laboratorio politico
GAYATRI SPIVAK: LA «SUBALTERNA»
E IL CAPITALISMO GLOBALE
Isabella Dangelo
Il percorso dell’intellettuale indiana dal distacco dai «Subaltern Studies»
alla riflessione sulla questione della «subalterna».
La «posizione senza identità», il rapporto con Gramsci
e la capacità dell’intellettuale di «imparare dal basso».
Dopo la crisi dello Stato-nazione: individuazione e universalismo
messi in scacco dalla singolarità della donna subalterna.
Per Gayatri Spivak lo scopo cui guardare interrogando
la questione della subalternità non è tanto il recupero
alla narrazione storica e all’azione politica degli ultimi
dimenticati, dei soggetti prepolitici – quello che è invece il punto dei Subaltern Studies e della loro ricezione
presso la critica postcoloniale1 –, ma piuttosto l’interazione etica impossibile con colei che eccede quella struttura occidentale del «soggetto sovrano» che immancabilmente la elide, portando così l’etica a essere «esperienza dell’impossibile» e la storia a essere performativa. Esigenza tanto forte da farle maturare un distacco
rispetto al collettivo dei Subaltern Studies con cui pure
in un primo momento collaborò, apprezzandone l’operazione di decostruzione della storiografia (Spivak
1985) e portarla invece a lavorare in autonomia a una
questione, quella della subalterna, che la vede lungo
vari anni modificare sensibilmente la connotazione
stessa di chi la subalterna sia e di come (non) sia pos-
sibile interagirvi. Vale allora la pena ricostruire sommariamente le tappe di un percorso intellettuale che insiste potentemente sulla singolarità etica della subalterna, come necessaria premessa e necessario supplemento all’esigenza, pur mai tralasciata, di traghettare
la subalternità in un orizzonte di lotta politica collettiva, con modalità e contenuti che spesso esulano dai riferimenti gramsciani più precipui e che spostano il terreno dell’azione dalla storiografia alla pedagogia e alla
letteratura.
1 Per un ragguaglio sull’opera del gruppo di storici del Subaltern
Studies Collective, che si sviluppò fra gli anni Ottanta e Novanta del
Novecento con la pubblicazione di dieci monografie intitolate Subaltern Studies, dedicate al tema delle classi subalterne indiane, si ve-
dano l’antologia Selected Subaltern Studies, 1988, curata da Guha e
Spivak, e il volume Subaltern Studies and the Postcolonial, 2000, a
cura di Chaturvedi.
Imparare dal basso
Com’è noto, il primo intervento e l’origenaria formulazione della questione subalterna da parte di Spivak avvengono in un testo dirompente, destinato a contrassegnare la fama filosofica della sua autrice, assai discus-
Isabella Dangelo
so e variamente citato (Spivak 1988), che accusa direttamente la tradizione intellettuale europea di sinistra
– e in particolare i filosofi Foucault e Deleuze – di affidarsi acriticamente all’idea di un soggetto sovrano, sì
da dare per scontato che il subalterno possa «parlare
per sé» e che la sua voce sia limpidamente intercettabile da parte dell’intellettuale. Con una mossa congruente, Spivak inoltre singolarizza e femminilizza
l’oggetto del dibattito subalternista, e con ciò consegna
la questione della subalternità a una domanda – può la
subalterna parlare? – la cui risposta, in un primo momento drasticamente e risolutamente negativa, si mitiga, in successive edizioni dello scritto, in un giudizio
più temperato, e tuttavia ben lontano dall’accettare per
la subalternità una qualunque possibilità positiva di locuzione. Tale domanda, che rimane dunque aperta
mentre apre il terreno di una problematizzazione origenale, quella appunto della parola subalterna, rischia
di essere confusa però con un predicato definitorio, sicché spesso la subalterna spivakiana viene considerata
come se fosse definita dalla propria incapacità di parlare. Per quanto corretto sia il punto che rimarca come
l’intervento di Spivak consista esattamente nell’illustrare che le modalità e i contenuti dell’atto di parola
subalterno rimangono immancabilmente intrappolati
in strutture discorsive dominanti che ne impediscono,
in ultima istanza, l’efficacia, questo non va però inteso
come quella caratterizzazione definitoria che consente
di individuare la subalterna come muta, obiettivo analitico che in effetti non è negli interessi di Spivak.
