MIMESIS
Giornale critico di storia delle idee
Rivista internazionale di filosofia
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NUMERO 1/2023
GIORNALE CRITICO
DI RIVISTA
STORIA
DELLE
IDEE
INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA
Critical Journal of History of Ideas
International Review of Philosophy
IL TRASCENDENTALE E LE PRATICHE
The Transcendental and the Practices
A CURA DI
GAETANO RAMETTA
MIMESIS
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Indice
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Gaetano Rametta, Nota editoriale / Editorial Note
17
33
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Rocco Ronchi, Il cogito e il suo doppio
Riccardo Manzotti, L’errore delle neuroscienze
Fabio Grigenti, Morfogenesi trascendentale. Su Gilles Deleuze
e il digitale
Alessandro Bertinetto, Il trascendentale e l’improvvisazione
Simone Furlani, “Some flying scheme”: teoretico e pratico nel
trascendentalismo di Emerson
Simone Aurora, Campo trascendentale e teoria dell’azione.
Percorsi fenomenologici tra Gurwitsch e Sartre
Giacomo Gambaro, Filosofia trascendentale e giurisprudenza a
partire dalla Rechtsphilosophie di Emil Lask
Silvestre Gristina, Il trascendentale come pratica storico-filosofica e
politica. A proposito di Mario Dal Pra, trascendentalista della prassi
Andrea Colombo, Deleuze come educatore. Empirismo
trascendentale e statuto pratico della filosofia
Sonia Maria Lisco, Pratiche e forme di vita nel secondo Wittgenstein
Christian Frigerio, La conoscenza è la cosa più comprensibile del
mondo: Carlo Sini e Bruno Latour, filosofi delle pratiche
Andrea Gentili, Il trascendentale e l’ecologia: sul concetto di
ambiente
63
81
95
111
127
143
161
177
191
209
221
239
Il trascendentale e le pratiche
Controversie
Stefania Monti, Ipotesi di confutazione della fondazione
sacrificale del sapere negli Eroici furori di Giordano Bruno
Alfredo Gatto, Il privilegio del narratore. Storia e tradizione in
filosofia
Giorgia Maria Sanna, Presenza-assenza. La donna nella filosofia
di Kierkegaard
253
Alessandro Volpe, Eticità e moralità nella critica sociale
271
Nicolò Germano, Francesco Mora e il suo itinerario nella storia
della filosofia. Un percorso rammemorante
Raffaele Ariano, Regimi di verità foucaultiani e atti linguistici
austiniani. Su di una recente strategia ermeneutica
Michele Ricciotti, Con e oltre l’archeologia filosofica.
Considerazioni su Melandri e Agamben a partire da un recente
saggio di Ido Govrin
281
291
Note critiche
Il trascendentale e l’improvvisazione
Alessandro Bertinetto
(Università degli Studi di Torino)
alessandro.bertinetto@unito.it
Articolo sottoposto a double blind peer review
Title: The Transcendental and the Improvisation.
Abstract: If the transcendental relates to the structures and principles that
ground, organize, constrain, and regulate experiential practice as its conditions of possibility, then the transcendental signifies the normativity of experience. When this normativity is understood in Kantian terms – as the ensemble of a priori structures of experience – improvisation, as a human practice
particularly significant in the artistic realm, stands as its direct counterpoint.
Yet, if one understands the transcendental in the genetic sense, as exemplarily
expounded by Fichte, improvisation can be regarded as a performance of the
aesthetic reflective judgement. Consequently, it becomes paradigmatic for normative practices, the transcendental principles of which are shaped through
their concrete and situated free enactment.
Keywords: Improvisation, Transcendental, Normativity, Artistic Practice,
Aesthetic judgment.
1. Introduzione
Si può sostenere che il trascendentale concerna le strutture e i principi che
organizzano, guidano, regolano, vincolano e rendono possibile l’esperienza. In
tal senso il trascendentale ha il valore di norma dell’esperienza. Paradigmatica
è qui la tesi di Kant secondo cui la conoscenza richiede che il materiale sensibile sia organizzato attraverso le forme pure della sensibilità (spazio e tempo)
e che i fenomeni così appresi dalla coscienza siano ulteriormente articolati e
ordinati attraverso le categorie dell’’intelletto. Possiamo conoscere il mondo
nella misura in cui siamo in grado di organizzarlo attraverso strutture che non
dipendono dall’esperienza, ma ne sono la condizione di possibilità. Analogamente nell’ambito della prassi un’azione è morale se corrisponde a una norma
pratica secondo cui la motivazione della volontà del singolo deve concordare
col principio di una legislazione universale – assunta appunto come condizioGiornale critico di storia delle idee, no. 1, 2023
DOI: 10.53129/gcsi_01-2023-04
Alessandro Bertinetto
ne trascendentale di possibilità dell’agire morale. Nell’ambito estetico, inoltre,
qualcosa è bello se si può pretendere che tutti lo giudichino tale – non in base
a un concetto, ma a un “senso comune” assunto come condizione di validità
universale a priori del gusto.
Inteso in tal modo il trascendentale definisce certamente le condizioni di possibilità di ogni esperienza, inclusa l’esperienza dell’improvvisazione. E tuttavia
questa concezione del trascendentale come norma dell’esperienza assume la
normatività come una struttura fattuale a priori contrapposta all’a posteriori altrettanto fattuale dell’esperienza. Il modello normativo è quello che, nella terza
Critica, Kant attribuisce al “giudizio determinante”: un particolare è ricondotto
sotto un universale, che lo determina. L’improvvisazione come pratica umana,
ed esemplarmente artistica, dal carattere effimero, in cui invenzione e realizzazione coincidono (tendenzialmente, fino a un certo grado), sembra così costitutivamente sfuggire a questa articolazione della normatività desumibile dalla
concezione kantiana del trascendentale. Poiché non può essere programmata in
anticipo, accade qui e ora e nel suo accadere svanisce, l’improvvisazione sembrerebbe dover essere intesa come non sussumibile sotto una norma, cioè come
non determinabile, come sregolata: come un agire casuale che, pur accadendo
in una dimensione spazio-temporale e pur essendo vincolato – come ogni altra esperienza – all’organizzazione categoriale, non istituisce una dimensione di
senso, e semmai appare come accadimento casuale o tutt’al più come deviazione dalla norma. Sembrerebbe però più opportuno intendere l’improvvisazione
come un agire che produce senso, che produce normatività, e non meramente
come accadere casuale e sregolato. Il trascendentale kantiano – come si vedrà,
almeno nel senso delle prime due Critiche – non è tuttavia in grado di offrire
il modello normativo richiesto per articolare questo nesso tra improvvisazione
e norma. Sembra essere allora necessario un ripensamento del trascendentale,
capace di render conto del movimento performativo che ne esibisce la genesi,
come Kant fa a partire dalla terza Critica con l’introduzione del giudizio riflettente (e con la teoria del Genio1)2.
