezione ha dato origine a nomi di insediamenti; i nomi
di castelli in -stein divennero più frequenti col secolo XI
(bAch 1953, p. 395; niemeyer 2012, p. 608). Nei toponimi friulani si nota il passaggio del dittongo m.a.t. ei alla
pronuncia [ai] dell’a.t.pm (v. § 2) e la palatalizzazione
della -n finale per effetto della i semivocale precedente.
Hasenstein a Venzone, castello sorto forse sul luogo
del distrutto Sattimbergo (zAhn 1879, pp. 330-331;
zAhn 1883, pp. 20-21; miotti, I, p. 257), è noto solo
da una attestazione: a. 1335 de duobus Castris, videlicet Storchernberch et Hasenstain (de rubeis 1740, col.
850). Per Frau potrebbe essere composto dal m.a.t. has(e)
“lepre” (lexer, I, p. 1192; kluge 2002, p. 397), con varie
corrispondenze Hasenberg sia in Austria che in Germania
(Pellegrini, frAu 1969, p. 277).
Partistagno, frl. Partistàin, Partistàgn, castello situato fra Attimis e Racchiuso (fig. 17) (miotti, III, pp. 331338); a. 1170 de Castro de Pertesteijne, a. 1180 Marquardi
de Perthenstain, a. 1188 Herbordus de Pertenstein, a.
1190 ca. Herboto de Perchtenstaine, a. 1197 Pertenstein,
a. 1293 Pertenstayn (Pellegrini, frAu 1969, p. 277), a.
Fig. 17. Castello di Partistagno da Von zAhn 1883.
Fig. 18. Castello di Ravistagno da Von zAhn 1883.
1310 apud Pertestang (tAmbArA 1905, p. 47). Nei testi
medievali in friulano: a. 1408 Niculau chi fo di Pertistan
çiner chi fo Çuan Siliboy di porta di Cusignà; a. 1429
lu det Denel dè dar marcha ÷ per imprest in sent Blas
per dar a ser Indrì di Pertistang et sol. vij et sol. iij ÷
(VicArio 2002-05, II, p. 155; III, p. 165); a. 1430 Talot
chu fo di Lovaria paga di fito per un ben ch-el ten in la
decta vila di Versa glu qualg bens forin lasaç per dona
Biatrìs di Pertistang (VicArio 2003, p. 169); a. 1436 si
è determenat chu-l chemerar e ser Antoni nodar si debin
alà a Partistan lasù di ser Indrì e de so domlan (VicArio
200, p. 266). Per il primo elemento del toponimo Frau
aveva pensato – sulla scorta di zahn – a un esito della
radice a.a.t. berht “brillante”, col significato quindi di
“rocca splendida” (Pellegrini, frAu 1969, p. 277), ma
potrebbe anche trattarsi dell’antico antroponimo tedesco
Perchtger che – unito al m.a.t. gadem, gaden “casa composta da una stanza” – ha dato origine a Berchtesgaden in
Baviera (a. 1100-15 Berthercatmen, a. 1106 uillam scilicet
Berchtersgadmen, a. 1121 Perchtgeresgadem, XII sec.
Perthersgadem, Perhthersgadem, Berhtersgadem, a. 1266
Berchtesgadem; niemeyer 2012, p. 57).
Ravistagno, frl. Ravistàin, Ravistàgn, a Montenars
(fig. 18) (miotti, I, pp. 221-225); a. 1211 Wolframmus de
Rammenstein, a. 1258 Ravysteyn, a. 1259 de Revestagno,
a. 1287 Ravestein, a. 1325 in Rabistano (Pellegrini, frAu
1969, pp. 277-278; tonello 2004, p. 139); in un testo
friulano del XVI sec.: ante 1554 Ravistayn (joPPi 1878, p.
220). In testi d’età moderna: a. 1567 Rivistagno Castello
Rovinato, sotto cui é Montanars (di PorciA 1567, p. 53); a.
1568 Questi Prampari furno primi castellani del Friuli creati cittadini nobili di Udine [...] et posseggono al presente il
girone di Montenaro, appellato nelle croniche Rivistagno,
che stava sopr’Artegna, rovinato già molti anni sono [...]
(VAlVAson di mAniAgo 1568, p. 144); a. 1635 Rivistagno
castello rovinato, a. 1729 Castello di Rivistagno già derocato, a. 1729 Essendo il Castello rouinato di Riuistagno
situato nella Villa di Montenars (tonello 2004, p. 139).
Sulla scorta di zahn, Frau fa derivare il toponimo da un
composto di -stein con il m.a.t. rabe “corvo” (Pellegrini,
frAu 1969, pp. 277-278), dove Rabenstein è toponimo
noto anche in Austria ed aveva il significato di “luogo del
supplizio” (zAhn 1893, pp. 371-372; bAch 1953, p. 381;
krAnzmAyer 1956-58, II, p. 170).
Nomi in -eck/-egg e in -au(e)
Il formante toponimico -eck/-egg risale al m.a.t. ecke,
egge (ted. mod. Ecke f., Eck n.) “punta, spigolo, roccia
65
sporgente (sopra un fiume)” (lexer, I, p. 507; kluge
2002, p. 227) ed è stato impiegato fin dall’alto medioevo
nella denominazione di numerosi castelli, ma talvolta
anche di insediamenti, situati fino al limite tra collina e
montagna (niemeyer 2012, p. 145). Apparentemente non
si conoscono tali formazioni nel Friuli vero e proprio, ma
alcuni esempi si trovano nella vicina valle del Vipacco e
sul Carso sloveno (Pellegrini, frAu 1969, pp. 278-279):
Gutenech, slov. Gotnik (a. 1258 castrum quod vocatur
Gotenych, a. 1261 de Guteneke, a. 1265 de Guotenech;
SHT 2, pp. 118-120) dal m.a.t. guot “buono, eccellente”,
ted. mod. gut (lexer, I, p. 1121); Schwarzenegg, slov.
Švarcenek (a. 1249 Swarczneck, a. 1274 de Suarçenech, a.
1275 de Suarcenech, 1276 de Swarzenek; SHT 2, pp. 494497) dal m.a.t. swarz “nero, scuro”, ted. mod. schwarz
(lexer, II, p. 1343).
Il formante toponimico -au(e) proviene dal m.a.t.
ouwe “terreno circondato dall’acqua, isola, terreno ricco
d’acqua, zona umida” (lexer, II, p. 192), ted. mod.
Au, Aue “pianura erbosa lungo un fiume, isola fluviale”
(kluge 2002, p. 70) e ha prodotto numerosi microtoponimi e nomi di insediamento, ma anche nomi di castelli
che sorgono su corsi o specchi d’acqua (bAch 1953, p.
276; niemeyer 2012, p. 42). In Friuli risale sicuramente
a questa base Strassoldo, frl. Strassólt (fig. 19), con i
suoi due castelli sorti su isole fluviali tra il fiume Taglio
(l’antico Imburino) e la roggia Natoc (miotti, II, pp.
312-319): a. 1184 de Straso, a. 1195 de Straso, a. 120708 de Strassouve, a. 1208 de Strasso, a. 1222 Mahtildis
de Strazzowe, a. 1227 de Strassou, a. 1227 duo aque
erant infra Strasov et Muscli, a. 1240 Matil de Strasso, a.
1249 de Strasoldo, a. 1275 de Strasolt, ecc. (Pellegrini,
frAu 1969, p. 280; mAffei 2006, pp. 25, 40; mArcAto
2020, pp. 242-243). Nei testi medievali in volgare friulano o tosco-veneto: a. 1361 lu fat di chel chu s(er)
Bernart di Strasolt lu volè cho(m)p(er)à (VicArio 1998,
p. 52), a. 1384 di Flurido sartor per dona Margareta di
Strasot sore une so casa, a. 1385 sore une chasa la qual
è di la moglì di ser Ancilot di Strasot (VicArio 1999,
p. 104, 120), a. 1404 ser Filip chi fo di Strasolt habitant in borgo d-Aquilegia (VicArio 2002-05, p. 119).
Nella prima parte del toponimo è riconoscibile il m.a.t.
strâзe, ted. mod. Straße “strada” (lexer, II, p. 1226; il
grafema ‹з› in m.a.t. rende la sibilante [s]; kluge 2002,
p. 890), con riferimento all’antica strada che conduceva ad Aquileia (48), mentre per la seconda parte Frau
incomprensibilmente preferisce una derivazione dal
m.a.t. hou “area di foresta disboscata”, “parte dissodata
di un bosco” (Pellegrini, frAu 1969, p. 280), già visto
in Haumberc. Foneticamente un’evoluzione da hou è
Fig. 19. Indicazioni stradali a Strassoldo.
48 Si tratta dell’antico tracciato che conduceva ad Aquileia e che ha lasciato tracce nella toponomastica friulana, come la Strada Dolea di Sevegliano (a. 1629 in loco dicto la via d’Aquileia apud stratam altam) che risale all’antico nome friulano di Aquileia (Aulee, Olee) con agglutinazione
della preposizione d’Olee > Dolee (mArcAto, Puntin 2000, p. 145; mArcAto 2020, pp. 11, 242-244, 254). Probabilmente al castello e ai nobili di
Strassoldo era affidata la difesa e la manutenzione della strada, nonché la protezione dei viaggiatori; si confronti il nome del castello di Straßburg
in Carinzia, eretto tra il 1132 e il 1147 per il controllo della strada del vescovo di Gurk (krAnzmAyer 1956-58, II, 215; a. 1147 apud Strazburch, a.
1162 aput Strazpurch, jAksch 1896, pp. 139, 180). da confrontare naturalmente anche con Strasburgo in Alsazia (ted. Straßburg, fr. Strasbourg; a.
400 ca. civitas Argentoratensium id est Strateburgum, a. 589 ad Argentoratensem urbem quam nunc Strateburgum vocant, a. 842 Strazburg, ecc.),
il cui nome si riferisce alla strada militare proveniente dalla Gallia interna (niemeyer 2012, p. 615).
66
certamente possibile, ma le condizioni idrogeologiche
locali portano necessariamente a preferire l’etimo ouwe.
I toponimi tedeschi in -au hanno di regola l’accento sul
primo elemento (es. Grónau, Nássau, Pétersau, ecc.),
ma il Bach segnala che in Alta Austria e in Carinzia
questi nomi possono essere accentati su -au (es. Grünáu,
Thürnáu, ecc.) (bAch 1953, p. 50). La pronuncia ossitona è quella presupposta anche da Strassoldo / Strassólt
dove la terminazione -óu, con epitesi di -t, si è poi evoluta in -óld/-ólt in friulano (cfr. lat. audit > *óud > frl. olt,
lat. gaudet > *g’óud > frl. gjolt). Probabilmente anche
il nome di Valvasone, frl. Volesón, è un composto con
m.a.t. hou oppure ouwe, in questo caso unito a wolves,
gen. di wolf “lupo” (Lexer, III, p. 968; kluge 2002, p.
995): a. 1188-90 de Wolveshowe (JAksch 1904, p. 507),
a. 1206 de Wolfeshou (JAksch 1906, I, p. 28).
Con i nomi di questi castelli si conclude questa rassegna – necessariamente cursoria e incompleta – delle
principali caratteristiche linguistiche della toponomastica
tedesca medievale in Friuli.
67
68
il nucleo originale
della tradizione documentaria
del castello di attimis
seBastiano BlanCato
69
Sebastiano Blancato
s.blancato@yahoo.it
70
1. il quAdro d’insieme
obiettivo del presente contributo, dichiarato nel
titolo, è la descrizione e l’edizione di un esiguo, ma
importante, insieme documentario – poco più una decina di scritture del XII secolo, parte su supporto membranaceo, ma con un grappolo di documenti in copie
cartacee molto tarde – conservato interamente nel fondo
Pergamene ex-Capitolari dell’Archivio Storico presso
il Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli.
Proprio per la loro importanza intrinseca, o anche solo per
l’appetibilità dell’altezza cronologica, questi documenti
sono già stati oggetto di varie, parziali, pubblicazioni in
un passato più o meno remoto (1): proprio per tale motivo
si è considerata necessaria una nuova edizione critica, che
mettesse insieme tutti questi documenti e li pubblicasse in
considerazione delle nuove convenzioni ecdotiche e alla
luce di più recenti acquisizioni di vari studi storiografici.
Fin da quando, nel 1740, lo storico friulano Bernardo
Maria de Rubeis, nella sua grande opera sulla Chiesa aquileiese, fra i numerosissimi altri monumenta pubblicò anche
alcuni atti attestanti la duplice donazione del castello di
Attimis (2), avvenuta nel primo e nel settimo decennio del
secolo XII, questi documenti hanno attirato l’attenzione di
quanti, biografi e genealogisti, si sono occupati di scrivere
la storia dei nobili d’Attems (soprattutto del ramo udinese
e austriaco) (3).
Questa serie di storici, nessuno escluso, non poterono
fare a meno di rivangare le tradizioni, più o meno leggendarie, delle due grandi casate degli Attems del Friuli e
d’Austria, dette anche – dagli emblemi dei loro stemmi –
rispettivamente dell’orso e del Tridente, e che avrebbero
tratto forse comune origine da un tale «Atto o sia Attone
figlio di Alberto pronipote di Berengario re d’Italia» il
quale avrebbe «fabbricato il castello di Attems che Attone
dal suo nome chiamollo» (4). Così facendo, tuttavia, contravvennero, almeno parzialmente, allo spirito moderatamente illuminato (se non già illuminista) del primo ispiratore del loro lavoro: tutte queste opere, infatti, si rifanno,
in modo più o meno esplicito, alle Memorie manoscritte,
e ancora inedite, che il conte Sigismondo d’Attems (5),
sino al 1754, raccolse sopra notizie tirate da fondamenti
1 Ho cercato, per quanto possibile, di tener conto di tutte le edizioni, delle quali sono venuto a conoscenza e che sono, nell’ordine cronologico, le seguenti: de rubeis 1740; cAmici 1760; murAtori 1776; kAndler 1862; schumi 1882/83; leicht 1897; jAksch 1904; APPelt 1985;
Plechl 2002. Tali pubblicazioni – abbastanza datate, come si può vedere (a parte le due edizioni dei documenti federiciani) – sono state di volta in
volta indicate nella tabula traditionis che segue il regesto e precede l’edizione di ogni singolo documento pubblicato infra.
2 Per notizie relative al frate predicatore e grande storico friulano Bernardo Maria de Rubeis (Cividale del Friuli, 1687 - Venezia, 1775) si
rimanda alle due voci biografiche curate rispettivamente da Preto 1991 e VolPAto 2009. I documenti in oggetto furono pubblicati nei Monumenta
Ecclesiae Aquileiensis, all’interno del paragrafo in cui lo storico trattava «de ulrico marchione Tusciae, deque Castello Attempsii» (de rubeis
1740, coll. 603-616).
3 Senza alcuna pretesa di esaustività, si citano le opere ritenute più significative: guelmi 1783; richter 1824; Attems 1892; ilwof 1897;
Attems 1907 e, per la parte più propriamente genealogica, ehrenkrook 1962.
4 Così ne scriveva, ancora alla fine del XVIII secolo, Girolamo Guelmi che è tuttora considerato lo storico ufficiale della casa d’Attems
(guelmi 1783, p. 7). La medesima notizia è ripresa anche dagli studiosi austriaci: richter 1824, p. 145; ilwof 1897, p. 2.
5
Fratello maggiore del primo vescovo di Gorizia, Carlo Michele d’Attems (Gorizia, 1711 - 1774), il conte Sigismondo (Gorizia, 17081758) strinse rapporti di amicizia con Scipione Maffei e intrattenne una corrispondenza epistolare con Ludovico Antonio Muratori. Fu autore di
parecchie opere di belle lettere e di storia patria, soprattutto sulla storia del proprio casato, tutte rimaste inedite (cfr. mArtinA 2009).
71
autentici di diplomi, d’investiture, di patti dotali, di privilegi, di testamenti, d’iscrizzioni di lapide sepolcrali e
d’altri autentici documenti e scritture estratti dagli archivij
(...) avendo procurato di nulla inserirvi, che non si possa
comprovare con iscritture e carte alla mano (6).
E lo stesso Sigismondo, nel suo proposito di attenersi
ai fondamenti autentici, pur non rinunciando alle presunte
ascendenze della sua casata dai conti di Monfort, non poté
non indicare, come primi antenati documentalmente provati, «Corrado e Matilde, iugali d’Attems, nominati nelle
carte 1102 e 1106» (7).
Anche proprio grazie alla serie di documenti, dei
quali si propone qui una nuova edizione, la storiografia
contemporanea è riuscita a ricostruire un quadro della
situazione che nel corso degli ultimi anni è andato sem-
6
pre più precisandosi (8) e che riesporrò qui di seguito per
sommi capi. Il nome di Corrado si trova menzionato per
la prima volta proprio agli inizi del XII secolo, il 24 febbraio 1101, quando troviamo ugo e Azela, figlio e madre
di nazione bavara, che assieme alla moglie longobarda
di ugo, Luisa, promettono di non molestare Corrado,
loro amico, nel possesso dei beni in Flambro che gli
hanno appena donato (infra, doc. 1). L’anno 1102, il 3
ottobre, presente il patriarca ulrico I di Eppenstein (9), i
coniugi Corrado, avvocato (della Chiesa d’Aquileia), e
Matilde, compravano alcuni beni nella contea del Friuli,
in Istria e in Carniola (infra, doc. 2). Infine, a questa
stessa coppia risulta associato per la prima volta il nome
(e la proprietà) del castello che «iacet ad locum qui dicitur Atens et est muro circumdatum»: questo castello di
Attimis (10) veniva donato con tutte le sue pertinenze il 3
Attems 1754, pp. 5-6. Ringrazio vivamente Paolo Iancis che, avendo per motivi di ricerca a lungo frequentato l’Archivio Privato della
Famiglia Attems di Lucinico, mi ha reso disponibili i facsimili di questo prezioso manoscritto.
7 Ivi, p. 17.
8 Più che alla narrazione della formazione del feudo di Attimis trattata da Pio Paschini ancora agli inizi del secolo scorso (PAschini 1914,
pp. 135-139), mi riferisco anche a quanto scritto da Tito Miotti nelle pagina introduttiva alla descrizione del castello di Attimis (miotti 1979, p.
54), ma soprattutto alla puntuale ricostruzione dei fatti operata da Friedrich Hausmann, nel suo contributo agli Atti del Convegno internazionale di
studio sul Friuli dagli Ottoni agli Hohenstaufen, tenutosi a udine nel dicembre 1983 (hAussmAnn 1984, pp. 559-564); infine, un’efficace sintesi si
trova in buorA 2018, pp. 304-307.
9 Qualche perplessità suscita la “sottoscrizione” «Ego Wodolricus patriarcha a deo electo interfuit» non tanto per la serie di errori grammaticali e di concordanza (fatto abbastanza comune, come si dirà, in tali carte), quanto per il significato da attribuire alla presenza del patriarca in
quel documento (non in qualità di autore giuridico ma, forse, di altissimo testimone di Corrado, il neonominato avvocato della chiesa di Aquileia) e
ancor di più per la formula stessa di espressione dell’autorità patriarcale. Sappiamo che ulrico di Eppenstein fu nominato patriarca da Enrico IV nel
1086 e forse ricevette il pallio dall’antipapa Clemente III: in ogni caso tutto il suo patriarcato (morì nel 1121) coincise con il periodo della cosiddetta
lotta per le investiture (cfr. härtel 2006).
10 Distingueremo qui, come è ormai prassi, la denominazione geografica del paese di Attimis, poco meno di 15 km a NE di Udine, dal predicato nobiliare della famiglia d’Attems, ma è evidente e ben noto come nel corso del tempo (e fino dalle origini) questo nome abbia presentato molte
varianti. Scriveva infatti già Sigismondo d’Attems: «due sono, siccome è notorio, le Famiglie nel Friuli che portano il nome d’Attimis o Attymis
o Attens o Attems o Attemps o Attembs che è sempre lo stesso nome, benché varii in qualche lettera. Nelle più antiche carte il più delle volte si
ritrovano chiamate col nome di Attens, d’Attems, di Attembs o Attemps sino verso il fine del 13° secolo sì nelle investiture e altri instromenti, come
anche ne’ parlamenti della Patria, dal qual tempo in poi si osserva che questo nome cominciò ad alterarsi e in vece d’Attems chiamarsi volgarmente
Attimis, come pure al giorno d’oggi vengono in Friuli communemente chiamate» (Attems 1754, p. 8).
11 «Actum apud ecclesias, quę vocantur Tres Basilicę» (cfr. infra, doc. 3). Se, come credo, in questo toponimo va individuato l’attuale comune di Trebaseleghe (provincia di Padova, ma diocesi di Treviso), questa risulterebbe la prima attestazione della località. Finora infatti il più antico
documento è stato considerato la bolla di Eugenio III (1152 maggio 3) con la quale il pontefice confermava al presule di Treviso un amplissimo
elenco di beni, ivi inclusa «plebem de Tribus Basilicis cum castro et villa et pertinentiis suis» (ughelli 1720, col. 622). Difficile resta comunque
capire il motivo per il quale il prelato di Salisburgo si trovasse in quella località veneta in presenza di una nutrita serie di personaggi friulani.
72
novembre 1106, in località Trebaseleghe (11) dall’antiarcivescovo di Salisburgo, Bertoldo (12), figlio del defunto
Burcardo di Moosburg, alla nipote Matilde e al marito di
lei, Corrado, (infra, doc. 3). Questi era figlio del conte
udascalco di Lurngau e aveva ricevuto l’avvocazia di
Aquileia in seguito alla morte del precedente titolare, il
suocero Burcardo di Moosburg (fratello dell’antiarcivescovo) (13). Parecchi anni dopo, il 13 febbraio 1130 (14),
Acica, vedova di Burcardo e madre di Matilde, donava ai
due coniugi quanto le apparteneva nel regno d’Italia, in
Baviera, in Carinzia, nell’Austria Interiore e nella contea
del Friuli (infra, doc. 4). A distanza di una decina d’anni,
il 29 gennaio 1141 (15), anche Matilde era già vedova e
con un atto di vendita (presumibilmente fittizia) cedeva a
Pietro, sacerdote, tutti i suoi beni riservandosene tuttavia
l’usufrutto e – clausola ancora più significativa – a patto
che, alla sua morte, la proprietà venisse restituita ai suoi
figli (infra, doc. 5) (16). Corrado era morto probabilmente
già da qualche qualche anno, poiché nel frattempo il predicato nobiliare legato al predio di Attimis si trova associato, almeno dal 1136, a un’altra persona – Wodalricus
de Attemis – menzionato quale testimone all’atto di fondazione del monastero di Sittich/Stična, in un documento
che non fa parte del corpus cividalese (17). da questo, e da
una serie di altri documenti tirolesi, si riesce a stabilire che
udalrico era nipote di Emma di Friesach, moglie del conte
Volfrado di Treffen, ovvero i genitori di ulrico di Treffen,
futuro patriarca di Aquileia (18), del quale udalrico era
dunque parente. Nel 1139, quest’ultimo fu nominato
marchese di Toscana da Corrado III, almeno fino al 1152,
quando l’imperatore Federico I concesse tale carica allo
zio materno Guelfo VI (19). Non volendo rinunciare così
Quell’anno 1106 fu l’ultimo della travagliata carriera del prelato. Bertoldo era figlio del conte Burcardo di Moosburg († dopo il 1060). Fu
nominato per la prima volta nel 1085 da Enrico IV antiarcivescovo di Salisburgo, perché al Sinodo di Quedlinburg il legittimo prelato, Gebeardo,
aveva acconsentito al bando dell’imperatore. Bertoldo devastò le proprietà del margravio Engelberto di Spanheim, che era avvocato dell’arcidiocesi
di Salisburgo, e dell’Abbazia di Admont. Tuttavia, Engelberto riuscì a prendere possesso della città di Salisburgo, mentre Bertoldo dovette ritirarsi
nella fortezza di Hohensalzburg. Quando Bavaresi e Svevi, comandati dal duca Guelfo, nel 1086 insorsero contro l’imperatore, Bertoldo dovette
fuggire e l’arcivescovo Gebeardo poté tornare a Salisburgo. dopo la morte di quest’ultimo nel 1088, Bertoldo riprese possesso della cattedra salisburghese fino al 1090. In quell’anno fu eletto vescovo Timo che ricevette il pallio da papa Urbano II. Nel 1097 Bertoldo vinse la battaglia presso
Saaldorf che costrinse Timo alla fuga e Bertoldo poté nuovamente insediarsi a Salisburgo. Nel 1106, infine, l’arcivescovo Corrado usò la forza
militare per espellerlo. Morì probabilmente nell’anno 1115 (widmAnn 1907, pp. 216-224; doPsch 1981, pp. 247-274, passim).
13 Cfr. hAussmAnn 1984, pp. 559-560.
14 La datazione del documento è abbastanza problematica: di fatti le due edizioni sinora esistenti presentano due diverse date (a. 1130 in de
rubeis 1740, col. 611; a. 1107 in jAksch 1904, nr. 541). Si è scelta la datazione più “bassa” per i motivi esposti più avanti, nel paragrafo seguente.
15 Nonostante le due edizioni di questo documento rechino una datazione più alta (datano al 1112 sia de rubeis 1740, coll. 613, sia jAksch
1904, nr. 548), anche in questo caso si è optato per una datazione più “bassa”, con motivazioni simili a quanto scritto da Attems 1892, p. 28 ed
esposte qui infra, nel paragrafo seguente.
16 Aggiunge Friedrich Hausmann «Si fa strada perciò il sospetto, anzi la certezza, che non si avesse alcuna intenzione di fare una vera e
propria vendita e che la vedova cercasse di mettere al sicuro la sua proprietà – non si parla mai di un bene proveniente dal consorte Corrado – per i
suoi figli allora piccoli» (hAussmAnn f. 1984, p. 561).
17 Il documento fu edito da schumi 1882/83, nr. 79. Nel necrologio d’Aquileia, in data 21 febbraio senza indicazione dell’anno, è ricordato
che «Conradus advocatus obiit, qui iii mansos fratribus dedit» (scAlon 1982, p. 144 e nota 28); e ancora in data 6 marzo, sempre senza anno, «Conradus advocatus obiit, qui dedit fratribus iii mansos in Nimes» (ivi, p. 158); egli è infine menzionato, nuovamente al 21 di febbraio, fra i Nomina
defunctorum: «Nono Kal Martii, Conradus advocatus obiit, qui iii mansos in Nimes dedit» (ivi, p. 396 e nota 28).
18 Cfr. hAussmAnn 1984, p. 562. Per notizie su Ulrico di Treffen, patriarca d’Aquileia dal 1161 fino alla morte (2 aprile 1182) si rimanda
alla voce biografica curata da brunettin g. 2006.
19 Attems 1892, p. 32. Guelfo era fratello di Giuditta di Baviera, madre di Federico.
12
73
facilmente a quel titolo, udalrico continuò – come non era
infrequente in tali casi – a farsi appellare quondam marchio Tusciae, ed è proprio con questo nome che lo ritroviamo nel duomo di Aquileia, il 2 febbraio 1170, assieme
alla sua consorte, la marchesa diemot, in remissione dei
loro peccati donare alla Chiesa aquileiese – nel frattempo
governata dal cugino ulrico, divenuto patriarca già dal
1161 – un imponente elenco di beni, nella contea del Friuli
e in Carniola: il castello di Attimis con la villa ad esso
sottostante, il castello di Partistagno, le ville di Porzùs,
Subìt, Prossenicco, ogni loro avere a Bergogna/Breginj e
Longo/Logje, e ancora le ville di Cergneu e Chialminis,
l’allodio presso Nimis, la corte costituita presso Ariis, le
ville di Lasina e di Piedimonte/Podgora, Raccogliano/
Orehovlje, Vipulzano/Vipolže e Volzana/Volče; lo stesso giorno donarono alla Chiesa d’Aquileia anche i loro
dienstmanni o ministeriali, servitù, giurisdizioni e diritti
pertinenti (infra, doc. 6). Il 4 febbraio seguente, ad Ariis
di Rivignano, il marchese udalrico trasferì fisicamente il
possesso di questo podere (20) al patriarca (infra, doc. 7)
e due giorni dopo, nel castello di Attimis, il marchese e la
marchesa consegnarono le chiavi del castello nelle mani
del patriarca, e ne lo immisero nella tenuta facendolo
passare per turrim et portam del castello stesso; contestualmente i ministeriali giurarono fedeltà al loro nuovo
signore (infra, doc. 8). I ministeriali menzionati nel documento erano Enrico e Arpo d’Attems e, poiché il secondo
non ebbe eredi, la casata d’Attems riconosce proprio in
Enrico il suo diretto progenitore (21).
Questa serie di tre atti, cronologicamente contigui
e strettamente connessi fra loro, è certo importante per i
fatti attestati; i documenti ci sono tuttavia pervenuti solo
in copie tarde (XVIII-XIX secolo), tratte a loro volta da
20
una copia autenticata degli inizi del XIII secolo: per questo motivo bisogna affrontarne l’edizione con ogni dovuta
cautela (per più motivi – non ultimo di natura onomastica,
considerato l’altissimo numero delle persone menzionate – che proverò a trattare nel paragrafo successivo).
Però una cosa risulta chiaramente, ossia che il feudo di
Attimis non apparteneva all’asse ereditario dell’ex marchese, bensì della moglie, diemot, che per tale motivo
si può ragionevolmente ritenere figlia di Corrado e di
Matilde (22). Peraltro è lo stesso documento – a una lettura meno affrettata – a rivelare, nella rinuncia a eventuali
diritti dotali da parte della marchesa, la linea femminile
di quell’asse ereditario. E poiché qui si attesta non solo la
rinuncia a ogni diritto sui beni donati da parte della moglie
diemot, ma anche delle figlie e del nipote del marchese
(dei quali non viene indicato il nome), lo stesso documento lascia intendere l’assenza di eredi maschi diretti
di udalrico. La scrittura, infine, dà testimonianza della
violenza con cui questi sarebbe entrato in possesso di quei
beni che ora restituiva agli stessi ministeriali, ai quali li
aveva sottratti: e tanto permette di dare un fondamento di
veridicità agli episodi di occupazione violenta narrati per
l’anno 1165 da alcuni storici del lontano passato, come il
Palladio (23).
Si diceva anche della dovizia di persone menzionate
in questa serie documentaria: solo nel primo dei tre documenti, oltre 25 ministeriali individualmente nominati, più
gli altri 19 nomi di ministeriali che giurarono fedeltà al
patriarca, e ben 21 testimoni, tutti notabili del clero e della
nobiltà, fra i quali lo stesso conte Volfrado di Treffen, il
padre del patriarca. Tanto più fa specie, quindi, l’assenza
di un personaggio, legato al predio di Attimis, che pure si
trova citato in altre fonti dell’epoca. Già dall’anno prece-
Il testo parla di «curia de Hage», che Pio Paschini individuò in Ariis di Rivignano (PAschini 1913, p. 208): non si trattava evidentemente
ancora di un castello, «la cui presenza documentata parte dal 1267» (miotti 1978, p. 47), ma probabilmente di un grande podere organizzato attorno
a una corte padronale.
21 Enrico, morto nel 1193, è indicato come “Stammvater” degli Attems in un importante studio genealogico di famiglie comitali: cfr. ehrenkrook 1962, p. 22.
22 L’ipotesi – lanciata, con un buon ragionamento deduttivo, la prima volta da richter 1824, p. 148 – è stata più recentemente asserita senza
alcun margine di dubbio da hAussmAnn 1984, p. 562.