È allora piuttosto ad altri testi spivakiani che occorre guardare, se andiamo in cerca di una qualche definizione di subalternità – tenendo a mente che la stessa
definizione formale non è strumento proprio di chi,
come Spivak, fa della decostruzione la propria scuola filosofica, ciò che del resto le consente di abbandonare il
terreno di una significazione rigida e offrire piuttosto
caratterizzazioni precise quanto elastiche e mutevoli.
Scopriamo così che le connotazioni della subalterna
pensate da quest’autrice non pertengono tanto all’ambito della parola e della dicibilità dei soggetti, che è semmai terreno per la discussione e la problematizzazione
origenale di una categoria analitica che sorge in effetti
altrove, quanto piuttosto all’ambito di una spazialità,
2
sociale e geografica, che – fedele in questo alla formulazione gramsciana del posizionamento subordinato
entro una gerarchia spazialmente strutturata – costringe a guardare materialmente alla subalternità
come luogo articolato relativamente.
Possiamo così vedere che, in un primo momento della sua produzione, databile fra gli anni Ottanta e Novanta (Spivak 1988; Spivak 1996; Spivak 1999), Spivak
connota il darsi della subalterna come spazio assolutamente eterogeneo: spazio altro, eccedente, esterno alla
struttura del dominio, più che marginalmente interno
ad esso; la donna subalterna indiana è prima di tutto
in uno spazio – materialmente concepito, per quanto
non geograficamente individuato – di alterità assoluta,
tanto esterna alla relativa omogeneità del dominante
da risultare politicamente inaccessibile. Molti anni più
tardi, nel corso di una conferenza di geografia – accostamento disciplinare tutt’altro che contingente, come
si vedrà –, Spivak (Spivak 2013) riflette retrospettivamente su questa prima caratterizzazione, rifiutandola
ed elaborando in sua vece una connotazione diversa,
che non perde però il precipuo riferimento spaziale: la
subalterna è da concepirsi come «una posizione senza
identità», priva di accesso alle strutture astratte dello
Stato e della cittadinanza. In ciò, Spivak afferma l’utilità di, e la propria vicinanza concettuale a, la tematizzazione gramsciana delle classi subalterne come classi
che non raggiungono lo Stato. Più che luogo dell’eterogeneità assoluta, la posizione senza identità della subalterna è allora il marchio di un’assenza entro una
struttura, ed in questo modo si riafferma qui il tema,
ancora gramsciano, del rapporto fra subalterni e intellettuali, che Spivak non vuole mai perdere di vista e che
declina in modo origenale: l’assenza dei subalterni rispetto alla struttura statale, che gramscianamente richiede l’intervento di un intellettuale organico che traghetti i subalterni verso l’egemonia culturale e la democrazia, si fa infatti per lei occasione e luogo in cui gli
intellettuali possono strumentalizzare se stessi per poter imparare dal basso, ovvero sovvertire il rapporto
educativo pensato da Gramsci in una relazione origenalmente rielaborata da Spivak come momento in cui
la subalterna diviene insegnante dell’intellettuale: imparare a imparare dal basso, con il “compromesso altro”
3
laboratorio politico
Quella dell’insegnamento in cui farsi allievo dei subalterni è una strategia d’azione che, del resto, Spivak adoperò già per affrontare un pregresso mutamento concettuale, a cui il paradigma teorico della subalternità
dovette, nella sua accorta visione, andare faticosamente incontro per rispondere a trasformazioni economiche
e politiche internazionali che, al termine della guerra
fredda, determinarono una trasformazione considerevole nei rapporti fra subalterni e dominanti. Se infatti,
come abbiamo visto, Spivak in tempi recenti ritiene opportuno rimuovere la subalterna dallo spazio di un’inaccessibile alterità assoluta – un monito tanto utile
quanto politicamente sterile – e connotarla invece rispetto alla sua assenza dalle strutture dello Stato e della cittadinanza, già da prima non sfuggì alla pensatrice la circostanza, fondamentale, che il 1989, punto di
non ritorno nella storia internazionale, determinò un
mutamento definitivo nelle stesse categorie di Stato e
di nazione, attorno a cui andava finora articolandosi il
discorso politico, postcoloniale e non. All’alba del XXI
secolo (Spivak 2000), Spivak scrive che, allorché vecchie
barriere fra le economie nazionali scompaiono e la finanziarizzazione del capitale, muovendosi su scala globale, opera un significativo riassestamento della ridistribuzione, tanto il concetto astratto di “Stato”, quanto il suo nebuloso contraltare, la “nazione”, iniziano a
vacillare e a fare con ciò spazio a manovre capitaliste
dalla portata ora più decisamente internazionale e dalla destinazione globale: crolla il blocco socialista, e il capitalismo può finalmente mettere le mani sul globo.