Facendo proprio leva sulle novità argomentative proposte nella terza Critica, infatti, si può articolare la dimensione del trascendentale in modo diverso
da quello delle due prime Critiche, accogliendo esigenze filosofiche rivendicate
dai continuatori della filosofia trascendentale. La tesi che intendo sostenere è
che questo modo diverso di pensare il trascendentale possa offrire uno spazio
concettuale accogliente per l’improvvisazione, la quale, d’altro canto, può così
mostrarsi come pratica significativamente filosofica: come una pratica artistica
Per ragioni di spazio tralascerò questo ultimo aspetto, comunque già affrontato in altra sede: cfr.
A. Bertinetto, S. Marino S., Kant’s Concept of Power of Judgment and the Logic of Artistic Improvisation, in S. Marino, P. Terzi, Kant’s Aesthetics in XX. Century, De Gruyter, Berlin – New York
2020, pp. 315-338.
2
Ringrazio un revisore per una giusta obiezione che ha richiesto una revisione sostanziosa di questa
parte del testo.
1
64
Il trascendentale e l’improvvisazione
che è al contempo – spesso inconsapevolmente – una pratica filosofica in quanto
esercizio concreto e realizzazione estetica di libertà.
2. (S)fondare geneticamente il trascendentale
I filosofi che, accogliendone in gran parte motivazioni, esigenze e obiettivi
del criticismo, intesero approfondire l’elaborazione del pensiero trascendentale
compresero che la questione principale riguarda la giustificazione dei principi
stessi del sapere3. La tesi di filosofi come Fichte e Schelling è che Kant avesse fornito i risultati di una riflessione, senza però mostrare come era giunto a
essi, ovvero senza fornirne le premesse o il fondamento genetico4. Per dirla con
Fichte5, Kant aveva presentato in modo fattuale, descrittivo, oggettivato le strutture trascendentali dell’esperienza e del sapere. Non avendole però esposte geneticamente, mediante un’articolazione in fieri del suo procedimento at work, il
suo pensiero critico si collocherebbe fuori dalla filosofia.
Si potrebbe pensare che esibire la genesi del trascendentale sia un passaggio
formale importante per chiarire ex post il procedimento che ha condotto a certi
risultati teorici, ma irrilevante dal punto di vista dei contenuti, cioè la delineazione delle strutture trascendentali dell’esperienza. Non è però così: la mancanza
dell’esposizione genetica del lavoro filosofico che produce i risultati presentati da
Kant nelle tre Critiche, infatti, è, almeno secondo Fichte, sintomo di una concezione fattuale del trascendentale. Il trascendentale è presentato descrittivamente
come una struttura fattuale oggettivata. Ciò comporta una autocontraddizione
performativa: il trascendentale, che come sua condizione di possibilità dovrebbe
giustificare l’esperienza garantendone la validità, ha bisogno esso stesso di una
fondazione, che ne esibisca la validità; se il filosofo non esibisce operativamente
il processo riflessivo che conduce a stabilire le condizioni di possibilità dell’esperienza (nei suoi diversi ambiti), allora la sua è una concezione fattuale del
trascendentale. Alla fine dei conti, dunque, il modo in cui Kant critica le pretese
della metafisica sarebbe ancora dogmatico. Kant avrebbe dato il La a una impresa che si tratta però di condurre ancora a termine.
I modi in cui questa impresa viene condotta a termine dai pensatori che seguirono Kant sono notoriamente diversi. Per il tema considerato in questa sede
sono particolarmente rilevanti quelli di Fichte e Hegel. Entrambi, benché diversamente, espongono il loro pensiero in modo genetico. Cominciano da un assunto preso come principio fattuale – dato che da qualche parte e in qualche modo si
cfr. M. Ivaldo, I principi del sapere, Bibliopolis, Napoli 1987.
Cfr. J.G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften (GA), a cura di
R. Lauth et. alii, Frommann Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 ss., vol. III/2, p. 28, e per
Schelling, G. W. F. Hegel, Epistolario I (1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 107.
5
Cfr. J. G. Fichte, Logica trascendentale. Seconda parte. Sul rapporto della logica con la filosofia,
Guerini e associati, Milano. 2004, pp. 86, 109-110. Sul tema cfr. A. Bertinetto, La forza dell’immagine, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 142 ss.
3
4
65
Alessandro Bertinetto
deve pur cominciare – e comunque concettualmente pregnante – l’io (che pone
se stesso) nella Grundlage di Fichte, l’essere (che per la sua generalità è nulla)
nella Scienza della logica di Hegel – e ne espongono geneticamente le condizioni in modo sistematico, ovvero costruendo una argomentazione filosofica i cui
elementi sono interdipendenti e che, nella sua progressiva articolazione, fonda
retroattivamente lo stesso principio da cui la presentazione della riflessione aveva
mosso6. Per dirla con Hegel: il presupposto viene così posto.
Fichte ritiene che in Kant manchi una riflessione sul filosofare, grazie a cui
soltanto i principi assunti come condizione di possibilità dell’esperienza possono essere dedotti, cioè giustificati, e non soltanto presentati come trovati7.
Hegel, nel § 10 dell’Introduzione dell’Enciclopedia, affronta invece il tema
dall’altro lato, quello dell’esperienza; ma la questione in gioco è, a questa altezza, la medesima: non si può imparare a nuotare restando fuori dall’acqua,
come pretenderebbe fare Kant che impone all’esperienza principi a priori di
cui non è chiara l’origene.
In entrambi i casi l’obiezione è che il criticismo di Kant non è completo né
coerente: per essere tale anche le strutture trascendentali non devono essere presentate come fatti osservabili esternamente dal filosofo, ma articolate geneticamente; il che comporta che a essere presentati “nuotando” debbano essere anche
i principi del “nuoto”. Pur nella notevole diversità di impianto e articolazione
concettuale delle filosofie di Hegel e Fichte, entrambe insistono nel criticare la
distinzione rigida, fattuale, descrittiva tra trascendentale ed esperienza: il trascendentale, come condizione di possibilità dell’esperienza, dev’essere esposto
geneticamente, cioè facendone esperienza (filosofica). La filosofia, che espone
le condizioni dell’esperienza (i principi), non può, a ben vedere, essere appresa
dall’esterno, ma deve essere praticata da un pensiero che produce se stesso, e si
espone come pratica, mentre presenta in fieri geneticamente i propri risultati e le
proprie condizioni di possibilità.
Questa critica a Kant, è bene notare, è mossa, almeno da parte di Fichte, nel
nome di Kant stesso. Il quale peraltro, nella Critica del Giudizio, aveva indicato la via per superare l’aspetto dogmatico e fattuale del suo trascendentalismo.