23 Parlando dei fatti del 1165, scriveva l’antico storiografo: «In questo tempo Volrico Marchese della Toscana haueua occupato molti castelli,
e luoghi in questa provincia, e nell’Istria, per violenza, e fra gli altri il Castello o Marchesato d’Attems» (PAllAdio 1660, p. 180).
74
dente i fatti appena esposti, fra i testimoni intervenuti a
un atto tenutosi in Aquileia il 15 giugno 1169, un Corrado
d’Attems si trova citato, com’era prassi in questi casi per
questioni di rango, poco dopo il marchese udalrico (24).
Quest’ultimo nell’ottobre del 1171 era già morto (25).
Nell’anno 1173, invece, si trova nuovamente menzione
di Corrado (26); ma molto più calzanti, ai fini del presente
contributo, sono le notizie che di lui si hanno per l’anno
1177. Quell’anno, infatti, il 25 di luglio, si apriva ufficialmente a Venezia la trattativa di pace fra l’imperatore
Federico I e papa Alessandro III, con una messa tenuta in
San Marco, alla quale era presente il patriarca di Aquileia
(anche a titolo di più che qualificato “traduttore” per l’imperatore) (27). Poi, quando a partire dal I di agosto iniziarono i veri e propri negoziati, fra le numerose delegazioni
che vennero a recare omaggio al Barbarossa, la nobiltà
friulana, con gran numero di persone giunse capeggiata da
Corrado d’Attems (28). Questi aveva particolare interesse
a presenziare poiché sappiamo che poco tempo prima
aveva ripetutamente presentato istanza all’imperatore
per motivi che non è dato sapere, ma che molto verosimilmente riguardavano una sua rivendicazione sui feudi
lasciati da udalrico alla Chiesa d’Aquileia. Infatti, a tal
proposito, Federico scrisse ben due lettere al patriarca –
fra le numerose altre che l’imperatore inviò al prelato in
quella lontana primavera-estate del 1177, prima dell’inizio
dei negoziati. Benché le carte cividalesi conservino solo
la seconda di queste due lettere, peraltro in una tardiva
copia manoscritta (di mano del canonico Michele della
Torre dall’edizione fattane dal de Rubeis) (29), si è deciso
24 Si tratta della conferma, da parte del patriarca ulrico e del conte di Gorizia, avvocato della Chiesa d’Aquileia, di una donazione disposta al
monastero d’Aquileia dal defunto Regenardo di Montona. All’atto presenziarono fra gli altri testimoni «Worlicus marchio de Attens (…) Conradus
de Attens» (joPPi V. 1885, nr. VI, p. 388, dalla pergamena conservata a udine; precedentemente anche in kAndler 1862, nr. [CXLIX], edito tuttavia
da una copia conservata a Cividale).
25 Il 28 ottobre 1171, ad Aquileia, il patriarca ulrico di Treffen, riassegnando la villa di Muzzana ai canonici di Aquileia, per l’atto della loro
immissione fisica nel possesso di quel feudo, demandata a un suo ministeriale, specificò «ita ut post obitum consanguinei nostri Volrici marchionis de
Attens, cui usum fructum eiusdem ville tantum in vita sua concesseramus, canonicos in possessionem ipsius ville inducat» (PAschini 1915, p. 56).
26 Si tratta di una vertenza – datata genericamente 1173, Aquileia – relativa alle decime di Isola, intervenuta fra il monastero di S. Maria
di Aquileia e un nobile istriano, composta dal patriarca ulrico alla presenza di testimoni, fra i quali «Conradus de Attens» (kAndler 1862, nr.
[CLII]).
27 Sappiamo, dalla cronaca di Romoaldo di Salerno, che al seguito del papa era anche il patriarca di Aquileia, al quale il pontefice chiese benignamente di tradurre in tedesco all’imperatore la sua omelia recitata in latino dal pulpito di San Marco: «Cumque dicto evangelio papa ascendisset
pulpitum, ut alloqueretur populum, imperator accedens propius, cepit verba eius attentius auscultare. Cuius devotionem papa diligenter attendens,
verba, que ipse litteratorie proferebat, fecit per patriarcham Aquileie in ligua Teotonica evidenter esponi» (romoAldi sAlernitAni Annales, p.
182).
28 Il numero delle persone che componevano questa delegazione muta notevolmente (da 16 a 200!) fra le varie fonti. La notizia fu riportata
inizialmente da Fortunato olmo che narrò la cronaca di tali fatti: «Henrico Conte di Praterno, & Conrado Marchese Athenes, et Artinico de Cauriaco, cum homeni in summa 136» (olmo 1629, p. 55 dell’Appendice documentaria) e pochi anni dopo, un po’ gonfiata, ma con i nomi in parte corretti,
anche dal Palladio «Si deputò poscia la Città di Venetia per l’abboccamento di quei potentati, onde colà fece ritorno il Pontefice. Poco dopo giunse
anche l’Imperatore col Patriarcha d’Aquileia, e molti altri Principi, e Prelati della Germania, d’Italia e, gran Numero di Nobiltà; ma particolarmente
più di due cento del Friuli, tra quali si annoverano de’ più insigni Corrado d’Attems, Artuico di Caporiaco e Federico di Portia» (PAllAdio 1660, p.
180). Il numero appare fortemente ridimensionato nella nuova edizione dei Regesta Imperii: «Markgraf Konrad von Attems sowie Graf (oder Capitaneus) Hartwig von Caporiaco (bzw. Chiavoriaco) mit 36 Mann» (Regesta Imperii IV.II-3, pp. 168-172: 171) e ancor di più nel recente contributo
di Maurizio Buora: «il marchese Corrado di Attems accompagnato dal conte (o capitano) Hartwig di Caporiacco (o Chiavoriano) con un seguito di
16 uomini.» (buorA 2018, p. 307).
29 Tale copia è da attribuire alla mano del conte Michele della Torre Valsassina (Cividale, 1757 - 1844), il canonico che, oltre a dirigere gli
scavi archeologici nella sua città, che furono la premessa per l’apertura del Museo di Cividale (che ora ospita anche l’Archivio), fu anche il raccoglitore, in 24 volumi, di tutte le Pergamene capitolari, ai quali antepose regesti di suo pugno (cfr. buorA 2011).
75
di riportarle entrambe in questa edizione (infra docc. 9 e
10).
Non sappiamo se, e come, il patriarca compose la
vertenza di Corrado, che probabilmente si vedeva leso nei
suoi diritti – sia feudali che allodiali – a seguito della donazione di udalrico (30): il titolo di marchese, a lui riservato
dopo la morte di udalrico, ha fatto ritenere che potesse
trattarsi di un suo parente diretto (figlio) o affine (cognato) (31). Ma se ritorniamo alle clausole della donazione
del 2 febbraio 1170, ricorderemo che questa fu legittimata
anche dalla rinuncia ai loro diritti da parte delle figlie e del
nipote del marchese. udalrico non aveva figli maschi, ai
quali lasciare i suoi titoli, aveva bensì un nipote: sappiamo
d’altronde che, quando nel 1166, udalrico già marchese di
Toscana restituì a ulrico, allora eletto di Aquileia, i cinque
villaggi di Tissano, Persereano, Santo Stefano udinese,
Magredis e Gris, egli chiese al prelato la contestuale
investitura alla figlia Lucarda, al consorte di lei Enrico di
Manzano e al loro figlio Corrado (32). Se questo omonimo
nipote, Corrado di Manzano, avesse voluto rivalersi del
titolo del nonno, sarebbe stata legittima, dal suo punto di
vista, l’istanza all’imperatore per vedere restaurati i suoi
diritti, benché il matrimonio di sua madre, Lucarda, con
Enrico di Manzano, avesse fatto retrocedere la figlia del
marchese, e quindi anche i suoi discendenti, al rango di
ministeriali (33). di Corrado si hanno notizie sicure fino
al 1186 (34), ma sappiamo che dopo di lui tenutari titolari
del castello di Attems, furono Enrico e Arpone, ovvero
quei vassalli, abitatori del castello di Attimis, passati
dall’obbligo di fedeltà alla casa marchionale, alla fedeltà
di ministeriali al nuovo signore, il patriarca.
Questa vicenda del castello di Attimis è stata assimilata dagli storici contemporanei a quella del castello
di Artegna che solo pochi anni prima, nel 1146, era
stato venduto da Bernardo di Spanheim e da sua moglie
Cunegonda al patriarca Pellegrino (35): entrambi questi
fatti, come è stato scritto, sono «importanti per il rilievo
dei luoghi e delle famiglie che li avevano controllati, e
perché indicano come le presenze delle maggiori dinastie
dell’area alpina orientale in Friuli tendessero a risolversi
non in un loro radicamento locale ma in successive devoluzioni al principe ecclesiastico» (36).
Nella sua prima lettera, Federico chiede al patriarca di comporre, in maniera amichevole, l’affare del suo fido Corrado d’Attems «tam de
feodo quam de proprio» (infra, doc. 9). Non è detto, certo, che si tratti proprio del castello di Attimis, ma sembra abbastanza verosimile una rivendicazione di diritti perduti a seguito della donazione di udalrico e diemot alla Chiesa d’Aquileia.
31 «Potrebbe trattarsi di un cognato di Vodalrico, fratello di sua moglie, ma in relazione alla possibile età non sarebbe neppure da escludere
che potesse essere suo figlio» (buorA 2018, p. 307).
32 «dominus ulricus de Attens q. Thusciae marchio de feudo, quod ab Aquilejensi ecclesia habuit (…) in manu d. ulrici Aquilegiensis
ecclesiae electi patriarchae refutavit et resignavit: et filiam suam Luicardam, et maritum eius Henricum de Manzano, eorumque filium Conradum
exinde investiri fecit» (de rubeis 1740, col. 691).
33 Così hAussmAnn 1984, p. 564 e, più recentemente, Mauro Bacci che cita proprio «il caso di Liutcarda, figlia del marchese Ulrico, che
sposando Enrico di Manzano vide sé e i suoi figli Corrado ed Enghelmanno trasferiti nella ministerialità del padre» (bAcci 2003, p. 107). Se nel
Corrado d’Attems si vuole identificare Corrado, figlio di Lucarda d’Attems e di Enrico di Manzano, egli era già presente anche fra i ministeriali
“donati” alla Chiesa d’Aquileia dal marchese Erico e dalla moglie diemot: «prefati iugales donavere prefato altari Aquileiensis ecclesie et prefato
Wdalrico Aquileiensi patriarche et apostolice sedis legato ministeriales suos dinismannos videlicet (...) Conradum de Manzano cum filiis et filiabus
suis, preter filiam eius Diemout; Engelmanum fratrem dicti Conradi»; lo stesso avrebbe giurato anche fedeltà al patriarca: «Nomina illorum qui
iuraverunt fidelitatem sunt hec: (...) Conradus de Menzai, Hengelmanus eius frater» (infra, doc. 6).
34 Un documento che dà notizia della fine di una lite, relativa alle decime del monte di Cormons, intervenuta fra l’abate del monastero della
Beligna e il conte Engelberto di Gorizia, risoltasi per la rinuncia di quest’ultimo – datato 1186 settembre 5, Aquileia – vede fra i testimoni presenti
«Conrado de Attems». (joPPi 1885, nr. VIII, p. 390).
35 Cfr PAschini 1975, p. 275; cAmmArosAno 1988, pp. 115-116. Per l’edizione dell’atto di vendita del castello di Artegna, con relativa
traduzione in italiano, cfr. blAncAto 2011, pp. 16-19.
36 cAmmArosAno 1988, p. 116.
30
76
Tutte queste nuove acquisizioni della chiesa d’Aquileia avrebbero ricevuto la loro attestazione ufficiale nel
diploma, emesso da Würzburg il 25 gennaio 1180, con cui
Federico I riconfermava al patriarca di Aquileia ulrico il
pieno possesso del ducato e contea del Friuli e della villa
di Lucinico, con tutte le regalie ad esso connessi, già concessi nel 1077 da Enrico IV al patriarca Sigeardo (37), e
le nuove acquisizioni del castello di Treffen (donato dallo
stesso patriarca ulrico, assieme agli altri beni della sua
famiglia, alla chiesa aquileiese subito dopo il suo insediamento) (38), del castello di Attimis e dei poderi di Ariis
(infra, doc. 11).
Con questo diploma federiciano – che le carte cividalesi riportano, in copia ottocentesca, solo per la parte
relativa alle nuove acquisizioni, ma che qui si è voluto
pubblicare integralmente sulla scorta dell’edizione tedesca – si completa la descrizione, per così dire, fattuale o
contenutistica del nucleo documentario anzidetto. Si tratta
ora di affrontare alcuni aspetti più strettamente legati alla
tradizione dei suddetti documenti e ai problemi che essa
pone per un’edizione critica degli stessi.
2. lA trAdizione documentAriA
Sarebbe ingeneroso per l’intelligenza di chi legge
sottolineare come i documenti, la cui edizione è pubblicata
qui di seguito, dicano in realtà molto meno, e in modo più
sfumato, e al tempo stesso molto di più rispetto al quadro,
per quanto sintetico, che è stato appena esposto: rientra,
infatti, nel mestiere dello storico integrare e completare i
dati che le fonti tacciono o sottintendono. Ma visto che se
ne offre per la prima volta un’edizione critica, non vanno
qui taciuti i vari elementi di interesse diplomatistico, ma
anche storico-giuridico, così come le molteplici criticità
presentate da questa tradizione documentaria.
Cominciamo col dire che, degli 11 documenti editi,
solo i primi cinque, scritti su altrettante pergamene, sono
coevi – o, per meglio dire, di poco posteriori – ai fatti
descritti; dei rimanenti sei documenti la tradizione è varia:
tre sono pervenuti in copie cartacee dei secoli XVIII-XIX
(a loro volta tratti da una copia autenticata degli inizi del
XIII secolo); altri due sono invece copie ottocentesche
(una delle quali, infra, doc. 11, è solo una copia parziale),
del canonico Michele della Torre; infine un documento
(infra, doc. 9) è riportato solo per completezza della serie
documentaria (e viene qui edito dalla collazione delle due
precedenti edizioni). Per questo motivo si tratteranno in
maniera separata prima i documenti più risalenti (membranacei) e, a seguire, le copie su carta.
2.1 Le pergamene. Gli elementi di genuinità
Va subito detto che tutte le scritture, quanto al loro
contenuto e ai caratteri intrinseci (diplomatistici, testuali,
linguistici, giuridici), non sembrano lasciare dubbi circa
la loro genuinità: non sembra, cioè, siano stati oggetto di
falsificazione (né antica né moderna). Questo va chiarito
perché anche nel caso delle pergamene, nonostante l’altezza cronologica, si può affermare trattarsi di copie semplici,
coeve o di qualche decennio più recenti, delle originali,
cartae.
Nel periodo trattato – prima metà del XII secolo – e
nell’area geografica specifica la figura dello scrivente
(per quanto si possa autodenominare notarius, come qui
viene affermato in tutte e cinque i casi) (39) non aveva
ancora assunto quella funzione di persona dotata di publi-
37
glAdiss 1959, nr. 293.
Essendo l’ultimo discendente maschio della sua casa, nel 1063, il patriarca, assieme al padre Volfrado e alla madre Emma, assicurò alla
sua chiesa i beni paterni, ovvero i castelli di Treffen e Tiffen e tutti terreni attorno al lago di ossiach (cfr. jAksch 1904, nr. 1061 e PAschini 1914,
p. 124).
39 due documenti furono scritti da Bernardo che si professa nel primo caso: «Bernardus notarius atque legis peritus, scriptor huius cartule»
(infra, doc. 1) e con formula quasi del tutto simile «Bernardus notarius, legis quidem peritus, scriptor huius cartulę» (infra, doc. 3); altri due furono
scritti da Arpone, che si autodenomina in un caso «Arpo notarius et iudex» (infra, doc. 4), nell’altro solo «Arpo notarius scriptor huius cartulę»
38
77
ca fides che avrà già a partire dagli ultimi decenni dello
stesso secolo. Tutti e cinque i documenti non sono dunque instrumenta, ossia rogiti notarili propriamente detti,
ma presentano ancora i caratteri intrinseci della carta (o
cartula) (40), ovvero di quella scrittura privata che costituiva per se stessa il segno tangibile del negozio giuridico
descritto e che, grazie alla sua stesura in forma soggettiva,
in prima persona e al tempo presente aveva una funzione
dichiaratamente dispositiva (41).
un altro elemento, assolutamente in linea con i
tempi, sta nel fatto che – considerato il relativo vuoto
legislativo, e la pluralità di genti di nazionalità diversa
trovatisi a convivere dopo la conquista dei Franchi –
vigeva allora il principio della personalità del diritto, per
cui ognuno era portato a regolarsi secondo le leggi della
propria etnia, del proprio popolo (42). Per questo motivo
era molto importante nelle scritture private la cosiddetta
professio iuris, in cui il soggetto del negozio giuridico pro-
fessava la propria nazionalità e le relative norme (leggi)
di riferimento (optio legis). Così nel primo documento
ugo e Azela, madre e figlio, si professano Bavari di etnia
e di legge, mentre la moglie longobarda di ugo, Luisa,
professa di vivere secondo la legge del marito (43). Era
longobarda anche Ermengarda (e il nome in questo caso
è veramente parlante), ma il marito Eginone, che assieme
a lei vendette una serie di beni a Corrado, professò di
essere di nazione e legge romana (44). L’arcivescovo di
Salisburgo (di nomina imperiale), Bertoldo di Moosburg,
era sicuramente di nazionalità bavara e a tale legge si
era attenuto ma, al momento dell’atto, in quanto prelato
professò di vivere secondo la legge romana (45). Bavara
era anche la cognata di Bertoldo, Acica, moglie del suo
defunto fratello Burcardo, che donò i suoi beni alla figlia
Matilde e al genero Corrado con il consenso di un suo
parente, Willelm di Pozzuolo (46). Il sacerdote Pietro,
infine, come dice il suo nome ma anche il suo stato
(infra, doc. 5). Un documento, infine, fu sicuramente consegnato alle parti da «Waltil notarius et iudex qui hanc cartulam comutacionis tradidi et
dedi», ma forse scritto da «Cacilinus iudex» (infra, doc. 2).
40 Tutte e cinque gli atti sono definite cartule nelle rispettive scritture: «cartula promissionis» (infra, doc. 1); «cartula commutacionis» (infra,
doc. 2); «cartula donationis» (infra, doc. 3); «donacionis cartula» (infra, doc. 4); «cartula ordinationis» (infra, doc. 5). Sulla carta in quanto forma
documentaria tipica del diritto privato rimane ancora fondamentale quanto scritto da bresslAu H. 1915, pp. 731-754. Per non appesantire troppo la
bibliografia, si è preferito, ovunque se ne sia presentata la necessità, fare sempre riferimento a quest’opera fondamentale della scienza diplomatica.
41 Si riportano di seguito i verbi dispositivi dei cinque diversi documenti che, come si può vedere, sono sempre al presente e nella prima
persona (singolare o plurale, a seconda del soggetto giuridico che disponeva l’azione): «promittimus et spondimus» (infra, doc. 1); «vendimus,
tradimus, comutamus» (infra, doc. 2); «dono (...) et in vos habendum confirmo» (infra, doc. 3); «confirmo id est quod dono (…) trado, do» (infra,
doc. 4); «volo et statuo seu iubeo atque (...) confirmo» (infra, doc. 5).
42 Cfr. Pertile 1896, in particolare alle pp. 65 e segg, in particolare, dopo la conquista franca, pp. 177-179.
43 «Ugo et Acela, mater et filius, et Luiza uxor eiusdem Ugonis, qui professi sumus mater et filius ex nacione nostra lege vivere Bavariorum,
et ego ipsa Luiza que professa sum ex nacione mea lege vivere Longobardorum, sed nunc pro ipso viro meo lege vivere videor Bavariorum» (infra,
doc. 1).
44 «Nos Egino et Ilmingar iugales, qui professi sumus ex nacione nostra lege vivere Romana, sed ego Ilmingart nacione mea lege vivere
Langobardorum, sed nunc pro viro meo lege vivere Romana» (infra, doc. 2).
45 «Ego quidem in Dei nomine Bertoldus episcopus, filius quondam Purcardi, qui professus sum ex natione mea lege vivere Bawariorum,
sed nunc pro ecclesiastico [honore lege videor vivere Ro]mana» (infra, doc. 3). In realtà, come si può vedere dall’uso delle parentesi quadre, il testo
presenta una lacuna che ho integrato grazie agli esempi, del tutto pertinenti, anche cronologicamente, riportati da Ludovico Antonio Muratori, il
quale trattando di quanti entrati nell’ordine ecclesiastico passavano a vivere secondo la legge romana, menziona alcune pergamene tratte dall’Archivio della Cattedrale di Arezzo: la prima, in particolare, datata all’anno 1072, riporta: «Constat me Iohannem Clericum filium quondam Verandi,
qui professus sum ex Natione mea Lege vivere Langobardorum, sed tamen pro honore Ecclesiastico Lege videor vivere Romana etc» (murAtori
1717, p. 78).
46 «Ego quidem in dei nomine Acica relicta quondam Pucardi marchisi una cum proquinquo (!) meo Wilelm de loco Puzolo qui professus
(!) ex nacione mea lege vivere Baiwariorum» (infra, doc. 4).
78
clericale, non poteva che essere di nazionalità e legge
romane (47).
Il diritto privato germanico, inoltre, non contemplava
atti di semplice liberalità, come le donazioni. Per questo
motivo, a differenza dei due atti di vendita (vera o fittizia
che fosse) ove troviamo indicato un prezzo (48), le altre
tre carte, rispettivamente di permuta e donazione, fanno
riferimento espresso all’accettazione del “launechild” (49),
ovvero una controprestazione, puramente simbolica, in
denaro o, più spesso, in natura, che il donatore accettava
dal beneficiario in cambio del bene donato: nella fattispecie, rispettivamente, una piccola cappa, delle pelli di
volpe, due paia di guanti (50).
Inoltre, nonostante il vigore giuridico riconosciuto
alla carta, la mentalità medievale sentiva il bisogno di
esprimersi attraverso gesti altamente simbolici: così vanno
letti – nel caso di investiture o di transazioni di beni – gli
scambi di oggetti che avvenivano fra le parti: prassi che
permarrà ben oltre la prima metà del XII secolo, anche
dopo che, a partire dalla fine del Cento e per i secoli a
seguire, si attesterà il rogito notarile vero e proprio, assie-
me alle altre forme documentarie di pari valore giuridico.
Per questo motivo anche nei documenti qui editi, in cui
si tratta di un passaggio di proprietà con tutte le pertinenze e i diritti ad esse relativi, si fa menzione del coltello,
della festuca – sia che con essa si voglia intendere, come
fanno alcuni, un fuscello annodato (festucam nodatam),
sia, come fanno altri, un rametto con incisioni simboliche
(festucum notatum) –, del guanto, della zolla di terra e
ramo d’albero (51).
Tutti questi simboli si accompagnavano, almeno per
le persone che vivevano secondo il diritto longobardoitalico e germanico, proprio al momento fondamentale
della traditio carte (52), ovvero il momento in cui, con
gesto anch’esso simbolico, l’autore giuridico di un
negozio passando la carta al notaio, chiedeva all’autore
materiale di redigerne la relativa scrittura e di passarla
poi al destinatario del negozio stesso; prima di ciò l’autore giuridico levava simbolicamente da terra la pergamena assieme a un calamaio (levatio carte): atto che è
testimoniato nel primo e più risalente dei documenti qui
editi (53).
47
«Ego quidem in dei nomine Petrus sacerdos qui professus sum ex natione mea lege vivere Romana» (infra, doc. 5).
«Argentum valente solidos ccccc. d. finito precio» è quanto dichiararono di aver ricevuto Eginone ed Ermengarda dai coniugi Corrado
e Matilde (infra, doc. 2). Il sacerdote Pietro dichiarò di aver dato a Matilde per i beni da lei vendutigli «inter argentum et aliam mercem valentem
libras duo mille finito pretio» (infra, doc. 5).
49 Il termine, italianizzato nelle forme launechildo o launegildo, è sicuramente rapportabile alle lingue germaniche: si confronti il tedesco
moderno “Lohn-Geld”, ovvero danaro a ricompensa di qualcosa. Quanto all’istituzione giuridica del launechildo, ancora valido – benché datato e in
lingua tedesca – il lavoro di VAl de liéVre 1877, pp. 1-95; in italiano si rimanda a quanto scriveva Pertile 1893, in particolare alle pp. 578-583.
50 «Accepimus nos qui supra, mater et filius et iugalis, a te iamdicto Conrado exinde launechild capello uno» (infra, doc. 1); «accepi ego qui
supra Bertoldus episcopus, a vobis quibus supra Condrado et Mattild iugalibus, exinde launechild vulpinas pelles» (infra, doc. 3); «accepi ego que
supra Acica a vobis iam dictis Conradus et Mactilt launechilt manicias duas» (infra, doc. 4).
51 «Per cultellum, festucum notatum, wantonem et wasonem terre atque ramum arboris» (infra, doc. 1); «Et insuper cultellum et festumcum
(!) notatum, wantonem et vasonem terre atque ramum arboris» (infra, doc. 4). A proposito della festuca, val la pena osservare che Harry Bresslau
volle collegare, almeno in via di ipotesi, la chirografazione, come forma di autenticazione dei documenti «all’antichissimo simbolo germanico del
fuscello con le tacche (festuca notata)» (bresslAu 1915, p. 617).
52 Come è stato scritto: «L’azione giuridica decisiva era la traditio cartae. Ciò che occorre rilevare particolarmente è la doppia consegna:
contemporaneamente al destinatario del documento e al notaio. Infatti anche la consegna al notaio era un atto giuridico formale produttivo di effetti
giuridici. (...) Al perfezionamento del negozio giuridico non era necessario alcun altro atto giuridico formale da parte dell’autore del documento
oltre questa doppia consegna della carta e (...) non vi è motivo di supporre una distinzione temporale tra azione e documentazione».» (ivi, pp. 748749).
53 «Et pergamenam cum atramentario de terra levavimus, pagine Bernardi notarii atque causidici tradidi (!) et scribere rogavimus» (infra,
doc. 1).
48
79
Sempre collegata al momento cruciale della consegna della carta, è la formula post traditam, presente solo in
tre delle cinque pergamene (54): già questa circostanza di
per sé testimonia che la presenza della formula, precedente la completio del notaio, non era necessaria, ma molto
probabilmente accentuava il forte valore simbolico della
consegna del documento.
A parte il doc. 4, infra, tutte le altre pergamene,
com’era prassi per le carte scritte in Italia fino al XII
secolo inoltrato, presentano le cruces a indicare il signum
manus dell’autore(i) giuridico(i) e dei testimoni; sempre
nella forma cosiddetta oggettiva, in cui la croce segue
la parola signum e precede il nome dei rispettivi autore/i
e testimoni (55). In uno di questi documenti, inoltre,
aggiunta al signum manus degli autori giuridici si trova la
formula «eique relecta est» (56): usata non di rado, e solo
in determinate aree geografiche, parrebbe dimostrare che
la carta venisse corrobarata – con l’apposizione dei signa
autografi o della mano sulle cruces – anche dagli autori
giuridici che, dopo la lettura a loro fatta dal notaio, confermavano in tal modo l’approvazione dell’atto in quanto
conforme all’incarico di documentazione (57).
2.2 Le pergamene. Criticità
La generale “scorrettezza” delle formule, della grammatica e del lessico usato nei documenti risulta, paradossalmente, un altro elemento attestante la genuinità
dei documenti. di fatti, poiché gli scriventi, almeno in
Italia, erano quasi tutti laici, anche la riforma carolingia
delle scuole ecclesiastiche non ebbe influenza sulla lingua
negoziale, in cui ancora per buona parte del XII secolo
continuarono a prevalere volgarismi e sgrammaticature (58), o anche solamente le storpiature lessicali legate
alla mancata comprensione di verbi in formule desuete (59) o di termini obsoleti (60) o, comunque, sentiti come
stranieri e sconosciuti, qual è il caso di wisot/uuisot, un
54 «Ego Bernardus notarius atque legis peritus, scriptor huius cartule postradita (!) complevi et dedi» (infra, doc. 1); «Ego Bernardus notarius, legis quidem peritus, scriptor huius cartulę donationis post traditam complevi et dedi» (infra, doc. 3); «Ego Arpo notarius scriptor huius cartulę
ordinationis post traditam complevi et dedi» (infra, doc. 5).
55 Non era necessario che tali croci venissero apposte in maniera autografa: bresslAu 1915, p. 827. Quanto al luogo dell’apposizione della
croce, nella sottoscrizione soggettiva, essa precedeva il nome del sottoscrittore (autore o testimone che fosse), e in quella oggettiva era interposta
fra le parole signum/signa e manus/manuum (cfr. ivi, p. 853).
56 «Signum iii manus prefati Ugonis et Acela mater et filius qualiter supra et Luiza uxor eiusdem Hugonis qui hanc cartulam promissionis
scribere rogaverunt et launechild acceperunt ut supra eique relecta est» (cfr, infra, doc. 1).
57 Cfr. bresslAu 1915, p. 828.
58 Innumerevoli sarebbero gli esempi da addurre: per capire di cosa si tratti, basterà una lettura, neanche troppo attenta, dei primi cinque
documenti qui editi e la presenza massiccia dei punti esclamativi che si affastellano in queste stesse note. Citerò, dunque, solo il primo di una lunga
serie «vos dederitis istas casas et massaricias et vineas et campis (!) et pratis (!) et molendinis (!) et pascuis (!) silvis (!) quam (!) in anteriore cartula
leguntur» (infra, doc. 1).
59 Il verbo warpire (du cAnge et alii 1883-1887, VIII, p. 409), ad esempio, come variante di guerpire, derivato da antiche forme sassoni, col
significato di lasciare la proprietà di qualcosa (ivi, IV, p. 128), si legge correttamente in uno dei documenti qui editi: «nos exinde foris expulivimus
et warpivimus et absentes nos fecimus et tibi ad tuam proprietatem habendo relinquimus» (infra, doc. 1). In un altro documento, recenziore, la forma
della prima persona singolare, sempre al passato, non venne più compresa, portando alla lezione «warpivivi» (infra, doc. 4). A sua volta, questa forma scorretta, nel particolare contesto lessicale in cui si trovava, fu male interpretata dal de Rubeis, che sciolse nell’incomprensibile «ramum arboris
Warpi vivi» della prima edizione (de rubeis 1740, col. 612).
60 un caso eclatante di storpiatura dovuta a incomprensione nella trascrizione dall’apografo sembra essere il «festumcum notatum» (infra,
doc. 1), tràdito nella pergamena come «festu(m) cu(m) notatum» e che quindi ha portato in una prima edizione a un incomprensibile «festum cum
notatum» (de rubeis 1740, col. 612), nella seconda a un pesante intervento di normalizzazione, «festucam notatam» (jAksch 1904, p. 220, che pure
riporta in nota la forma tràdita).
80
hapax germanico che va inteso come sinonimo del latino
testes (61).
Peraltro alcune di queste forme scorrette – soprattutto nel caso di antroponimi e toponimi – potrebbero essere
dovute proprio a un’errata lettura dell’antigrafo durante la
stesura della copia. E qui torniamo a un tema, accennato
all’inizio di questo paragrafo, e che ora toccherà affrontare, assieme agli altri elementi di criticità della tradizione
testuale.
dei primi cinque documenti in pergamena, solo il
doc. 2, infra, si è voluto considerare originale (A), ma
solo perché non ci sono motivi cogenti per affermare il
contrario. Non vi sono in questo caso, infatti, termini di
raffronto con altri documenti scritti dallo stesso scrivente:
peraltro non si può affermare che il notaio Waltil, il quale
sicuramente consegnò la cartula, ne fosse stato anche lo
scriptor; infatti alla sua “sottoscrizione” segue quella del
patriarca ulrico I di Eppenstein (di cui s’è già detto) e
quella di un non ben identificabile Cacilino, che in realtà
potrebbe essere stato il vero autore materiale (62).