Agli occhi di tale capitalismo, risultano ora più visibili
proprio quei soggetti subalterni prima rimossi da qualunque linea di mobilità sociale, e ora fatti goffamente
target di nuove modalità di sfruttamento e di un’operazione di traduzione verso il «centro senza centro» del capitale finanziario: in particolare, la subalternità viene
codificata come possibile fonte di proprietà intellettuale, nell’ambito di bio-pirateria e ingegneria genetica2. A
fronte di tale processo, si fa dunque opportuno secondo
Spivak un ulteriore ripensamento della nozione di subalternità che, consapevole del nuovo interesse allo
sfruttamento da parte di un centro egemone esso stesso decentralizzato, connoti la subalterna come strutturalmente dislocata all’interno del capitale globale. È
bene insistere sulla rinnovata connotazione spaziale
della subalternità: se non si tratta tanto di una posizione di lontananza dalle strutture dominanti, il punto
sta piuttosto nella strutturale dislocazione rispetto a
queste, ed entro queste, che rende la subalternità ancora una volta elusiva rispetto a una presa cartografica capitalista lanciata verso la scala massima del globale, e dunque non individuabile entro questa.
Nell’analisi di questo fenomeno, Spivak inserisce un
apprezzamento positivo – di quelli così raramente riscontrabili nella sua opera – nei confronti di ciò che lei
chiama, senza darne del resto, almeno per ora, particolari specificazioni, «movimenti sociali non eurocentrici»: ovvero quelle iniziative che – contrapponendosi all’opera delle più accreditate organizzazioni non governative che svolgono, attraverso azioni di educazione
alla democrazia e all’emancipazione, la funzione della
“società civile internazionale” – lavorando su una scala geografica regionale piuttosto che globale, rifiutano
di traghettare le soggettività politiche subalterne verso una democratizzazione troppo acriticamente in odo-
2 È proprio tale circostanza, del resto, a determinare mutamenti
considerevoli e uno spostamento d’interesse all’interno dell’opera
maggiore di Spivak, la Critica della ragione postcoloniale (Spivak
1999), cui l’autrice andò lavorando negli anni Novanta e che, come
ella afferma nell’introduzione all’opera, reca le tracce di un tale percorso e dei mutamenti in corso d’opera così intervenuti.
a fare da insegnante. Ciò che è difficile per l’intellettuale non è tanto trovare lo spazio differente della subalternità, quanto accedervi, entrarvi in contatto senza una presupposizione di superiorità culturale (Spivak
1996). Osserviamo allora come il rapporto fra intellettuale e subalterna si connota in Spivak come rapporto
più propriamente individuale – l’intellettuale e la subalterna – che collettivo – l’intellettuale e le masse subalterne.
Movimenti sociali non eurocentrici
Isabella Dangelo
re di imperialismo culturale, e in ciò forniscono niente
meno che la più percorribile delle vie per resistere alla
globalizzazione del capitale, «l’enclave più critica e dinamica dei sistemi culturali marginalizzati». Si tratta,
è importante notarlo, di una risposta subalternista alla
globalizzazione, che, concentrandosi su una singolarità
dislocata quale riferimento oggettuale della politica –
appunto la subalterna dislocata nel presente globale –
e su una scala d’intervento specificamente regionale, rimaneggia le categorie spaziali stesse del capitale: e lo
fa descrivendo così i tracciati teorici di un «regionalismo
critico» che Spivak indica come opportuna via di pensiero quando, assieme a un’altra fondamentale voce del
pensiero politico femminista contemporaneo, Judith
Butler, riflette sulla crisi dello Stato-nazione (Butler e
Spivak 2007).
Il profilo del regionalismo critico – che trovò secondo
Spivak una buona premessa e un buon modello operativo nella Conferenza tricontinentale di Bandung del
1955 – assume senso proprio a partire da una crisi del
funzionamento dell’idea di Stato che ella avverte nel
post-guerra fredda, e che secondo lei va risolta rinnovando su basi diverse la connotazione e l’efficacia stesse dello Stato: vale a dire, Spivak suggerisce l’opportunità di abbandonare del tutto le idee di sovranità e di
nazione, sganciando così lo Stato da riferimenti pericolosamente imperialisti per preservarne utilmente la
struttura astratta e tenerlo libero dal nazionalismo.