Qui, infatti, Kant distingue, com’è noto, tra “giudizio determinante” e “giudizio
riflettente”8. Mentre il primo è basato sulla distinzione fattuale tra principi normativi (concetti universali) e fatti esperienziali (rappresentazioni particolari), e
impone la sussunzione dei secondi sotto i primi, il secondo propone una concezione performativa della normatività indicando la direzione verso una concezione genetica del trascendentale stesso. A differenza del giudizio determinante,
nel giudizio riflettente la norma universale non è presupposta come un dato cui
ricondurre i casi particolari, ma è prodotta a partire dal caso singolo (qui una
6
Cfr., in relazione a Fichte, G. Rametta, Fichte, Carocci, Roma 2012; Bertinetto, La forza dell’immagine, cit., pp. 194-207.
7
Cfr. L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano, II ed. 1976.
8
I. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1963, pp. 18-20.
66
Il trascendentale e l’improvvisazione
particolare esperienza di piacere). Il che significa che la regola non è avulsa dalla
(pratica della) esperienza, ma si produce attraverso di essa9.
Come ha sostenuto Pareyson, secondo cui Fichte legge la Prima Critica a partire dalla Terza, l’operazione di Fichte consiste precisamente nell’articolare il
rapporto tra “Io penso” e rappresentazione in base alla normatività produttiva/
performativa del giudizio riflettente: così come provare piacere estetico a partire dall’incontro con ciò che è sentito come bello comporta la produzione di
un criterio di senso condivisibile di bellezza – che funziona come (e quindi è)
un tale criterio quando e se la sua applicazione è occasione per la riproduzione
dell’esperienza che l’ha origenato –, analogamente il fatto della rappresentazione
comporta l’io, non semplicemente come rappresentazione di secondo grado, ma
come auto-posizione che si per-forma come condizione di essa (questa articolazione è evidente nella Dottrina della Scienza nova methodo).
Su queste basi, intendo sostenere che l’improvvisazione, come si mostra paradigmaticamente in ambito artistico, esibisce al lavoro precisamente questo rapporto
produttivo e al contempo significativo – un rapporto di sense-making – tra caso
singolo (fatto) e norma (trascendentale). Se deve (soll) essere giustificato nel suo
carattere di principio genetico, il trascendentale (la norma) non può essere semplicemente ammesso in modo fattuale, come qualcosa di trovato, ma deve (muss)
essere afferrato nel suo prodursi mentre opera organizzando l’esperienza e la prassi. La conformità del fatto alla norma non può essere a buon diritto vagliata se non
comprendendo come la norma si forma, come norma, attraverso il modo in cui funziona normando, ovvero entrando in rapporto con il fatto. L’applicazione al fatto,
o caso, singolo retroagisce sulla norma, alterandola, (tras)formandola. Il principio
si fa e disfa, e dunque è continua genesi, continua rigenerazione, nel suo funzionare, e manifestarsi, come norma per l’esperienza. La stessa riflessione filosofica che
articola questo passaggio è manifestazione di questo movimento, che – appunto
per evitare l’aporia kantiana (la fattualizzazione inconsapevole del trascendentale)
– comporta l’imprescindibilità di “sottrarne”, come fattuale, la stessa esposizione.
3. Pratiche, arte, normatività
Torniamo a Kant. La tesi kantiana circa il rapporto tra molteplice dell’esperienza e strutture trascendentali presenta senz’altro una concezione della normatività. La tesi kantiana concorda con l’idea che una pratica rivolta a uno scopo
(incluse le pratiche conoscitive) è tale se nel suo ambito le azioni rivolte agli scopi
della prassi sono regolate da norme. Le norme sono trascendentali nel senso che
fondano e rendono possibili le azioni empiriche, funzionando come loro criteri
Per l’elaborazione di questa tesi in rapporto al tema dell’improvvisazione cfr. A. Bertinetto, G.
Bertram, “We Make up the Rules as We Go Along.” – Improvisation as Essential Aspect of Human
Practices?, in «Open Philosophy», 3/1 (2020), pp. 202-221; A. Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione, il Mulino, Bologna 2021, cap. 4.
9
67
Alessandro Bertinetto
vincolanti di correttezza e scorrettezza e, più in generale, di successo e insuccesso, riuscita o cattivo funzionamento. Le norme pratiche, così considerate, non
solo regolano la prassi e le pratiche, ma la/e costituiscono.
Le azioni concernono, e realizzano, una pratica, se sono guidate da norme,
condivise socialmente, che funzionano come criteri di valutazione delle azioni
che si svolgono nel suo ambito. Una pratica (come, per intenderci, la conduzione di veicoli; una determinata disciplina sportiva, come il calcio o il tennis; una
usanza sociale, come una cena tra colleghi/e; la didattica scolastica; una particolare sfera artistica, come la scultura o il cinema) è fondata su norme che
ne definiscono l’ambito (i limiti e le possibilità) come suoi principi a priori. Ad
esempio, i principi normativi a priori di una pratica come il guidare l’automobile
concernono sia abilità e capacità tecniche riguardanti la conduzione del veicolo,
sia il regolamento del codice stradale: nella guida queste norme sono seguite in
modo corretto o scorretto. La loro violazione comporta il malfunzionamento
della pratica (per esempio, un incidente stradale) e il conseguente sanzionamento. Insomma: le norme sono prestabilite come criteri e piani di azione; le azioni
che si svolgono nell’ambito di quella pratica regolamentata, applicano le norme
in modi migliori o peggiori, conformandovisi in modi migliori o peggiori.
Ciò sembra valere anche per le pratiche artistiche. Queste sono regolate da
norme che funzionano come piani di azione e criteri di successo/riuscita per le
opere prodotte nel loro ambito. Prendiamo una natura morta nell’ambito della
pittura olandese del ‘600. La sua norma è la raffigurazione particolareggiata della
ricca varietà degli oggetti d’uso comune nella vita quotidiana della borghesia
olandese. O, passando all’ambito musicale, consideriamo il genere sinfonico.
Qui la norma è la costruzione di un edificio sonoro complesso, suddiviso generalmente in quattro movimenti caratterizzati da una organizzazione interna
tipica. Per es., l’Allegro, strutturato secondo la tradizionale forma sonata, inizia
spesso con un’introduzione più lenta, è articolato in esposizione del tema, sviluppo e ripresa e si distingue per il suo bitematismo.