Inoltre di queste scritture documentarie private,
per il periodo e il luogo dati, non esistono testimoni in
numero sufficiente a dare qualche maggiore ragguaglio
che autorizzi una più precisa delimitazione cronologica.
In generale va considerato che nei secoli XI-XII, fino ai
primi decenni del XIII, anche in ambito documentario la
scrittura minuscola carolina, usata precedentemente solo
in campo librario, aveva soppiantato la precedente corsiva
nuova. Ma poiché anche nell’uso documentario, come s’è
appena detto, l’arco cronologico di uso della minuscola
carolina risulta piuttosto ampio, ci si dovrà attenere ai
generali Criteri di datazione della carolina (63).
A parte alcune caratteristiche comuni, come l’andamento sempre più dritto della scrittura, la separazione tra
le parole con spazi regolari, che comunque riferiscono
le pergamene al secolo degli atti testimoniati, la prima
cosa che balza all’occhio è l’uso del nesso o legamento
& per la congiunzione et, che si ritrova infra, nei docc.
2, 3, 5, soppiantato dalla nota tironiana, 7, che invece
troviamo nei docc. 1 e 4: fenomeno questo che è stato
datato proprio intorno alla metà del XII secolo. Questo
potrebbe essere, dunque, già un primo elemento utile di
demarcazione. Senonché la preposizione de, risulta scritta
per intero nei docc. 4 e 5; mentre nei restanti docc. 1, 2 e
3, per questa stessa preposizione troviamo un particolare
nesso che taglia con un segno d’abbreviazione l’asta – sia
nella forma carolina, sia nella forma onciale – della lettera
d, dando luogo a una đ (64). Infine il dittongo ae del latino
classico, monottinghizzato in e nei docc. 1, 2 e 4, risulta
scritto con la ę cedigliata solo nei docc. 3 e 5.
Quest’ultima circostanza non è importante solo ai
fini della datazione (anche la comparsa della ę cedigliata
è riferita alla seconda metà del secolo), ma anche perché
gli autori materiali dei due documenti – Bernardo per il
doc. 3, Arpone per il doc. 5 – dovrebbero essere gli stessi
notai ad aver scritto rispettivamente il doc. 1 e il doc. 4. Si
potrebbe ipotizzare la presenza di un terzo scrittore, attivo
nella seconda metà del XII secolo, autore materiale delle
copie 3 e 5 (ipotesi sostenibile non solo per la presenza in
entrambe le pergamene della ę cedigliata, ma anche per
«omnes insimul rogati wisot» (infra, doc. 4); «omnium testium et uuisot» (infra, doc. 5). Entrambe le lezioni sono sicure. Il significato
della parola, sicuramente non latina, è deducibile dal contesto e non può essere altro che “testimoni”. Poiché, per quanto mi consta – non solo nei
documenti friulani, ma anche, come credo, più in generale per l’area di lingua tedesca – dovrebbe trattarsi di un hapax legomenon, si può pensare
alle forme dell’antico alto tedesco wizo, col suo derivato gawizzo, coi rispettivi significati in latino di sapiens e testis (mAssmAnn 1856, p. 278).
62 La prima “sottoscrizione” recita «Ego Waltil notarius et iudex qui hanc cartulam comutacionis tradidi et dedi», la terza è solo in parte
restituibile – «Ego Cacilinus iud[ex inter]fuit». Tuttavia un «Cacilinus notarius et iudex», la cui scrittura è parecchio simile a quella del doc. 2, infra,
fu l’autore materiale di una pergamena di poco più tarda, conservata nello stesso fondo (MANC, PC, II, nr. 05, datata 1103 ottobre 10).
63 Si allude qui al capitolo 31, dall’omonimo titolo, in cherubini, PrAtesi 2010, pp. 397-403, in particolare per il XII secolo, pp. 401-402.
Anche per la scienza paleografica, e con le stesse motivazioni addotte supra per il caso della diplomatica, si è deciso – ovunque se ne sia presentata
la necessità – di fare riferimento solo all’opera appena citata, uno dei manuali in lingua italiana più aggiornati e completi di questa disciplina.
64 Si tratta comunque di un nesso diverso rispetto a quello, la cui apparizione è riconosciuta in questa fase nei paesi di lingua tedesca. In quel
caso nell’estremità dell’asta inclinata della d veniva eseguita una piccola e (ivi, p. 402, fig. 4).
61
81
altre evidenze paleografiche) e sostenere che fu il notaio
Bernardo a scrivere l’originale pergamena del doc. 1 e
Arpone fare lo stesso per il doc. 4. Ma, come si è appena
detto, proprio in questi due documenti si nota la comparsa
del segno 7 per la congiunzione latina, e anche per questo
motivo si deve inferire che si tratti in entrambi i casi di
copie leggermente posteriori agli atti descritti.
Le osservazioni appena fatte, assieme alla constatazione della presenza di mani diverse (che pur si “sottoscrivono” con gli stessi due nomi) autorizzano a stabilire che
in tutti e quattro i casi non siamo di fronte a originali, ma
a copie quasi coeve (B). Sono evidenze più rimarchevoli
rispetto ad altre criticità relative alla datazione, che alcune
di queste pergamene pure presentano (65).
È dunque giunto il momento di affrontare lo spinoso
problema della datazione. Va detto, innanzitutto, che le
locuzioni esprimenti il millesimo, che fanno tutte riferimento all’anno dell’incarnazione di Nostro Signore (66),
non devono indurci a pensare che lo stile cronologico
usato nei documenti dovesse coincidere con lo stile
dell’incarnazione, ovvero iniziare il 25 marzo (stile pisano e fiorentino, rispettivamente prima e dopo rispetto al
1 gennaio dell’anno dato), poiché, come è stato scritto
«gli anni dell’incarnazione non cominciano però affatto
ovunque lo stesso giorno» (67). ora, mentre siamo abbastanza certi che, già a partire dal XIII secolo e fino al
1420, nel Patriarcato d’Aquileia lo stile cronologico più
diffuso fu quello della natività (che fa cominciare l’anno
dal 25 dicembre, ovvero sette giorni prima dell’attuale
stile della circoncisione: 1° gennaio), non vi sono – a
quanto si sa – prove irrefutabili che fosse usato anche nel
periodo precedente. Però possiamo affermare con buona
dose di sicurezza che proprio lo stile della natività, per
tutto il medioevo, ebbe in Germania – luogo molto vicino,
sia geograficamente che politicamente, al Patriarcato –
«un ruolo assolutamente predominate» (68). Quindi non
c’è alcun motivo per dubitare che anche i documenti qui
scritti nel XII secolo facessero cominciare l’anno dell’incarnazione di Cristo dal 25 dicembre.
Per capire, tuttavia, le anticipate criticità nella datazione di alcuni dei documenti qui pubblicati, va ricordato
un altro sistema fondamentale di numerazione degli anni
nei documenti medievali, ovvero il ciclo indizionale. Si
tratta di una serie di 15 anni (a partire dall’anno 3 dell’Era
cristiana), all’interno della quale si chiama indizione il
numero consecutivo – da I a XV – assegnato a un determinato anno, e che poi riparte nuovamente da I (senza tener
conto del numero dei cicli) (69). Per fare un esempio con
date inerenti ai nostri documenti: il secolo XII esordì con
l’anno 1101 che corrisponde alla VIIII indizione (numero che nei cicli indizionali seguenti corrisponde anche
agli anni 1116, 1131, 1146 e così via). Quindi, l’anno
dell’incarnazione del Signore 1102 (data del doc. 2, infra)
dovrebbe corrispondere all’indizione seguente, ovvero
la X. Senonché il documento in questione, datato 1102
ottobre 3, indica chiaramente l’indizione XI (70). Come
spiegare questa discordanza senza ricorrere a un’interpolazione (71)? Anche per le indizioni esistevano vari stili: lo
65 Si veda, al contrario, la seguente affermazione: «Si tratta di pergamene del XII secolo, di mani diverse. Almeno due presentano errori
nell’indicazione della data, inconcepibili in documenti originali» (buorA 2018, p. 304, nota 3).
66 «Anno dominice incarnacionis» (docc. 1, 4); «Anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christi» (doc. 2); «Anno dominice incarnationis»
(doc. 3, 5).
67 Cfr. bresslAu 1915, p. 1046.
68 Ivi, p. 1047.
69 In generale per quanto riguarda le indizioni, cfr. ivi, pp. 1029-1035.
70 «Anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christi millesimo cii, quod est iii die mensis octubris, indictione xi» (infra, doc. 2).
71 Va rimarcato, infatti, che le due edizioni precedenti, per evitare l’incongruenza numerica anzidetta riportavano «indictione x» (cfr. kAndler 1862, nr. 119; schumi 1882/83, nr. 66). A loro “discolpa” va tuttavia detto che l’emendazione fu forse involontaria, perché in entrambe le
pubblicazioni il documento fu edito non dalla pergamena di Cividale, ma da copie successive. Non ho avuto modo di vedere la copia trascritta da
Giandomenico Guerra da cui Pietro Kandler dichiarò di aver curato la sua edizione del documento; Franz Schumi di sicuro trasse l’indicazione del
numero di indizione X proprio dalla copia manoscritta redatta da Gian Giuseppe Liruti, come ho potuto appurare (cfr. BCu, FP, ms. 873, nr. 935).
82
stile dell’indizione greca, ad es., iniziava il 1° settembre
e quello dell’indizione bedana il 24 di quello stesso mese
di settembre; in entrambi i casi, un documento datato al 3
ottobre avrebbe avuto l’indizione “avanzata” di un anno
rispetto al millesimo. Entrambi questi stili indizionali
furono usati alternativamente sia dai Longobardi, sia in
Baviera e anche nelle cancellerie imperiali fino all’inizio
del XIII secolo: alla luce di ciò, nel documento dato non
esiste alcuna discordanza fra l’indicazione dell’anno e il
rispettivo numero d’indizione.
Molto più difficile risulta spiegare l’incongruenza fra
l’anno e la rispettiva indizione in entrambi i documenti
scritti da Bernardo (ovvero i docc. 4 e 5, infra), che hanno
reso particolarmente problematica la datazione degli atti
ivi descritti, portando a soluzioni molto lontane fra loro
nelle diverse edizioni, e di conseguenza negli studi che
citano tali documenti, tanto da indurre, recentemente, a
una più prudente sospensione della questione (72). I due
documenti, inoltre, vanno studiati e spiegati insieme, perché decisiva per la scelta ecdotica recenziore è stata anche
la circostanza che Corrado, ancora vivo nel primo dei due
documenti (a. 1130), risultasse già morto nel documento
successivo (a. 1112!). Ma si vada per ordine. La pergamena in cui Corrado, assieme alla moglie Matilde, ricevono
beni dalla suocera, vedova del marchese Burcardo di
Moosburg, riporta chiaramente l’anno dell’incarnazione 1130 e l’indizione XV. Questa tuttavia non coincide
affatto coll’anno indicato, poiché il 1130 occupa nel ciclo
indizionale la posizione VIII, numero che in realtà nella
pergamena risulta corretto, di seguito, da mano forse
posteriore, sul sottostante XV (73). L’incongruenza fu fatta
notare nella prima edizione settecentesca, in cui tuttavia
Bernardo Maria de Rubeis decise di lasciare l’anno e
l’indizione indicati (1130/XV) (74). decisamente opposta
la decisione di August von Jaksch: invece di lasciare l’indizione congrua con il millesimo (1130/VIII), l’editore
austriaco considerò tale correzione una vera e propria
interpolazione e retrodatò pertanto il documento di ben
23 anni (1107) perché quest’ultimo potesse corrispondere
con l’indizione XV (75) e da allora il documento è stato
sempre datato all’anno 1107 (76).
In realtà, se come unico criterio per la pesante
scelta adottata da August von Jaksch ci fosse stata solo
l’indizione, il documento poteva essere datato tranquillamente anche all’anno 1122, o al 1137, che corrispondono parimenti all’indizione XV dei cicli successivi ed
erano sicuramente più vicini all’anno dell’incarnazione
indicato (1130). La scelta fu dunque dovuta al fatto che
l’atto, in cui Matilde, ormai vedova di Corrado, vendette
i suoi beni al sacerdote Pietro risultava scritto nell’anno
dell’incarnazione 1112 – per meglio dire «Anno dominice incarnationis millesimo cxii» – al quale seguiva un
numero di indizione poco leggibile, che è stato più volte
ritoccato. de Rubeis lesse «indictione iii», facendo notare
non solo l’incongruenza con il millesimo (1112/V), ma
anche il fatto che a suo giudizio la pergamena doveva
essere stata comunque interpolata e posteriore rispetto
all’altra pergamena la cui datazione, parimenti corrotta,
datava all’anno 1130 e all’indizione XV (77). L’edizione
austriaca lasciò tutto come nella precedente edizione
72 «Nonostante gli storici moderni riportino con sicurezza le date, sembra più opportuno sospendere la questione piuttosto che intervenire
pesantemente sulla documentazione» (buorA 2018, p. 305).
73 «Anno dominice incarnacionis mcxxx, xiii die mensis februarii, indictione Viiib» con la relativa nota: «b Viii corretto su xV» (infra, doc.
4).
74 «Aut annus aerae vulgaris, aut indictio vitio laborat» (de rubeis 1740, col. 611).
75 «Anno dominice incarnacionis mcxxxa, xiii die mensis februarii, indic(tione) xVb», con le seguenti note: «a) Statt richtig mcVii b) von
recenter Hand corrigiert in Viii dem Jahre 1130 entsprechend» (jAksch 1904, p. 219).
76 datano il documento all’anno 1130: liruti 1777, IV, p. 133; richter 1824, p. 147; di mAnzAno 1858, pp. 116. dopo l’edizione fattane
da jAksch 1904, p. 219, datano il documento all’anno 1107: kos 1915, nr. 24; PAschini 1975, p. 253; hAussmAnn 1984, p. 560.
77 «Notae Chronicae invicem pugnant. Tabulas istas arbitror posteriores, quas corruptis quoque chronicis anni 1130 & indictionis 15 notis
consignatas allegavimus» (de rubeis 1740, col. 613).
83
(1112/III), aggiungendo soltanto in nota che una mano
recenziore aveva corretto l’indizione in VII (78), il che è
un nonsenso perché la correzione, semmai, doveva essere
V. una spiegazione a prima vista plausibile – che nessuno pare abbia mai seguito, considerata anche la scarsa
diffusione dell’opera – venne data da Ermanno d’Attems
il quale vide la possibilità di una diversa indicazione del
millesimo, non già MCXII, ma MCXLI, spiegandolo con
un’errata lettura di L (l, nel testo manoscritto) scambiata
con I (i): in tal modo l’anno era sicuramente posteriore al
1130 e l’indizione indicata (III o V) comunque non non
molto distante dall’indizione corrispondente all’anno proposto (1141/IV) (79).
Che ci sia stata una cattiva lettura delle cifre – sia del
millesimo, sia dell’indizione – è abbastanza verosimile,
considerato anche il fatto che si tratta di una copia sicuramente più tarda rispetto alle altre (80). Tuttavia la spiegazione data da Ermanno d’Attems (sicuramente ingegnosa
e confacente alla mentalità e alle conoscenze di un uomo
colto del XIX secolo) cozza con una constatazione paleografica abbastanza evidente: ovvero che, pur esistendo
nel sistema di numerazione romana a cifra quinaria sia il
principio sottrattivo (es.: XL) sia l’additivo (es.: XXXX),
in epoca medievale sia stato praticamente usato solo
quest’ultimo (81). Ciò non ostante, e con tutte le cautele
appena esposte, poiché l’edizione critica di un documento
impone, pur presunta, l’indicazione di una data, la scelta
operata di datare il documento all’anno 1141 – con l’indicazione del numero indicato nella fonte [datato 1112]
e con l’ulteriore emendazione dell’indizione (IIII) (82) –
comporta minori conseguenze e interventi meno pesanti
sul resto della documentazione.
da ultimo, va detto che tutte e cinque le pergamene
presentano signa di sottoscrizione del notaio scrivente
– indicati nell’edizione con (SN) – che vanno distinti dai
segni univoci scelti dai notai, loro successori, in quanto
persone dotate di publica fides e debitamente immatricolati in appositi registri, dopo che ai notai stessi era stato
concesso l’ufficio di tabellionato (signa tabellionatus:
ST). A differenza di questi ultimi, ai quali è stata innegabilmente riconosciuta anche una funzione corroborativa,
il signum notarii apposto sulle cartae aveva semmai solo
una funzione identificativa: proprio per questo motivo essi
poterono essere oggetto di vere e proprie copie imitative
(“Nachzeichnungen”) (83) in quattro delle pergamene qui
edite, che sono state qualificate come copie semplici fin
dall’inizio di questo paragrafo.
2.3 Le copie cartacee
Come si accennava all’inizio, nel primo paragrafo,
la serie documentaria – costituità dai tre diversi atti, con
cui, il 2, 4 e 6 febbraio dell’anno 1170 (cfr. infra, docc.
6, 7, 8), udalrico, già marchese di Toscana, assieme alla
moglie, la marchesa diemot, rinunciava nelle mani del
patriarca numerosi beni (fra i quali risultano in primis
il castello di Attimis con la villa ad esso sottostante) – è
tràdita solo in copie tarde (XVIII-XIX secolo), ciascuna
delle quali riempie un bifoglio di dimensioni non distanti
78 «Anno dominice incarnationis millesimo cxii, tertio decimo die ante k(alend.) februarii, inditione iiia», con la nota seguente: «a) Von
recenter Hand corr. in VII» (jAksch. 1904, p. 223).
79 Cfr. Attems 1892, p. 28.
80 L’edizione austriaca si spinge a datare fino agli inizi del XIII secolo: «Kopie saec. XII-XIII» (jAksch 1904, p. 223).
81 «Sembra che il principio sottrattivo, in realtà impiegato assai poco dai Romani e praticamente quasi mai in età medievale, fosse invece
usato dagli Etruschi» (cherubini, PrAtesi 2010, p. 515, nota 2).
82 Cfr. infra doc. 5, datato «[1141] gennaio 20, chiesa di San Floriano [datato 1112]», la cui edizione così comincia: «Anno dominice incarnationis millesimo cxiia, tertio decimo die ante kalendas Februarii, indictione iiiib» con le seguenti note ecdotiche: «a così B per mcxli b così B,
corretto da mano recenziore in V».
83 «Chiamiamo copie imitative (“Nachzeichnungen”) quelle che non si limitano semplicemente a riprodurre il tenore degli originali, ma che,
come avviene spesso, tentano di imitarne in tutto o in parte anche le caratteristiche grafiche» (bresslAu 1915, p. 85).
84
da un attuale foglio protocollo (copie identificate con le
sigle D1, D2) (84). Come si legge nell’escatocollo, questi
apografi furono tratti entrambi da una copia autenticata
dal notaio Francesco Caimo, datata 1671 dicembre 17,
Villotta, non reperita (C) (85); tratta, a sua volta dall’exemplum autenticato dal notaio ottolino da Vicenza, datato
1215 luglio 18, non reperito (86) (B): quest’ultimo notaio
ebbe davanti a sé come antigrafo l’originale di Giovanni
Bono tabellione, il quale sottoscrivendosi aveva dichiarato
di aver scritto quegli atti su richiesta della coppia marchionale e dei ministeriali (87) (questo sarebbe l’originale A, di
cui non vi è traccia).
Nessuna delle fonti citate, peraltro, sembra corrispondere con quella usata per la prima edizione di questa
serie documentaria, curata dal de Rubeis (sigla E1), il
quale affermò di aver copiato dai privilegi consegnatigli
dal nobile cividalese Fabio d’Attems (88). delle due edizioni successive, sempre settecentesche, la prima, curata
da Ipolitomaria Camici fu sicuramente tratta dalla pubblicazione precedente e quindi non si è tenuta in considerazione (89). Non vi è invece alcun riferimento alla fonte
usata per la pubblicazione di questi documenti da parte
di Ludovico Antonio Muratori, ma le varianti trovate ed
evidenziate nella presente edizione portano a pensare che
probabilmente lo storico modenese ebbe davanti a sé un
ulteriore apografo (E2) (90).
È evidente che in una simile situazione non si può
tentare alcuna indagine di carattere paleografico, ma solo
attenersi al testo tràdito, cercando di rimarcarne i caratteri
di genuinità e/o le criticità, con la piena consapevolezza
dei molteplici fraintendimenti e gli errori di lettura possibili a seguito dei numerosi passaggi (errori particolarmente
frequenti, come è ovvio, nel caso dei nomi propri, di luogo
e di persona, che sono – come si è detto – numerossimi in
questi documenti).
Così com’è giunta a noi, questa serie documentaria
è del tutto diversa dalle pergamene finora esaminate. La
forma oggettiva degli atti, in cui l’azione viene esposta
in terza persona e al tempo passato, testimonia come alla
carta – destinata da lì a breve, già dalla fine del secolo,
a scomparire del tutto nell’ambito privatistico – fosse
subentrato un documento rapportabile alla notitia o breve,
se non già il prodotto tipico del notaio con publica fides,
ovvero l’instrumentum publicum (91).
A favore di quest’ultima ipotesi indurrebbero l’apposizione del signum da parte di Giovanni Bono (almeno,
a giudicare da quanto riportato negli exempla successivi),
così come l’assenza di signa o cruces degli autori giuridici o dei testimoni, che parrebbero confermare l’accentramento di ogni forma di corroborazione nella persona
publica rappresentata dal notaio. d’altra parte, la presenza
di un ulteriore funzionario pubblico – Sanctus sacratissi-
84 Per le dimensioni reali e altri dati dei due diversi bifogli si rimanda alla descrizione delle due copie data nella tabula traditionis del doc.
6, infra, sub Fonti: D1, D2.
85 Francesco Caimo, dichiarandosi membro del collegio notarile di udine e abitante a San Vito, scrisse di aver esemplato la sua copia da una
pergamena originale conservata dal nobile Marco Antonio fu Pietro Antonio di Sbroiavacca, nel suo palazzo di Villotta (infra, doc. 8).
86 «Ego ottolinus Vicentinus, sacri palacii notarius, ex authentico nihil adens vel minuens, quod sententiam mutare posset, preter notam vel
punctum, sumpsi hoc exemplum, scripsi bona fide et sine fraude» (infra, doc. 8). di ottolino da Vicenza sacrii palacii notarius è noto un originale,
datato 1225 gennaio (la pergamena è mutila), Portogruaro, da cui è stato ricavato il signum tabellionatus (cfr. blAncAto 2016, p. 456, nota 225; per
il signum, ivi, p. 491).
87 «Ego Iohannes Bonus tabellio rogatus a supradictis iugalibus et dinismannis, ut superius, hec scripsi et complevi» (infra, doc. 8).
88 «Tabulas primum subiicio amplissimae donationis, qua idem ulricus Ecclesiam Aquileiensem cumulavit, exornavitque, a Fabio ex perillustri Attempsiorum Civitatensium familia humanissimo viro acceptas» (de rubeis 1740, col. 604).
89 Considero infatti l’edizione come descripta rispetto all’edizione di de Rubeis, poiché – come ho riferito nella tabula traditionis del doc.
6, infra – l’autore lesse e riportò il documento «apud Rub. loc. cit.» (cAmici 1760, p. 6, nota 4).
90 «donatio aliquot castrorum et villarum, facta Wolderico Patriarchae a Wolderico olim marchione Tusciae, et diemura eius coniuge. Anno
1170» (murAtori 1776, coll. 591-594).
91 Cfr. bresslAu 1915, p. 601.
85
me aule iudex (92) –, come ultimo e più che qualificato
testimone prima della subscriptio del notaio Giovanni
Bono, e la stessa stringata autodefinizione di tabellio che
si dà quest’ultimo, senza alcuna altra formula di delega
da parte di un’autorità (imperiale, apostolica o altra),
non permettono di classificare Giovanni Bono già come
notaio dotato di publica fides. Bisogna dunque ipotizzare
che ci si trovi di fronte a un prodotto documentario ibrido
– peraltro assolutamente in linea con i tempi (anni Settanta
del XII secolo) – che testimonia il passaggio dalla forma
documentaria del breve alla successiva e, da lì a poco,
predominante presenza dell’instrumentum.
I tre atti non danno particolari difficoltà di datazione,
anzi l’indicazione del giorno della settimana nel primo
documento, lunedì 2 febbraio, non solo è perfettamente
congrua con l’anno e l’indizione indicati (1170/III) (93),
ma permette di datare con sicurezza anche i due atti
92
immediatamente posteriori, aventi luogo rispettivamente
il mercoledì e venerdì seguenti (94).
Le criticità, semmai, sono rappresentate dal gran
numero di varianti in parte dovute alla quantità di nomi
propri, ma soprattutto alle peculiarità della tradizione
documentaria testé menzionate. Tuttavia è da ritenere ragionevolmente sicura l’identificazione di tutti i
toponimi relativi ai beni o feudi ceduti dal marchese
udalrico e dalla moglie diemot al patriarca ulrico di
Treffen, così come proposti nel regesto (tranne uno,
scritto in corsivo), e che si trovano al di qua e al di là
degli odierni confini italo-sloveni: ovvero il castello di
Attimis con la villa ad esso sottostante (95), il castello di
Partistagno (96), le ville di Porzùs, Subìt, Prossenicco (97),
ogni loro avere a Breginj (98) e Logje (99), e ancora le
ville di Cergneu e Chialminis (100), l’allodio presso
Nimis (101), la corte costituita presso Ariis (102), le ville di
«Sanctus sacratissime aule iudex omnibus supradictis interfuit testis et vidit et audivit» (infra, doc. 8).
«Anno a nativitate domini mclxx, indictione tertia, die lune secundo intrante mense februario» (infra, doc. 6).
94 «Postea, die mercurii» (infra, doc. 7), «Sequenti die veneris» (infra, doc. 8).
95 «de castro de Attens uti nunc possidet in integrum et villa sub castro constituta» (infra, doc. 6).
96 Ivi: «de castro Perhtensteineh», seguendo l’edizione de Rubeis (E1); riportano «de castro Protesteino» le due copie cividalesi (D1 e D2);
«de castro Perthenstene», l’edizione muratoriana (E2). Anche i resti del castello di Partistagno si levano nel territorio dell’attuale comune di Attimis.
97 Ivi: «de villa Porcil, et de villa Subid, et de villa Prosernichi». Solo quest’ultimo toponimo presenta la variante «Perscinich» in E2. Benché
le tre località siano molto vicine fra loro, attualmente Porzùs si considera appartenere al comune di Faedis, Subìt al comune di Attimis e Prossenicco,
infine, al territorio di Taipana.
98 Ivi: «toto quod habet in Verginj», con l’unica variante «Vergia» attestata da de Rubeis (E1). Quanto al villaggio di Breginj (in italiano,
Bergogna), è una frazione del comune di Caporetto (Kobarid), in Slovenia.
99 Ivi: «Lůgrek», seguendo la lezione della più antica fra le copie cividalesi (D1); l’altra copia di Cividale e l’edizione di Muratori normalizzano in «Luogre» (D2 e E2); l’edizione più antica riporta «Logre» (E1). Anche Logje, (in italiano, Longo), è una frazione di Caporetto.
100 Ivi: «de villa Cerneul et de villa Calmines». Il primo toponimo presenta una variante solo nella prima edizione, sicuramente dovuta a una
svista del de Rubeis: «Cernen» (E1). oggi entrambi i villaggi sono frazioni del comune di Nimis.
101 Ivi: «de allodio quod habet apud Nemachn». Anche in questo caso tre fonti su quattro riportano la variante proposta, con l’unica eccezione di «Namach» (E1). Il toponimo attestato, probabilmente slavo, per il castrum Nimas ricordato da Paolo diacono, si ritrova un’altra volta, ivi:
«Ruobertum de Nemach» che si alterna nello stesso documento con «Rodepertus de Nimas» (per le rispettive varianti, anche nel caso del toponimo
in funzione predicativa si rimanda all’edizione infra, doc. 6).
102 Ivi: «de curia apud Hage». Tutte le fonti riportano la stessa lezione che è stata individuata da Pio Paschini, ancora all’inizio del secolo
scorso, in Ariis di Rivignano (PAschini 1913, p. 208). Il toponimo, si trova anche con valore di predicato, nello stesso documento: «Henricum
de Hage cum uxore et filiis et filiabus eorum, Pertoldum de Hage». In quest’ultimo caso vi è qualche discordanza fra le fonti, per cui si rimanda
all’edizione infra, doc. 6. La forma «Hage» ritorna invece immutata nel documento successivo: «marchio Wdalricus tradidit possessionem de curia
de Hage (...) apud Hage (...) et hoc fuit in Hage in strata iuxta ecclesiam» (infra, doc. 7).
93
86
Lasina e di Pedimonte, Orehovlje/Raccogliano, Vipolže/
Vipulzano (103) e Volče (104).
di difficile identificazione rimane solo la «villa que
vocatur Lasina». Come ho segnalato nelle note ecdotiche,
propongo questa variante dall’edizione del Muratori;
le copie cividalesi presentano Latena, l’edizione nei
Monumenta dà invece l’improbabile Latina. La contiguità
fonetica (in una lezione corrotta dai numerosi passaggi
e sicuramente non restituibile nella versione originale),
la collocazione geografica non lontana dalla valle del
Vipacco (Piedimonte, Raccogliano, Vipulzano), nonché
la suggestione della futura (secentesca) appartenenza di
quei territori alla signoria degli Attems indurrebbero a
credere che in quel toponimo si potesse celare la villa di
Lucinico (105). L’ipotesi, pur suggestiva, andrebbe comunque puntellata da altri documenti, al momento non reperiti
(né forse mai reperibili), per dimostrare come la «villa una
Lunzanicha dicta», individualmente nominata assieme
alla contea del Friuli nel diploma concesso da Enrico IV
a Sigeardo (1077) (106), fosse passata nel frattempo sotto
il dominio marchionale (forse anche in concomitanza agli
atti di violenza del 1165, sopra ricordati). In ogni caso la
«villa de Luncenigo», come sappiamo, venne riconfermata assieme alla contea del Friuli e alle nuove acquisizioni
(Treffen e Attimis) nel privilegio emanato da Federico
I a favore del patriarca ulrico II (1180) (107). Peraltro, i
due diplomi imperiali appena menzionati dimostrerebbero il cambiamento del toponimo avvenuto in poco più
di un secolo: l’uso del condizionale è tuttavia d’obbligo,
perché anche la tradizione dei documenti in questione è
molto problematica e non è affatto sicuro che la lezione
Lunzanicha, attestata per l’XI secolo, e *Luncenigum, per
il secolo successivo – così come Lasina, (o †Lu(n)cina?) –
corrispondano realmente ai lemmi originali (108).