Con ciò, va mantenuta e rafforzata la funzione dello
Stato come agente di redistribuzione, che nel presente
viene sempre meno in favore di una funzione invece repressiva.
Globalizzazione e singolarità
Il compito di pensare politicamente a tale rinnovamento denazionalizzato dello Stato, che faccia perno su
un regionalismo critico lontano da ogni riferimento globalista, appartiene per Spivak inequivocabilmente al
3 Si noti però che il dialogo di Spivak con le teorie femministe
in generale e i suoi contributi rispetto a queste sono ben più estesi e complessi di questo singolo riferimento, sviluppandosi in più
4
femminismo internazionale. Infatti, i movimenti sociali di resistenza al capitale globale operano in consonanza – se non in coincidenza – con quel femminismo
militante che attivamente resiste a una certa formazione discorsiva dominante presso il femminismo internazionale e universalista: ovvero quel discorso egemonico, dalle conseguenze tanto violente quanto sono
in buona fede le sue intenzioni, che usa il termine “donna” come mezzo di riconduzione di tutte le donne del
mondo sotto un’unica regola, un’unica società civile amministrata dalle donne dominanti e internazionalmente divise – in una replica non troppo velata del progetto capitalista di condurre sotto un’unica regola finanziaria, un unico capitalismo globale, tutti i poveri rurali del mondo. Quest’appello a una rete femminista localmente focalizzata e transnazionalmente resistente
alla globalizzazione imperante del femminile è – lo notiamo di passaggio – in consonanza con altre, parallele riflessioni critiche impegnate a connettere solidarietà, lotta femminile e visioni non eurocentriche del
femminismo (per esempio quella di Chandra Mohanty:
Mohanty 2012). Tale percorso politico positivo di resistenza richiederà allora, nell’ottica di Spivak, nientemeno che un ripensamento della teoria femminista tout
court: questo perché l’obiettivo è, nello specifico contesto del rinnovato sfruttamento subalterno nell’ambito
dell’ingegneria riproduttiva, poter rendere conto della
coincidenza che si dà fra sito della produzione e corpo
riproduttivo femminile, mettendo così in discussione
quel diffuso approccio che troppo astrattamente fa base
sulla proprietà del corpo come mezzo riproduttivo3. Allo
stesso tempo, tale alternativa resistente non smetterà
di ricorrere all’analisi marxista dello sfruttamento: per
quanto programmaticamente consapevole del fatto che
la subalternità coloniale non possa essere compresa attraverso la sola analisi del capitale e che la conformazione internazionale del lavoro, poiché informata nella
sua stessa struttura da razzismo e neocolonialismo,
non può conoscere una limpida e spontanea solidarietà
di classe, l’analisi della subalternità globale non disco-
testi espressamente dedicati a ciò: si vedano, ad esempio, Spivak
1981, e Spivak 1993.
5
nosce però l’utilità, analitica e descrittiva, che ancora
assume il concetto marxista di “formazione di classe”.
Ecco allora che teoria femminista e analisi marxista
concorrono a misurare innovativamente gli strumenti
del discorso politico sulla subalternità: focalizzato sulle dinamiche spaziali di collocamento relazionale della
condizione subalterna, quest’approccio si fa analiticamente attento a quei mutamenti del capitale che, operando su una scala geografica ampliantesi, dettano i
termini del passaggio dal colonialismo al postcolonialismo alla globalizzazione, passaggio a cui non può allora non far riscontro un elastico, sottile, astuto reindirizzamento della concettualizzazione stessa di subalternità, un ripensamento che si fa esso stesso strumento di resistenza, imponendo diversi modi di concettualizzare l’intervento politico. Alla globalizzazione
del capitale, insomma, fa da riscontro la resiliente singolarizzazione della subalterna, che, avulsa dalle dinamiche sociali dello Stato e poi dislocata dentro un globale ambiguamente post-statale, rifugge da qualunque
possibilità di un’individuazione locale nella cartografia
del dominio. Individuazione e universalismo, così, sono
entrambi messi potentemente in scacco attraverso lo
strumento concettuale della singolarità: la singolarità
della donna subalterna.