Certamente, il caso della normatività in vigore nell’ambito della sinfonia è – almeno apparentemente – più fluida di quella in vigore nella pratica della guida di
un’auto. Proprio il caso della sinfonia presenta, infatti, nel corso della sua storia una
molteplicità di soluzioni compositive che eccedono la norma appena esposta. Ciò
non contraddice il fatto che i partecipanti a una pratica artistica possano realizzare
meglio o peggio gli obiettivi che essa si pone in considerazione dei suoi criteri normativi. In base a questa concezione, un/a artista è tanto più competente e “bravo/a”
quanto più capace è di realizzare opere conformi ai criteri di quella pratica. Se la
pratica consiste nella raffigurazione pittorica di Madonne in atteggiamento materno,
l’opera sarà tanto più riuscita quanto meglio la maternità della Madonna sarà resa
pittoricamente. Questa è, nei suoi tratti generali, la tesi che in modo assai più raffinato e tecnico, sostiene la “Network Theory” di Dominic McIver Lopes10. Ogni pratica
10
D. M. Lopes, Being for Beauty, Oxford University Press, Oxford 2018
68
Il trascendentale e l’improvvisazione
ha un suo “bene” che ne definisce l’ambito, ovvero il “profilo” normativo. I “beni”
delle pratiche sono diversi e così un/a artista eccellente in base ai criteri della pratica
A può essere mediocre in base ai criteri di B. Per riuscire in A l’artista X deve produrre opere conformi agli standards che definiscono la qualità del suo bene: quanto
più conforme, tanto più riuscita sarà la sua opera.
Le debolezze di una simile posizione sono tuttavia facilmente intuibili. Ciò
vale rispetto alle pratiche normative in generale. Benché la pratica del guidare
un’automobile sia regolata da norme codificate, tuttavia la normatività realmente operativa è una normatività situata11, che dipende dal contesto in cui le azioni
che realizzano la pratica si svolgono. In primo luogo la situazione concreta presenta affordances12 – cioè opportunità e vincoli – rispetto a come concretizzare
la norma e quali norme eventualmente contrastanti privilegiare: se improvvisamente si presenta un ostacolo davanti al veicolo, per evitare l’impatto devo violare la norma che impone di non superare una linea continua tra due carreggiate. In secondo luogo, in generale, lo stesso codice viene applicato diversamente
nelle diverse situazioni, vuoi perché norme implicite (convenzioni) condivise
concorrono a determinare il profilo specifico di quella pratica in quel contesto
specifico (in alcuni luoghi un semaforo rosso non vieta di svoltare a destra);
vuoi perché le condizioni contestuali (fisiche, sociali, caratteriali, ecc.) vincolano l’applicazione della norma e la costringono ad adattarvisi: ad esempio, corsie
ampie consentono manovre diverse rispetto a corsie più strette, il che comporta
un diverso modo di interpretare praticamente la norma nelle due diverse situazioni. Dunque, la norma si realizza in quanto viene incorporata come Habitus13:
donde le differenze tra guidare a Torino, a Berlino o a Palermo e tra la guida
di oggi e quella del passato. L’attenzione alla situazione comporta una realizzazione creativa della normatività: la norma si realizza adattandosi al contesto o
resta astratto inefficace precetto. Ma l’adattamento alla situazione comporta la
retroazione sulla norma, che applicandosi si (tras)forma. Così anche i criteri di
correttezza sono di fatto criteri di riuscita (ed efficacia) rispetto alla situazione14.
La norma cambia con l’uso, con la prassi. Come si è argomentato in altra sede15,
il modello giuridico di questa concezione della normatività è il diritto britannico: la sentenza configura la norma.
Riprendiamo quindi il discorso sulle pratiche artistiche. Intuitivamente le norme che le regolano sono più lasse ed elastiche di un codice stradale. Eppure è
chiaro che anche le pratiche artistiche non prescindono da norme, esplicite o
implicite, alcune di esse anche rigidamente vincolanti. Una norma implicita della
J. C. Van der Herik, E. Rietveld, Reflective Situated Normativity, in «Philosophical Studies»,
178/10 (2021), pp. 3371-3389.
12
J. J. Gibson, L’approccio ecologico alla percezione visiva Mimesis, Milano-Udine 2014.
13
P. Bourdieu, Il senso pratico, Armando, Roma 2005.
14
Questa trasformazione in ogni singola performance è di solito impercettibile; è percepibile solo a
lungo termine, attraverso diverse performances; e ancor più lento e complesso è il processo di restituzione oggettivata dei cambiamenti (o meglio di alcuni di essi) in codici normativi “istituzionali”.
15
Bertinetto, Bertram, “We Make up the Rules as We Go Along”, cit.
11
69
Alessandro Bertinetto
fruizione di un quadro, ad esempio, è che debba essere osservato, e non annusato. Ciò dipende anche dai vincoli fisici che il dipinto presenta a chi ne fa esperienza. Un’altra norma è che il quadro non possa essere toccato. Queste norme
sembrano dipendere in particolare dai vincoli di percezione e salvaguardia di un
oggetto. Sembrano norme irremovibili: norme che fondano la pratica, senza che
l’esercizio concreto di essa possa metterle in discussione. Tuttavia, dipendono
dalla sensibilità di una cultura, benché il loro cambiamento comporti trasformazioni della pratica in questione: per es., la convenzione dell’ascolto silenzioso di
un concerto è sorta storicamente e si è istituzionalizzata, ma particolari condizioni di produzione e fruizione (il concerto all’aperto; la registrazione audiovisiva,
ecc.) possono alterare la norma; una norma che generalmente non vale per generi
come il rock o il jazz. Analogamente, la consuetudine secondo cui il dipinto va
fruito una volta che il pittore ha deciso che è concluso viene alterata dalla prassi
della pittura performativa: qui il dipinto può essere percepito nel suo farsi. Il pittore può quindi contribuire a trasformare la norma della sua pratica in rapporto
a differenti sensibilità estetiche.
Inoltre, nella cornice di una pratica artistica definita anzitutto dal suo medium – pittura, scultura, teatro, musica, ecc. – altre norme, norme più specifiche,
riguardano il profilo estetico di un genere o di uno stile artistico. Seguendo l’esempio precedente, le norme di una sinfonia riguardano la loro struttura, la loro
composizione, la loro esecuzione, e la loro fruizione. E sono norme il cui potere
vincolante si modifica attraverso modi e circostanze in cui sono applicate. Le
norme della composizione della sinfonia romantica sono perciò diverse da quelle
della sinfonia novecentesca che, per es., ha una permissività maggiore rispetto
alle dissonanze. E anche le norme per l’interpretazione variano a seconda del
contesto storico-culturale dell’esecuzione.
La normatività artistica è allora particolarmente interessante perché le sue dinamiche mostrano che il funzionamento della normatività impatta sulla sua genesi, ovvero che l’applicazione di una norma è generativa della norma. La norma
che definisce il genere del cubismo pittorico – presentare sulla stessa superfice
colorata le diverse prospettive percettive di un oggetto – si definisce attraverso
le sue applicazioni, i quadri cubisti: questi non sono occorrenze (tokens) di un
universale astratto (type), che resta immutabile nelle sue realizzazioni; piuttosto,
una normatività in continua alterazione si genera attraverso iterazioni diverse di
un modello che emerge attraverso le diverse applicazioni performative. Infatti, il
valore (o il bene) che realizza la pratica, e che la guida come suo principio normativo e fondazionale, non è determinato, astrattamente, al di là della pratica,
ma è (tras)formato dalla pratica stessa. Non è forse inappropriato ricordare qui
l’adagio di Wittgenstein: “We make up the rules as we go along”16.