Sicuramente più complessa la situazione relativa agli
antroponimi e ai loro predicati, che non sempre si riesce a
identificare con certezza. Talvolta le varianti tràdite – sia
nelle fonti manoscritte, sia nelle edizioni a stampa – possono essere d’aiuto e suggerire una lezione plausibile,
anche dal confronto con gli stessi nomi, ricorrenti nella
medesima serie documentaria. È il caso, ad esempio, dei
ministeriali di Manzano. Sappiamo che Lucarda, figlia di
udalrico d’Attems, aveva avuto da Enrico di Manzano
due figli, Corrado ed Engelmanno. Nella donazione del 2
febbraio 1170, fra i primi ministeriali donati al patriarca
troviamo Corrado, e i suoi figli (esclusa la figlia diemot),
e il fratello di Corrado, Engelmanus: non solo il nome
di questo fratello diverge nella stessa fonte, ma anche il
toponimo Manzano in alcune varianti è assolutamente
irriconoscibile (109). L’elenco poi si ripete, con qualche
Ivi: «de villa que vocatur Predegoiq, et de villa Rechelach et de villa Wipelsachr». Le uniche varianti, entrambe nella prima edizione, di
«Pedegoy» e «Wipelfach», sono molto probabilmente dovute a cattiva lettura del de Rubeis (più sicuramente nel secondo caso). Lo storico friulano
infatti lesse con la f, anche il predicato, in quello stesso documento, di «Henricus de Wipelsach» (il nome ricorre due volte, ma l’editore lesse male
solo la seconda volta). Anche di Piedimonte si trova il toponimo in funzione predicativa: «dominam Mathildem de Predegoiat». Qui la variante
«Predegoc» si trova invece nell’edizione di Muratori. Quanto alle località, Pedimonte è oggi un quartiere di Gorizia; orehovlje/Raccogliano è una
frazione del comune sloveno di Miren-Kostanjevica (Merna-Castagnevizza); Vipolže/Vipulzano è una frazione del comune sloveno di Brda / Collio.
104 Ivi: «de villa Wolfschel», senza nessuna variante, è evidentemente la forma tedesca del toponimo slavo Volče (entrambi i lemmi, ciascuno
nelle due lingue, sono associati al lupo), il cui corrispettivo italiano è Volzana: si tratta di una località del comune di Tolmino.
105 Per la storia secentesca di Lucinico, dominata dal ramo degli Attems di Santa Croce, cfr. iAncis 2011, in particolare il capitolo: Il Seicento,
secolo degli Attems, pp. 167-288.
106 Cfr. glAdiss 1959, nr. 293.
107 Cfr. APPelt 1985, nr. 791 e infra, doc. 11.
108 A parte Lasina, di cui si è detto supra, per le altre due varianti cfr. anche blAncAto 2018, pp. 84-85 con relative note (17-20).
109 «Conradum de Manzanoz cum filiis et filiabus suis, preter filiam eius Diemout; Engelmanum fratrem dicti Conradi» (cfr. infra, doc. 6). La
nota ecdotica indica che il predicato «de Manzano» è stato preso dall’edizione di de Rubeis (E1), poiché le due copie cividalesi (D1 e D2) riportano
un improbabile «de Merlano» e l’edizione muratoriana, addirittura, «de Melano».
103
87
defezione, anche per i nomi di quei ministeriali che giurarono la loro fedeltà al patriarca: e fra questi è possibile
riconoscere, solo perché siamo certi della loro presenza,
anche i due fratelli di Manzano, la cui identificazione
sarebbe stata altrimenti impossibile (110).
Ho addotto l’esempio di questa coppia di fratelli,
vuoi perché più strettamente legati, anche da vincoli
famigliari, alla coppia marchionale, vuoi perché veramente emblematico del caos fonetico delle varianti, testimoniato dal numero altissimo di note filologiche (ben
105, in un testo relativamente breve), e in parte anche
perché è utile per spiegare quali siano state le scelte da
fare per l’edizione di un testo, in assenza di fonti originali. Quanto appena detto vale anche per i docc. 7 e 8,
benché qui – considerata la relativa esiguità dei testi – vi
siano molte meno criticità.
di qualche interesse, infine, potranno risultare anche
le forme usate per trasmettere il concetto di ministeriali
(fondamentalmente immutato nella sua forma latina: ministeriales) e le diverse varianti tràdite per la forma tedesca,
“dienstmannen”: tanto più che proprio questi documenti
sono stati recentemente presi in considerazione per comprovare l’intercambiabilità dei due termini (111).
Rimangono ora da esaminare le ultime tre scritture
qui pubblicate (infra, docc. 9-11), che potremmo definire
come la “serie federiciana” e che prospettano, nella fattispecie, una tradizione documentaria alquanto anomala. Nel
secondo tomo delle Pergamene ex-Capitolari di Cividale
raccolte da Michele della Torre, da cui abbiamo tratto
tutti gli altri documenti fin qui discussi, non vi è traccia
della prima delle due lettere di Federico al patriarca sulla
vertenza di Attimis (infra, doc. 9), ma si trova solo una
semplice trascrizione di Michele della Torre della seconda
lettera di Federico su quella vertenza (infra, doc. 10) che
il canonico cividalese datò al «1173 circa», avendola tratta
dalla pubblicazione del de Rubeis (senza data). Lo storico settecentesco, infatti, nei suoi Monumenta non aveva
pubblicato la prima lettera ed è questo dunque il motivo
dell’assenza fra le copie di Michele della Torre (112).
Questi, invece, ritenne di dover trascrivere anche l’analisi
esposta dal de Rubeis, che riporto qui di seguito in nota
per completezza d’informazione (113), ma ho omesso
dall’edizione, in quanto frutto di un presupposto errato.
La riflessione del de Rubeis (trascritta dal della Torre) è
infatti legata a un errato scioglimento delle prime parole
di questa lettera: nell’edizione settecentesca, l’esordio
110 «Nomina illorum qui iuraverunt fidelitatem sunt hec: (...) Conradus de Menzaiaaw, †Hengelmanusaax eius frater» (cfr. infra, doc. 6). In
questo caso le note indicano che la lezione scelta per il toponimo – «de Menzai», testimoniata da D2 – per quanto strana possa apparire, è sicuramente meno improbabile di «de Mengoi» (D1), di «de Me...gar» (E1), per non parlare del muratoriano «de Niagei» (E2). Quanto a Hengelmanus,
ho dovuto restituire la lezione, col supporto della menzione precedente nello stesso documento, nonostante non sia tràdito da nessuna delle fonti
disponibili: D1, D2 ed E1 danno «Hengelmarius», l’edizione di Muratori riporta addirittura «Herogelmarius»!
111 Cfr. bAcci 2003, p. 31 e nota 15. I termini ricorrono due volte nello stesso documento (infra, doc. 6): «ministeriales suos dinismannosw»
e «maior pars dienismanorumaan et ministerialium». Per «dinismanni» ho scelto la lezione proposta nell’edizione di de Rubeis (E1), contrapposta
a «disnimanni» del Muratori (E2) e «desnemani» di entrambe le copie cividalesi (D1, D2). Nel secondo caso, invece, «dienismanorum» è tradito
da 3 fonti su quattro: unica variante «disnimanorum» (E2). La forma «dinismanni» ricorre, senza varianti, anche nella completio del notaio: «Ego
Iohannes Bonus tabellio rogatus a supradictis iugalibus et dinismannis, ut superius, hec scripsi et complevi» (infra, doc. 8).
112 In nota alla sua trascrizione, il canonico cividalese riferì: «Il Ch. Padre Rubeis ne’ suoi monumenti Aquileiensi a p. 608 riporta una lettera
dell’Imp. Federico I Barbarossa al Pat.a d’Aquileia odorlico II, anche Vorlico, come cavata dal Codice Diplomatico Istorico Epistolare di Bernardo
Pezio».
113 dopo aver pubblicato il testo della lettera del Barbarossa, de Rubeis aggiunge: «Egit ergo patriarcha, ut usurpatione violenta abstineret
Ulricus, suisque ministerialibus loca restitueret, quae abstulerat. Morem gessit ipse, ablata reddidit ministerialibus beneficia: eademque loca, ut insigne munificentiae monimentum relinqueret, cum castellis ipsoque castro Attempsio, in ecclesiae Aquileiensis ac Vodalrici ditionem transtulit, quae
nulla iniecta mora, statim ac recepta fuere, praedictis ministerialibus eodem, quo antea ab ipsis possidebantur, conlata sunt feudi titulo a patriarcha»
(de rubeis 1740, col. 608).
88
«Negotium Cu. de Attenes» viene sciolto subito dopo in
«Curiae vel Castri de Attenes» (114). Per questo motivo, a
vent’anni dall’edizione del de Rubeis, traducendo in italiano la lettera di Federico al patriarca, Ipolitomaria Camici
ebbe a scrivere «l’affare della Curia d’Attemps» (115). In
assenza di altri personaggi e di una datazione certa, l’attenzione dello storico settecentesco si concentrò dunque
sull’usurpazione violenta commessa da udalrico contro i
suoi ministeriali.
di recente (1985), tuttavia, le lettere federiciane sono
state oggetto di un’accurata edizione critica da parte di
Heinrich Appelt e pubblicate nei MGH. da quest’edizione
si apprende che nella primavera-estate del 1177, ovvero
prima dei negoziati di Venezia, l’imperatore scrisse una
lunga serie di brevi lettere al patriarca ulrico II: fra esse,
anche le due che corrispondono rispettivamente alla lettera pubblicata senza data dal de Rubeis (che della Torre
datava al 1173 circa: infra, doc. 10), e una lettera, precedente, sulla stessa vertenza, assente fra le carte cividalesi
(infra, doc. 9) (116). Poiché tuttavia, l’edizione di queste
lettere federiciane, per dichiarazione dello stesso editore,
è stata tratta dal coevo cartolare di Tegernsee, attualmente
conservato alla Staatsbibliothek di Monaco (117) e poiché
ancor più recentemente (2002) questa stessa raccolta di lettere del XII secolo è stata pubblicata a cura Helmut Plechl,
ho ritenuto di dover qui riportare queste due ultime edizio-
ni, poggianti sicuramente su basi più solide. Ebbene, se
ritorniamo al «Negotium Cu. de Attenes» da cui è partita
questa – forse un po’ troppo lunga – digressione, vediamo
che entrambe le ultime edizioni tedesche riferiscono una
situazione del tutto diversa rispetto all’edizione settecentesca: la prima riporta, sciogliendo, «Negocium Cǒ(nradi)
de Attenes» (118), mentre la seconda, lasciando la sigla
non sciolta, «Negocium Cǒ. de Attenes» (119). La causa,
quindi, non riguardava il castello o la curia di Attimis,
ma era stata portata all’imperatore dal suo fedele suddito,
Corrado d’Attems (120). Questo poi non implica affatto
che la vertenza non avesse a che fare con quegli stessi
episodi di violenta usurpazione riferiti dal de Rubeis,
semplicemente sposta l’attenzione dal marchese udalrico,
ormai morto, al suo erede Corrado. Quanto alla datazione,
poiché entrambe le lettere dell’imperatore non riportano
data, ho seguito il ragionamento addotto da Helmut Plechl
per indicare il breve arco di tempo che va dal 16 marzo al
20 luglio 1777 (121).
Non mi resta, infine, che scrivere brevemente del
diploma, emesso da Würzburg il 25 gennaio 1180, con
cui Federico I riconfermava al patriarca di Aquileia
ulrico il pieno possesso di quanto già concesso cento anni
prima (1077), dal suo predecessore Enrico IV al patriarca Sigeardo, assieme alle nuove acquisizioni dei beni di
famiglia del patriarca ulrico, da lui donate alla chiesa
114
«Negotium Cu. de Attenes (legendum suspicor, negotium Curiae, vel Castri de Attens)» (ivi).
cAmici 1760, p. 9; cfr. infra, doc. 10.
116 Cfr. rispettivamente, APPelt 1985, nr. 683 e nr. 680.
117 Per il nr. 680 (infra, doc. 9) l’editore riporta: «Tegernseer Briefsammlung des 12. Jh. Clm. 19.411 f. 84’ (p. 170) der Staatsbibliothek zu
München» (ivi, p. 196); per il nr. 683 (infra, doc. 10): «Tegernseer Briefsammlung des 12. Jh. Clm. 19.411 f. 85’ (p. 172) der Staatsbibliothek zu
München» (ivi, p. 197).
118 APPelt 1985, nr. 683, con riferimento, anche al nr. 680 di quella stessa edizione.
119 Plechl 2002, nr. 71, con riferimento, anche al nr. 63 di quella stessa edizione.
120 Proprio la prima delle due lettere – sconosciuta al de Rubeis – toglie ogni dubbio circa lo scioglimento di quella sigla: «negocium fidelis
nostri C. de Atenes» (Plechl 2002, nr. 63), che l’edizione nei MGH aveva precedentemente sciolto in «negocium fidelis nostri C(onradi) de Atenes»
(APPelt 1985, nr. 680; cfr. infra, doc. 9).
121 Nella nota anteposta al primo dei due documenti in questione (che l’editore comunque mette, come è ovvio, in relazione), Helmut Plechl scrive che il termine ante quem va fissato nel 20 luglio 1177, poiché nella seconda lettera (infra, doc. 10), si fa espresso riferimento a quando
l’imperatore sarebbe giunto a Venezia (ovviamente per i negoziati) e sappiamo che in quella data Federico vide già il patriarca ulrico II. d’altronde
sappiamo anche che il patriarca era rimasto presso la corte dell’imperatore fino al 16 marzo di quell’anno, che va dunque considerato come termine
post quem per tutta la serie di lettere scritte a ulrico da Federico. (cfr Plechl 2002, pp. 85-86).
115
89
aquileiese subito dopo il suo insediamento, nonché del
castello di Attimis e dei poderi di Ariis donate dal defunto
ulrico, già marchese di Toscana (infra, doc. 11). di questo
lungo diploma federiciano Michele della Torre riportò un
transunto delle parti evidentemente ritenute più importanti, estratto dalla copia manoscritta di Giandomenico
Guerra, conservata a Cividale (122). Ho deciso, tuttavia,
di riportare per intero l’edizione di Heinrich Appelt, tratta
da tre diverse copie del XIV-XV secolo evidenziando con
caratteri di corpo maggiore la breve parte trascritta da
Michele della Torre (123).
2.4 Criteri di edizione e di trascrizione
Per questa edizione ho seguito le norme ecdotiche
divenute ormai comuni e adottate anche nella pratica
editoriale delle «Fonti per la storia della Chiesa in Friuli»
dell’Istituto Pio Paschini e della «Serie medievale» della
medesima collana per i tipi dell’Istituto Storico Italiano
per il Medioevo (ISIME).
Conseguentemente, a ogni documento ho assegnato
un numero progressivo in cifre arabe, seguendo l’ordine
che i documenti hanno nell’edizione. ogni documento è
poi identificato dalla datazione cronica (millesimo, mese,
giorno) e topica, e regestato. Nel regesto, sempre in forma
oggettiva e al tempo presente, ho cercato di dare tutte le
indicazioni relative all’azione documentata, ai luoghi e
alle persone del documento, esclusi i testimoni.
Segue una tabula traditionis in cui ho riportato,
nell’ordine, la fonte, ove oltre alla segnatura ho descritto
brevemente anche il supporto documentario e le sue condizioni attuali; segue un elenco delle eventuali edizioni,
coPie, regesti esistenti per il dato documento.
Nell’edizione del testo del documento ho sciolte tutte
le abbreviazioni, evidenziandole talvolta con le parentesi
tonde, là dove l’abbreviazione usata si può considerare
meno comune (o comunque passibile di altre letture o
scioglimenti). Ho integrato le poche omissioni involontarie ed evidenti (quali, ad esempio, l’omissione del titulus
abbreviativo) con l’uso di parentesi uncinate ‹ ›. Tra
parentesi quadre [ ], infine, ho indicato le parti di testo
lacunose o per vari motivi illeggibili, integrando ove è
stato possibile dal contesto, o da formule abituali tratte da
altri documenti di simile tenore.
Ho impiegato un carattere di corpo minore solo
nell’edizione del doc. 11, infra, per evidenziare il transunto di Michele della Torre (carattere di corpo normale) dal
resto del diploma federiciano edito nei MGH (carettere di
corpo minore).
Nelle note ecdotiche e filologiche in calce all’edizione di ogni singolo documento, oltre alle eventuali indicazioni di correzioni, aggiunte e altro presenti nelle pergamene, ho indicato – soprattutto per i documenti tràditi
in copie moderne su carta – le varianti presenti nelle altre
eventuali edizioni, con riferimento alla sigla indicata nella
tabula traditionis.
***
122
Riporto il breve regesto di mano di Michele della Torre: «diploma dell’Imperatore Federico I il quale restituisce al patriarca Wolrico II la
rinuncia del castello di Attimis ed annesse signorie del marchese Wolrico di Toscana», con la seguente nota: «Estratto dalle [!] opera Otium Foroiuliense del canonico Guerra, della Storia di Apostolo zeno; [..] riportato dal ch. Ferro nella sua Storia veneta e dall’ughelli tomo V Italia sacra a p.
71 nonché nella collezione fatta dal canonico Guerra di Cividale nella sua opera Otium Forojuliense» (mAnc, PC, ii, nr. 43).
123 Cfr. APPelt 1985, nr. 791 e infra, doc. 11.
90
1.
1101 febbraio 24, Cividale
Ugo e Azela, rispettivamente figlio e madre di nazione e legge bavara, e Luisa, moglie di Ugo, di nazione longobarda che vive secondo la legge del marito, promettono di non molestare il loro amico Corrado nel possesso dei beni in
Flambro, che gli hanno donato essi stessi, ricevendo in cambio una piccola cappa quale launechildo; e a tal proposito,
dopo aver sollevato da terra la pergamena su cui hanno poggiato un calamaio, consegnando la carta al notaio Bernardo
gli chiedono di scrivere il relativo documento con la conferma dei testimoni presenti.
fonte: B = mAnc, PC, ii, nr. 1, pergamena di dimensioni 314´241 mm. Il documento consta di 33 linee di testo, incluse
le ultime due della subscriptio notarile; non si intravedono tracce di rigatura.
edizione: E = leicht 1897, nr. III, pp. 218-219 (da B).
coPiA: mAnc, PC, ii, copia cartacea in tomo datata 1803 agosto 26.
regesto: hAussmAnn 1984, p. 560.
(SN) Anno dominice incarnacionis millesimo c primo, sexto kalendas marcii, indicionea nona. Tibi Conrado, dilecto amico nostro, nos quidem in dei nomine ugo et Acelab, mater et filius, et Luiza uxor eiusdem ugonis, qui professi
sumus mater et filius ex nacionec nostra lege vivere Bavariorum, et ego ipsa Luiza que professa sum ex nacionec mea
lege vivere Longobardorum, sed nunc pro ipso viro meo lege vivere videor Bavariorum, p(resentes) p(resenti)bus diximus, promittimusd et spondimus, nos q(ui) s(upra) mater et filius et coniux una cum nostris heredibus ac proheredibus
tibi c(ui) s(upra) Conrado tuisque heredibus ac proheredibus aut cui vos dederitis istas casas et massaricias et vineas et
campise et pratise et molendinise et pascuise silvise quame in anteriore cartulaf l(eguntur) in anteag ullo unquam in tempore non habeamus licenciamh nec potesta(tem) per ullum ius, ingenium, ullamque occasionem quod fieri potest agere
nec causare vel removere per nos aut peri nostras submittentes personas de i(nfra)s(crip)tisj rebus, que supra l(eguntur),
quod si a modo aliquando tempore nos qui s(upra), mater et filius et uxor, de predictis rebus quek supra l(eguntur) agere
autl causare p‹re›suserimusm aut per aliquam submissa‹m› personam suplicandon principem aut iudicem aut qualibete
potestase, sed taciti et contempti exinde omni tempore non permanserimus (ve)l si aparuerit ullum datum aut factum (ve)
l colibet scriptum quod nos in alia parte fecissemus et clarefactum fuerit et c(etera) promittimuso nos qui s(upra), una
cum nostris heredibus et proheredibus tibi c(ui) s(upra) Conrado tuis[que] heredibusp pena duplasq i(nfra)s(crip)tasr res
quek iacent in Fambrios v(el) in eius territorio. Et insuper per cultellum, festu[cum] notatumt, wantonem et wasonemu
terre atque ramum arboris et nos exinde forisv expulivimus et warpivimusw et absentes nos fecimus et tibi ad tuam
proprietatem habendo relinquimus, faciendum exinde a presentix die tu et heredibus ac proheredibus tuisy aut cuivisz
dederitis iure proprietario nomine quicquid volueritis sine omni nostra et heredum acaa proheredumque nostrorum contradicioneab vel repeticione. Si quid vero, quod futurum esse non credimus, si nos i(nfra)s(crip)tiac mater filius et iugalis
aut ullus de heredibus ac proheredibus nostris seu quelibet oposita persona contraad hanc car(tu)lamae promissionis ire
quandoque temptaverimus aut eam per covis ingenium infrangere quesierimus, tunc inferamus ad illam partem contra
quem exinde litem intulerimusaf multaque est pena auri optimi uncias xxx argenti pondera sexaginta et quod repecierimus vindicare non valeamus, sed presens hanc car(tu)lamae promissionis diut(ur)nisag temporibus firma et stabilis
permaneat atque sistatah. Quidem et pro c(on)sue(tu)do uiuse terre et confirmandum promissionis car(tu)lamae accepimus nos qui s(upra), mater et filius et iugalis, a te iamdicto Conrado exinde laun(echild) [capello] uno, ut hecai nostra
promissio in te tuisque heredibus perennis temporibus firma et stabilis permaneat atque persistat, et pergamenam cum
atramentario de terra levavimus, pagine Bernardi notarii atque causidici tradiaj et scribere rogavimus in qua hic subterak
confirmans testibus obtuli ad roborandum.
91
Actum in Civitate Austrie, feliciter. Signum iii manus prefatial ugonis et Acela mater et filius qual(iter) s(upra)
am et Luiza uxor eiusdem Hugonis qui hanc car(tu)lamae promissionis scribere rogaverunt et laun(echild) acceperunt
ut supra eique relecta est.
Signum iiiiii manus Sigepottian Geveniao lege vive‹n›ciumap Bavariorum, et Rantulfiaq, Frederici, Cacilini, Egilii
seu Nopponisar lege vivencium testium.
(SN) Ego Bernardusas notarius atque legis peritus, scriptor huius cart(ul)eat postraditaau complevi et dedi.
a E indictione b E Axela c E natione d E segue punto fermo; omette et e così B f B car(tu)la; E capita g E vel ut a
modo al posto di in antea h E licentiam i E omette per j cosi B; E istis k E qui l E vel m cosi B; E praesumpserimus n E
supplicando o E omette nos in alia... promittimus p E eredibus q E dupli r così B; E istas s così B; E corregge in Flambrio
t E fistucam ... notatum u E vasonem v E omette foris w E warsuvimus x E presentis y così B; E tui z E cui vos aa E hac
ab E contradicione ac così B; E isti ad E circa ag E cartam af E retulerimus ag E diutinis ah E consistat ai E et hoc aj
così B; E omette tradidi ak E supter al E predicti am E ... al posto di qualiter supra an E Sigepoldi ao E Geremi ap così
B; E viventum aq E Rantolfi ar E Noponis as B Bernard(us); E Bernard at E carte au così B; E post redita
92
2.
1102 ottobre 3, Cividale
Eginone, di nazione e legge romana, e la moglie Ermengarda, di nazione longobarda che vive secondo la legge
del marito, con il consenso dei parenti a lei più prossimi, Reginardo e i suoi figli, vendono a Corrado, avvocato, e alla
moglie di lui, Matilde, beni, cose e servitù a Latisana e Castions nella contea del Friuli, a Gologorica in Istria, e nella
località di Strmec in Carniola per 500 solidi in argento che dichiarano di aver già ricevuto e altri 500 che dichiarano di
ricevere dai compratori.
fonte: A = mAnc, PC, ii, nr. 2, pergamena di dimensioni 280´233 mm; è strappato l’angolo inferiore sinistro (75 ´
61 mm). Il documento consta di 34 linee di testo; non si intravedono tracce di rigatura. Nell’interlinea fra la 9 e
la 10 vi è un’aggiunta posteriore di colore più scuro, del tutto illeggibile anche ai tempi della copia trascritta da
Giandomenico Guerra che servì per l’edizione di Pietro Kandler (vedi infra). Attergate note di più mani «Emptio
D. Conradi avocati et D. Mactildę bonorum in Latisana, in Castellono, Carniola et Istria» (sec. XVI); di mano
recenziore (sec. XVIII): «an. 1102. iii. 8bris». Si rimanda a quanto scritto nell’introduzione circa la non perfetta
corrispondenza fra l’anno dell’incarnazione e l’indizione.
edizioni: E1 = kAndler 1862, nr. 119 (da una copia settecentesca di Giandomenico Guerra, con la seguente nota in
calce: «Mons. Guerra che copiò dall’originale pergamena aggiunge in margine: multa verba que posita erant inter
lineas»); E2 = schumi 1882/83,.nr. 66 (con la seguente nota in calce: «ex Apographis SS. Liruti in Bibl. Civica zu
udine Nr. 935 collationiert dr. V. Joppi; dr. Kandler Cod. dipl. Istriano»).
coPie: mAnc, PC, ii, copia cartacea in tomo, autenticata dal notaio Pistacchi datata 1726 giugno 21; BCu, FP, 873 (=
liruti Apographa de Rerum Foroiuliensium istoria), nr. 935
regesti: liruti 1777, IV, pp. 137-138; di mAnzAno 1858, p.80; schumi 1882/83, nr. 66; kos 1915, nr. 4; schmidinger
1954, p. 158; hAussmAnn 1984, p. 555, 560-561. Tutti i regesti, in linea con le edizioni, datano il documento
all’anno 1102.
(SN) Anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christia millesimo cii, quod est iii die mensis octubris, indictione
b
xi . Constantc nos Egino et Ilmingard iugales, qui professi sumus ex nacionee nostra lege vivere Romana, sed ego
Ilmingart nacionee mea lege vivere Langobardorum, sed nunc pro viro meo lege vivere Romana, una cum noticiaf de
propinquioribus parentibus meisg, id est Reginardus et filii sui, proquinquih mei, quia in eorum presenciai vel testium
certa facio professione quod nulla me pati violencia ad quopiam ominem nisij mea bona spontanea voluntate, accepisemus nos comuniter sicuti et in presencia testium accepimus ad vos Condrado avocato et Mactilda iugales argentum
valente solidos ccccc. d. finito precio in iugario nomine per quantum nobis pertinet, in comitatu Froiulinensik res et
familiisl. In primo vero loco in Latisana et in Castellone, id est casis, curtiliciism, vineis, campis, pratis, pascuis comunitatis; et Istrien in loco Golgoriza et quantum ad ipsa curteo pertinere videtur; et inp Carniola ad loco qui dicitur Stermo
res et familiisq: id est casis cum sediminis suis, vineis, campis, pratis, pascuis, silvis, selectisr, sacionibuss, rivis, rupinis, molandinist, piscacionibusu, venacionibusv, cultum et incultum, divisum et indivisum, sortitum et insortitum, una
cum finibus e‹t› terminibusw ac gacenciisx, usibus aquarum, aquarumque ductibus, tam in montibus, quam in planiciis,
locis seu servis et ancillis una cum accesionibusy et ingresibusz, seu cum superioribus et inferioribus suis earum rerum
qual(iter)aa sup(ra) l(egitu)rab; et ab hac die vobis cui supra Condrado avocato et Mactilda iugales pro supra scripto precio vendimus, tradimus, comutamus, nulliisac aliis venundate, donate, alienate, obnocsiatead, velae tradite nisiaf vobis et
faciens exinde a presenti die vos et eredibusag et ac proeredibus vestris iure et proprietario nomine quicquid volueritis,
sine omni nostra et eredibus nostris contradictione. Quidem et spondimus atque promittimus nos quiah supra, Egino et
93
Sulle due pagine
Fig. 1. Vendita di
beni, cose e servitù a Corrado e
Matilde, 3 ottobre 1102, recto
(Museo archeologico nazionale
di Cividale del
Friuli).
94
95
Ilmingart, iugales, nostrisque redibus hacai proheredibusaj, vobisak quorumal supraam iugales vestrisque heredibusan
hac proeredibusao vestrisap, aut cui vos dederitis qualiter supra l(egitu)raq instrumentum ab omni homine defensare,
quear si defendere non potuerim(us) aut nobisas exinde aliquid p(er) quo(d)visat ingenium subtraere quesierimus, tunc
in dupla eadem comutacione vobis restituamus, sicut pro tempore fueri‹n›t meliorate vel valueri‹n›t sub estimacione in
consimilis locis vel personis et nec nobis liceat ullo tempore noleau quodav volumus sed quod a nobis semel factum vel
conscriptum est sub iusiurandum conservare promittimus cum omni stipulatione subnixsaaw et nichilax nobis expensum
precium aliquod deberiay. Actum est in Civitate Austrie sub solario, feliciter. Signuumaz iii manuum suprascriptorum
iugalesaaa qui hanc cartulamaab comutacionis scribere rogaverunt et iugario acceperunt ut supra. Signumaac iii suprascriptoaad Reginardo et filius propinco meoaae qui hanc cartulamaab comutacionis fieri consetiente deditaaf supraaag.
Signum iii manibus Astald(us)aah et Noppoaai consobrinisaaj et Fed(e)ricusaak filius Aldiniaal et Adelgeriaam filius
Rantulfo et Iohannes filius Maraldi, omnes rogati testes. Ego Waltilaan notariusaao et iudex qui hanc cartulamaab comutacionis tradidi et dediaap.
Ego Wodolricus patriarcha a deo electoaaq interfuitaar. Ego Cacilinus iud[ex inter]fuit.
a xpi con p corretto su r b così A; E1,2 x c così A; E1 constat d E1 Ilmingart e E2 natione f E2 notitia g E2 meis
parentibus h così A per propinqui; E1,2 propinqui i E2 presentia j E1 n. k così A, E1; E2 Foroiuliensi l così A, E1; E2
(in) familiis; segue scritta non più leggibile aggiunta in interlinea con inchiostro diverso da mano di poco posteriore m
così A, E2; E1 curtitiis n A istrie; E1,2 Histrie o così A, E1; E2 ad ipsam curtem p i(n) aggiunto in interlinea. q così A
r così A; E1 salectis s E2 sationibus t E1,2 molendinis u E2 piscationibus v E2 venationibus w A et(er) minibus; E1 et
minibus; E2 at terminibus x E2 ac acgacenciis y E1,2 accessionibus z E1,2 ingressibus aa E2 quarum ab E1 super ist.;
E2 supra[dictum] est ac E2 nullus ad E2 obnocziate ae E1 ut af E1 si ag così A; E1,2 heredibus ah E2 quod ai così A per
heredibus ac; E1,2 heredibus hac aj E1 pro heredibus ak E1 vestris al E1 coram; E2 quod am E1 sup. an E2 eredibus
ao così A, E2 per ac proheredibus; E1 hac pro eredibus ap A v(estr)is; E1 nostris aq E1 istud; E2 scriptum ar E1 et; E2
quod as A vob(is) per nobis; E1,2 vobis at E1 pro quodvis; E2 pro quovis au E1 nolle av A q(uo)d; E2 quod quidem aw
E2 subnixa ax E1,2 nihil ay E1 nobis ex ....... precium aliquod d. atri az A signuu(m); E1,2 signum aaa A sup(ra) s(cript)
o(rum) iugales; E1 suprascripti iugales; E2 suprascriptorum omette iugales aab A car(tu)lam; E1 cartam aac E1 omette
signum aad A sup(ra) s(cript)o; E1 sup. Mo; E2 sup. aae così A; segue fieri depennato. aaf E1 signum; E2 omette dedit
aag E2 sup. a. aah E1 Astald. aai E2 Noipo aaj E2 consobrinus aak E1 Fredericus; E2 Fedricus aal E1 Aldine aam E1
Giris aan E1 Walter. aao E1 N. aap E1 omette et dedi aaq così A. aar lacuna di 15 mm.