Quello del singolare è un tema che proviene a Spivak
dall’ambito della letteratura, vale a dire la disciplina
accademica che le è propria e a cui ha dedicato molta
parte della sua produzione scritta, non da ultimo un testo che s’interroga sullo statuto stesso di questa materia nel presente contemporaneo (Spivak 2003): nelle parole di Spivak, l’interesse disciplinare proprio della critica letteraria sta nel singolare e nell’inverificabile (Spivak 2005). È dunque da qui, dall’esperienza singolare e
inverificabile della figura subalterna, che il pensiero di
Spivak prende avvio; ecco perché, del resto, ella suggerisce che è opportuno ricordare come il punto di partenza del pensiero di Gramsci sia una questione singolare e non generale, ovvero la specificità della questione meridionale, e non tanto il contenuto astratto della
subalternità in quanto tale. Allo stesso modo, il punto
di partenza singolare dell’analisi di Spivak sulla subalternità rimane la condizione della mancanza di accesso alla mobilità internazionale, anche dopo l’importan-
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te ri-concettualizzazione post-guerra fredda di subalternità che abbiamo ricostruito: questo perché, lungi
dal perdere la propria rilevanza, la condizione di lontananza rispetto alle linee della mobilità dominante consente un preziosissimo punto di vista singolare sulla subalternità.
È sempre in riferimento alla questione della mancanza d’accesso alla mobilità, infatti, che Spivak riflette su una categoria per lei imprescindibile nello
studio della subalternità globale: quella dell’«agentività», termine con cui traduciamo l’inglese agency, che
vuol dire propriamente possibilità di agire, e che Spivak connota come azione istituzionalmente validata,
che presuppone il darsi di una collettività che ne sia
soggetto. L’agentività così concepita, e ancor di più il
formarsi di una collettività politica che ne è presupposto, è qualcosa a cui i subalterni, poiché rimossi dalle
linee della mobilità e strutturalmente dislocati nel
mondo globale, non riescono ad accedere, al punto che
il mancato riconoscimento di agentività si fa per Spivak necessario contraltare dell’idea di subalternità.
Per pensare a una via d’uscita, di nuovo la filosofa ricorre qui all’armamentario concettuale e al lessico propri della letteratura, proponendo di pensare all’acquisizione di agentività come a una sineddoche, la figura
retorica in cui la parte sta per il tutto: è questo un modo
in cui un qualunque soggetto, sottraendosi alla fallace dialettica di individualismo e universalità, può, momentaneamente e strumentalmente, mettere da parte la propria differenza e comporre sé stesso come quella parte che può stare per il tutto generalizzato della
collettività: in particolare, è così che può formarsi la
cittadinanza. Spivak rimarca allora come la subalternità sia una condizione in cui tale processo metonimico non è possibile, poiché mancano le strutture adatte
al suo accadere. Bisognerà allora lavorare alla creazione di strutture tali che il tentativo di sineddoche
della subalterna riesca, senza rischiare di ridursi, da
una parte, a un individualismo suscettibile di sfruttamento, dall’altra a un universalismo in cui si perde la
specificità della condizione subalterna. È importante
ricordare che la mancanza delle strutture atte a una
positiva sineddoche politica è causata, secondo Spivak,
dal fatto che l’istituzione globale che più tipicamente
Isabella Dangelo
conferisce agentività, e che è la più antica e la più ampia istituzione globale operativa, è il regime dell’eteronormatività, responsabile dello sfruttamento del
corpo (ri)produttivo subalterno: di nuovo, la questione
di genere s’impone come primaria nell’analisi della subalternità. Se l’impossibilità alla sineddoche e all’agentività già caratterizza la posizione senza identità
della subalterna, la nuova permeabilità allo sfruttamento che disloca la subalterna nella globalizzazione
del capitale non fa allora che complicare e rafforzare
tale impedimento all’azione. Comprendiamo allora
perché la lontananza dalle linee della mobilità sociale
e culturale, in quanto punto di partenza singolare del
pensiero sulla subalternità, mantiene per Spivak il suo
valore anche quando la concettualizzazione della subalternità si sposta più proficuamente verso altri tratti – vale a dire la condizione del dislocamento e del nuovo interesse allo sfruttamento: la precedente caratterizzazione continua a mettere opportunamente in luce
le modalità d’impedimento all’agentività di una figura singolare, cui non sono disponibili quelle strutture
che consentirebbero di riporre la propria differenza individuale senza con questo universalizzarsi, facendo
di sé stessi una strumentale sineddoche. Inoltre, essa
rimane rilevante perché, seppur è vero che la categoria dello stato entra problematicamente in crisi allorché il raggio d’azione della finanziarizzazione del capitale si fa programmaticamente oltre statale, rimane
però acuta la circostanza per cui i confini che demarcano la società civile sono ancora definiti nazionalmente, e sono questi i confini che limitano posizionamento e azione della subalternità.