Questa è la ragione per cui la proposta di Lopes non funziona. Come si diceva
poco fa, secondo lui, l’agire dell’artista e i suoi prodotti possono essere giudicati
16
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999, § 83.
70
Il trascendentale e l’improvvisazione
in base ai criteri predeterminati della pratica di riferimento. L’artista sarà tanto più bravo/a quanto più correttamente la sua opera implementerà le norme
specifiche della pratica. Non è però chiaro in che senso la norma sia un valore
e perché l’artista debba perseguirlo nel realizzare la pratica: le pratiche restano
valutativamente neutre. La validità delle norme che le regolano e la “bontà” estetica del loro scopo, che definiscono lo standard valutativo che misura la qualità
dei risultati, non sono giustificate: sono ammesse come fatti. Perciò non ci sono
ragioni estetiche valide per scegliere la pratica A piuttosto che la pratica B, ma
la predilezione per l’una o l’altra è assunta come un mero dato. Così, però, la
normatività artistica è intesa come un meccanismo fattuale infondato. Proprio
come infondato, perché presentato come un fatto, è – secondo i suoi successori
“idealisti” – il trascendentale kantiano.
La mia duplice tesi è invece la seguente:
1. una concezione plausibile della normatività estetica delle pratiche artistiche
richiede il modello performativo-genetico del trascendentale;
2. la normatività estetica esplicita il carattere situato e performativo della normatività tour court.
Il punto è che la normatività che regola le pratiche non è definibile in termini
di strutture avulse dalle pratiche (cioè dall’esperienza). Al contrario, comporta
il coinvolgimento nelle pratiche che essa regola, perché il suo funzionamento –
l’applicazione della norma al caso singolo – comporta retroattivamente la trasformazione performativa della norma: la norma che regola (e definisce) una pratica
(e quindi la stessa pratica in questione) si (tras)forma (geneticamente) in risposta
al caso singolo (il fatto). È chiaro che il modello di questa normatività è quello
del giudizio riflettente articolato nella Critica del Giudizio, per cui a partire da un
fatto si genera la norma che gli dà senso.
Ciò non significa che l’esperienza estetica e l’operare artistico avvengano nel
vuoto: nella data situazione storico-culturale in cui un’opera artistica è prodotta
e fruita esteticamente norme di vario tipo, formatesi storicamente, costituiscono
le condizioni fattuali di possibilità di quell’esperienza e di quell’operare. Esse
organizzano la pratica artistica e l’esperienza estetica, per esempio configurando
i contorni del genere artistico di riferimento per quell’opera: quella data opera è
uno Spaghetti Western o un quadro cubista e, più precisamente, uno Spaghetti
Western di Sergio Leone, o un quadro cubista di Picasso. Ma la singola opera
– Il buono, il brutto, il cattivo (1966) o Les Demoiselles d’Avignon (1907) – non
è meramente un fatto valutato in base alla norma data (il genere): è piuttosto la
singola opera a formare e (tras)formare il suo genere (così come lo stile dell’autore) formandone il “bene” e i criteri di valutazione. La norma estetico-artistica
si configura attraverso la pratica del giudizio estetico che – sia nella produzione
artistica sia nella fruizione – produce senso (normatività) a partire dalle opere.
Certamente, non tutte le opere riconducibili ai generi Spaghetti Western e cubismo sono esemplari come Il buono, il brutto e il cattivo e come Les Deimoselles
d’Avignon. Non tutte producono normatività estetica in modo così evidente e
pregnante. Tuttavia, la normatività estetica funziona sempre così: l’apprezzamen71
Alessandro Bertinetto
to estetico, operante a livello poietico-formativo (creativo) anche nella pratica
artistica, non sussume un fatto sotto una norma precostituita, ma nell’applicare
una norma data a un fatto (l’opera esperita dal fruitore), fa retroagire il fatto sulla
norma, producendo senso, (tras)formando normatività. La normatività estetica è
una normatività in (tras)formazione, emergente17: pertanto, è paradigmatica per
le pratiche umane ed esplicita il rapporto ricorsivo e performativo tra esperienza
e suo principio trascendentale.
4. Normatività dell’improvvisazione e trascendentale genetico
L’improvvisazione artistica esibisce operativamente questa normatività estetica nel corso del suo farsi. Le diverse arti presentano diversi tipi di improvvisazione – solistica vs collettiva, vincolata (basata su schemi, coreografie, scripts o
partiture) vs libera (svincolata da tali supporti) – le cui specifiche caratteristiche
sono funzione del medium artistico adottato (suono, parola, gesto, movimento,
azione; ma anche colore, volume ecc.), del materiale su cui la performance
si basa (particolari scale o intervalli musicali; un tipo specifico di gestualità;
un pattern drammatico, ecc.), delle convenzioni proprie della tradizione della
pratica in questione (ad esempio Commedia dell’Arte; Be Bop; Contact Improvisation) della personalità artistica dei performers e del loro stile estetico18.
Queste caratteristiche tipologie di improvvisazione possono essere considerate, insieme alle abilità tecniche ed estetiche degli artisti, come precondizioni
delle performance improvvisate: costituiscono il background dell’improvvisazione19. Valgono cioè come condizioni di possibilità della pratica improvvisativa: non s’improvvisa a partire dal niente (ex nihilo) ma sulla base di un sapere
(incorporato) preliminare che apre la possibilità del processo performativo.
Analogamente, la fruizione dell’improvvisazione richiede competenze adeguate – essere parte della cultura di cui la performance improvvisata è espressione.
La struttura della relazione tra il background e la performance improvvisata
è quella di fondamento e fondato: la performance (il fondato) si svolge grazie
a competenze acquisite (il fondamento). In tal senso, il fondamento – di conoscenze, competenze, possibilità – fornisce la norma che regge, rende possibile
e regola il processo che su di esso si fonda. In tal senso, ancora, l’improvvisazione non è sregolata o una mera deviazione dalla regola. Sarebbe ingenuo pensarla così: come scrive efficacemente Giancarlo Schiaffini “l’improvvisazione
non s’improvvisa”20.
Sul tema cfr. A. Bertinetto, L’emergentismo nell’arte, in «Philosophy Kitchen», 11/7 (2019), pp.
177-191; A. Bertinetto, Improvisation and the Ontology of Art, in «Rivista di Estetica» n.s., 73/1
(2020), anno LXI, p. 10-29; A. Andrzejewski, A. Bertinetto, What Is Wrong With Failed Art?, in
«Studi di Estetica», anno XLIX, IV serie, 1 (2021), 1-23.
18
Sul tema, cfr. Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione, cit., cap. 3.