96
3.
1106 novembre 3, Trebaseleghe
L’arcivescovo di Salisburgo Bertoldo, figlio del fu Burcardo, di legge e nazione bavara, dona il castello di Attimis,
con tutte le sue pertinenze, ai coniugi Corrado e Matilde, suoi parenti, e ai loro eredi, accettando in cambio pelli di volpe
a titolo di launechildo.
fonte: B = mAnc, PC, ii, nr. 4, pergamena di dimensioni medie parte scritta mm 240´172, in alto, e 161 in basso. In
basso, nella parte non scritta, la pergamena va ulteriormente a restringersi, assumendo l’aspetto di un triangolo
rovesciato; qui, lungo la linea centrale, la pergamena misura 310 mm. Il documento consta di 36 linee di testo, di
cui le ultime due riservate alla subscriptio del notaio; non si intravedono tracce di rigatura. L’inchiostro è evanito
in più tratti, soprattutto alle estremità, tanto da inficiarne la leggibilità già nel XVIII secolo, ai tempi dell’edizione
fatta dal de Rubeis. Attergata la scritta (XVI secolo): «1106. donatio castri Attempsi facta a Pertoldo episcopo
Conrado et Mactildae» e di mano recenziore (XVIII secolo): «An. 1106. 3. 9bris. Indictione xiV».
edizioni: E = de rubeis 1740, coll. 609-610; cAmici i. 1760, pp. 10-11 Questa seconda edizione si considera descripta
in quanto, come ebbe a scrivere lo stesso autore, fu tratta «dall’erudito P. Bernardo Rossi domenicano nelle sue
Memorie della Chiesa d’Aquileja» (ivi, pp. 6-7).
coPie: BCu, FP, 873 (= liruti Apographa de Rerum Foroiuliensium istoria), nr. 938; mAnc, PC, ii, copia cartacea
in tomo, datata 1837, Cividale.
regesti: liruti 1777, IV, p. 136; richter 1824, pp. 146-147; di mAnzAno 1858, p. 85; jAksch 1904, nr. 538; kos 1915,
nr. 21; schmidinger 1954, p. 159; hAussmAnn 1984, p. 559.
(SN) Anno dominice incarnationis millesimo centesimo sexto, tertio die mensis [novembris] , indictione xiiii. Vobis
Condrado et Mattil iugalibus, dilectis proximis et amicis meis, ego quidem in dei nomine Bertoldus episcopus, filius
quondam Purcardia, qui profes[sus sum] ex natione mea lege vivere Bawariorumb, sed nunc proc ecclesiasticod [honore
lege videor vivere] [Ro]mana, amicus bene cupiens atque donator vester p(resens) p(resentibus)e dixi. Qua[propter dono
a presenti die vobis in] vestro iure ac potestate per hanc chartam donationis, et suscepto launechild [iure propriet]ario
nomine in vos habendum confirmo, idest nominative castrum unum in[fra com]itatum Foroiulii, et iacet ad locum qui
dicitur Atensf et est muro [circumdatum] cum exitu et introitu suo, et cum omnibus coherentiis ad predictum castrum
spectantibus [...] ut superius dictumg. Quam autem suprascriptam donationem iuris mei supra[dicti cum] [egressi]bush
et ingressibus suis, seu cum superioribus et inferioribus suisi qualiter supra legitur in integrum iura mea vobis, quibus
supra, Condrado et Mattil iugalibus, pro suscepto launechildj dono, cedo, confero, et per presentem cartulamk donationis
in vos habendum confirmo, ad faciendum exinde a presenti diel vos et heredes ac proheredes vestri, aut cui vos dederitis velm habere statueritis, iure proprietario nomine, quicquidn volueritis, sine omni mea et heredum ac proheredum
meorum contradictione. Quidem spondeo ac repromitto, me, ego qui supra Bertoldus episcopus una cum meis heredibus
ac proheredibus, vobis quibus supra Condrado et Mattil iugalibus, vestrisque heredibus ac proheredibus, aut cui vos
dederitis et habere statueritis, predictum castrumo [ab omni homi]ne defensare. Quod si defendere non poterimusp, aut
si vobis exinde aliquid per quod[vis]q ingenium subtraere quesierimus; tunc in duplum vobis predictum castrum muro
circumdatum restituamusr, sicut pro tempore fuerit melioratum aut valuerit sub estimatione hominum ibidem vels in
consimili loco. Et nec mihi liceat, ullo tempore nolle, quod volui: sed quod a me semel faciendum conscriptum est, sub
iure iurando inviolabiliter conservare promitto cum [omni] [sti]pulationet subnixa. Quidem et ad hanc confirmandumu
donationis cartulamv ac[ce]p[i] ego qui supra Bertoldus episcopus, a vobis quibusw supra Condrado et Mattild iugalibus,
exinde launechildx vulpinas pelles ut hec mea donatio diuturnis temporibus firma et stabilis in vos, vestros heredes ac
97
Sulle due pagine
Figg. 3-4. donazione da parte dell'arcivescovo Bertoldo del castello di Attimis ai coniugi Corrado e Matilde,
recto (Museo archeologico nazionale
di Cividale del Friuli).
98
99
proheredes permaneaty [atque] persistat dixi. [Actum] apud ecclesias, quę vocantur Tres Basilicę, feliciterz. Signum iiiiii
manus Bertoldi episcopi, qui hanc cartulamk donationis scribere rogavit, et suprascriptum launechildaa recepit ut supra.
Signum iiiiiiiii manuum Ermanni de Manzano, et Noponis vicecomitis, et Toringiab vicecomitis, et Tedriciac legisperiti,
et Azonis de Castiliroad et item Azonis de Furnello, et Artuiciae [...] filii Azonis et dietrici de Pelegrinoaf et ugonis et
Cubaldi et Menegoldi et orecili de Artenia, omnium rogatorum testium.
(SN) Ego Bernardus notarius, legis quidem peritus, scriptor huius cartulęag donationis post traditam complevi et
dedi.
a Purcardi sovrascritto con altro inchiostro da mano posteriore sulla scritta precedente ormai stinta; E Purchardi
b E Bavariorum c E propter d E segue lacuna fino a Romana e E atque donatione infrascripta; segue lacuna fino a in
vestro iure f E Attens; segue lacuna fino a cum exitu g E aggiunge est assente in B h E mei segue lacuna fino a omnibus
i E segue lacuna fino a vobis j E segue lacuna fino a cedo k E chartam l E et al posto di die m E et al posto di vel n E
quidquid o E segue lacuna fino a defensare p E potuerimus q E quod; segue lacuna fino a quaesierimus r E restituam;
segue lacuna fino a fuerit s E aut t E omette omni; segue confirmatione u così B; E confirmandam v E chartam; segue
lacuna fino a ego w E qui x E segue lacuna fino a et al posto di ut y E segue lacuna fino a Apud z E aggiunge Amen
assente in B aa E launechil ab E Laringi ac E Federici ad E Castilio; segue lacuna fino a Furnello ae E segue lacuna
fino a et dietrici af E de Pe; segue lacuna fino a orazili al posto di orecili ag E chartulae
100
4.
1130 febbraio 13, Attimis
Acica, vedova del marchese Burcardo, presente e consenziente Wilelm di Pozzuolo, suo parente, dona alla figlia
Matilde e al genero Corrado quanto le appartiene nel regno d’Italia, ad Andorf in Baviera, a Weiler e Assling in Carinzia,
a Merscauswert (nei pressi dell’odierna Seebarn) in Austria e nella contea del Friuli, ponendo come segno di garanzia
un coltello, una festuca, un guanto, una zolla di terra e un ramoscello d’albero e accettando dai beneficiari due guanti
quale launechildo.
fonte: B = mAnc, PC, ii, nr. 13, pergamena di dimensioni 141´166, 156 e 150 mm (rispettivamente in alto, a centro e
in basso alla pergamena). Il documento consta di 29 linee di testo; non si intravedono tracce di rigatura. Attergate
varie note di mani ed epoche diverse: «Vult vivere lege Bavarie» (probabile sec. XV); «Donatio Acicę q. Pucardi
marchisi facta Conrado et Mactildę iugalibus» (sec. XVI) e infine «An. 1330. 13. Februarii» (sec. XVIII). Per la
datazione proposta, che nei regesti e in altri studi varia fra il 1130 e il 1107, si rimanda a quanto scritto nell’introduzione.
edizioni: E1 = de rubeis 1740, coll. 611-612 (da B, a. 1130); E2 = jAksch 1904, nr. 541 (da B, anno 1107).
coPie: BCu, FP, 873 (= liruti Apographa de Rerum Foroiuliensium istoria), nr. 932; mAnc, PC, ii, copia cartacea
in tomo del sec. XIX.
regesti: (a. 1130): liruti 1777, IV, pp. 133-134; richter 1824, p. 147; di mAnzAno 1858, pp. 116-117; coronini
1889, p. 189-190 e nota; (a. 1107): jAksch 1904, nr. 541; kos 1915, nr. 24; PAschini 1975, p. 253; hAussmAnn
1984, pp. 559-561.
(SN) Anno dominice incarnacionis mcxxxa, xiii die mensis februarii, indictione Viiib. Vobis Conradus et Mactilt,
ambo iugales, filia et genere meo, ego quidem in dei nomine Acica relicta quondam Pucardic marchisi una cum proquinquod m[eo] Wilelme de loco Puzolo qui professus ex nacione mea lege vivere Baiwariorumf, presens presentibus dixig.
Quah propter amoremi dilec(tionis) vestre et in vestroj iure et potestate per hanc cartulam donacionis et perk suscepto
launechilt iure proprietario nomine in vos habendum confirmo id est quodl dono vobis quantum mihi pertinet in regnum
Italicum, in primo vero loco, et mihi obvenit ex parte paterna vel materna seu ex parte viri mei Pucardic. In primo vero
loco in Baiweria in loco qui dicitur Antrundorfm, seu et in Carintania in loco qui dicitur Wilar et in Asnicn, et in ostric
in loco qui dicitur Merscauswert cum omniso iuriso ad ipsump predium pertinentem et familia vel mobilia; seu et in
comitatu Foro Iulii iuris mei superius dicti una cum accessionibus et ingressibus seu cum superioribus et inferioribus suis
queq supra l(egitur)r in integrums: ab hac die vobis quorum supra iugales, pro supra (script)o lauchiltt trado, do nulli alii
venditas, datas, donatas, alienatas vel traditas, obnoxiatasu nisi vobis; faciendum exinde a presenti die vos et heredibus
vestris aut cui vos dederitis. Et insuper cultellum et festumcumv notatumw, wantonem et vasonem terre atque ramum
arboris warpivivix et expulivi me exinde foras et absenteo fec(i)y vobis et vestris heredibus; quasz Conradus et Mactilt
insimul acquisierintaa, legitimam investituram vel tradicionemab iure proprietario nomine quicquid volueritis, sine omni
mea et heredum meorum mearumac contradict(ione). Quidem spondeo atque repromitto me, ego q(ue)ad supra Acica,
unacum meos heredesae, vobis quorum supra, Conradus et Mactilt, vestrisque heredibus quos insimul aquisier(itis)af
aut cui vos dederitis, suprascriptam meam donacionem queag supra l(egitur)r in integrums ab omni homine defensare.
Quod si defendere non potuerimusah aut si vobis exinde aliquid per quodvis ingenioai subtrahere quesierimusaj, tunc
in duplum supra (script)am meam donacionem vobis restituamus, sicut pro tempore fuer(it) meliorataso aut valuerit
sub exstimacioneak hominum ibidem aut in consimil(ibus)al locis et consimile mobilia vel familia. Quidem et ad hanc
confirmandam donacionis cartulam accepi ego q(ue)ad supra Acicaam a vobis iam dictis Conradus et Mactilt launechilt
101
Sulle due pagine
Figg. 5-6. Fig. 5. Acica dona a Matilde e a Corrado quanto le appartiene, 13 febbraio 1130, recto (Museo archeologico nazionale di Cividale del Friuli).
102
103
manicias duas, ut hecan mea donacio inter vos, vestrisque heredibus cartula ista omni tempore firma et stabili permaneat
atque persistatao. Actum in Atinsap, feliciter. Signum manus suprascripta Acica et Wilelmaq qui hanc cartulam donacionis scribere rogaverunt et supra s(cript)o launechilt recep(erunt), ut supra. Signum manuumar Torincus vicecomes
et Regenardus filius eius et ugo de Civitate et Iannisas de Castiliro rogati testes. Signum manuum Pertolt et Herman et
Adalpretat de loco Menzanoau et Rodolfoav et Poppoaw de Glodinicax et otto de Sagratay et otto de Salto et Ge[wart]
az et Arpo de Stracic et Gotscal de Prantpercaaa et Artuicus de Alber omnes insimul rogati wisotaab.
Ego Arpo notarius et iudex qui hanc cartulamaac donacionis scribere rogavi.
a così B; E1 non corregge la data, E2 corregge in mcVii b Viii corretto su xV; E1,2 xV c così B; E1 Purchardi d
E1 Wilelmo e B p(ro)q(u)inq(u)o per propinquo f E1 Baiwaria g B p(resen)s p(resentibu)s dixi; E1 ss. dixi; E2 pr(out)
predixi h E1 Quia i B amor[e(m)] segue amorem ripetuto; E2 amore j B uro senza segno di abbreviazione; E2 iusto k B
p(er) per p(ro) l B ·i· q(uo)d; E1 omette quod m E1 Antrudorst; E2 Antrisdorf n E1 Insnic o così B p E2 idem q E1 qui r
E2 vel s B i(n)i(ntegrun); E2 in(de) in(fra) t così B per launechilt; E1 Launechild; E2 lau(ne)chilt u ob- corretto da nbv B festu(m)cu(m) per festucum: E1 festum cum; E2 festucam w E2 notatam x così B per warpivi; E1 Warpi vivi y B
fee con segno abbreviativo su e finale; E1 facere z così B; E1,2 quos aa E1 aquisierit ab E1 jurisdictionem ac E2 omette
mearum inteso come ripetizione di meorum ad E1,2 qui ae così B; E1 una cum meis heredibus af E1 aquisier. ag E1 qua;
E2 quam ah E1 poterimus ai B p(er) q(uo)dvis i(n)genio aj E1 quesiverimus ak E1 estimatione al E1 consimilis am E2
Accica an segue, come pare, primo tratto di et depennato. ao B p(er)sistat; E1 consistat ap E1 Attens aq -lm corretto su
-nn; E1 Wilelmus ar B manu(m)u(m) as E1 Joannis at B Adalp(re)t; E1 Adalpert au z corretto su c av E1 Nodolfo aw
E1 Popo ax E1 Gladinio ay -t aggiunto in interlinea az lezione dubbia; E1 Gen...; E2 Gewartt aaa E1 Prantpero aab E2
omette et Artuicus... wisot aac -u- aggiunto in interlinea.
104
5.
[1141] gennaio 20, chiesa di San Floriano
[datato 1112]
Pietro sacerdote, di legge romana, acquista da Matilde figlia del defunto Burcardo, per 2000 libbre d’argento e di
altro metallo, beni nel Regno d’Italia, in Baviera, Carinzia e Friuli, con diritto di usufrutto a vita per Matilde e l’ulteriore
clausola, per la quale, dopo la morte della venditrice, il compratore, a rimedio della sua anima, restituirà la proprietà del
predio e della familia ai figli che Matilde ha avuto da Corrado, suo defunto marito.
fonte: B = mAnc, PC, ii, nr. 7, pergamena di dimensioni 248´150 mm. Il documento consta di 41 linee di testo; non
si intravedono tracce di rigatura. Attergata la nota: «Petrus sacerdos emit a Mactilda filia Purcardi praedium et
familiam et eidem redditum titulum donationis pro anima sua. Bona erant in Bawaria, Carinthia et Foroiulii». Per
la datazione proposta si rimanda a quanto scritto nell’introduzione.
edizioni: E1: de rubeis 1740, coll. 613-615, da B («ex archivo Capituli Civitatis»; data 1112 con riserva); E2: jAksch
1904, nr. 548 (data all’anno 1112 e considera la fonte «Kopie saec. XII-XIII»).
coPiA: mAnc, PC, ii, copia cartacea in tomo autenticata dal notaio Giovanni Battista Pistacchi, datata 1837 maggio
28.
regesti: (a. 1141): Attems 1892, pp. 28-30; (a. 1112): jAksch 1904, nr. 548; hAussmAnn 1984, p. 561; meyer, doPsch
2004, pp. 103-104.
(SN) Anno dominice incarnationis millesimo cxiia, tertio decimo die ante k(alendas). Februarii, indictione iiiib. Ego
quidem in dei nomine Petrus sacerdos qui professus sum ex natione mea lege vivere Romana presens presentibus dixi.
Vita et mors in manu dei est; melius est enim hominic metu mortis vivere quam spe vivendi morte subitanea preveniri.
Manifestum est enim mihi cui supra Petro, eo quod odied venundavit mihi Mattild, filia quondam Purcardie per cartulamf venditionis et accepto pretio interg argentum et aliam mercem valentem libras duo mille finito pretio pro cunctum
predium et familiam et omnes res et masariciash suas et familiam et quantum ei pertinet ex parte patris vel matris seu
fratris et ipsa habere et detinere visa est in toto regno Italico, in Bauuariai seu Carintia atque Foro Iulii vel ubicumque
ei pertinet aut pertinere debet iuris sui, ita, ut in mea fuisset potestate aut cui ego dedissem vel habere statuissem, iure
proprietario nomine habendi et fatiendij hoc quod voluissem. Modo vero considerante me dei omnipotentis misericordiam et retributionem ęternamk utl ne iam dictas res et familiam seu predia inordinatas relinquam, propterea previdim ea
ita ordinare et disponere, utn omni tempore sico firmum et stabile permaneat, qualiter hic subter statuero et per singula
capitula insertum fuerit et mea decreverit voluntas ad ordinandum pro animęp meęp mercede. Ideoque volo et statuo
seu iubeo atque per hanc cartulamf ordinationis meęp confirmo ut usumq et usufructumr predictarum rerum tam predii
quamque familięp habeat predicta Mattild venditrix mea et fatiats a presenti die de usu et usufructu usufructuario nomine
diebus vitęp suęp quicquidt facere voluerit; proprietatem vero predictarum rerum tam predii quamque familięp, ut supra
legituru, habeant filii et filie predictęp Mattildęp venditricis meęp, quos ex Cuondradov viro suo iam defuncto progenitos habuit, et fatiantw exinde a presenti die post eius decessum de proprietate et usufructu iure proprietario nomine
quicquidt voluerint, pro animęp meęp mercede, quia sic in his omnibus, sicut supra legitury, mea decrevit voluntas ad
ordinandum pro animęp meęp mercede. Et nec mihi liceat ullo tempore nolle quod volui, sed quodz a me semel factum
vel conscriptumaa est, sub iureiurando inviolabiliter conservare, promitto cum stipulatione subnixa.ab Hanc enim cartulamf ordinationis meęp paginęp Arponis notarii tradidi et scribere rogavi, in qua etiam subterac confirmans testibusque
obtuli roborandam dixi. Actum in atrio ecclesie Sancti Floriani, feliciter. Signum iiiiiiad manus Petri presbiteriae qui
hanc cartulamaf ordinationis scribere rogavit, ut supra. Signum iiiiiiiiiad manuum Toringi vicecomitis et Regenardi filii
105
eius et Fridrici de Lezo et Iannesag filii Azonis et Alberici et odolriciah filii Rantiheriai et Ioh(an)nisag de Grandegno et
Tedriciaj et ugonis et Arponis et Artuici et otonis omnium testium et uuisotak. Ego Arpo notarius scriptor huius cartulęs
ordinationis post traditam complevi et dedi.
a così B per mcxli b così B, corretto da mano recenziore in V; E1 iii; E2 annota correzione in Vii c E1 omni d cosi
B; E1 hodie e E1 Purchardi f B car(tula)m; E1 cartam g B in | t(er); E1 in tantum; E2 in t(antum) h E1 massaricias i E1
Bavaria j E1 faciendi k E1 aeternam; E2 eternam l così B; E1,2 et m B p(re)vidi; E1 providi n E1 segue in aggiunto. o
E1 sit p E1,2 -e finale non caudata. q E1 usu r E1 usufructu s E1 faciat t B q(ui)cq(ui)d; E1 quidquid u E1 legate; E2
legetur v cosi B con -d- corretta su -o-; E2 Cuonorado w E1 faciant x E1 legatis z q(uo)d con q corretta da d; E1 quidquid aa v(e)l c(on)scriptu(m); E1 et nunc scriptum ab E1 seguono .... aggiunti. ac così B; E1 sub...; E1 subtus ad E1
omette le croci; E2 sostituisce le croci con s(ubscriptionis) ae E1 Presbyteri af A car(tula)m; E1,2 cartam ag E1 Joannis
ah E1 odalrici ai E1 Rantheri aj così B; E1 Fedrici ak E1 wisot; E2 uisot
106
6.
1170 febbraio 2, Aquileia
udalrico, già marchese di Toscana, assieme alla moglie, la marchesa diemot, a rimedio delle loro anime donano
alla chiesa di Aquileia e cedono nelle mani di ulrico di Treffen, patriarca di Aquileia, il castello di Attimis con la villa
ad esso sottostante, il castello di Partistagno, le ville di Porzùs, Subìt, Prossenicco, ogni loro avere a Bergogna/Breginj
e Longo/Logje, e ancora le ville di Cergneu e Chialminis, l’allodio presso Nimis, la corte costituita presso Ariis, le
ville di Lasina e di Piedimonte, Raccogliano/Orehovlje, Vipulzano/Vipolže e Volzana/Volče. La coppia marchionale
dona contestualmente alla Chiesa d’Aquileia anche i dienstmanni o ministeriali, inclusi alcuni ministeriali di Attimis, ai
quali conferma l’esclusiva facoltà di allocare un castellano di loro scelta nel suddetto castello di Attimis. La donazione
è legittimata dal giuramento delle figlie e del nipote del marchese di rifiutare ogni diritto su quei beni e dalla promessa
della marchesa di rinunciare a eventuali diritti dotali. Segue il lungo elenco dei ministeriali che giurano la loro fedeltà
al patriarca, loro nuovo signore.
fonti: A: originale del notaio Giovanni Bono (non reperita); B = copia pergamenacea di ottolino Vicentino datata 1215
luglio 18 (non reperita); C = copia autenticata dal notaio Francesco Caimo dall’exemplum B, datata 1671 dicembre
17, Villotta (non reperita).
D1: mAnc, PC, ii, nr. 30, foglio cartaceo di dimensioni 312 ´ 216 mm, copia autenticata dal notaio Giacomo Santo
Marno, datata 1739 maggio 25, Brazzacco; vidimata in data 1839 luglio 3 dal canonico archivista capitolare
Michele Co. della Torre.
D2: ivi, foglio cartaceo di dimensioni 292 ´ 199 mm; copia autenticata di d1, sigillata e vidimata in data 1839 luglio 3
dal canonico archivista capitolare Michele Co. della Torre. Fra le fonti si sono anche usate le edizioni indicate infra
(E1, E2), per i motivi addotti nel relativo paragrafo (2.3 supra).
edizioni: E1 = de rubeis 1740, coll. 604-606; cAmici 1760, pp. 19-22: questa seconda edizione si considera descripta
di E1 in quanto, l’autore trasse il documento «apud Rub. loc. cit.» (ivi, p. 6, nota 4); E2 = murAtori 1776, coll.
591-594.
regesti: liruti 1777, IV, pp. 133-134; richter 1824, pp. 147-148; czörnig 1873, p. 275; di mAnzAno 1858, pp. 156157; Attems 1892, pp. 39-40; kos 1915, nr. 508; PAschini 1975, p. 274; hAussmAnn 1984, p. 563: tutti i regesti
vanno riferiti anche ai docc. 7 e 8, infra.
In nomine domini, amen. Anno a nativitate domini mclxx, indictione tertia, die lune secundo intrante mense
februario, in presentia infrascriptorum testium. Wodalricusa quondam marchio Thuscie et diemoutb quondam marchisana eius uxor, pro remedio animarum suarum et predecessorum suorum, contulerunt puram et meram donationem super
altare beatissime Marie Virginis et in manu W(dalrici)c Aquileiensis ecclesie patriarche et apostolice sedis legati de
castro ded Attens uti nunc possidet ‹in integrum›e etf villa sub castro constituta cum omni iure sibi pertinente, servis et
ancilisg ibidem manentibus et peculio ipsorum, et bonis cultis et incultis, montibus, nemoribus, vallibus, campis, pratis,
vineis, piscationibus, venationibus, molendinis, aquis, aquarumque decursibus: et de castro Perhtensteineh cum omnibus suis pertinentiis, et de villa Porcil, et de villa Subid, et de villa Prosernichi; et de hoc toto quod habet in Verginj et
Lůgrek, cum villa et omnibus suis pertinentiis, et de villa Cerneul et de villa Calmines, et de allodiom quod habet apud
Nemachn, et de curia apudo Hage constituta et de villa que vocatur Lasinap et de villa que vocatur Predegoiq, et de villa
Rechelach et de villa Wipelsachr et de villa Wolfschel; cum omnibus pertinentiis predictorum locorum, et cum omnibus
servis et ancillis et peculiis et rebus eorum in suprascriptiss locis habitantibus. Insupert prefati iugales donavereu prefato
altari Aquileiensis ecclesie etv prefato W(dalrico)c Aquileiensi patriarche et apostolice sedis legato ministeriales suos
107
dinismannosw, videlicet Sifridumx cum filiis, quos habuit de domina detmudiy, Conradum et fratrem cum omnibus
filiis et filiabus suis, Conradum de Manzanoz cum filiis et filiabus suis, preter filiam eius diemoutaa; Engelmanumab
fratrem dicti Conradi, Henricum de Stratac, Ruobertum de Nemachad, Albertum Clestarae, Wernardum de Gudigaf
cum filiis et filiabus, Herchardumag fratrem eius, Pertoldum de Ruwinah, otiliumai de Ruwinaj cum filiis et filiabus,
preter unum quem voluntak; Bertadinal de Plu...am cum filiis et filiabus eius, preter octonem et sororem eius, que est
apud Celchanan; Peregrinum de Lubidrachao cum tribusap sororibus, Henricum de Flamberaq cum duabus sororibus,
Henricum de Hagear cum uxore et filiis et filiabus eorum, Pertoldum de Hage, Henricum de Wipelsach cum filiis suis,
dominam Mathildemas de Predegoiat cum filiis et filiabus suis, ottacumau de Faideav cum sorore eius Margareta,
Hirmindeiaw de Attens cum filiis et filiabus, Henricum de Attens cum filia, Arponem de Attens, Vudalricum gastaldionem de Attensax, Iohannem de Sancto Vito, Wdalricum de Sancto Vito, Iohannem de Versa. Quibus ministerialibus
idem marchio W(dalricus)ay omnia de quibus prius se violenter intromiserataz, rediditaaa et tenutam eisaab restituit.
Confirmatum est statim, ut nullus castellanus in eodem castro, videlicet Attens, locetur nisi quem voluntas et consilium
ministerialium ad idem castrum pertinentium elegerit. Supradictus quoque marchio W(dalricus)ay quondamaac ibidem,
antequam istamaad prefatam donationem faceret, iuravit super altare beatissime Marie Virginis, quod espedierataae
omnia suprascriptaaaf a filiabus et a nepote per refutationem, quam in eum fecerant; et quod libere posset tradere de iure
cuicumque voluerit; et promisit eaaag defensare, warentare suprascriptamaah donationem legitime iureiurando suprascripteaai ecclesiae et domino patriarche ab omni homine in integrumaaj: et quod firmam et ratam perpetuo suprascriptamaah donationem habebit. Item domina diemuotaaak, quondam marchisanaaal Tuscie, iuravit per nuncium suum, cui
ipsa dedit parabulam iurandi: quod ipsa nulla occasione nec dotis, nec donationis, velaam cuiuslibet alterius veniet contra
suprascriptamaah donationem; sed semper firmam et inviolatam habebit. Nuntius vero iurandi fuit Artuwicus de Curia
veteri. Et maior pars dienismanorumaan et ministerialium illorum feudum quod habebant a suprascriptoaao marchione,
presente eoaap, et a domino patriarchaaaq receperuntaar et ei fidelitatem super altare iuraverunt. Nomina illorum qui
iuraveruntaas fidelitatem sunt hec: Conradus de çinpicaaat, Sifridusaau filius fratris eiusdem, Conradus de Menzaiaaw,
†Hengelmanusaax eius frater, Henricus de Strichaaay, Rodepertus de Nimasaaz, Adelbertusaaaa Clestensaaab, Wariendus
de Gudig, Henricus de Frata, Pertoldus de Frata, Henricus de Wipelsachr, Wdolricus eius filius, Iohannes de Versa,
Wdalricus de Sancto Vito, Wdolricus de Flagug(n)aaaac, odolricus de zumpicaaaad, ottacus de Faedesoaaae. Actum est
hoc in civitate Aquileieaaaf ante altare beatissime Marie Virginis, presente clero et populo. Signa testium. Wdolricusaaag
abbas de Musinihoaaah, magister Adelbertusaaai de Frisac, Luprandusaaaj decanus Aquileiensis, Ionatasaaak prepositus Sancti Felicis, odelscalcus de Reising, Piligrinus prepositus ecclesie Civitatisaaal, comes Wolfradusaaam, comes
Henricus eius gener de Lexenmuntaaan, Cuonradus de Fontanabona, Fridericus et Artwicus de Cauriag(o)aaao, otto
de Puochaaap, Walterius de Lusiriag(o)aaaq, Reginardus de Artigna, Reginhardus de Frata, Noppusaaar de Civitate,
Walchonus de Vendoyaaas, Frashau de Muruhaaat, Herbordusaaau de Fagedes, Warnerius de Pinchanoaaav, Warnerius
de Glemonaaaaw et alii plures testes rogati fuere, scilicet a suprascriptoaaax marchione et marchisana; et predictus marchio et marchisana rogaverunt, suprascriptamaaay donationemaaaz utaaaaa in scriptis redigeretur.
a E1 Wdalicus; E2 Vuldaricus b E1 dietmot; E2 diemur c E1,2 W.; D1,2 sciolgono d E1 omette de e in integrum
solo E2; D1,2, E1 ... f E1 aggiunge di seguito de g E1,2 ancillis h così E1; D1,2 Protesteino; E2 Perthenstene i E2
Perscinich j E1 Vergia k così D1; D2, E2 Luogre; E1 Logre l E1 Cernen m E2 aliquo n E1 Namach o E2 omette apud
p così E2; D1,2 Latena; E1 Latina q E1 Pedegoy; E2 et de villa Predegoi precede et de villa que vocatur Lasina r E1
Vipelfach s D1,2 supradictis infrascriptis; E1 supradictis t D1,2 aggiunge di seguito infrascripti u così E2; D1,2 donaverunt infrascripto; E1 donaverunt v D1,2 aggiunge di seguito infrascripto w così E1; D1,2 desnemanos; E2 disnimannos
x E1 Sifradum y E1 domina ...; E2 domna deddi z così E1; D1,2 Merlano; E2 Melano aa E2 diemur ab così E2; D1,2,
E1 Engelmarum ac E2 Straz ad E1 de ...mach; E2 de Bamach ae D1,2 Clester; E1 Clesta af E1 de ...ig ag E1 Herardum
ah così D1 correggendo da Rawia; D2 Rawia; E1 Ruwia; E2 Ruztvim ai E2 osilium aj E2 Ruzivim ak E2 omette volunt
108
sostituendo con ........ al E1 Be...adin am E2 de Pul........... an D1 omette Celchan; D2 depenna Celchan ao così E2; D1,2
Lubidragi; E1 Subidrag ap E2 omnibus aq D1 Famber con l aggiunto in interlinea; D2, E1 Famber; E2 Funber ar così
D2; D1, E2 Hag; E1 Mag as D1,2 domina Machtildi; E2 domna Mactildi at E2 Predegoc au E2 otacum av così E1;
D1,2 Foide; E2 Foido aw E1 Hirmindem; E2 Hirmindeim ax E1 omette Vudalricum... Attens ay D1,2 Wdalricus; E1
W.; E2 Vuldaricus az E2 immiserat aaa E1,2 reddidit aab così E1; D1,2, E2 eius aac E2 omette quondam aad E2 omette
istam aae E1,2 expedierat aaf D1,2 infrascripta; E1 ista aag così E2; D1,2, E1 de aah D1,2 infrascriptam; E1 istam aai
D1,2 infrascripte prefate; E1 prefate aaj D1 in integrum aggiunto in interlineo su iii iii; D2 iii iii; E1 omette in integrum; E2 in integrum ab omni homine aak E2 domna diemura aal E2 marchionissa aam E1 nec aan E2 disnimanorum
aao D1,2 infrascripto aap E1 omette eo aaq E2 omette et a domino patriarcha aar D1,2, E2 venierunt aas E2 aggiunge
infrascriptam aat D1 zimpica corretto da Cinpica; D2, E1,2 Cinpica aau D1 zofridus corretto da Iofridus; D2 Sifridus
corretto da Iofridus aaw così D2; D1 Mengoi; E1 Me...gar; E2 Niagei aax lezione restituita; D1,2, E1 Herogelmarius;
E2 Herogelmarius aay E2 Strecha aaz E1,2 Nimes aaaa E2 Adalpertus aaab così E1; D1,2 Alestes; E2 Klestes aaac E1
Faguag; E2 Flaguga aaad così E1; D1,2 zunpita; E2 zunpita aaae E1 Fedeso aaaf E2 Aquilejensi aaag E1 Wdolrichus
aaah E1 Musinich; E2 Musinih aaai D1,2 Adalbertus aaaj E1 Lupardus; E2 Lumpidus aaak E1 Ionathas; E2 Ionatus aaal
E1 odelscalcus... Civitatis omesso. aaam E1 Volfradus; E2 Wolfredus aaan così E2; D1,2 Lexenmumt; E1 Lexenmut
aaao E1,2 Cauriag aaap E1 Purch; E2 Puch aaaq D2 Lugiriag(o); E1 Lusiriag; E2 Lusiriago aaar E2 Nappus aaas D1,2,
E2 Walcherius de Vendoy; E1 Walchonus de ...endoy aaat D1,2 Frascau de Muruch; E1 Frashan de Muruh aaau E1,2
Erbordus aaav E1 Pinhno; E2 Pinhano aaaw E2 Clemona aaax E1 supradictis aaay D1,2 infrascriptam; E1 ista aaaz E1
donatio aaaaa E1 omette ut
109
7.