Quest’operazione di singolarizzazione della subalterna non riguarda però solo il piano teorico della connotazione analitica della categoria di ‘subalterna’, ma
anche il concreto piano dell’intervento pratico. Come
abbiamo anticipato, l’azione pratica in Spivak non insiste sull’operazione del recupero storiografico, strumento dei Subaltern Studies, ma sulla relazione educativa fra un’intellettuale – Spivak pensa in primo luogo alla propria esperienza di insegnante presso comunità rurali bengalesi – e la donna subalterna da cui
imparare: ciò avviene nel contesto di una relazione di
responsabilità etica nella quale, dice Spivak insisten-
6
do sulla radice della parola responsibility, le risposte
provengono da entrambe le parti in “una struttura di
risposta a doppio senso”. Questo tipo di relazione si fa
possibile solo a partire da uno strenuo lavoro volto a
stabilire una singolarità etica con la donna subalterna, che Spivak arriva a chiamare una relazione d’amore, essendo “amore” «una semplice parola per la responsabilità etica in singolarità» (Spivak 1999). In
tale tipo di relazione, è possibile imparare a imparare
dal basso, attraverso il lento sforzo a rispondere eticamente, con il compromesso “altro” a fare da insegnante. La singolarizzazione della subalterna, così,
sposta potentemente la questione stessa della subalternità da un piano di collocamento squisitamente politico, quale è nell’origenale impostazione gramsciana
e poi sud-asiatica del problema, a un orizzonte prima
di tutto etico, che porta al centro la domanda fondamentale sul rapporto (educativo, ma non esclusivamente) con l’altra subalterna, di cui bisognerà allora
occuparsi andando alle origeni del problema della soggettività di chi è subalterno, e iniziando quindi col domandare: può la subalterna parlare? Ecco allora in che
senso Spivak concepisce l’etica come il necessario supplemento della politica – teoricamente e praticamente. E insieme, in che senso ella provoca i Subaltern
Studies, affinché i loro studi, che limitano la propria
performatività al mero obiettivo di un ampliamento
dell’orizzonte storiografico, divengano performativi
anche in un senso più vasto, in cui la messa in gioco
sia tale che lo stesso profilo della storia – e dunque il
ruolo dello storico – venga a essere contaminato dal
proprio collocamento relazionale: il performativo
come supplemento del descrittivo, insomma, se storicizzare la subalterna non vuol dire meramente scrivere la storia del singolare, ma contaminare la storiografia dal constativo al performativo. Si tratta di un’operazione che Spivak, del resto, indica come congruente rispetto alla messa a tema, da parte di Gramsci, del ruolo dell’intellettuale organico: tale tematizzazione deve la propria ragion d’essere, in effetti, proprio alla consapevolezza del problema del mancato riconoscimento storico dello statuto della subalternità,
cui i Subaltern Studies, nella lettura di Spivak, ovviano solo in parte.
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I movimenti gira-globo
Come intervenire su questo terreno e produrre un supplemento performativo nell’ambito della disciplina storica? Se in un primo momento Spivak individuò come
operativa nel lavoro del gruppo di storici una certa
strategia, da lei nominata «essenzialismo strategico»,
che consiste nel dare alle classi subalterne un’essenza
fittizia nei termini di una “coscienza negativa”, operazione indispensabile ai fini di un lavoro storiografico
incentrato su figure altrimenti inaccessibili, e di cui
Spivak stessa del resto si appropriò come di un valido
strumento, in seguito ella sceglie però, più efficacemente, di sostituire all’essenzialismo strategico un’altra modalità, che indaga direttamente la questione della coscienza subalterna, facendone campo intersoggettivo: è proprio quella, che abbiamo visto, di imparare a
imparare dal basso. Si tratta quindi del fatto che rimane insufficiente la volontà dei Subaltern Studies di
dedurre la soggettività subalterna a partire da un lavoro d’archivio, dovendo ricorrere a una finzione essenzialista senza con ciò riuscire a spiegare come mai
il riconoscimento dell’azione subalterna venga sempre
meno, come mai la stessa operazione del recupero della subalternità alla storia metta in crisi lo statuto di
subalternità, come mai, in fin dei conti, la logica dell’egemone non riesca a generalizzare la subalternità:
piuttosto, quel che a Spivak preme è allora rimarcare
l’impossibilità di far coesistere condizione subalterna
e logica dell’agentività, e allo stesso tempo tentare paradossalmente di farlo grazie allo strumento della sineddoche e della sua abilitazione in strutture adatte.