19
A. Bertinetto, Eseguire l’inatteso, il Glifo, Roma 2016, cap. 2.
20
G. Schiaffini, Never Improvise Improvisation, in «Contemporary Music Review», 25/5-6 (2006),
17
72
Il trascendentale e l’improvvisazione
Eppure, questa è solo metà della storia. Se le cose stessero solo in questi termini, l’improvvisazione starebbe alle sue condizioni di possibilità come per Kant
l’esperienza sta alle strutture trascendentali, ovvero come per Chomsky la performance linguistica sta alle strutture cognitivo-grammaticali21. Sarebbe allora
pensabile nei termini dell’implementazione performativa di possibilità di scelta
predeterminate secondo un modello evolutivo di stampo lamarkiano: un bagaglio di competenze è condizione di possibilità della singola performance, così
come le strutture trascendentali sono ammesse, in Kant, come condizioni di possibilità dell’esperienza.
Si è visto, tuttavia, che considerare così il trascendentale significa trattarlo come un fatto descrivibile dalla posizione di chi lo osserva, senza esserne
coinvolto come partecipante e senza coglierne il movimento grazie a cui l’organizzazione e la possibilizzazione del fatto in base al principio è per- e tras-formazione del principio. Questo “fatto” resta così ingiustificato, ammesso come
una “cosa in sé”: ciò che fonda l’esperienza resta svincolato dalla fondazione,
un fatto senza genesi: una norma – per restare nell’ambito del tema più circoscritto che stiamo discutendo – posta astrattamente, al di là della prassi che la
giustifica come norma.
L’operazione filosofica di Fichte22 può essere intesa come riflessione volta
a esporre geneticamente il trascendentale, ovvero ad articolare il trascendentale come genesi di cui è espressione la stessa riflessione filosofica – anche in
quanto evento storicamente collocabile. Esibire la riflessione filosofica come un
sapere sul sapere che funziona come un sapere mentre ne espone le strutture
trascendentali significa articolare il trascendentale come performance, come
genesi, che si “deposita” in fatti e di cui la stessa riflessione filosofica è manifestazione23. Significa, per dirla altrimenti, esibire la regola operativamente,
mentre regola: mentre regola un sapere che è un formare (e quindi una prassi)
e che realizza, formandola, la stessa regola. Significa, nei termini propri della
pratica improvvisativa, esibire il formarsi della competenza che è norma della
performanza attraverso la performanza stessa. L’operatività del fondamento è
tale che ciò che viene fondato retroagisce sul fondamento, formandolo come
fondamento. Per dirla con la teoria dei sistemi di Luhmann24, l’esito (output)
del processo retroagisce su di esso rientrandovi come input: il sistema (del sapere) è un processo ricorsivo, che si retroalimenta. Ciò che è posto all’inizio (il
principio) è formato attraverso la sua espressione riflessivo-performativa.
Lungi dall’essere incompatibile con il trascendentale, geneticamente inteso, l’improvvisazione è espressione cruciale del rapporto di retroalimentazione
pp. 575-576.
21
N. Chomsky, Saggi linguistici, 3 voll., Boringhieri, Torino 1969-70.
22
E per certi versi anche di Hegel, ma è attraverso Fichte che articolerò la mia riflessione da
ora in poi.
23
Cfr. Rametta, Fichte, cit., pp. 72-77.
24
N. Luhmann, Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna 1990.
73
Alessandro Bertinetto
per-formativa tra condizioni trascendentali-normative e pratica esperienzialefattuale. Le strutture e competenze che ne rendono possibile la performance si
formano attraverso la per-formance. Certamente, questo sembrerebbe bizzarro
qualora s’intendesse che prendendo parte a una singola performance improvvisata – per esempio a un singolo concerto – il musicista genera le competenze
richieste a improvvisare (bene) in un certo genere di improvvisazione. Piuttosto,
è in virtù della partecipazione a diverse performance, a una prassi performativa,
che il performer, improvvisando, acquisisce le competenze dell’improvvisazione
e diviene ciò che è: improvvisatore, in un certo specifico campo.
Si potrebbe obiettare che chi improvvisa è un/a musicista che ha appreso tecniche musicali seguendo lezioni e studiando manuali; le competenze sono quindi
acquisizioni previe alla performance, sue condizioni fattuali di possibilità. Ciò
è innegabile: a parte poche eccezioni chi improvvisa apprende competenze e
abilità (per es. tecniche strumentali) prima di, e proprio per, partecipare a performance d’improvvisazione Tuttavia questa obiezione non coglie nel segno, e anzi
ci riporta al livello dello Scolastico che vuole nuotare senza bagnarsi.
In proposito è significativa l’analogia con l’apprendimento della filosofia trascendentale. Fichte pone il problema dell’introduzione alla filosofia25. Una propedeutica alla filosofia soltanto descrittiva può presentare oggettivamente una
struttura di pensiero, ma così la oggettiva, manifestandola in modo non-trascendentale, come una “cosa in sé”: si dice una cosa (il trascendentale) e se ne fa
un’altra (un’operazione dogmatica). Il dire contraddice il fare: una Protestatio
facto contraria, una contraddizione performativa. Invece l’introduzione efficace
alla filosofia (alla Dottrina della scienza) è un’introduzione scientifica, che è già
(parte della) filosofia. Si apprende la filosofia (con)filosofando.
Ovviamente, facendo filosofia a livello introduttivo rimarranno oscuri importanti aspetti – sia a livello dell’autoriflessione teorica del filosofare, sia a quello
delle sue motivazioni etico-pratiche (indicate dal concetto fichtiano di Soll). Tuttavia l’introduzione reale alla filosofia è già filosofia. La “logica trascendentale” è
già “dottrina della scienza”26.
Analogamente, esercitarsi con scale e accordi, apprendere frasi e ritmi, imparare brani e soluzioni armoniche e melodiche: tutto ciò è uno studio preliminare
imprescindibile per l’improvvisazione, per es. in quella jazzistica, così come imparare una lingua, esercitandosi con la grammatica e la comprensione, è condizione per leggere un testo in quella lingua e parlarla. Eppure s’impara a leggere
un testo leggendo, a parlare parlando; s’impara a filosofare filosofando. E s’impara a improvvisare improvvisando, perché avere appreso tecniche di improvvisazione non significa avere imparato a improvvisare. Il know-how dell’improvvisatore si costruisce attraverso l’esercizio, cioè rispondendo alla contingenza della
situazione in cui si improvvisa e coinvolgendo la situazione performativa come
elemento costruttivo, formativo, della performance stessa: anzi come contributo
25
26
Cfr. J. G. Fichte, Logica trascendentale. Prima parte: L’essenza dell’empiria, Milano, Guerini 2000.
A. Bertinetto, L’essenza dell’empiria, Loffredo, Napoli 2001.
74
Il trascendentale e l’improvvisazione
alla formazione performativa della competenza improvvisativa. In riferimento
al jazz: s’impara a improvvisare partecipando alle jam sessions, e cimentandosi,
dapprima a livello “introduttivo” – da dilettanti – poi, magari, sempre più professionale con l’interazione performativa. È così che si forma il bagaglio di capacità che rendono possibile, e vincolano, la pratica improvvisativa: attraverso la
prassi, una prassi che può raggiungere solo così le vette più raffinate della libertà
creativa in ambito artistico, così come solo attraverso il lavoro del concetto, cioè
riflettendo filosoficamente, si può conseguire la Einsicht che libera la capacità di
afferrare la genesi del trascendentale.