[1170 febbraio 4], Ariis
uldarico marchese di Tuscia trasferisce il possesso della corte o podere di Ariis al patriarca di Aquileia; contestualmente Ercardo promette la sua fedeltà al patriarca.
fonti: D1: copia datata all’anno 1739; D2: copia datata all’anno 1839 (cfr. doc. 6, supra).
edizioni: E1 = de rubeis 1740, col. 606; E2 = murAtori 1776, col. 594
regesti: Cfr. doc. 6, supra.
Postea, die mercurii, marchio W(dalricus)a tradidit possessionem de curia de Hage predicto dominob patriarche
apud Hage pro omnibus prediis superius dictisc, et castris; et confessus est Hercardusd fecisse fidelitateme dominob
patriarche; presente comite Wolfrado, Wdalscalchof, Ionatha, Walteriog de †Pinzanoh, et Cuonone, puorgrafi de usono,
qui et superiori donationi adfuit, et Cono eius filius; et hoc fuit in Hage in strata iuxta ecclesiam.
a E1 W.; E2 Vuldaricus; D1,2 Wdalricus b E2 domno c E2 supradictis d E1,2 Hechardus e D1,2 in utilitatem f così
E2; E1 udascalco; D1,2 Wodelsalcho g E1 Valterio.; E2 Waltherio h lezione restituita; E1,2 Pinhano; D1,2 Pinħano i
E2 Cunone Purgnis
110
8.
[1170 febbraio 6], castello di Attimis
Il marchese uldarico, assieme alla moglie la marchesa diemot, nel loro castello di Attimis consegnano le chiavi del
castello a ulrico, patriarca di Aquileia, e facendolo passare attraverso la porta e la torre dello stesso, ne lo immettono in
tenuta e gliene cedono la piena proprietà e dominio in presenza di qualificati testimoni. Subito dopo i ministeriali Arbo
ed Enrico d’Attems, dopo aver giurato fedeltà al patriarca, loro nuovo signore, ricevono da quest’ultimo il feudo che
avevano prima dal marchese.
fonti: D1: copia datata all’anno 1739; D2: copia datata all’anno 1839 (cfr. doc. 6, supra).
edizioni: E1 = de rubeis 1740, col. 606; E2 = murAtori 1776, coll. 594-596
regesti: Cfr. doc. 6, supra.
Sequenti die veneris, supradictus marchio et marchionissa in castro de Attens tradiderea claves eiusdem castri in
manu W(dalrici)b Aquileiensis ecclesie patriarche; et miserunt eum per turrim et portam in tenutam pro castro et omnibusc possessionibus superius dictis et datis. Presentibus his testibus, quorum nomina hec sunt: comes Wolfradusd, comes
Henricus de Lexmunte, Fridericus et Artwicusf de Cauriach, Wdolricus abbas de Mosinichg, Ionatas prepositus, Romulus, otto de Puochh, Walterius de †Pinczanoi, Gotsalcusj, Hermannus prepositus Sancti Wdalricik, Cu‹ono purgraf›l de
Usono, Reginhardus de †Artineam, ofradusn de Susano, Walconuso de Vendoyp. Et eodem die supradictusq marchio et
marchionissa exiverer de supradictos castro et possessione eiusdem castri; et totius predominiumt supradicto patriarche
relinquerunt in presentia suprascriptorumu testium. Et ibidem Arbo et Henricus de Attens iuravere fidelitatem dominov
patriarche, sicut dienismanniw; et feudum, quod habebant a marchione, ab eo receperunt. Sanctus Sacratissimex aule
iudex omnibus supradictis interfuit testis et vidit et audivit.
(S)y Ego Iohannes Bonus tabellio rogatus a supradictis iugalibus et dinismannis, ut superius, hec scripsi et complevi.
[Locus signi notarii]z Anno domini m°cc°xV°, indictione iii, die xiiiiaa exeunte mense iulio. Ego ottolinus Vicentinus, sacri palaciiab notarius, ex authentico nihil adensac vel minuens, quod sententiam mutare posset, preter notam vel
punctumad, sumpsi hoc exemplum, scripsi bona fide et sine fraudeae.
[S.N.] Suprascriptum exemplum renuntiationis et investiture in supradictis duabus paginis contentum, et aliena
mihi fida manu extractum ex alio consimili autentico in bergomeno et caratere vetere nunc existente penes illustrissimum
dominum Marcum Antonium de Sbrojavacca quondam Illustrissimi domini Petri Antonii in villa Villotte et cum dicto
authentico de verbo ad verbum diligenter relectum, quia concordare inveni ita rogatus, ego Franciscus Caimus I.u.d.
Collegii utinensis et p(ublicus) V(eneta) auctoritate notarius ad presens incola terre patriarchalis Sancti Viti, propria
manu subscripsi et solito meo notariatus signo, in fide roboravi. die 17 decembris 1671 in dicta villa Villotte etc.
(ST) Ego Iacobus Sanctus Marno p(ublicus) V(eneta) auctoritate Brazzacchi notarius propria manu eductum ab
autentico existente penes illistrussimum dominum comitem Hectorem ex dominis Brazzacchi et Cergneu in fidem subscripsi etc. die 25 maii 1739.
Cividale, lì 3 luglio 1839.
Il canonico archivista capitolare per copia conforme ut supraaf Michele Co(nte) della Torreag.
a E2 tradiderunt b E1,2 W.; D1,2 sciolto. c D1,2 eius d E2 Wolfridus e E1 Lexmut f così E2; E1 Artuwicus; D1,2
Hartuicus g E2 Mosinih h E2 Puch i lezione restituita; E1,2 Pinchano; D1,2 Pincħano j così E2; E1 omette Gotsalcus;
D1,2 Gortsalcus k E1 omette Sancti Wdalrici l D1,2 Cum... segue de usono; E1 ... de usono; E2 Cuno de usono m
111
lezione restituita; D1,2 Petima; E1 Petina; E2 Pisima n E2 ofredus o E1 Walchonus; E2 Wulconus p E1 Wendoy q E2
suprascriptus r E2 exiverut s D1,2 infrascripto t D1,2, E2 predominii u D1,2 infrascriptorum; E1 istorum v E2 domno w
così E1; D1,2 diensermanni; E2 diemsermanni x D2 Sanctissimȩ y E1,2 (S) omesso z E1 omette [Locus... notarii] aa E1
xiV ab E1 palatii ac E1 addens ad E1 omette preter... punctum ae E2 omette [Locus... notarii]... fraude af ut supra solo
in E2 ag (ST)... della Torre solo in D1,2
112
9.
[1177 post marzo 16 ante luglio 20]
L’imperatore Federico demanda al patriarca di Aquileia ulrico di Treffen di comporre la vertenza sul feudo e le
proprietà di Corrado di Attems in via amichevole o giudiziale per evitare che, se il querelante dovesse a lui appellarsi,
l’imperatore sia poi costretto a sovvenirlo con quanto richiede l’equità.
fonte: Assente fra le carte cividalesi; si seguono le edizioni tedesche infra. Per la datazione, che segue l’edizione di
Helmut Plechl, rimando a quanto al termine del § 2.3.
edizioni: E1 = APPelt 1985, nr. 680; E2 = Plechl 2002, n. 63.
regesti: PAschini 1914, p. 139; Plechl 2002, p. 85; buorA 2018, p. 307 (con parziale edizione, senza data).
F.a (ridericus) Dei gratia Rom(anorum) imperator et semper augustus dilecto suo Ǒ.b patriache Aq(uilegensi)c
gratiam suam et omne bonum.
Rogamus discretionem tuam attente monentes et precipiendo consulentes, ut negocium fidelis nostri C.d de Atenes
tam de feodo quam de proprio suo benigne et amicabiliter cum ipso componas aut secundum hominum tuorum sententiam id iusto iudicio definias, ita clementer et rationabiliter, ut querimoniam nobis denuo proferre eum non oporteat,
quoniame nos ei in sua iusticia, si causa ad nos fuerit reversa, equitatis suffragio cogimus subvenire.
a E1 Fridericus b E1 odalrico c E1 Aquileiensi d E1 C(onradi) e E1 quam
113
10.
[1177 post marzo 16 ante luglio 20]
L’imperatore Federico, dà mandato al patriarca di Aquileia ulrico di Treffen di assumere in sua vece la competenza
sulla vertenza di Corrado di Attimis e portarla a una soluzione, o in maniera giudiziale o amichevole, prima di giungere
Venezia.
fonte: mAnc, PC, ii, nr. 32, su foglio cartaceo di dimensioni 303 ´ 218 mm.
Regesto e trascrizione di Michele della Torre tratta da E1 e datatata «1173 circa».
Poiché questa copia, conservata a Cividale, è una semplice trascrizione dell’edizione di de Rubeis, si considera
come descripta di E1. La presente edizione si attiene tuttavia al testo pubblicato nei MGH (E2) e più recentemente
da Helmut Plechl (E3), perché tratto in entrambi i casi da una copia coeva (B), ovvero il cartolare di Tegernsee; da
qui anche la datazione proposta (cfr. quanto scritto supra, § 2.3).
edizioni: E1 = de rubeis 1740, col. 608 (non datata); E2 = APPelt 1985, nr. 683; E3 = Plechl 2002, n. 71 (p. 95);
regesti: de rubeis 1740, col. 608; PAschini 1914, p. 138; APPelt 1985, nr. 683; Plechl 2002; buorA 2018, p. 307
(con parziale edizione).
trAduzione: cAmici 1760, p. 9 (dall’edizione de rubeis 1740; il testo della traduzione è qui riportato in calce all’edizione del documento, dopo le note ecdotiche).
F.a dei gratia Rom(anorum)b imperator et semper augustus Ǒ.c patriarche Aqui(legiensi)d gratiam suam et omne
bonum.
Negociume Cǒ.f de Attenes composuissemus, si ocii opportunitatem habuissemus. Sed magnis hoc tempore, ut
nosti, rebus impediti, de his non poteramus nos intromittere, nec adhuc possumus, nisi contingeret, quod ad Venetiam
veniremus. unde dilectioni tue mandamus, et attente iniungimus, quatinusg ipsum negotium vice nostra assumas et illud
aut iuste vel amicabiliter ita termines, quod illumh non oporteat denuo ad nos, pro hac causa reverti.
a E1 F(edericus); E2 F(ridericus) b E1,2 sciolgono in Romanorum c E1 o(dolrico); E2 o(dalrico) d E1 Aquil.;
E2 Aquileiensi e E1 Negotium f E1 Cu. de Attenes (legendum suspicor, negotium Curiae, vel Castri de Attens); E2
Cǒ(nradi) g E1,2 quatenus h E1,2 illud
Federigo per la grazia di dio Imperadore de’ Romani, e sempre Augusto a u. Patriarca d’Aquileja la sua grazia,
ed ogni bene. Noi avremmo spedito l’affare della Curia d’Attemps, se avessimo trovato tempo opportuno; ma impediti, come sapete, presentemente da gravissime occupazioni, non potevamo noi allora, né possiamo ancora metterci al
fatto del noto fare, se ciò per avventura non fosse nella nostra venuta a Venezia, che non è per anco fissata. Il perché
ordiniamo, e comandiamo espressamente alla diletta persona vostra d’assumere in nostro nome la causa consaputa, e
di terminarla amichevolmente, o per via di processo in modo tale, che non resti necessità, per la quale convenga poi
ripigliarne l’esame un’altra volta.
114
11.
1180 gennaio 25, Würzburg
Federico I conferma al patriarca di Aquileia ulrico di Treffen il ducato e la contea del Friuli, la villa di Lucinico
con le regalie e tutto ciò che era appartenente al ducato, tutte le regalie dei vescovati dell’Istria e di Concordia e Belluno,
le tre abbazie di Sesto, S. Maria in organo e della Valle, la terra o territorio situato tra il Piave e la Livenza, i castelli di
Treffen, di Attimis e i poderi di Ariis e conferma inoltre ogni cosa che il suo antecessore Corrado aveva conferito alla
Chiesa d’Aquileia.
fonte: mAnc, PC, ii, nr. 43, regesto di Michele della Torre 303´ 218 mm (datata 1180 gennaio 23). Transunto di mano
di Michele della Torre evidenziato con caratteri dal corpo maggiore, rispetto al resto del diploma, riportato per
intero dall’edizione infra con caratteri di corpo minore.
edizione: APPelt 1985, nr. 791.
regesti: di mAnzAno 1858, pp. 168; PAschini 1975, pp. 279-280; hAussmAnn 1984, p. 563.
In nomine sancte et individue trinitatis. Fridericus divina favente clemencia Romanorum imperator et semper
augustus. Quoniam ad imperii nostri exaltationem nostreque salutis non dubitamus pertinere profectum, quicquid imperiali clementia ad ecclesiarum dei commodum impertimur et augmentum, inde est, quod preces dilecti principis nostri
Vdalrici Aquilegensis patriarche apostolice sedis legati, quas magestati nostre pro ecclesia sua humiliter obtulit, tum
eterne restributionis intuitu, tum sue devotionis respectu, ad interventum etiam dilectorum nostrorum fidelium Arnoldi
Treverensis archiepiscopi, Conradi Vuormatiensis episcopi, Bertrami Metensis electi, Gotofredi cancellarii nostri,
ortuvini protonotarii nostri, ottonis palatini maioris de Witelinsbach, comitis Artimani de Chirperch, comitis Manegoldi
de Veringen admittendas duximus et exaudiendas. Perspectis sane et intellectis privilegiis, quibus dive memorie antecessores nostri reges et imperatores eandem ecclesiam muniverunt et benigna liberalitate complexi sunt, nos quoque ad
immitationem ipsorum eandem ecclesiam imperio nostro semper devotissimam sub imperialis celsitudinis nostre protectionem et tutelam suscepimus et presentis scripti privilegio communimus. Ad hec omnes possessiones, quecumque
bona, quecumque iura, districta, thelonea, ripatica prefata ecclesia inpresenciarum possidet vel in futurum largitione
nostra vel successorum nostrorum regum seu imperatorum, concessione pontificum, liberalitate principum, oblatione
fidelium seu aliis iustis modis prospicio deo adipisci poterit, ei confirmantes imperiali auctoritate nostra statuimus, ut
iam dicto patriarche suisque successoribus firma et illibata permaneant. de hiis autem, que prescripte ecclesie confirmamus, quedam annotanda duximus, que et inter alia communiter et specialiter per hanc nostre confirmationis paginam
ei coroboramus, scilicet ducatum et comitatum Foriiulii et villam de Luncenigo *cum omnibus ad regalia et* ducatum
pertinentibus, hoc est placitis, colectis, fodro, districtionibus universis omnique utilitate, que iuste ullo modo inde provenire poterit; preterea regalia omnium episcopatuum Hystrie, Tergestini, Polensis, Parentini, Petenenesis, Civitatis Nove,
regalia Concordiensis episcopatus, regalia Belunensis episcopatus, regalia trium abatiarum de Sexto, Sancte Marie in
organo et de Valle *cum curtibus,* castellis, portubus, villis, mansis, venationibus, piscationibus, *placitis, theloneis,
nemoribus, molendinis et * omnibus aliis mobilibus et immobilibus, *erbatico, capulis, pascuis, insulam Gradensem
cum omnibus suis pertinenciis et terra *inter* Plavim et Liguenciam iacentem, villas Sancti Pauli et Sancti Gregorii et
omnia, que antecessor noster auguste memorie Cuonradus imperator Aquilegensi ecclesie ibidem contulit, cum omnibus *appenditiis et uilitatibus, agris, pratis, campkis, pascuis, terris cultis et incultis, molendinis, aquis aquarumque
decursibus, venationibus, piscationibus, exitibus et reditibus, nemoribus, mobilibus et immobilibus, castrum de Treven
cum omnibus suis pertinenciis et utilitatibus, ministerialibus, familiis, terris cultis et incultis, nemoribus in integrum,
secundum quod prefatus patriarcha una cum patre suo comite Wolurado et matre sua ecclesie sue contradidit, castrum de
115
Atens cum omnibus suis pertinenciis, ministerialibus et familiis, mansis, villis, nemoribus, prediis de Hage cum universis pertinentiis suis in integrum cum ministerialibus et familiis, secundum quod nobilis vir Vlricus marchio in integrum
quondam Tuscie, sicut in publico instrumento inde confecto continetur, Aquilegensi ecclesie contulit. decernimus ergo,
ut nulli omnino hominum liceat prefatam ecclesiam temere perturbare vel eius possessiones auferre, ablatas retienere,
minuere vel aliquibus vexationibus fatigare, sed omnia integre conserventur et illesa voluntati et dispositioni prefati
patriarche suorumque successorum usibus omnimodis profutura. Nec generet eidem patriarche suisque successoribus et
Aquilegensi ecclesie aliquo in tempore preiudiciu, si quid contra huius privilegii nostri tenorem et Aquilegensis ecclesie iusticiam quod dampnum ei parere aut aliquid detrimentum possit ab aliquibus per subreptionem obtentum esse.
Volumus igitur, ut sepedicta Aquilegensis ecclesia hoc nostre magestatis privilegio adeo munita et defensa existat, ut,
si forte casu aliquo omnia instrumenta et privilegia sua perderet, nihil iacutre vel diminutionis sustineat hancque paginam loco omnium privilegiorum et instrumentorum habeat. Si qua igitur in futurum imperii nostri persona contra hanc
nostre institutionis et confirmationis paginam temere venire presumpserit et commonita non resipuerit, noverit se iram
et indignationem maietatis nostre incursuram et composituram auri purissimi mille libras medietatemque camere nostre
et medietatem patriarche Aquilegensi, qui pro tempore fuerit, persolvet et nostra nichilominus institutio et confirmatio
firma permaneat et inconvulsa. Testes horum sunt: prefati principes et fideles nostri et comes Henricus de dietse, comes
diepoldus de Lechsmunde, Rubertus de durne, Henricus de Papinheim et alii multi.
Ego Gotefridus cancellarius vice Christiani Maguntine sedis archiepiscopi et Germanie archicancellarii recognovi.
Signum domini Friderici Romanorum imperatoris invictissimi. (M).
Acta sunt hec anno dominice incarnationis m°clxxx, indictione xiii, regnante gloriosissimo domino Friderico
Romanorum imperatore, anno regni eius xxViii, imperii vero xxVi; datum Virzeburch Viii kalendas febr.; feliciter
amen.
116
Piede di candeliere in bronzo dorato
Maurizio Buora
117
Maurizio Buora
Società Friulana di Archeologia
mbuora@libero.it
118
Tra i reperti trovati durante gli scavi nel castello
di Attimis il più elaborato è una parte di un candeliere,
proveniente dalla stanza C (inv. n. 477.899), di grande
pregio, in bronzo dorato (fig. 1). Nonostante la corrosione
causata dalla deposizione per molti secoli nel terreno, il
frammento mostra ancora che l’oggetto cui apparteneva
era un pezzo unico prodotto su commissione. Portano
a questa conclusione non solo la modellazione della
fusione in bronzo lavorato a giorno, ma anche la attenta
cesellatura e la doratura a fuoco, che si estende anche al
piede sagomato ad artiglio. Il tipo di lavorazione avvicina questo oggetto a opere monumentali che si sono
conservate fino a noi, quali i giganteschi candelabri di
scuola germanica, ma soprattutto ai candelieri portatili in
bronzo. Si sono salvati quelli conservati all’interno delle
chiese e appartenenti a tesori sacri, mentre tante altre suppellettili, diffuse nelle abitazioni signorili, vennero molto
probabilmente rifuse.
Il sostegno ha una desinenza a zampa leonina, cava
nella parte inferiore (fig. 2), con artigli molto pronunciati
Fig. 1. Piede di candeliere in bronzo dorato (foto M. Cusin, univ. di
udine).
Fig. 2. Parte interna della zampa, con doratura ben visibile (foto
M. Cusin, univ. di udine)
119
Fig. 3. dettaglio con i due draghi affrontati (foto M. Cusin, univ. di
udine).
Fig. 4. Il piede di candeliere nella sua parte superiore. Si vede la predisposizione per l'attacco di altre figure (foto M. Buora).
e sporgenti. Al di sopra assume l’aspetto di un fusto vegetale, a sezione triangolare, che si apre verso l’alto. una
lunga foglia con bordi frastagliati segna il lato inferiore,
mentre la parte superiore termina con un cespo che visto
dal basso sembra un ciuffo, mentre dall’alto ha quasi
l’aspetto di una corolla. da qui inizia la decorazione a lunghe bande a tre capi che si intrecciano tra loro, a formare
motivi curvilinei. due capi sono legati dal centro da una
sorta di nodo, parimenti a tre capi, che forma il centro di
una specie di decorazione a X (fig. 3). Tra i viluppi delle
bande compaiono in posizione araldica due draghi, con
lunga coda tripartita, che arriva fino al fusto vegetale.
ogni drago ha un corpo rivestito di grosse squame parallele, intervallate da solchi trasversali, lunghe gambe e testa
appuntita.
Alcuni elementi derivano dalla tradizione altomedievale, come i nastri a treccia e gli animali tra essi inseriti.
I draghi ricorrono spesso nelle basi di candelabri: i candelieri a draghi veri e propri o “drachenleuchter” costituiscono un gruppo della seconda metà del XII secolo, cui
1
120
V. fAlke, meyer 1935 n. 29 e p. 7.
appartiene ad es. un sostegno di Colonia nello Schnutgenmuseum. una loro caratteristica è di avere grosse zampe,
come una specie di dinosauri (fig. 4).
Nel nostro caso troviamo una serie di elementi comuni a tanta produzione bronzistica medievale. In particolare
alcuni dettagli, es. il tipo di zampa, i lunghi nastri tripartiti, l’inserzione tra essi di animali, richiamano un gusto che
si diffonde entro la metà del XII secolo.
In più sostegni la terminazione superiore della
zampa è foggiata a forma di cespo: il dettaglio del cespo
che forma una corolla appare identico nel sostegno della
croce di Hezilo del tesoro di Hildesheim (1). Non vi è
dubbio che detto supporto sia stato realizzato in un’officina di Hildesheim, tra 1140 e 1160, come suggerisce
Michael Brandt.
originariamente il candeliere di Attimis aveva una
struttura triangolare, usuale per i candelieri su piede o
“Leuchterfüße” (fig. 5). Tipici sono anche i supporti a
forma di zampa, derivati da modelli orientali della prima
età bizantina. Le due figure di drago hanno le code a
Fig. 5. Ipotesi ricostruttiva della parte inferiore del candeliere (rielab.
M. Buora).
viticci intrecciate tra loro: questo intreccio è un motivo
bizantino, che nei rilievi dell’Asia Minore si osserva ad es.
nei colli intrecciati di volatili (2). Esso compare nei draghi
di due candelabri d’argento, commissionati dal vescovo di
Hildesheim Bernward (notizie dal 993 al 1022).
Sin dai primi decenni del XII secolo è nota una
abbondante produzione di candelabri in bronzo traforato
decorati con immagini di draghi, la cui area di irradiazione
si trova nella regione della Bassa Sassonia. Sembra che
il centro principale sia stata la città di Hildesheim, ove
fin dall’inizio del X secolo si trovano argenti e bronzi di
alta qualità, favoriti anche dalla ricchezza prodotta dallo
sfruttamento dei ricchi giacimenti minerari dell’Harz. un
nuovo impulso si ebbe negli anni Trenta del XII secolo,
forse stimolato anche dalle richieste da parte dei monasteri
e delle collegiate di Hildesheim. I prodotti delle botteghe
locali si diffusero in tutti i territori del Sacro romano impero. Il rinvenimento di Attimis è quello più meridionale
finora noto.
La parte superiore del piede, sagomata a mo’ di
palmetta, si ritrova ad esempio in un corto candeliere di
Gundersheim (fig. 6) (3), nella diocesi di Hildesheim, e
in un esemplare di più alta qualità nella chiesa collegiata
di Überlingen sul lago di Costanza (fig. 7) (4). Essi danno
Fig. 6. Candeliere di Gundesheim.
Fig. 7. Candeliere di Überlingen.
una buona idea di come doveva essere l’aspetto originario
del candeliere di Attimis. A Gundersheim come a Überlingen i ventagli delle palmette fungono da appoggio per le
piccole figure di animali agli angoli del rispettivo piede
di candelabro. Anche nel candelabro di Attimis gli angoli
erano occupati da figure le quali, tuttavia, non furono fuse
insieme al resto del candelabro, ma separatamente e applicate solo in un secondo momento. Forse ciò avvenne a
causa di un errore di fusione, come sembrerebbe suggerire
il fissaggio mediante rivetti. Rispetto poi al candelabro di
Überlingen di una serie di altri ad esso correlati, nel frammento di Attimis i draghi non sono disposti al centro, bensì
sul tassello angolare e le loro code intrecciate ne formano
il riempimento ornamentale. Le code dei draghi di Attimis
si combinano con il viticcio ascendente in un insieme inestricabile. Le teste delle coppie di draghi si girano verso
il piede e avanzano fino ai soffietti d’angolo, costrette in
questa posizione dall’intreccio delle loro stesse code.
2
Il motivo compare nelle così dette patere veneto-bizantine, diffuse in area veneta dopo la crociata del 1204, Cenni in lAfli, buorA
2021, p. 3.
3 V. fAlke, meyer 1983, tav. 58, fig. 137.
4 V. fAlke, meyer 1983, tav. 59, fig. 141.
121
Il motivo deriva da una cerchia di autori operante,
come ha precisato ursula Mende, a Helmarshausen, al
confine tra i vescovadi di Minden, Paderborn e del territorio del monastero di Hildesheim. Al medesimo influsso
allude anche la potente zampa del candelabro di Attimis,
che si può paragonare ai piedi del candeliere di Abdinghof,
conservato nel museo diocesano di Paderborn. Tutti questi
elementi portano a una datazione del nostro frammento
dagli anni Trenta agli anni Sessanta del XII secolo.
Il nostro Vodalrico di Atems, più che probabile proprietario del candelabro, fu inviato nel dicembre 1138 da
Norimberga in Italia (5). Egli è indicato nei documenti
5
6
7
122
ziegler 2007, p. 503.
rentschler Aus ludwigsburg 2012, p. 869.
rentschler Aus ludwigsburg 2012, p. 870.
come presente di nuovo in Germania dopo l’11 giugno
1151 (6) e ancora nel 1173 (7).
Possiamo dunque supporre che il candeliere cui questo sostegno apparteneva sia stato portato in Friuli come
oggetto prezioso dalla Germania, nei decenni centrali del
XII secolo. Vodalrico di Attems – o sua moglie – erano
certo gli unici abitanti del castello che avrebbero potuto
permettersi questa spesa e ne avrebbero avuto l’opportunità durante una delle trasferte, documentate, in Germania.
Pertanto ipotizziamo che esso, di cui ci rimane solo una
piccola parte, fosse compreso nei mobilia del castello, trasferiti ai nuovi proprietari con l’atto formale del 1170.
TerzA PArTe
i raPPorti con iL mondo bizantino
123
124
crisobolla di alessio i comneno
Bruno Callegher
125
Bruno Callegher
università degli Studi di Trieste
bcallegher@units.it
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Fin dal tardo impero romano e durante quasi tutto
l’impero bizantino (VI ca. - XV secolo) era invalso
l’uso di ricorrere a dei tondelli in metallo, quasi sempre
in piombo e raramente in oro e ancor più raramente in
argento, per due funzioni coessenziali al completamento
dell’iter amministrativo di un Atto emanato dalla cancelleria imperiale.
La prima era quella di autenticare un messaggio,
una comunicazione, un documento anche dopo l’apposizione della firma dell’autorità. La seconda prevedeva la
garanzia della segretezza del messaggio perché una doppia fettuccia di canapa, di seta o anche di altro materiale,
attraversava il tondello cosicché solo la rottura di quel
legame poteva permettere la lettura, la presa d’atto o le
verifiche di autenticità.
In vero l’uso del sigillo è documentato anche in
altri casi: la chiusura dei sacchetti contenenti le monete
riscosse attraverso la levata fiscale, dei contenitori di
trasposto a garanzia della qualità e del peso della merce,
dei reliquiari specialmente quando quegli oggetti sacri
venivano trasportati o anche donati; non v’è evidenza,
però, che in queste ultime occorrenze si impiegasse una
crisobolla (sigillo aureo).
dallo studio della vastissima classe delle bolle
sigillari, da non confondersi con il documento a cui
erano legate, si deduce che dall’imperatore e dai patriarchi costantinopolitani, dai dignitari ecclesiastici a singoli
monaci, dai funzionari del più alto rango a quelli periferici, dai militari ai commercianti, tutti fecero ricorso
all’applicazione di una bolla sigillare applicata ad atti
generati nelle rispettive funzioni.