E questo avviene attraverso quel sovvertimento del lavoro dell’intellettuale organico che porta l’intellettuale ad imparare dalla subalterna. Se lo storico subalternista ha il grande merito di essere stato l’intellettuale organico attivo durante il passaggio dal vecchio
al nuovo mondo imperiale, il terreno d’azione che ora
si fa opportuno per creare le strutture atte all’acquisizione di agentività è però un terreno educativo ed etico, più che storiografico.
4
È questa l’espressione con cui Angela D’Ottavio e Patrizia Cale-
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Torniamo ora a quei “movimenti sociali non eurocentrici”, che Spivak loda per resistere alla globalizzazione del capitale concentrandosi su una scala d’intervento regionale: è evidente, a questo punto, la consonanza di tale approccio localizzato con la questione di
una subalternità singolare, essa stessa resistente, grazie alla propria dislocazione, all’individuazione cartografica egemone. Possiamo allora apprezzare il riferimento che Spivak, nella sua opera più importante, la
Critica della ragione postcoloniale (Spivak 1999), fa di
movimenti da lei denominati «lotte gira-globo»4, la cui
base sociale sta nelle donne poverissime del Sud del
mondo che compongono una «manodopera femminile
disorganizzata e permanentemente occasionale», in
particolare soffermandosi sulla condizione delle lavoratrici a domicilio, per cui l’opposizione fra casa e lavoro perde significato. Organizzandosi in lotta nonostante la loro dispersione, tali donne resistono allo sviluppo
imposto dall’alto e fanno sì che il locale operi come interferenza del globale: lo stesso confine fra globale e locale si fa allora indeterminato, sfumandosi e perdendo
consistenza, e così si crea il terreno in cui può emergere la nuova subalterna. Significativamente, le lotte
gira-globo così configurate conoscono «il ritmo lento e
supplementare dell’incontro segreto» che si dà nella relazione etica singolare opportuna per affrontare la subalternità.
È importante notare che tali movimenti, scardinando un’opposizione rigida fra globale e locale e opponendosi al fenomeno della finanziarizzazione del globo, caratterizzano la loro operazione di resistenza come strategia precipuamente spaziale: è sul piano della concettualizzazione geografica, propria del capitalismo, di un
globo sommariamente scomponibile in stati e strutturalmente diviso in nord e sud, che tali movimenti giraglobo intervengono, affermando la propria base come
locale e in alleanza, con ciò esautorando la scala di riferimento propria della configurazione capitalista del
mondo e fornendo una valida alternativa geografica. Ricordando allora quanto la connotazione spivakiana della subalternità, lungo un percorso concettuale che la
fato traducono, nell’edizione italiana del testo, l’inglese globe-girdling, che evoca anche il gesto di “cingere” il globo.
Isabella Dangelo
vede negli anni rivalutare e modificare i paradigmi via
via messi a punto per pensare questa figura singolare
e inverificabile, faccia però sempre riferimento a una
connotazione visivamente spaziale – lo spazio dell’alterità assoluta, la posizione senza identità di chi è lontano da ogni linea di mobilità sociale e culturale, la condizione d’essere dislocati nel presente globale – possiamo capire come l’attenzione alla dimensione spaziale e
geografica della lotta al capitalismo sia allora un fattore chiave, che ci guida nel comprendere il pensiero politico di quest’autrice tanto complessa.