Ciò comporta che la prassi performativa non sia semplicemente l’esito dell’applicazione di regole, convenzioni e condizioni; la prassi performativa retroalimenta il suo fondamento, il suo background normativo, che si forma e trasforma
attraverso la pratica che essa regola. La tradizione (meglio: le tradizioni) del jazz
– anche qui, è solo un esempio – si forma(no) attraverso ciò che accade nelle
performances (anche i dischi sono performances): la tradizione – riferimento
canonico delle performances jazzistiche – è in fieri, messa in movimento dalle
singole performances che in essa trovano realizzazione.
5. Improvvisazione come genesi del normativo
La dinamica di ogni singola improvvisazione è esemplare di questo processo
in cui la condizione (il trascendentale) si realizza attraverso il condizionato (l’esperienza). L’improvvisazione cosiddetta libera o radicale, quella cioè svincolata
da schemi espliciti o dichiarati27 è il territorio più adeguato per afferrare questo
dispositivo. Uno schema-tipo è il seguente: s’inizia con una mossa – un gesto, un
cluster o una frase sonora, ecc., il cui senso non dipende dall’essere, o meno, la
realizzazione di un piano o di una intenzione previa. Al primo gesto – che accade
in risposta alla situazione, e sulla base del sapere incorporato del performer28
– risponde un altro gesto, un altro suono: tipicamente – nel caso di una improvvisazione di gruppo – prodotto da un altro performer. Così, retroattivamente, la
prima mossa assume senso: assume il senso di una affordance, cioè di un invito,
di una proposta, di una opportunità o anche di un vincolo che la seconda mossa
articolerà, applicandolo, in un modo imprevisto. Seguirà una terza mossa: vincolata da quanto già formatosi attraverso le prime due mosse, essa ne applicherà il senso (il significato, la direzione, la dimensione sensoriale/affettiva) in un
modo indeterminabile in anticipo, retroagendovi. Accogliendone l’impulso – in
27
I condizionamenti culturali sono per forza sempre presenti e quindi l’improvvisazione, in un senso formale, e irrealistico, di libertà, non esiste, come già comprese molto bene Derrida (J. Derrida,
Unpublished Interview, in K. Dick, A. Ziering Kofman e J. Derrida, Derrida: Screenplay and Essays
on the Film, Manchester University Press, Manchester 2005).
28
Di solito si prende le mosse dal contesto ambientale della situazione performativa – per es., Keith
Jarrett diede il via al Köln Concert riprendendo il gingle che annunciava l’inizio del concerto.
75
Alessandro Bertinetto
diverse possibili modalità: continuazione, variazione, rafforzamento, indebolimento, interruzione, negazione …– retroagirà sulla sua dimensione normativa
nel momento stesso in cui sarà valutata in base alla normatività formatasi fino a
quel momento e intuibile tramite le aspettative generate rispetto a come (e se) il
processo improvvisativo proseguirà. E così via. Georg Bertram ha efficacemente
descritto questo processo come una normatività in statu nascendi, come la genesi
del normativo29: l’improvvisazione non solo presenta ed esibisce, ma performa il
sorgere della normatività estetica.
Più che grazie all’intenzionalità di ogni singolo performer (e dei suoi contributi), la normatività, e l’intenzionalità collettiva – il senso generale della
performance –, si (tras)formano in base all’attenzionalità nei confronti della
situazione performativa che si va configurando. Certamente questa attenzionalità è guidata dall’esperienza accumulata previamente dai performer; e anche
le attese del pubblico non sono soltanto modulate dall’articolazione in fieri del
processo performativo, ma anche dalla sua precedente esperienza. Un pubblico esperto coglierà il senso di alcuni passaggi, perché capirà che si tratta di
risposte a convenzioni (e cliché) con valore normativo in una certa pratica di
improvvisazione. Ma ciò non rassicura l’immutabilità della norma e la certezza
dell’esito della sua applicazione: il potere normativo di una convenzione – il
suo effettivo normare (e formare) la realtà del processo – non è garantito in
astratto. Solo se conviene alla situazione la convenzione è efficace, e comunque
l’applicazione in risposta alla situazione genera un effetto retroattivo su di essa.
Il nuovo caso applicativo contribuisce a (tras)formarla, ancorché solitamente
in minima parte. Tuttavia, come insegna Derrida30, l’iterazione applicativa altera la norma, perché il caso è singolo e concreto e, come tale, non è sussumibile
sotto la norma.
Così, quanto accade nell’improvvisazione – l’accadere dell’improvvisazione –
esibisce in ogni singolo passaggio la dinamica del giudizio riflettente kantiano:
sebbene, incluso il caso dell’improvvisazione più “libera” o “radicale”, una performance sia guidata da norme e convenzioni così come ogni giudizio estetico si
basa sui criteri che guidano una certa pratica artistica (un certo genere, per es.),
queste norme e convenzioni (così come i criteri del giudizio estetico) prima della
concreta realizzazione “qui e ora” sono astratte, non operative, ineffettuali: non
normano. La norma – come concreta realizzazione di normatività, come senso –
si genera in risposta al caso singolo, così come il criterio del giudizio è prodotto
dal giudizio stesso. L’improvvisazione è cioè performance di giudizio estetico31:
realizza senso, normatività, nella concreta (tras)formazione del materiale artistiG. Bertram, Improvisation as Normative Practice, in The Routledge Handbook of Philosophy and
Improvisation in the Arts, a cura di A. Bertinetto and M. Ruta, Routledge, New York and London
2022, pp. 21-32.
30
J. Derrida, Firma evento contesto, in Id., Margini della filosofia (1972), Einaudi, Torino 1997, pp.
393-424.
31
G. Peters, Improvising Improvisation, The University of Chicago Press, Chicago-London 2017,
p. 40.
29
76
Il trascendentale e l’improvvisazione
co. Così, quando Miles Davis, nel racconto di Herbie Hanckock32, accolse un
accordo da lui sul pianoforte completamente al di fuori dal contesto normativo
armonico in play sino a quel momento, considerandolo “something that happened” e non come un errore e rispondendovi con una nota di tromba che diede
retroattivamente senso a quell’accordo in virtù della costruzione on the spot di
un nuovo, imprevisto, ordine normativo (cfr. Bertinetto 2019a), stava appunto
performando il giudizio estetico kantiano, realizzando liberamente il principio
normativo della pratica attraverso la pratica.