Così l’apporto della sigillografia assume un ruolo
imprescindibile nella storia politica e militare, nella
1
conoscenza della struttura amministrativa dell’impero
e di regioni o temi, nella ricostruzione delle carriere
amministrative o del ruolo di alcune famiglie così da
poter affermare che in assenza di questi tondelli con le
impronte al dritto e al rovescio molti aspetti della vicenda millenaria della società bizantina ci sarebbero oscuri.
Ciò valeva a maggior ragione per i sigilli imperiali applicati agli innumerevoli atti prodotti dagli uffici
preposti, destinati poi a raggiungere i vari gradi della
gerarchia statale.
Sulla base della documentazione desumibile dai
testi pervenuti e dallo studio dell’evoluzione della cancelleria imperiale a Bisanzio tra XI e XV secolo, in essa
le più alte funzioni erano esercitate da un logoteta (funzionario addetto al controllo dell’amministrazione imperiale) o da un megalogoteta tôn sékrétôn (responsabile
della segreteria) oppure dal logoteta toû drómou (capo
della corrispondenza imperiale) (1).
Questi documenti metallici sono identificabili e
leggibili perché spesso ricalcano le scelte iconografiche
della monetazione e perché vi figurano i ritratti e le titolature dei sovrani così come codificate dall’infrangibile
tradizionalismo bizantino che aveva normato una stilizzazione volta a comunicare la sacralità del sovrano.
Come accennato, il metallo più usato fu piombo perché facile da imprimere/contrassegnare con una tenaglia
a due facce (boulloterion) sulle quali erano impresse in
negativo immagini e legende, un metodo del tutto analogo
a quello dei coni per la battitura delle monete; in rari casi
si utilizzò anche l’oro, probabilmente dall’VIII secolo.
Per quanto fino ad ora noto, esso sembra essere stato di
pertinenza quasi esclusiva dell’imperatore che così autenticava e garantiva la segretezza delle sue deliberazioni più
oikonomidès 1985, in part. pp. 168-169; oikonomidès 1992, in part. p. 133.
127
importanti e solenni cosicché il sigillo aureo finì per definire l’atto amministrativo imperiale a cui era connesso.
una classificazione delle crisobolle-documento sulla
base della funzione e dei destinatari permane incerta perché
ne è sopravvissuto un numero davvero esiguo, ma per qualche aggiuntiva specifica soccorre il lessico, spesso desumibile dai documenti stessi specialmente per i secoli XIII-XV,
supponendo altresì che in quello stesso periodo non fossero
variate di molto le procedure rispetto ai secoli precedenti.
Infatti, si conoscono vari sintagmi o termini a cui si
ricorreva per definire un provvedimento imperiale accompagnato dalla bolla aurea: Χρυσóβουλλoς λóγος (l’atto
più solenne per legiferare e per concessioni o accordi di
pertinenza imperiale), Χρυσóβουλλoς σιγίλλον (provvedimento per donazioni fondiarie), Χρυσóβουλλoς
ὁρισμὸς (definizione documentata dal XIV secolo),
Χρυσóβουλλoν (atto di rilevanza internazionale, anche
questo tardo imperiale e comunque redatto come privilegium per influenza del sistema latino occidentale, quindi
anche questo quanto meno successivo all’XI secolo)
mentre vari termini, per lo più usati a partire dal XIII
secolo quali trέbai, sumbόlaion, dhmόsion, stoίchma,
ὁρισμὸς, prόstaxiς, prόstagma, spesso tra loro sinonimici, si riferivano ad atti con bolla in metallo prezioso
riguardanti la ratifica di contratti commerciali ad esempio con Genova e Venezia oppure l’autenticità di reliquie
come pure la concessione di privilegi imperiali (2).
A queste articolate definizioni non corrisponde un’analoga varietà tipologica nel ricorso alle immagini per il
boulloterion, e questo proprio in ragione del già ricordato
conservatorismo. Infatti, i sigilli imperiali al dritto recano la raffigurazione di Cristo in trono o a mezzo busto
(autokrátor), al rovescio l’imperatore stante con lôros, con
labaro e globo crucigero mentre lungo il bordo si potevano
leggere il nome del sovrano e il suo titolo imperiale, talvolta
con qualche lettera o monogramma del redattore dell’atto o
del responsabile dell’apposizione delle crisobolle.
2
3
4
128
Molti di questi tondelli, a motivo del loro elevato
valore in metallo nobile, ebbero vita breve e furono fusi
dai destinatari o nella cancelleria stessa cosicché oggi
sono alquanto rari e si trovano soprattutto uniti agli atti
archiviati nei monasteri dell’Athos, in alcune collezioni private, mentre non risultano recuperati in contesti
archeologici. In tale prospettiva storico-archeologica, il
caso della crisobolla dal Castello di Attimis, qui esposta,
costituisce un caso di estremo interesse.
Nel 2008, in un canale di scarico del settore A
dell’area degli scavi del Castello, fu recuperato questo
rarissimo sigillo in metallo prezioso emesso dalla cancelleria dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno (10811118) assieme a maiolica arcaica, ceramica del XIV secolo
e resti di lavorazione di metallo. dalla medesima area provengono altresì alcune monete: un frisacense di Eberhard I
(1147-1164), un denaro piccolo del doge Sebastiano ziani
(1172-1178) e uno del doge orio Malipiero (1178-1192)
seguiti da un denaro piccolo della zecca di Padova coniato
intorno alla metà del XIII secolo (3).
Questi divisionali confermano l’appartenenza del
sito all’area monetaria veneziana così come s’era andata
configurando con il progressivo adattamento della monetazione patriarcale di Aquileia a quella della potente
vicina, la Serenissima Venezia (4).
Simili annotazioni numismatiche non hanno una
mera funzione cronologica, bensì di aiutare una qualche
possibile spiegazione sulla presenza di uno dei più rari
documenti della cancelleria bizantina-costantinopolitana.
Sulla scorta della metodologia desunta dalla numismatica in quanto anch’esso esito di una coppia di coni, è
descrivibile come segue:
Dritto: Cristo nimbato, seduto in trono con tunica e kolobion, tiene il Vangelo nella mano sinistra. Nel campo, a
destra e sinistra: IC – XC (fig. 1a).
Ἰ(ησoῦ)ς X(ριστό)ς
Riferimenti tipologici desunti da oikonomidés 1985 pp. 189-191.
Per l’archeologia del sito e in particolare del rinvenimento, cfr. buorA, nesbitt 2010.
sAccocci 2016, in part. 567-571.
Fig. 1a. Bolla emessa da Alessio I Comneno, diritto, dal castello di Attimis.
Fig. 1b. Bolla emessa da Alessio I Comneno, diritto (collezioni dumbarton oaks).
Fig. 2a. Bolla emessa da Alessio I Comneno, rovescio, dal castello di
Attimis.
Fig. 2b. Bolla emessa da Alessio I Comneno, rovescio (dalle collezioni
di dumbarton oaks).
129
Rovescio: L’imperatore Alessio I, stante, di fronte, vestito
con divitision, loros e maniakion, tiene un labaro nella
destra e sostiene il globo crucigero nella sinistra (fig. 2a).
+ Ἀλεξίῳ δ(εσ)πότ(ῃ) τῷ Κο(μνηνῷ)
L’eccezionalità del rinvenimento pone non poche
domande, la prima delle quali riguarda il tipo di documento validato da questa crisobolla. Tenderei ad escludere si fosse trattato di un atto il cui contenuto e funzione/
destinatario si possa inferire dall’escussione del lessico
tipico dell’impero bizantino post 1204 per l’auto evidente
ragione trattarsi di un sigillo di Alessio I Comneno, realizzato tra il 1081 e il 1118, quindi di natura commerciale
o di conferma notarile o di attribuzione di una qualche
dignità. Si resta nel campo delle ipotesi, ovviamente, ma
appare plausibile la cancelleria avesse redatto un provvedimento imperiale di natura legislativa, forse destinato
a concedere privilegi a personalità del massimo rango
o a confermare trattati con autorità alleate di Bisanzio,
ma anche dell’impero romano d’occidente, una sorta di
instrumentum per attribuire o rinnovare concessioni di
privilegi. Si resta ancor più nell’ambito delle ipotesi se si
cerca una qualche risposta circa il destinatario.
Tuttavia, restando all’argomentazione del primo
quesito, il documento corredato da una crisobolla imperiale, in ambito altoadriatico poteva riguardare qualche
autorità religiosa in qualche modo collegata a Bisanzio
(patriarchi di Venezia o di Grado (5), vescovi dell’Istria o
della dalmazia che fu dominio bizantino fino al 1025 con
Basilio II) i più alti gradi della Repubblica di Venezia,
qualche feudatario di ritorno dalla prima Crociata latore
di un messaggio per qualche altro feudatario, senza escludere contatti con la cancelleria degli imperatori Enrico
IV(1084-1105) e di suo figlio Enrico V (1111-1125). Non
va sottaciuta, infine, l’ipotesi che la bolla aurea fosse
giunta al Castello di Attimis a seguito di passaggi ereditari del documento, ma anche in questo caso non si può
che restare nell’incertezza (6).
Per quanto riguarda, infine, il contesto di rinvenimento si segnala che gli scavi, nella medesima area del castello,
hanno permesso il recupero di centinaia di scorie ferrose o
di altri metalli da fusione insieme a lamine e sfridi quasi
certamente di bronzo insieme a una pietra (o forse due) di
paragone, usata per saggiare metalli preziosi (7). Sono tutti
elementi che portano a ipotizzare che la crisobolla, staccata
dal suo documento originario, sia poi giunta al Castello di
Attimis dov’era attiva un’officina, per essere fusa e recuperare il metallo prezioso. Qualcosa sfuggì all’artigiano
fonditore e la bolla aurea, smarrita, non fu più recuperata
lasciando così a noi una delle più rare e interessanti testimonianze della circolazione sigillografica bizantina insieme a
tutti gli interrogativi sul suo destinatario (8).
5 niero 1980. Si segnala il coinvolgimento dell’imperatore di Bisanzio Alessio I (Crisobolla del 1082) su questioni con ricadute sulle vicende di entità statali attive nell’area altoadriatica. Infatti, per mantenere il legame coi propri alleati occidentali (l’imperatore tedesco Enrico IV e
il doge veneziano domenico Silvo) il sovrano di Bisanzio autorizzò i Veneziani a commerciare con tutte le piazze dell’impero; in quell’occasione
intervenne anche nella “querelle” sul titolo patriarcale tra Grado e Venezia. Nella citata bolla aurea il titolare della sede di Grado fu elevato al rango
di ypertimos/ὑπέρτιμος (molto onorevole), titolo onorifico spettante ai metropoliti. Non v’è alcuna intenzione di collegare questi eventi alla bolla
aurea di Attimis (manca infatti il documento a cui era appesa), ma solo l’intento di segnalare relazioni istituzionali molto radicate, al più alto rango,
tra la regione altoadriatica e la corte costantinopolitana.
6 buorA, nesbitt 2010, in part. pp. 117-119 per possibili collegamenti con le vicende di Berthold di Moosburg, vescovo di Salisburgo tra
le fine dell’XI e inizio del XII secolo, e un altro vescovo, suo competitore, Benedectine Thiemo che partecipò alla prima crociata e fu probabilmente
martirizzato forse ad Ascalon nel 1102. Alla casata dei Moosburg – Burkhard divenne advocatus del patriarcato di Aquileia – si legò la famiglia dei
Conti di Attimis.
7 devo queste informazioni a Maurizio Buora, che ringrazio.
8 cheynet, morrisson 2008, pp. 85-112. Sigilli in piombo di Alessio I sono segnalati come provenienti dalla Bulgaria e dall’ungheria
(ma non è detto se da scavi archeologici) in nesbitt 2009, pp. 158-172, in part. n. 88.1 “A fairly extensive group of seals of this emperor have been
found in Bulgaria... A specimen also seems to have found in Hungary”.
130
La ceramica bizantina ad attimis
rossana Valente
131
Rossana Valente, Phd
Postdoctoral Fellow, British School at Athens
Souedias 52 | 10676 Athens | Greece
r.valente@bsa.ac.uk
132
Le ceramiche invetriate bizantine rinvenute ad Attimis
sono da annoverare fra gli esemplari di cultura materiale
che documentano come il territorio dell’attuale Friuli
Venezia Giulia fosse interconnesso con il Mediterraneo
orientale anche nei secoli centrali del Medioevo (1). La
ripresa economica che caratterizzò la penisola italiana
dal X secolo in poi segnò anche la ripresa degli scambi
commerciali a lunga distanza, includendo quelle terre che
erano sotto il governo bizantino.
Bizantino fu storiograficamente denominato l’impero
che per quasi undici secoli, senza soluzione di continuità,
ereditò l’autorità imperiale romana e che fu politicamente
organizzato secondo il modello romano, adottando la legislazione basata sul diritto romano. Anche per queste ragioni, nel Medioevo, coloro che abitavano questi territori che
si affacciavano sulle sponde orientali del Mediterraneo,
incluso il sud Italia, e specialmente il Salento, fino alla
metà del secolo XI, non si autodefinivano bizantini, ma
romaioi, romani, seppur parlando tendenzialmente greco e
la religione cristiana fosse dominante. Questo dato storico
importante sottolinea la straordinaria capacità di questo
impero di aver creato quella formidabile alleanza fra la
cultura letteraria e filosofica greca e la cultura politica,
amministrativa e giuridica romana. un impero, quello
bizantino, contraddistinto anche dalla multietnicità e dalla
capacità di assimilazione culturale (2).
In questo quadro geopolitico distintivo dell’impero
bizantino va, quindi, inserito il contesto di produzione,
circolazione e uso di questi piatti invetriati adoperati sulle
1
2
3
4
tavole di Vodalrico di Attems nel corso del XII secolo.
Attimis, va ricordato, era parte, con il patriarcato di
Aquileia, del Sacro Romano Impero. Il patriarcato ebbe
continuativi rapporti con l’impero d’oriente già al tempo
dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno (10481118), e tali rapporti furono forse intensificati dopo la
seconda crociata (1147-1150) (3). Le tipologie ceramiche
bizantine importate ad Attimis possono rientrare in questo
afflusso di importazioni orientali, e nello specifico i tipi
qui ritrovati sono datati circa fra il 1160 e il 1200 d.C. (4).
L’importazione di tipologie invetriate bizantine nella
penisola italiana non era massiccia, e difatti, questi piatti
invetriati andrebbero considerati come vasellame utilizzato per imbandire le tavole delle più alte gerarchie sociali
dell’epoca nella penisola italiana, la cui scelta aveva quindi una chiara valenza simbolica di potere economico e di
raffinatezza culturale.
La manifattura artigianale di produzione di questi
piatti è tipicamente bizantina, soprattutto ascrivibile ai
territori corrispondenti alla attuale penisola greca. Gli
impasti mediamente fini, sono generalmente decorati,
dopo una prima essiccazione, con uno strato di ingobbio
argilloso bianco; infine con l’utilizzo di polvere piombifera si ottenevano delle vetrine di colore genericamente
giallo o verde. La decorazione con uno strato di ingobbio bianco del vasellame da mensa si ipotizza fosse una
scelta intenzionale dei vasai bizantini che lavoravano nei
centri produttivi della Grecia. Questi pare avessero lo
specifico intento di imitare il colore bianco delle argille
Su Attimis e i contatti con Bisanzio: buorA, nesbitt 2010; buorA 2018; buorA 2020.
Per una sintesi della storia bizantina e della sua tradizione politica e culturale: cAVAllo 2005; mAngo 2009; ronchey 2019.
buorA 2018.
sAnders 2003b, pp. 392-393.
133
utilizzate nella capitale dell’impero, Costantinopoli, per
la produzione di vasellame invetriato da mensa (5). Le
ceramiche costantinopolitane erano, difatti, oggetti che
generalmente circolavano e veniva adoperati in ambiente urbano o in insediamenti dove risiedeva l’amministrazione laica o religiosa. Nel corso del XII secolo, le
invetriate costantinopolitane, sebbene continuassero ad
essere prodotte, furono tendenzialmente sempre meno
importate in Grecia dalle regioni del Bosforo. Si ipotizza
che la crescita della produzione artigianale locale con un
proliferare di motivi decorativi e tipi vascolari riuscisse,
quindi, a soddisfare non solo la richiesta del mercato
locale, ma anche a rispondere alla richiesta di un mercato
interregionale (6).
La ricchezza decorativa della ceramica bizantina ha
portato a un precoce sviluppo degli studi di questo vasellame, soprattutto con un approccio di carattere storico-artistico. Sebbene la primissima pubblicazione possa essere fatta
risalire al 1897 con la menzione di ceramica post-classica
ad opera di de Bock, sono gli scavi britannici sull’acropoli
di Sparta per opera della British School at Athens a portare
a un primo introduttivo studio sistematico della ceramica
bizantina edito fra il 1910 e il 1911 ad opera dei britannici R. M. dawkins e J. P. droop (7). dopo un ventennio
di brevi pubblicazioni preliminari di singoli contesti con
importanti ritrovamenti di ceramica bizantina, l’inglese
david Talbot Rice pubblicò un sistematico studio tipologico nel 1930, basato principalmente sulle ceramiche rinvenute nel corso degli scavi condotti dalla British Academy
5
nell’ippodromo di Costantinopoli. Pubblicazione, quella
di Talbot Rice che gettò le basi per la principale tipologia
edita da Charles Morgan nel 1942. Questa pubblicazione si
basa sulle ceramiche medievali rinvenute negli scavi condotti dalla American School of Classical Studies at Athens
nell’antica Corinto. Quest’ultima tipologia, seppure sia
stata soggetta a correzioni cronologiche soprattutto per
opera di Guy Sanders, direttore degli scavi americani di
Corinto dal 1997 al 2017, rimane ad oggi la nomenclatura
tipologica principalmente adoperata (8).
Recenti studi, inoltre, stanno documentando come il
quadro produttivo e di circolazione delle ceramiche bizantine fosse complesso e articolato, potendo adesso annoverare diversi centri produttivi attivi in Grecia fra il XI e XIV
secolo, coevi alle manifatture di Costantinopoli e Corinto.
Se ben noti sono, infatti, gli impianti produttivi corinzi (9),
si ipotizza che anche altri centri nel Peloponneso producessero ceramiche invetriate, comune e da fuoco come
Argos (10), Sparta (11), e spostandosi più a nord soprattutto
Tebe, capitale del thema – provincia bizantina – dell’Ellade. Recenti studi di carattere scientifico hanno documentato come i principali tipi di vasellame da mensa invetriati
e alcuni vasi non invetriati, nonché alcune delle anfore
che circolano nel Mediterraneo fra il XII e inizi del XIV
secolo fossero ivi prodotti (12). Quello di Tebe, infatti,
appare essere un centro produttivo di notevole portata che
esportava ceramiche anche al di fuori dei confini dell’impero bizantino. Sebbene analisi di carattere petrografico e
chimico non siano state condotte sugli esemplari ritrovati
SAnders 1995b; SAnders 2000.
Sulle ceramiche “white wares” constantinpolitane: hAyes 1992, pp. 30-34. Sull’incremento delle produzioni di ceramica bizantina dal
secolo XI al XIII, cfr. sAnders 2000, p. 166; sAnders 2002, p. 394; sAnders 2003, p. 651; AthAnAssoPoulos 2016, pp. 41-46; VAlente 2020.
7 de bock 1897; dAwkins, drooP 1910-1911.
8 tAlbot rice 1930; morgAn 1942. Per una sintesi della storia degli studi gelichi 1993; Vroom 2003, pp. 31-46. Per gli studi di Sanders
si veda la bibliografia citata nel testo.
9 morgAn 1942, pp. 7-25; sAnders 1999; joyner 1997; joyner 2007; white 2009; VAlente 2018.
10 VAsilliou 2013; VAsilliou 2014.
11 sAnders 1993; VAsilliou 1995a. L’autrice sta attualmente conducendo analisi petrografiche in collaborazione con Evangelia Kiriatzi,
direttrice del Fitch Laboratory (BSA).
12 Questa produzione è in genere definita ‘Middle Byzantine production’, cf. wAksmAn et alii 2014; wAksmAn 2017; wAksmAn et alii
2018.
6
134
135
ad Attimis, può essere avanzata l’ipotesi di una provenienza tebana.
Infine, degno di nota, sono le scelte dei motivi decorativi. Questi piatti presentano tutti dei motivi decorativi
realizzati con la tecnica ad incisione su vaso ingobbiato,
ottenendo temi geometrici, floreali, e soprattutto quello che
è definito il motivo ‘pseudo-cufico’. Quest’ultimo era un
tipo decorativo ispirato al cufico, una antica variante della
scrittura araba, che già dal secolo VIII d. C. era utilizzata
sia per epigrafi che in contesti letterari. L’etimologia probabilmente deriva dalla metropoli di al-Kūfa, città sita in
Iraq, molto importante per lo sviluppo della scienza e della
cultura musulmana. Nel mondo bizantino, il cufico perse
la originaria valenza linguistica e venne principalmente
adoperato come motivo ornamentale su ceramiche, come
le invetriate importata ad Attimis, ma anche in altre forme
d’arte e su altri supporti, e infine, per tramite dell’arte
bizantina, venne impiegato anche nell’arte rinascimentale
italiana (13).
I cinque frammenti sono stati rinvenuti in anni
diversi e in stanze diverse, perciò sono stati catalogati con differenti numeri di inventario, rispettivamente
i nn. 107.404 e 107.685 nel 2013 dalla uS 604 della
stanza d, il n. 107.462 dalla uS della medesima stanza (anno 2013) e già nel 1998 nel livello superficiale,
rimaneggiato forse durante i lavori edilizi degli anni
Settanta del secolo scorso, della stanza A il n. 267.506b.
Alessandra Negri li ha riconosciuti come appartenenti a
uno stesso piatto, di cui compongono circa il 20%, con
orlo arrotondato e corpo leggermente concavo. Il piatto
è internamente ed esternamente ricoperto con ingobbio
bianco e con vetrina piombifera di colore giallo. Il motivo
13
136
decorativo graffito comprende un medaglione centrale e
due bande incise rispettivamente nella parte mediana e
sotto l’orlo del piatto, tutti decorati con motivo pseudocufico. Il motivo decorativo può essere classificato come
“Incised-Sgraffito, Medallion-Style” secondo la tipologia
di Charles Morgan (morgAn 1942, p. 32, F, e numero
catalogo 1483), e datato ca. 1160 - ca.1200 (sAnders
2003, p. 393) (figg. 1-2).
Altri due frammenti sono stati parimenti riconosciuti
da Alessandra Negri come parte di un medesimo piatto.
Entrambi provengono dalla stanza C, rispettivamente il
n. 269.806 dalla uS 301 (rinvenuto nell’anno 2002) e il
n. 477.320 (anno 2015) dalla uS 306. Essi compongono circa il 10% di un piatto con orlo quasi verticale e
assottigliato e parete tronco-conica. Il piatto è decorato
con ingobbio bianco sia interamente che esternamente.
Vetrina piombifera di colore giallo chiaro decora la parete
interna e l’orlo del piatto. La decorazione graffita della
banda incisa sotto l’orlo è riempita con motivo decorativo
vegetale, ampiamente utilizzato sul vasellame bizantino
(morgAn 1942, p. 33, B, n. catalogo 1463), esso può
essere classificato come “incised-sgraffito” e datato ca.
1160- ca.1200 (sAnders 2003, p. 393) (figg. 3-4).
Il singolo frammento n. 477.109 si rinvenne nell’anno 2007 entro la uS 149, vasca di scarico adiacente alla
stanza A, che formava un contesto chiuso entro l’inizio
del XIII secolo. Esso è una parete di coppa, decorata con
ingobbio bianco e con banda graffita riempita con motivo pseudo cufico (morgAn 1942, p. 32, E). La vetrina
piombifera di colore giallo decora la parete internamente.
Questo motivo è classificato come “developed-Style
Sgraffito” ed è datato ca. 1160 - ca.1200 (sAnders 2003,
p. 393) (fig. 5).
Sulle ceramiche bizantine fino ad oggi rinvenute ad Attimis: buorA 2020.
137
138
Q uArTA PArTe
Prima degLi scaVi
139
140
La rimessa in luce
e la ricostruzione parziale
del castello di attimis superiore
negli anni settanta del novecento
Maurizio Buora
141
Maurizio Buora
Società Friulana di Archeologia
mbuora@libero.it
142
Maria Viktoria Attems Pallavicino, nata a Vienna
nel 1899 e scomparsa a Millstatt nel 1983, ebbe molto a
cuore, come molti altri esponenti della sua casata, la storia
della famiglia e i luoghi ove essa visse (1). durante la sua
vita ella scrisse anche di personaggi storici della sua famiglia. Per suo impulso nei primi anni Settanta del secolo
scorso si provvide a disboscare l’area in cui sorgevano
i castelli, superiore e inferiore, di Attimis e alla parziale
ricostruzione del castello superiore. In ciò fu aiutata da
Eleonora d’Attimis Gualdi, a sinistra nella foto (tav. I).
Nell’immagine si vedono in alto a destra grossi rampicanti che si inerpicano e si appoggiano sopra il muro. Nella
parte posta a destra si vedono ritocchi alle fughe, che
sembrano rifatte in malta.
Come riferisce Victor Attems-Gilleis “La Marchesa
Maria-Vittoria Pallavicino, nata contessa Attems del ramo
goriziano della famiglia, si interessò molto di storia, soprattutto della storia e della sorte della famiglia Attems.
Non soltanto aiutò generosamente a parole e nei fatti
i familiari e organizzò dei ‘Familientage’ – raduni di famiglia, – ma fece anche ricerche negli archivi della stessa famiglia, della chiesa e della provincia, giungendo a scrivere
una storia della famiglia e tante biografie di suoi diversi
membri.
Nella prima metà degli anni Settanta comprò dal conte Arbeno d’Attimis (2), l’ultimo esponente della famiglia,
due particelle sulla collina sovrastante il paese di Attimis,
in cui erano ancora presenti i ruderi dei due piccoli castelli
1
2
3
4
5
medioevali, sede d’origine della famiglia Attimis /Attems.
Tali castelli facevano parte di una catena di fortificazioni
erette nel Patriarcato di Aquileia verso l’est.
La sua intenzione era, da un lato, di far venire alla
luce i ruderi del più antico castello nominato ‘castello superiore’, abbandonato dopo il sisma del 1511 e, dall’altra
parte, di lasciare i terreni, rimasti per più di 800 anni in
possesso della famiglia Attems, a suo nipote e figlio adottivo conte Victor Attems-Gilleis di Vienna.
Nel 1973-1974 vi furono i primi interventi di disboscamento (3). In seguito cominciarono i lavori e durarono
alcuni anni, almeno fino al gennaio 1979 (4). Poco è sopravvissuto al degrado del tempo, ma dopo l’eliminazione
della vegetazione, si potevano scorgere, su un lato della
collina, un muro con pietre enormi e, sulla cima della stessa, una torre massiccia di una altezza di circa 4/5 metri,
una piccola corte lastricata e alcune stanze semplici. I reperti rivenuti erano pochi, alcune punte di frecce, pezzi
di armatura, frammenti di ceramica grezza, una piccola
lucerna ad olio in bronzo, una serratura, delle chiavi. Tali
reperti si vedono in foto del tempo.
dopo la morte della Marchesa (1983), la proprietà è
passata a suo nipote, che alcuni dopo ha ceduto in comodato i terreni al Comune di Attimis per 50 anni e ha regalato
i reperti al Museo di Attimis“(5).
Le operazioni continuarono fino al 1979. Secondo i
racconti di Chiaretta d’Attimis, figlia di Eleonora d’Attimis Gualdi, la gente del posto non credeva che fosse
Sua è una Ministoria della famiglia Attems conservata nella biblioteca civica V . Joppi di udine.
Che era stato podestà di udine dall’anno 1933 al 1937.
miotti 1979, p. 60.
Così miotti 1979, p. 60.
Wien, 20.6.2022. dr.Victor Graf Attems-Gilleis.
143
rimasto qualcosa dei castelli, dato anche che il luogo era
immerso nella vegetazione. La tenacia delle due signore e
l’aiuto dei due Cencig, padre e figlio, riuscirono a rimettere in luce le rovine e a ricostruire gran parte del mastio
ed elevare in parte la struttura muraria.
I lavori condotti in quegli anni sono ben visibili
nella diversa tessitura muraria e sono documentati da
un centinaio di foto, di cui un’ottantina in possesso del
sig. Franco Cencig che ce le ha gentilmente messe a
disposizione. Le foto, a colori, sono di formato diverso
e furono riprese da più autori. Alcune vennero scattate
con una Rolleiflex SL 35M Planar. Solo poche hanno
sul retro la data e queste ci consentono di elaborare una
sorta di tabella dell’avanzamento dei lavori. Alcune sono
numerate: il numero più alto è 400, il che fa presumere
che ogni anno siano state scattate parecchie decine di
foto. Nondimeno quelle che ci sono state fornite sono già
di per sé sufficienti a delineare una specie di resoconto
sommario dei lavori stessi.
I lavori furono eseguiti in larghissima parte dal sig.
Franco Cencig e da suo padre: ad essi in rare occasioni
si uniscono altri due operai. Molto spesso è raffigurata
la marchesa Pallavicino, sovente con il bastone e talora
accompagnata dal suo cane: le foto dunque documentano
per lo più le visite della marchesa. Raramente sono presenti
altri membri della famiglia tra cui Victor (allora un giovane
ventenne) e la piccola Lorenza. I membri della famiglia
Attimis – anche quelli che non vivono ad Attimis – ricordano con gioia il tempo dei lavori, vera occasione di festa per
tutti e di allegri scherzi verso gli operai.
lA ricostruzione del mAstio
Nell’albero genealogico del XVIII secolo della famiglia Attimis una veduta, di fantasia, del castello visto da
6 miotti 1979, p. 56.
7 miotti 1979, p. 56.
8 miotti 1979, p. 57.
9 miotti 1979, p. 57.
144
ovest (tav. II, 1-2) (6) ci presenta una torre di almeno tre
piani, dei quali i due superiori con una coppia di bifore.
A nord (a sinistra nell’immagine) la domus addossata, con
un testo a unica falda. A sud del mastio sono raffigurate
altre due costruzioni, di altezza diversa, di cui peraltro non
vi è traccia nel sito. Le mura hanno un triplice circuito,
come una sorta di torre di Babele, e paiono provviste di
numerose aperture e anche di una porta di accesso: tutti
particolari francamente fantasiosi. A parte il fatto che qui
la torre sembra quadrata, appare chiaro che il disegnatore
non era mai stato sul luogo, ma aveva forse avuto qualche
descrizione orale.
Più realistica sembra l’immagine su un dipinto attribuito al 1570 circa, conservato a Lucinico (tav. II, 3) (7).
Qui appare il castello allo stato di rovina e del mastio
emergono solo parti di pareti in piedi.
Prima dell’inizio dei lavori si vedevano parti della
muratura coperte da un potente strato di vegetazione e
accumuli di terra (tav. III, 1) (8).
Le foto antecedenti gli anni Settanta mostrano quanto
rimaneva del mastio (tav. III, 2-4) (9).