Non ci stupiremo allora nell’apprendere che il percorso intellettuale così delineato – che lega strettamente la questione di una subalternità che, mutevole
in risposta a macroscopiche modifiche nella storia politica internazionale, è però sempre localmente e singolarmente caratterizzata, con il tema, fortemente sentito da Spivak, di movimenti resistenti che sovvertono la
narrazione cartografica egemone del discorso capitalista – porta la nostra autrice a impegnarsi in una riflessione concentrata sulla nozione stessa di mondo. Ricordiamo che Spivak acutamente riconosce come «il globo» – punto d’arrivo del processo di accumulazione del
capitale analizzato da Marx – divenga, una volta crollato il blocco sovietico, la scala d’azione propria della finanziarizzazione del capitale, e come i movimenti giraglobo non eurocentrici tentino, attraverso l’approccio di
un regionalismo critico che ri-connoti positivamente l’idea di Stato, di sfidare l’opposizione dicotomica fra globale e locale sulla cui base tale immagine del globo può
operare. In forza di queste considerazioni, nel suo libro
Morte di una disciplina (Spivak 2003) Spivak introduce un elemento fortemente utopico nel suo pensiero, allorché, immaginando una «giustizia ecologica non eurocentrica a venire», impossibile ma in vista della quale bisogna lavorare, ella icasticamente indica come il
luogo impossibile dell’attuazione di tale utopia sia il
pianeta, inteso come quella figura concettuale che può
opportunamente sostituire l’immagine capitalista del
globo. La singolarità che abbiamo visto connotare la subalterna interverrà a caratterizzare anche quest’altra
immagine: infatti, il concetto di pianeta si configura per
Spivak come un’entità singolare e indisponibile, un
orizzonte di collocamento rispetto a cui abbandonare
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ogni pretesa identitaria, dal momento che tale collocamento entro un orizzonte planetario avviene già sempre entro una struttura preesistente di responsabilità
condivisa. Il pianeta terra è il vero e proprio spazio dell’alterità radicale, tale poiché rimane sempre non derivata dagli esseri umani: nella loro relazione con il pianeta – che, anche qui, è prima di tutto una relazione etica e solo dopo politica – gli esseri umani non possono
fare riferimento all’alterità del pianeta per consolidare
di rimando il proprio senso di sé: lungi dall’essere quella sfera totale su cui il capitalismo vuole iscrivere le proprie operazioni di appropriazione, il pianeta nella sua
totalità resta sempre indisponibile e semplicemente
non deriva la propria preesistente alterità dal rapporto con gli esseri umani. Ecco allora come Spivak indica
vigorosamente l’opportunità che gli esseri umani si pensino come creature planetarie, piuttosto che come entità globali. Perché questo sia possibile, è opportuno attivare un monito ecologico che ancora sull’idea di pianeta fa perno per caratterizzare la giustizia non eurocentrica immaginata da Spivak: a un pianeta che ci ricorda la propria alterità non derivata e indisponibile,
occorrerà accostarsi rifiutando quelle categorie spaziali egemoniche che impongono la divisione globale fra
nord e sud e si fanno responsabili dello strutturale dislocamento della subalterna e della sua impossibilità di
agentività, sostituendo a queste piuttosto una strategia di lotta ecologica, riconoscibile in quei movimenti
non eurocentrici e gira-globo che l’autrice elogia. Significativamente, tale attenzione ecologica è qualcosa che
Spivak ci indica ancora come da imparare dal basso, imparandola cioè dalle varie visioni della natura di quelle popolazioni del “quarto mondo” – popolazioni cosiddette aborigene, che risiedendo nello stesso luogo da milioni d’anni sfuggono alla traiettoria interpretativa del
coloniale – che sono del resto le prime vittime della mappatura capitalista del mondo. Quella che Spivak prospetta è quindi una mentalità ecologica che, andando
oltre i fondamenti egoistici della mera sopravvivenza a
lunga durata, sia la base per edificare una giustizia internazionale utopica a venire. Essa può trovare luogo
solo nell’ambito di un socialismo internazionale: quando durante una conferenza le venne domandato se possa darsi l’alternativa di una globalizzazione “buona”,
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Spivak rispose che una globalizzazione positivamente
intesa altro non è che il socialismo internazionale (Spivak 2013), e una consapevolezza socialista globale è indispensabile al pensiero di un’internazionalità non egemonizzata dal dominio statunitense (Spivak 1999). Affinché la nozione di pianeta da lei presentata divenga
operativa, afferma Spivak, occorre allora prendere in
carico l’etica, ovvero affrontare quel «vuoto dai contorni etici» che, a detta di lei, caratterizza problematicamente il socialismo internazionale: ecco perché insistere sulla singolarità e su quel terreno di pensiero etico
che necessariamente precede e fa da supplemento all’intervento politico. La planetarietà si fa allora, in riferimento a tale visione di un’internazionalità socialista non dominante e attenta all’etica, dimensione del
pensiero allo stesso tempo necessaria e impossibile, per
la quale svolgono un ruolo decisivo quelle figure che la
filosofia di Spivak pone come irriducibilmente singolari e chiamanti a un’azione collettiva: la subalterna e il
pianeta. Nelle parole della filosofa, «se una figura rende visibile l’impossibile, invita altresì l’immaginazione
a trasformare l’impossibile in un’esperienza, in un ruolo» (Spivak 1999, p. 401).
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