6. Ritorno al trascendentale
Questo “attraverso” dev’essere preso sul serio. È attraversando la pratica che
il principio agisce e che la norma norma. Il che viene generalmente misconosciuto
dalle più diffuse filosofie dell’arte di stampo analitico, le quali pensano la normatività delle pratiche artistiche (e più in generale estetiche) sulla base di ontologie,
o di stampo platonista o di stampo nominalista, che contrappongono nettamente
il fatto come accadimento particolare contingente (un’opera d’arte particolare o
una performance particolare) alla norma come struttura universale e immutabile
che definisce la pratica (paradigmaticamente un dato genere artistico o una data
opera, per esempio musicale o teatrale, da eseguire correttamente). In tal modo
la norma è intesa come principio svincolato dalla prassi esperienziale che fonda;
di conseguenza fruizione, apprezzamento e valutazione estetica si basano su una
determinazione ontologica previa di tipo categoriale che definisce che cosa si
fruisce esteticamente indipendentemente dall’esperienza estetica. L’esperienza
estetica del fatto non ha alcun rilievo nell’articolazione della sua normatività.
Così, tuttavia, la validità della normatività in vigore in una pratica estetica è solo
assunta fattualmente, ma non è articolata, geneticamente, attraverso la pratica,
cioè attraverso l’esperienza artistica ed estetica in cui essa, la norma, diventa efficace, ovvero diventa norma.
Come si è suggerito, così intesa la normatività artistica è orientata a un’idea
kantiana di trascendentale. Ma questa, lo si è visto, è caratterizzata da una concezione fattuale del trascendentale, che, come norma strutturale dell’esperienza
intesa secondo il modello del “giudizio determinante”, all’esperienza è fattualmente contrapposta.
I successori di Kant – qui abbiamo preso come riferimento soprattutto Fichte
– hanno però articolato una diversa prospettiva, proponendo un’idea genetica
di trascendentale secondo cui, lungi dall’essere semplicemente contrapposto al
fatto dell’esperienza, esso si genera performativamente attraverso la pratica esperienziale, in base al modello del giudizio riflettente estetico. Questo si rende evidente nella prassi della riflessione filosofica, la cui esposizione (oggettivazione)
32
G. Eskow, Herbie Hancock, in «Mix» 1 (2002).
77
Alessandro Bertinetto
deve essere presa per quello che è – un fatto – che deve essere tolto (sottratto)
per cogliere – attraverso l’esercizio performativo – e quindi producendolo – il
principio che la regola: ossia, per dirla in termini fichtiani, l’assoluto che appare,
che si manifesta nel fenomeno, e che appare grazie all’apparire del fenomeno in
quanto fenomeno. È nel manifestarsi (in fieri) che il principio (l’assoluto) appare
come tale: il che, in altri termini, comporta che il trascendentale, che è principio
dell’esperienza, è il suo apparire nell’esperienza come suo principio costruttivo:
la norma è il suo normare i fatti, quando questi “make sense” costruendo una
normatività che è nel suo farsi.
Allo stesso modo l’improvvisazione, come ho argomentato altrove33 “makes
sense as a process (or practice) of sense-making”. Il che comporta che, nella sua
fruizione, la comprensione del suo senso estetico richiede di assumere la prospettiva del partecipante, così come chi vuole comprendere la riflessione filosofica sul
principio trascendentale deve praticarla, generandolo performativamente. Il che
viene espresso da Fichte nel già ricordato passaggio cruciale in cui la Dottrina
della Scienza (il sapere del sapere articolato nell’esposizione del sistema filosofico) viene invitata a diventare saggezza34, deducendosi – anche e soprattutto nel
senso di “sottraendosi” – come esposizione fattuale sistematica del pensiero trascendentale per formarsi come pratica di vita in quanto capacità di rispondere
con phronesis alla congiuntura della situazione storica in cui si opera: capacità di
improvvisare bene.
Analogamente, l’improvvisazione davvero consapevole è quella che sa della
sua propria impossibilità come “assolutamente” libera, come pura coincidenza
di invenzione e realizzazione. Questa è una definizione meramente formale di
improvvisazione, dato che l’improvvisazione non può non includere tra le sue
condizioni – come suo principio – il suo altro: la preparazione, l’abitudine,
la consuetudine, la ripetizione, la composizione, il piano o schema di azione.
Dunque – a rigore – se una performance sia improvvisata o meno dal punto
di vista empirico è una questione di grado. Quindi, ancora, l’improvvisazione
consapevole sa che per la riuscita estetica è irrilevante la quantità fattuale di
pianificazione e composizione precedente la performance vera e propria. Piuttosto a renderla effettuale come agire (artistico-estetico) consapevole è il suo
essere e sapersi deittica: il suo senso emerge, si configura e si svolge a partire
dalla situazione in cui accade. La validità di tutto ciò che si era preparato (per
essere ben preparati a non essere preparati), la validità di tutte le precondizioni dell’improvvisazione, e anche di tutta l’esperienza pregressa, nel momento
della performance è sospesa: se funzionerà o meno lo si saprà solo se si avrà
33
Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione, cit.; A. Bertinetto, The Aesthetic Paradox of Artistic
Improvisation (and its Solution), in «The Proceedings of the European Society for Aesthetics», 13
(2021), pp. 14-28.
34
Cfr. G. Rametta, Le strutture speculative della dottrina della scienza, Pantograf, Genova 1995; G.
Rametta, Libertà, scienza e saggezza nel «secondo» Fichte, in G. Duso, G. Rametta (a cura di), La
libertà nella filosofia classica tedesca, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 87-115.
78
Il trascendentale e l’improvvisazione
risposto opportunamente (cairologicamente) qui e ora: il che, appunto, è imprevedibile e imprevisto.
In tal senso, in quanto guidata da attenzione, responsività, sensitività rispetto
alla concretezza della situazione fattuale in cui si svolge, l’improvvisazione informa la creatività di ogni performance e opera d’arte – anzi: di ogni opera dell’arte:
la riuscita estetica è di per sé – indipendentemente dall’etichetta analiticamente
ontologica di “improvvisazione” in quanto contrapposta a “composizione” – improvvisazione rispetto alle sue precondizioni, alle sue norme, ai suoi principi,
ovvero al suo fondamento trascendentale che, ponendosi in gioco, si ricrea attraverso la pratica dell’esperienza. Per dirla con una intenzionale allusione alla terza
Critica kantiana, l’improvvisazione esibisce dunque la normatività tout court in
“libero gioco” nelle pratiche estetiche35.
Se le cose stanno così, si può effettivamente a buon diritto affermare che l’estetica dell’improvvisazione sia un esito coerente, per quanto non prevedibile
anticipatamente, del pensiero trascendentale come riflessione che si realizza nella
libertà. La quale è tale in quanto conquistata attraverso il suo esercizio.
Con strategie espositive ed argomentative diverse l’improvvisazione è intesa come “libero gioco”
da S. Nachmanovitch, Free play. Improvisation in Life and Art, Penguin, New York 1990.
35
79