Erano parzialmente cadute più parti forse in conseguenza del terremoto del 1511. Rimanevano in vista tratti
di muri (tav. IV, 1); un consistente spezzone della parete
nord del mastio era caduto nella corte lastricata (tavv. IV,
2; V, 1). Le immagini, che ci sono state date sia dal conte
Victor che dal sig. Franco Cencig, sono di straordinario
interesse perché documentano la parte originaria della
parete settentrionale: in essa all’altezza del secondo piano
esisteva un’apertura mediante la quale, probabilmente
anche dalla vicina domus, si poteva accedere alla torre.
Essa, come era consuetudine nel medioevo, non aveva
dunque un accesso posto al piano terra, ma si doveva
salire fino al primo piano – che certo era dotato di feritoie
se non di finestre – e attraversare un’alta apertura, di cui
si vede un lato liscio. Nel mastio si veniva così a creare
un piano terra inaccessibile dall’esterno, utilizzato probabilmente, come in altre torri coeve, come magazzino.
Il blocco caduto fu poi smontato dai sigg. Cencig, anche
allo scopo di ricavarne materiale per ricostruire l’elevato.
dalla medesima foto si vede bene la tecnica di costruzione
a sacco. Le due figure di tavv IV, 2 e V, 1 attestano che
almeno fino a circa una ventina di corsi la parete settentrionale del mastio è quella originaria.
Prima dell’inizio dei lavori la parte interna del mastio
era ingombra di massi caduti dall’alto (tav. V, 2-4).
una delle prime operazioni fu dunque quella di
sgomberare il campo dal pietrame caduto e dall’interro
mescolato con la vegetazione (tav. V, 3). Verso la parte
nord dell’area del castello si creò una specie di deposito
con blocchi di flysch e di arenaria e parti architettoniche
sagomate (tav. V, 4).
Quindi venne montata una sorta di teleferica che
poggiava sui pilastri dell’attuale ingresso al complesso
castellano (tav. VI, 1, in un momento avanzato dei lavori)
e proseguiva fin verso il centro del cortile (tav. VI, 2).
dopo aver sgomberato l’area si provvide alla costruzione di impalcature di legno e di una passerella obliqua
che dai gradini addossati alla parete meridionale della
domus, appositamente costruiti, saliva verso il mastio (tav.
VII, 1). In alto tra i muri perimetrali del mastio venne
disposto un palo orizzontale (tav. VIII), a formare una gru
per far salire i blocchi mediante una carrucola.
Nelle foto d’epoca i risarcimenti sono ben visibili
specialmente in base alle fughe di malta (tav. IX, 1).
L’interno del mastio venne completamente rinforzato
(tanto che non ebbe a subire alcun danno dal terremoto del
1976) ricreando una parete interna che delimita un muro
a sacco (tavv. IX, 2; X) con ampie dosi di cemento nel
riempimento.
Nella parete occidentale si creò un vano quadrangolare (tav. IX, 2) in corrispondenza della feritoia verticale
(tav. XI, 1).
La medesima tav. X, 1 documenta come all’epoca di
quei lavori la feritoia sia stata inserita in un tessuto murario formato da filari non perfettamente paralleli e da conci
legati con malta idraulica.
durante i lavori si disposero anche due travi orizzon-
tali per sostenere una tavola che permetteva di spostarsi
all’interno (tav. XI, 2).
lA ricostruzione delle Altre PArti
Nel corso degli scavi è stato possibile individuare le
parti aggiunte nei lavori degli anni Settanta. Così è risultata evidente nel muro che divide la stanza A da quella
B la sopraelevazione moderna ove si vede molto bene la
diversa tecnica muraria della parte in pietra, poggiata su
un filare di mattoni (tav. XI, 1).
il muro meridionAle
una delle prime operazioni fu la ricostruzione del
muro meridionale, posto immediatamente a sud del
mastio. In una delle foto più vecchie (tav. XII, 2) vediamo gli stipiti dell’attuale accesso. Quello posto a sinistra
(l’orientale) ha solo pochi filari del muro stesso. La foto
è ripresa quando dopo il muro sono accatastati alcuni pali
che successivamente verranno posti in opera nel cantiere
(tav. XIII).
Tutto intorno è stata completata l’operazione di
disboscamento. Nel momento in cui è posta in opera la
teleferica (tav. VI, 1) la parte del muro a oriente dell’accesso è già stata ricostruita.
La sopraelevazione (tav. XIV) che termina con linea
diritta presenta giunti in malta e l’utilizzo di conci diversi
da quelli della parte inferiore.
La parte originaria del muro occidentale, a sud della
stanza A, che chiudeva questa serie di vani è visibile dalla
tav. XIV, scattata quando il muro N della medesima fila di
stanze (tav. XIII) era già stato sopraelevato.
Nella parte settentrionale del complesso, il muro che
oggi costituisce il limite orientale della stanza d (fig. 32)
fu costruito ex novo, evidentemente scavando una trincea
per la sua fondazione.
Lo vediamo già eretto nella fig. 33, insieme con le
sopraelevazioni dei muri delle stanza B, C e d.
Il muro nord, che ora sappiamo essere stato costruito
145
nel corso del XIII secolo, probabilmente dopo il terremoto
del 1222, era in gran parte crollato. Le foto anteriori ai
lavori degli anni Settanta (tav. XVII) ci mostrano l’opus
originario.
Nella sua parte occidentale esso fu ripreso (tav.
XIX).
pezzi cinquecenteschi che poi furono donati al museo di
Attimis ove ancora oggi si conservano.
una delle ultime foto, dall’alto, mostra i lavori nel
complesso pressoché conclusi (tav. XXII).
scAVi
lA domus
Per prima cosa fu smantellata la tamponatura della
porta (tav. XX, 1-2) che metteva in comunicazione la
domus con il cortile che si frapponeva tra essa e il mastio.
Essa fu realizzata con i blocchi esistenti sul posto, probabilmente dopo il terremoto del 1511 e, se questo è vero,
costituisce l’ultimo intervento antico nel castello.
da notare il segno di croce inciso sulla pietra, probabilmente già architrave e divenuta poi soglia. Questo fa
pensare che esistesse uno spazio sacro, forse una cappella.
Quindi furono intrapresi i lavori di sopraelevazione
sia del muro occidentale della domus sia del muro tra
essa e il mastio. Comune a tutte queste sopraelevazioni è
la terminazione a filo della parte superiore (tav. XXI, 1).
All’interno della domus il livello fu abbassato (tav. XXI,
2) e forse in quella occasione si rinvennero alcuni dei
146
In fase ormai di ultimazione, si poté brindare al buon
esito del lavoro (tav. XXII, 1). durante il 1978 si tentò di
vedere cosa c’era sotto il cerchio di pietre che si trovava
nel cortile (tav. XXIII, 2). Entro uno spesso strato di “dark
soil” si videro delle pietre in fila, che oggi sappiamo essere la continuazione del muro della seconda fase accertato
nella stanza A. Forse da lì provengono alcuni dei reperti,
databili dal XIII al XV secolo, che in parte furono restaurati da un ex preparatore del Museo tridentino di storia
naturale di Trento (tav. XXIV, 1-3).
ringrAziAmenti
La presente nota non si sarebbe potuta scrivere senza
il benevolo aiuto di Lorenza desiata, Victor AttemsGilleis, Chiara d’Attimis Gualdi desiata e soprattutto
Franco Cencig. A tutti loro vada il più sentito ringrazia-
mento.
Tav. I. A sinistra eleonora d'Attimis Gualdi
e a destra la marchesa
Maria Viktoria Attems
Pallavicino (foto messa
a disposizione dalla sig.
ra G. Muzzolini).
147
Tav. II, 2. dettaglio (da miotti 1979)
Tav. II, 1. Veduta di fantasia del castello superiore di Attimis, dall’albero
genealogico del XVIII secolo della famiglia d’Attimis. In basso il nuovo castello eretto nel XV secolo (da miotti 1979).
Tav. II, 3. Rappresentazione delle rovine del castello in un dipinto conservato a Lucinico e datato intorno al 1570.
148
Tav. III, 1. Stato della muratura, coperta da rovi e terra, prima dei lavori
degli anni Settanta (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. III, 2. Come appariva la sommità con il castello superiore, prima dei
lavori degli anni Settanta (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. III, 3. La parte originaria del mastio, vista da sud (foto messa a
disposizione dal sig. Cencig).
Tav. III, 4. Dettaglio della parte rimasta in piedi, fino agli anni Settanta,
del mastio (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
149
Tav. IV, 1. Stato delle rovine, liberate dalla vegetazione, prima dell’inizio dei lavori (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. IV, 2. In fondo parte
della parete settentrionale
del mastio, crollata (foto
messa a disposizione dal
sig. Cencig).
150
Tav. V, 1. dettaglio con il crollo di
parte della parete settentrionale del
mastio (foto messa a disposizione
dal sig. Cencig).
Tav. V, 2. L’interno del mastio prima dei lavori di pulizia e ripristino
(foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. V, 4. Accumulo di materiale, pronto per essere riutilizzato nella
ricostruzione (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. V, 3. Ancora una veduta prima dell’inizio dei lavori di ricostruzione
(foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
151
Tav. VI, 1. La teleferica montata sopra i due stipiti dell’attuale ingresso
(foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. VI, 2. dettaglio della teleferica, al momento in cui la ricostruzione
del mastio è già da tempo avviata (foto messa a disposizione dal sig.
Cencig).
152
Tav. VII, 1. una visita della marchesa Pallavicino ai lavori. In alto a sinistra Lorenza desiata
(foto messa a disposizione dal sig. Cencig)
153
Tav. VII, 2. una visita della marchesa Pallavicino. Si notino gli accumuli, ordinati, delle pietre da costruzione (foto messa a disposizione dal sig.
Cencig).
154
Tav. VIII, 1. La parete settentrionale del mastio è già stata rialzata (foto
messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. VIII, 2. All’interno viene addossata alle pareti una nuova muratura.
Verso ovest si lascia libero un quadrato per ospitare la feritoia verticale
(foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
155
Tav. IX. Nella foto il sig. Franco Cencig sopra la muratura addossata. Si noti la tecnica a sacco con riempimento contenente molto cemento (foto
messa a disposizione dal sig. Cencig).
156
Tav. X, 1. La feritoia aggiunta nella parte ricostruita della parete occidentale (foto M. Lavarone).
Tav. X, 2. Apprestamento di cantiere all’interno del mastio (foto messa
a disposizione dal sig. Cencig).
157
Tav. XI, 1. Il muro che divide la stanza A dalla stanza B. La parte ricostruita è quella superiore (foto M. Lavarone).
Tav. XI, 2. Gli stipiti dell’attuale accesso e il muro nella sua forma prima degli interventi degli anni Settanta (foto messa a disposizione dal sig.
Cencig).
158
Tav. XII. Veduta dall’alto del mastio del medesimo settore. La parte occidentale del muro è già stata ricostruita e sulla destra si vede un mucchio di
pietrame, pronto per il reimpiego (foto messa a disposizione dal sig. Cencig)..
159
Tav. XIII. Il muro di cinta del castello, come appare oggi, dopo l’innalzamento degli anni Settanta (foto M. Lavarone).
160
Tav. XIV, 2. Lo stesso muro, dopo la ricostruzione (foto M. Lavarone).
Tav. XIV, 1. In primo piano il muro a sudest della stanza A, prima della
ricostruzione (foto messa a disposizione dal sig. Cencig)..
Tav. XIV, 3. dettaglio del muro illustrato nella Tav. XV, 2 (foto M. Lavarone).
161
Tav. XV, 1. un nuovo muro costruito negli
anni Settanta, a delimitare l'area d (foto
M. Lavarone).
Tav. XV, 2. Veduta dell’area nordoccidentale dopo il completamento dei muri (foto
messa a disposizione dal sig. Cencig).
162
Tav. XVI, 1. Visita della marchesa Pallavicino e del conte Victor. Sullo sfondo il
sig. Cencig (padre). Alcuni muri sono già
stati ricostruiti (foto messa a disposizione
dal sig. Cencig).
Tav. XVI, 2. un muro ricostruito negli
anni Settanta. Si noti la medesima tecnica
delle fondazioni, che si vede anche nelle
immagini di tav. XII e XVI, 1 (foto M. Lavarone).
163
Tav. XVII. Il muro di cinta settentrionale, liberato dalla vegetazione che lo ricopriva, negli anni Settanta. A sud di esso si vede il terreno rimosso.
Sullo sfondo il castello inferiore (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
164
Tav. XVIII. Nella parte sinistra la sopraelevazione del muro di cinta settentrionale effettuata negli anni Settanta (foto M. Lavarone).
165
Tav. XIX, 1. Tamponatura della porta che dal cortile lastricato immetteva nella domus (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
166
Tav. XIX, 2. Croce incisa sull’architrave riusato come soglia (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav XX, 1. Veduta dal mastio alla conclusione dei lavori (foto messa a
disposizione dal sig. Cencig).
Tav. XX, 2. Gli interventi nell’ambito della domus sono preceduti da
un abbassamento del piano pavimentale (foto messa a disposizione dal
sig. Cencig).
167
Tav. XXI. Veduta aerea del castello poco prima della conclusione dei lavori sul mastio: rimane ancora da completare lo spigolo nordest. La gru è
ancora al suo posto. Invece gli interventi nelle stanze A, B, C e d non sono ancora iniziati (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
168
Tav. XXII, 1. un brindisi tra la marchesa Pallavicino e i sigg. Cencig
nel cortile lastricato tra il mastio e la domus (foto messa a disposizione
dal sig. Cencig).
Tav. XXII, 2. Saggi di scavo entro lo spazio delimitato da un cordone circolare di pietre. Entro il
“dark soil” si vede un allineamento di pietre che
corrisponde alla seconda fase del castello (foto
messa a disposizione dal sig. Cencig).
169
Tav. XXIII, 1. Fornetto del XII secolo restaurato, ora al museo di Attimis (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. XXIII, 2. Ciotole rinascimentali restaurate, ora al museo di Attimis
(foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
Tav. XXIII, 3. Piatti rinascimentali e olle in ceramica grezza, ora al museo di Attimis (foto messa a disposizione dal sig. Cencig).
170
Q uInTA PArTe
oggetti ParticoLari
171
172
L’intaglio da attimis. una nota
alessandra Magni
173
Alessandra Magni
alessandra.magni@liceomanzonilecco.net
174
1. lA gemmA in sé
Materiale e stato di conservazione
La gemma rinvenuta ad Attimis (1) è una corniola,
tagliata a sezione troncoconica (forma 8 della classificazione zwierlein-diehl) (2). Vi è una lacuna sul margine
sinistro; lungo i bordi in sezione sono visibili alcune tipiche scalfitture lunate, di piccola dimensione, sul margine
esterno, mentre un paio di segni più evidenti sono sulla
superficie incisa, a destra e in alto. I segni potrebbero essere indice di successive scastonature per ricollocazioni in
nuovi gioielli o per il recupero della montatura in metallo
prezioso.
La descrizione della scena
Linea di terra. A destra, su un seggio sagomato, è
seduto un giovane, con il busto di prospetto, il capo di profilo verso sinistra, gli arti inferiori, incrociati, in scorcio.
Il piede destro arretrato poggia sulla roccia, il sinistro è
avanzato. Il giovane indossa un corsetto in pelliccia e (presumibilmente) delle bracae, infilate in calzature alte con
tacco e risvolto; porta uno stretto mantello sulle spalle,
che ricade perpendicolarmente fino a terra, lungo il fianco
sinistro. Sul capo reca il berretto frigio; nella mano sinistra
tiene il corto bastone ricurvo (lagobolon) per la caccia
alla lepre (3). La mano destra, poggiata sul ginocchio, è
aperta e accoglie la zampa sinistra di un’aquila, effigiata
di profilo a sinistra. L’animale, dal piumaggio chiaramente
delineato, poggia la zampa destra a terra; la coda è volta
verso il basso, il capo di profilo è chino.
L’identificazione dell’iconografia
Nella scena è riconoscibile l’incontro tra Ganimede e
zeus, sotto forma di aquila, sul monte Ida, come descritto
principalmente in ovidio, Metamorfosi, X, 148-161 (4).
Lo schema iconografico è noto; per la glittica, esso rappresenta una delle varianti più diffuse della rappresentazione
del mito (5). L’incisore, pur indugiando nei particolari
delle due figure (il che si rivelerà importante ai fini della
datazione dell’esemplare), tralascia qui un complemento
spesso presente nella scena: la coppa, allusiva del destino del giovane quale coppiere degli dei (6). l’artigiano è
reticente anche nella resa dell’ambientazione, ridotta al
semplice seggio modanato (7) e alla linea di terra.
Lo stile e la cronologia
La gemma è lavorata in modo dettagliato, pur senza
la cura tipica dell’anatomia e delle proporzioni dei prodot-
buorA 2018, p. 309, fig. 3.
Cfr. mAgni 2009, VIII-IX.
3 Così è impiegato ad es. in mAgni 2009, p. 137, tav. IX, n. 625: corniola, I-II sec. d. C.
4 Elenco e regesto delle fonti in mAtAloni s.d
5 zenoni 2005; mAgni 2009, pp. 114-115, ove bibliografia e ulteriori confronti; buorA 2018, p. 309.
6 La variante è ad esempio attestata in henig 1978, p. 246, n. 474 e in PlAtz-horster 2004, 103, tav. 28, n. 104.
7 un compromesso tra un sedile a zampa di leone e un semplice sperone roccioso, visto anche in mAgni 2009, p. 114, tav. XXXII, n.
507: corniola, I-II sec. d.C.
8 Come ad esempio guirAud 2008, p. 134, tav. XX, n. 1258: un nicolo di produzione aquileiese?
1
2
175
ti “classicistici” (8): ciò si nota, ad esempio, nella rigidità
del braccio sinistro. Il decorativismo è evidente nella resa
dei piumaggi e della veste del giovane, così come nei
calzari, quasi eccessivi; è l’esito del ricorso a strumenti
a disco, impegnati insistentemente nei tratteggi a mo’ di
riempitivo, così come nella definizione del volto.
La maniera incisoria è comune a molti intagli attribuiti al pieno I-II secolo d.C. in assenza di stringenti dati da
contesto; tuttavia è a mio parere possibile meglio precisare
cronologia e produzione dell’intaglio.
Alcuni anni fa, Erika zwierlein-diehl individuò una
mano comune ad alcune gemme, prevalentemente diaspri, appartenenti alla corrente cd del “Flachperlstyl” e li
attribuì a un “Maestro del Cane da Caccia” (“JagdhundMeister”) (9). Gli intagli, presenti in numerose collezioni, tra cui Aquileia, Vienna, e forse Verona (10), e rinvenuti in luoghi anche molto distanti tra loro (Regno unito,
Germania, ungheria, Giordania), sono accomunati, oltre
che da analogie stilistiche, dal ripetersi di alcuni soggetti: il personaggio maschile in veste venatoria, il cane da
caccia, l’aquila in lotta con i cani per una preda.
Ebbene, alcune caratteristiche degli intagli di questo gruppo sono riscontrabili nella gemma da Attimis.
In primis, le dimensioni: alcune gemme misurano fino a
20 mm (11). Inoltre, i soggetti: come sopra accennato, le
gemme del gruppo sono di ispirazione o ambientazione
campestre e quando vi si effigiano divinità o eroi, essi
hanno l’aspetto di cacciatori (12). Infine, alcune spie stilistiche. Nella resa della figura di Ganimede, si vedano
il braccio destro e il bastone venatorio trattati a solchi
separati; gli accurati dettagli della veste e dei calzari (13);
il trattamento del piumaggio dell’aquila (14). Nelle riprese
9
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13
14
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16
176
fotografiche, le gemme del gruppo del Maestro del Cane
da Caccia appaiono quasi “a linee grosse” rispetto alla
corniola di Attimis: ma ciò è in parte dovuto al diverso
effetto dell’incisione su diaspro e su corniola.
Secondo zwierlein-diehl, il Maestro del Cane da
Caccia è di formazione aquileiese, per i suoi legami con la
cd. “officina dei diaspri Rossi” e presumibilmente operò
lì, nel corso del II secolo d.C. Al suo ambito possiamo
ricondurre anche l’incisore della gemma di Attimis.
2. lA gemmA in rE
L’intaglio con Ganimede da Attimis fu realizzato
da un incisore pienamente consapevole dell’iconografia:
i particolari della veste e il gesto dell’animale non sono
fraintesi o mal riprodotti. L’intaglio era destinato presumibilmente ad uso personale; il significato amoroso, e più
precisamente omoerotico sotteso al soggetto (il primo ad
essere elaborato) (15) doveva essere noto al proprietario
che lo indossò nel pieno II secolo d.C.
Proviamo invece a immaginare quale valore potesse avere il medesimo soggetto per gli ultimi possessori
dell’intaglio, in pieno medioevo. occorre dapprima chiedersi se costui, o costei, avesse contezza del significato
letterale della figurazione. Infatti nell’alto medioevo e
nella fase centrale dell’età di mezzo l’immagine di
Ganimede, al pari di altre figurazioni classiche, si eclissa, mantenendosi però nelle illustrazione dei codici (16).
Lì compare quale segno zodiacale dell’Acquario: ma in
tal caso, lo schema di riferimento è quello del giovane
rapito dall’aquila, elaborato a partire dal modello sculto-
zwierlein-diehl 2007, pp. 197-200.
mAgni 2009, p.65, tav. XIII, n. 207: diaspro rosso, satiro, II sec. d.C.
Ad es. zwierlein-diehl 2007, pp. 200, 753, n. 17, fig. 750.17.
zwierlein-diehl 2007, pp. 199-200.
discussione in zwierlein-diehl 2007, p. 200.
Come in zwierlein-diehl 2007, pp. 198, 752, fig. 738.1.
zenoni 2005.
mArongiu 2002, p. 20.
Fig. 1. La gemma di Attimis (foto M. Cusin, univ. di udine).
reo di Leocare, ed il focus è nella brocca (17). Invece, le
scene che coinvolgono il giovane (al cospetto di Giove,
quale coppiere degli dèi) sembrano creazioni autono17
18
19
me, ispirate alla lettura dei testi che esse illustrano più
che ai modelli antichi (18). Infine, anche il celeberrimo
capitello di Vézelay con la scena del ratto di Ganimede
mArongiu 2002, p. 54, n. 8.
trisciuzzi s.d.
Piselli s.d.
177
presenta un’iconografia in parte affrancata dagli esempi
classici (19).
d’altro canto, la conoscenza del mito di Ganimede
rimane nella memoria letteraria dei secoli dell’alto medioevo e del medioevo centrale, sia nell’accezione pagana,
grazie alle opere di ovidio e in quelle dei mitografi, sia
nella lettura cristiana che ne avevano dato apologeti e
padri della chiesa (20). Quest’ultima procede nei secoli
verso una progressiva “moralizzazione”: da esplicito
rimando ai peccati della carne ad allegoria, attraverso il
rapimento verso il cielo del giovane, di una elevazione
spirituale (21).
Anche dai Mitografi Vaticani Ganimede è ricordato
come cacciatore (Myth. Vat. III, 15, 11: venator optimus),
mentre Giove è rappresentato come aquila (ibid.: in quam
fertur Juppiter tunc mutatus); pertanto, un conoscitore del
mito classico attraverso le letture di ovidio e dei suoi epigoni avrebbe avuto strumenti per riconoscere il soggetto
della gemma.
Per i secoli XII-XIV, Caroline Simonet ha sostenuto
con valide prove una certa consapevolezza nell’uso delle
20
21
22
23
24
178
mArongiu 2002, pp. 12-13
Come nell’Ovide Moralisé, del XIV sec.: iAcolinA s.d.)
simonet 2015, pp. 352-355.
simonet 2019.
simonet 2019, p. 373.
immagini delle gemme antiche in quanti le possedevano
e utilizzavano come sigilli, anche per più generazioni.
Costoro spesso avevano le competenze sia per riconoscere il significato della gemma antica, sia per offrirne una
coerente interpretazione cristiana (22). Altrove l’autrice,
riferendo delle centinaia di casi di uso sigillare di gemme
antiche e del prestigio ad esse legato, offre alcune possibilità interpretative per la scelta dei soggetti (23). Essa non
cita esplicitamente immagini di Ganimede; tuttavia nota
l’associazione dell’aquila con possessori legati al nome
dell’apostolo Giovanni, del quale l’animale costituisce
l’attributo (24).
Ci si chiede se una lettura affine non possa valere
anche per la gemma di Attimis: nel giovane con l’aquila
potrebbe forse riconoscersi la figura dell’evangelista.
Niente esclude letture più semplici, sebbene sempre
lontane dalla corretta interpretazione dell’originale e da
validare con ulteriori confronti: dell’elemento dell’aquila
si valorizza in questo caso l’aspetto legato al potere e alla
sovranità, quasi trasmesso al giovane che riceve dall’aquila il tocco della zampa.
Pendente per finimenti da cavallo
MarCo Vignola
179
Marco Vignola
Archivio di Stato di Savona
marco.vignola@cultura.gov.it
180
Il manufatto certamente più interessante tra quelli
relativi all’ambito dell’equitazione è costituito da un
pendente in lega di rame a forma di mandorla, dotato di
appiccagnolo superiore e inciso col disegno astratto di
una figura umana reggente un’arma (forse una spada), che
pare nell’atto di voler colpire un animale al laccio. L’ovale
stesso si conclude in una piccola protome animalesca
stilizzata, dal gusto estetico nel complesso assai vicino ai
moduli del romanico.
Esso, rinvenuto nel 2010, proviene dalla uS 604
che copre la fossa di fondazione del muro settentrionale della stanza d, muro costruito nei decenni centrali
del XIII secolo, probabilmente dopo il terremoto
del 1222. Il pendente (inv. n. 477.541) misura cm 7,5 x 2,5.
da un punto di vista funzionale, la somiglianza con
oggetti analoghi da molteplici contesti europei non lascia
spazio a dubbi attributivi, vista la prassi comune di abbellire
i finimenti più ricchi da cavallo con questo genere di pendenti, in un periodo che spaziò almeno dal XII agli inizi del XV
secolo (1). Ferma restando un’eccezionale varietà sul piano
decorativo (è ben difficile trovare due esemplari identici
ed è possibile al massimo tentarne una classificazione per
gruppi morfologici, come quella del Goßler (2) ), il fortunato
rinvenimento in contesti non posteriori al XIII secolo ci propone un prezioso termine ante quem per il nostro reperto. La
sua forma ovale che richiama gli scudi di pieno Millecento e
la sua impronta decorativa, non possono tuttavia escluderne
una datazione agli ultimi decenni del XII.
Fig. 1. Il pendente di Attimis (foto M. Calosi)
1 Ricordiamo a titolo d’esempio quelli da contesti londinesi di XIII-XIV secolo (clArk 1995, pp. 61-69) e altri esemplari da York, per cui
ottAwAy, rogers 2002, pp. 2962-2965.
2 goßler 1996, pp. 45-50.
181
182
nota bibliografica
Paolo CaMMarosano
183
184
una sintesi della storia del Friuli sino agli inizi del
secolo XIII è stata prodotta da me nel 1988 in Paolo
cAmmArosAno, Flavia de Vitt, donata degrAssi, Il
medioevo, udine, 1988 (Storia della società friulana, diretta da Giovanni miccoli, I). In precedenza avevo scritto:
Strutture di insediamento e società nel Friuli dell’età
patriarchina, in “Metodi e ricerche. Rivista di studi regionali”, I (1980), 1, pp. 5-22; poi in Studi di storia medievale. Economia, territorio, società, Trieste, 2009 (Studi, 03),
pp.111-133. Ad ambedue questi testi rinvio per indicazioni
generali sulla letteratura scientifica e sulle fonti, indicazioni ovviamente aggiornate al 1988.
In seguito è apparso l’importante libro di Harald
krAhwinkler, Friaul im Frühmittelalter. Geschichte
einer Region vom Ende des fünften bis zum Ende des zehnten Jahrhunderts, Wien-Köln-Weimar, 1992 (Veröffentlichungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung, XXX). Saggi di sintesi sono riuniti nel volume
Il Patriarcato di Aquileia: uno stato nell’Europa medievale, a cura di Paolo cAmmArosAno, testi di Lellia crAcco
ruggini, Paolo cAmmArosAno, Giordano brunettin,
Reinhard härtel, donata degrAssi, Michele zAcchignA,
udine, Casamassima, 1999.
Sulle dinastie germaniche operanti nel Friuli dall’alto medioevo al secolo XII è fondamentale il saggio di
Therese meyer e Heinz doPsch, Dalla Baviera al Friuli.
L’origine dei conti di Gorizia e le prime vicende della
dinastia in Tirolo, Carinzia e Friuli, in Da Ottone III a
Massimiliano I. Gorizia e i conti di Gorizia nel Medioevo,
a cura di Silvano cAVAzzA, Mariano del Friuli, 2004, pp.
67-136. Sui conti di Gorizia ancora Peter Štih, Studien
zur Geschichte der Grafen von Görz. Die Ministerialen
und Milites der Grafen von Görz in Istrien und Krain,
in Mittheilungen des Instituts für Österreichische
Geschichtsforschung, Ergbd. 32, Wien-München, 1996;
e id., I conti di Gorizia e l’Istria nel Medioevo, Rovigno,
unione Italiana – Fiume, università Popolare – Trieste,
2013 (Centro di Ricerche Storiche – Rovigno, Collana
degli Atti, n. 36), e “Villa quae Sclavorum lingua vocatur
Goriza”. Studio analitico dei due diplomi emessi nel 1001
dall’imperatore Ottone III per il patriarca di Aquileia
Giovanni e per il conte del Friuli Werihen (DD.O.III. 402
e 412), Nova Gorica, Goriški Muzej, 1999.
Molto importanti infine gli studi e le edizioni di
Reinhard härtel, segnatamente Die älteren Urkunden des
Klosters S. Maria zu Aquileia (1036-1250), Texte, unter
Mitarbeit von ursula kohl, Register, unter Mitarbeit von
Franz mittermüller, Bernhard reismAnn und Johanna
goller, Wien, 2005.
Su tanti personaggi notevoli è adesso prezioso il
Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, 1.
Il Medioevo, a cura di Cesare scAlon, 2 voll., udine,
Forum, 2006.
Su Vodolrico di Attems c’è una monografia, corredata di foto del castello, di Tarcisio Venuti, Vodolrico
d’Attens. Conte di Attimis, margravio di Tuscia e vicario imperiale, Tavagnacco, 1996 (Pubblicazioni della
deputazione di Storia Patria per il Friuli, 25). Le pagine
dedicate dal davidsohn a Vodolrico si leggono in Robert
dAVidsohn, Geschichte von Florenz, 4 voll. (in 7 tomi),
Berlin, 1896-1927; ed.it.: Storia di Firenze, 8 tomi,
Firenze, 1972-1973 (Superbiblioteca Sansoni), tomo I
dell’edizione italiana, pp. 635-638, 646, 653, 661, 662,
664, 699.
185
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APAL
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BCu, FP
udine, bibliotecA ciVicA “V. joPPi”, Fondo Principale.
MANC, PC
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Vol. 4. Da Aquileia al Danubio. Materiali per una mostra, a
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Vol. 8. A. borzAcconi, Ceramiche dallo scavo di Via Brenari, 160 pp.; 128 ill. a colori; 40 ill. B/N, Trieste 2011
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Gli scavi per le fognature di Aquileia 1968-1972, con
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Vol. 10. Il castello di Attimis. Tra natura e cultura, a cura di
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209
Il castello di Attimis. Tra natura e cultura
a cura di Angela Borzacconi, Maurizio Buora, Massimo Lavarone
ISBN 978-88-3349-053-3
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